domenica 1 aprile 2018

Vivere

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Come dovremmo vivere? Le odierne società capitalistiche permettono effettivamente alle nostre forme di vita di fiorire? O invece, esponendole a condizioni di dominazione e sfruttamento, cooperano ad arrestarne e inibirne i processi di sviluppo? Sono le domande di fondo a cui Rahel Jaeggi cerca di offrire una risposta in questo volume. Di contro alla neutralità etica liberale, viene rilanciato il tema della «vita offesa» e «alienata», caro alla tradizione della Scuola di Francoforte. Proseguendo e radicalizzando l'operazione critica e diagnostica intrapresa da Axel Honneth, di cui è stata allieva, Jaeggi insiste con decisione sul versante negativo: cioè sulle crisi e i problemi da cui si deve partire per sviluppare una critica delle forme di vita che risulti incisiva ed estranea a ogni paternalismo ed essenzialismo. Una posizione teorica che aggiorna il metodo della critica immanente di matrice hegeliana e, nel contempo, utilizza alcuni strumenti concettuali dell'attuale ontologia sociale per tentare di scardinare l'idea tradizionale dell'economia come qualcosa a sé stante, interpretando così il capitalismo come una forma di vita tra altre.

(dal risvolto di copertina di: Rahel Jaeggi - Forme di vita e capitalismo - Rosenberg & Sellier)

Le «forme di vita» figurate dal pensiero
- intervista di Gianpaolo Cherchi -

«Spesso si pensa che parlare di forme di vita sia un modo come un altro per parlare di cultura. Non è così. Non almeno nel modo in cui io intendo il concetto di forme di vita». Voce sempre più autorevole della nuova generazione (la quarta, ormai) della Scuola di Francoforte, nonché allieva di Axel Honneth, la filosofa tedesca Rahel Jaeggi (recentemente in Italia per la sua lectio magistralis al FestivalFilosofia), presenta la sua indagine come una riflessione interna alla Teoria Critica francofortese. In modo particolare a quella direzione intrapresa con Jurgen Habermas che ha orientato la discussione sul carattere costitutivo delle pratiche sociali e sul suo potenziale critico in termini di normatività. «Sembra così innocente parlare di pratiche, ma in realtà è piuttosto strano ed ambiguo»

Cosa intende dire? Può spiegare meglio?

A livello teorico si è spesso fatta troppa confusione nel diverso modo di intendere e di interpretare le pratiche sociali rispetto a quelle economiche. Habermas distingueva il mondo della vita, il mondo delle relazioni sociali spontanee, dal sistema, rigidamente disciplinato e regolato da dinamiche di tipo economico. Di fronte a questa distinzione io preferisco fare un passo indietro e considerare le pratiche economiche come pratiche in sé stesse sociali, nel senso che non appartengono ad un altro mondo, separato dal mondo sociale. Nel mercato noi abbiamo a che fare con un insieme di conseguenze inattese e non previste rispetto al modo in cui orientiamo, o pensiamo di orientare le nostre pratiche. Certamente gli individui agiscono, ma non è possibile parlare di un’intenzionalità spontanea del loro agire perché gli individui stessi si trovano all’interno di un insieme di pratiche che sono già date, e che orientano il loro agire. È elemento costitutivo ed essenziale delle pratiche umane che esse non siano mai del tutto trasparenti. Questo è ciò che caratterizza una forma di vita come un insieme di pratiche socialmente determinate.
 
In cosa consiste, però, questa determinazione? In che senso le pratiche sociali sono determinate? Forse che esse non debbano essere considerate a sé stanti, o contingenti…

Le pratiche sociali non sono mai dei meri fatti: possiedono una sorta di struttura teleologica che fa sì che siano connesse e intrecciate le une alle altre, e allo stesso tempo che siano dirette verso un certo obiettivo. E anche se si può essere in disaccordo con questo obiettivo, o se queste pratiche mirano a scopi diversi, ne condividiamo il medesimo contesto sociale di riferimento. Il reale concetto di pratica significa che queste hanno senso soltanto se riferite ad un contesto condiviso di significato sociale. La vita umana è sempre orientata in senso normativo, e una forma di vita è un qualcosa che assume diverse configurazioni attraverso l’azione e l’interazione umana.
 
Quindi possiamo dire che queste pratiche sociali che caratterizzano la vita umana, prendono il nome di «forme di vita» perché è costituivo del loro carattere normativo il poter assumere diverse «forme», e quindi andare incontro a diverse «ri-forme»?

È in questi termini che propongo di leggere le forme di vita come modelli di problem-solving. Ciò consente di giudicare se una forma di vita è buona o no, consente di comprendere in che modo e in che senso una determinata forma di vita è divenuta «inabitabile», per usare una bella espressione di Terry Pinkard. Che una forma di vita diventi «inabitabile» non significa soltanto che essa non è più sostenibile sul piano morale, ma che in realtà la sua evoluzione ha dato luogo a dei problemi all’interno delle pratiche sociali che costituiscono quella forma di vita stessa. Una forma di vita diventa inabitabile quando si trova di fronte a dei problemi. Che genere di problemi, ci si può chiedere. Ebbene, io faccio distinzione fra due differenti categorie di problemi, quelli di ordine primario e quelli di ordine secondario.
E sono questi ultimi che riguardano le forme di vita. Per fare un esempio: un problema di primo ordine può essere un disastro naturale in cui non è possibile contribuire al normale sostentamento di una comunità. Si tratta certamente di un problema, anche grave. Eppure io non lo considero un problema inerente ad una forma di vita, perché questa ha a che fare con problemi di secondo ordine. Ovvero si è in grado di produrre e distribuire beni di prima necessità? Si è in grado di disporre di un servizio di assistenza adeguato? E se sì, in che maniera lo si fa? Questo secondo ordine di problemi ha a che fare con la configurazione specifica che ha assunto una particolare forma di vita: si può per esempio pensare che il disastro naturale sia una vendetta divina e allora si reagirà in un modo; così come si può pensare che lo stesso disastro naturale dipenda dal particolare modo in cui una società organizza la produzione delle risorse, e quindi si adotterà un altro tipo di strategia per risolvere il problema.

Lei parla di problemi sociali e non di bisogni. Come mai?

In un certo senso avrei potuto dire che le forme di vita sono orientate a soddisfare determinati bisogni umani, e che la loro efficacia si può stabilire in termini di riuscita o meno di tale soddisfacimento. Tuttavia, invece di rifarmi ad un approccio aristotelico che fa appello alla natura umana, ai bisogni umani, ad un approccio basato su una concezione positiva dell’umano e della sua essenza, preferisco considerare questi stessi bisogni all’interno di una configurazione storica. Parlare di problemi ci pone ad un livello in cui i bisogni sono stati trasformati in qualcosa che ha a che fare con l’esistenza storica dell’essere umano. Permette di comprendere come certe forme di vita possano essere ri-formate, e come questo avvenga nei termini di un riconoscimento dialettico di tipo normativo.

È possibile parlare di forme di vita soltanto in un orizzonte normativo, quindi. Ma di che genere di normatività si parla?

La vita umana in un certo senso è già da sempre normativa. Tuttavia non si tratta di una normatività che si può riscontrare nell’ambito della moralità intersoggettiva. Non si tratta di una normatività kantiana: è un qualcosa di differente, direi che si tratta più di una normatività di tipo pragmatista-hegeliano, se vogliamo. Nel mio approccio, il concetto di normatività prende parte al processo storico, nel senso che la normatività è strettamente connessa al modo in cui la società riproduce socialmente sé stessa, modifica e riconfigura le proprie forme di vita.

Tuttavia, oltre che bisogni e problemi, l’essere umano possiede anche desideri. Il desiderio esprime una mancanza, un’assenza, un qualcosa che dev’essere liberato e messo in condizione di poter produrre il reale. Che ruolo è possibile attribuire al desiderio in una possibile considerazione critica delle forme di vita?

Non ho preso in considerazione il concetto di desiderio, in realtà. A prima vista il desiderio sembra essere collegato al bisogno, ma allo stesso tempo sembra possedere una sorta di trascendenza. C’è però una bella citazione di Adorno che dice che l’unico bisogno dell’essere umano è quello di avere un concetto della verità che non sia disgustoso e riprovevole. Trovo che sia molto bella questa immagine, perché ciò che ci appare come disgustoso o riprovevole è sempre un qualcosa che è veicolato da condizionamenti di carattere storico e culturale, qualcosa che può essere compreso soltanto in termini sociali, all’interno delle varie pratiche e istituzioni che danno forma all’esistenza umana. Per cui, il desiderio può essere interpretato come questo tentativo di produrre un concetto di verità che non sia appunto disgustoso o riprovevole.

- Gianpaolo Cherchi - Pubblicato sul Manifesto del 5/8/2017 -

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