venerdì 13 aprile 2018

Germania, 1 e 2!

weimer

Berlino 1918 - Qui comincia la sventura
- di Gian Enrico Rusconi -

Il 9 novembre 1918, il giorno in cui viene proclamata la repubblica tedesca, nessuna bandiera rossa sventola in realtà sul Reichstag. Anzi in quel pomeriggio sono proclamate due contrastanti versioni della repubblica. Una ufficiale, da una finestra del Parlamento, da parte di Philipp Scheidemann, che forza la volontà stessa del cancelliere socialdemocratico Friedrich Ebert, appena in carica in un governo di transizione. L’altra proclamazione avviene in piazza, davanti al castello di Berlino, per bocca dello spartachista Karl Liebknecht che giura sulla immediata realizzabilità della libera repubblica socialista tedesca.
Scenario drammatico di un evento rivoluzionario in atto già da giorni per la mobilitazione dei lavoratori e dei soldati, sotto la tutela dei due partiti socialdemocratici tradizionali, maggioritario (Mspd) e indipendente (Uspd, che comprende anche il gruppo spartachista, poi comunista), e del nuovo movimento spontaneo dei Consigli degli operai e dei soldati.
Facciamo qualche passo indietro. Le origini dei «Consigli dei lavoratori» (sul modello dei soviet russi) e dei loro capi «delegati rivoluzionari» risalivano ai grandi scioperi iniziati nel gennaio 1918 contro la guerra e le condizioni intollerabili della popolazione. Ma nel settembre e ottobre erano stati i vertici politico-militari a prendere una iniziativa di estrema rilevanza: il comando supremo (nella persona di Erich Ludendorff) davanti alla insostenibile situazione militare aveva invitato il governo imperiale a chiedere l’armistizio. La risposta del presidente americano Woodrow Wilson era stata dura e inattesa: chiedeva la capitolazione della Germania e, in forma appena dissimulata, l’abdicazione dell’imperatore Guglielmo II.

«Nuovo ordine sociale»
Di fronte a queste richieste l’alto comando pretese la rottura delle trattative e la prosecuzione della guerra sino all’estremo. Ma il potere politico-militare era diviso: il cancelliere Max von Baden dichiarava decaduta la monarchia, mentre il comando della Marina militare decideva una ultima disperata azione offensiva contro la flotta inglese.
A questo punto (siamo tra la fine di ottobre e i primi di novembre 1918) i marinai si ribellano. L’ammutinamento si trasforma presto in rivoluzione con la ricostituzione dei Consigli. Il movimento rivoluzionario si diffonde in tutta la Germania. Le parole d’ordine sono semplici ed essenziali: basta con la guerra, nuovo ordine sociale, fine dello sfruttamento capitalistico. Ma quale sarà la nuova struttura istituzionale: parlamentare o consiliare? Quali le iniziative socio-economiche da prendere: nazionalizzazioni, socializzazioni, partecipazione diretta dei lavoratori alla guida delle fabbriche o corresponsabilità diretta dei sindacati? Qual è il ruolo dello Stato? Bisogna «fare come in Russia» oppure va evitato assolutamente quel modello che nel frattempo è degenerato in repressione indiscriminata, guerra civile e terrorismo?
Il quadro è reso complicato dalla presenza di unità militari rimaste in armi. Di questi corpi armati, alcuni sono fedeli alla repubblica, altri sono a sua disposizione strumentalmente solo per combattere i socialisti radicali e i comunisti, altri ancora sono apertamente ostili al nuovo ordine democratico nella convinzione che la repubblica sia una esperienza provvisoria . Dietro a essi, momentaneamente ammutoliti o zittiti, ci sono strati sociali ostili a cambiamenti radicali. Sullo sfondo ma pressanti, le potenze vincitrici della guerra determinate a farla pagare cara alla Germania, gettandole addosso la colpa esclusiva del conflitto. Si apprestano a imporre una pace, che sarà la peggiore e più controproducente della storia moderna (il diktat di Versailles).
È difficile immaginare una situazione tanto difficile e complicata. Deve essere gestita politicamente dalla maggiore delle forze partitiche, la socialdemocrazia. Friedrich Ebert, il leader della Mspd, è soprattutto preoccupato di ristabilire al più presto un ordinato sistema parlamentare funzionante, aperto alle domande sociali e socialiste tradizionali. Ma la sua opinione è fortemente contrastata da altre richieste di rivoluzione radicale anche sul piano istituzionale.
La decisione cruciale è presa dal Congresso nazionale dei Consigli che a Berlino il 19 dicembre decide la convocazione dell’Assemblea nazionale costituente, respingendo con 344 voti contro 98 la proposta alternativa di fondare subito una repubblica socialista fondata sul sistema dei Consigli. La data della elezioni per l’Assemblea è fissata al 19 gennaio e si riunirà a Weimar (da qui l’espressione «Germania di Weimar») . Nel frattempo però hanno luogo altri gravi scontri politico-militari: il «Natale di sangue» e la cosiddetta «rivolta spartachista» del gennaio 1919, a seguito della quale sono assassinati Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Un episodio che segnerà la rottura e l’ostilità definitiva tra socialdemocratici e comunisti.

Tempo di compromessi
La rivoluzione tedesca ha ricevuto i qualificativi più diversi: rivoluzione mancata, tradita, incompiuta, conservatrice. Si è parlato anche di democrazia improvvisata, sovraccaricata (di aspettative e di pretese). Personalmente preferisco definirla «democrazia contrattata». Mi spiego.
«Democrazia contrattata» significa innanzitutto fondata e dipendente da patti/compromessi. Nella Germania del 1918 il primo patto/compromesso - già in ordine cronologico - è quello militare tra le forze armate sopravvissute al tracollo e il governo della repubblica virtualmente indifesa di fronte ad attacchi armati.
Il secondo patto/compromesso è quello tra sindacati e imprenditori che accolgono molte richieste dei lavoratori, disinnescandone però il potenziale rivoluzionario. La socialdemocrazia rinuncia a realizzare misure di socializzazione-statalizzazione di settori chiave dell’economia (carbone e acciaio) che avrebbero limitato in modo sensibile il potere economico tradizionale, ma inserisce e rafforza la classe operaia organizzata negli istituti della contrattazione collettiva e della protezione sociale sotto la supervisione dello Stato. Da parte sua il sindacato negozia la sua lealtà e il suo consenso allo Stato, la sua autodisciplina in cambio di garanzie contrattuali, diritti di partecipazione, di estensione dei diritti democratici. Lo Stato interviene in modo sistematico rafforzando l’arbitrato nei conflitti di lavoro, sviluppando l’ente di assicurazione contro la disoccupazione e altre misure di protezione sociale.

Il «fantasma di Weimar»
Il terzo patto è quello specificatamente politico stipulato tra i partiti socialdemocratico, Zentrum cattolico e partito liberaldemocratico (la «coalizione di Weimar») a garanzia della tenuta politica del tutto. Ma i partiti avversari di destra estrema (e di sinistra comunista) si adeguano a stento opportunisticamente alle nuove regole. Sono e si sentono partiti anti-sistema.
Così la democrazia contrattata tedesca è pesantemente contrassegnata da riserve mentali che hanno di mira il rinnegamento o l’alterazione di quanto pattuito. La forma democratica, invece di essere il quadro politico-istituzionale accettato, entro cui si muovono e competono le forze sociali e politiche, diventa essa stessa oggetto di contrattazione permanente, in modo ora esplicito ora latente ora ideologicamente camuffato. Non manca chi parla di «rivoluzione conservatrice» ostile all’idea stessa di democrazia e repubblica proclamata dai «criminali del novembre 1918»; da qui alla fine prenderà forma e sopravvento la «rivoluzione nazionalsocialista».
Si parla volentieri di «lezioni di Weimar». Quasi sempre in senso negativo, evocando il «fantasma di Weimar» ogni qualvolta un sistema politico sembra paralizzarsi nella ingovernabilità o lascia spazio a crescenti forze anti-sistema. Naturalmente le analogie storico-politiche esigono sempre molta attenzione. Ma uno studio dell’esperienza della Germania weimariana è motivo di utile riflessione critica anche oggi.

- Gian Enrico Rusconipubblicato sulla Stampa del 12/4/2018 -

rudi

Con tre colpi a Rudi “il rosso” si spense il ’68
- di Angelo Bolaffi -

Con l’attentato a Dutschke, cinquant’anni fa, la spinta rinnovatrice appena nata fu travolta dal settarismo e dal terrorismo della Raf Ma si aprì anche la stagione di Willy Brandt e del “dorato decennio”.
Sul Kurfürstendamm la principale via di Berlino-Ovest la mattina dell’11 aprile del 1968 Joseph Bachmann, un imbianchino avvelenato dalla campagna d’odio della stampa reazionaria del gruppo editoriale di Axel Springer, sparò, riducendolo in fin di vita, tre colpi di pistola contro Rudi Dutschke, l’indiscusso leader del movimento studentesco tedesco: nell’ex capitale del Reich e nelle altre principali città della Repubblica federale seguirono giornate di scontri violentissimi. Le immagini trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo ricordarono quelle di una settimana prima negli Usa dopo l’omicidio di Martin Luther King.
Dutschke riuscì a sopravvivere nonostante le gravissime lesioni cerebrali ma dovette persino imparare di nuovo a parlare e a leggere. (Morì alla vigilia di Natale del 1979 annegato mentre faceva il bagno nella sua casa in Danimarca per un attacco di epilessia conseguenza delle ferite riportate nell’attentato).
L’uscita di scena di Rudi “il rosso” segnò la fine del’68 tedesco: una fine suggellata da una drammatica serie di lutti. Prima la scomparsa nell’agosto del 1969 di Theodor W. Adorno, provato dalla contestazione di quegli studenti dei quali era stato padre spirituale. A guidarli contro il vecchio maestro, Hans Jürgen Krahl, il “Robespierre di Bockenheim”, il quartiere universitario di Francoforte, che di Adorno era stato l’allievo più geniale ed amato. Krahl, del quale Dutschke aveva detto «è il più intelligente di tutti noi», restò vittima di un incidente stradale a febbraio del 1970 (Claus-Jürgen Göpfert-Bernd Messinger, Das Jahr der Revolte. Frankfurt 1968, Schöffling & Co).
Quello che era stato un movimento di massa nel segno dell’antiautoritarismo e del pensiero critico sprofondò nel buio del settarismo dogmatico. O peggio ancora nel delirio sanguinoso del terrorismo della Rote Armee Fraktion. E molti, anche se non tutti per fortuna, di quelli che anni prima erano scesi in piazza intonando The Times They Are Changing di Bob Dylan si scoprirono seguaci del maoismo disposti a sacrificare gli insegnamenti della kritische Theorie sull’altare dell’ortodossia marxista-leninista. E tuttavia oggi, a mezzo secolo di distanza, è impossibile negare l’importanza del ‘68 tedesco nel processo di riforma politico e morale, di quella metanoia tedesca di cui ha parlato Peter Sloterdijk, che ha fatto della odierna Germania il paese di riferimento dell’europeismo e dei valori liberal-democratici della tradizione occidentale. Ma un simile giudizio storico è possibile a patto di rivedere la tradizionale lettura di quegli anni giudicando dunque il ’68 non già, come suggerisce una ideologica e ormai datata interpretazione, l’anno della grande rottura chiamata “opposizione extraparlamentare”, ma piuttosto un momento di un processo materiale e culturale più complesso e articolato — quello dei “ lunghi anni ’60” (così Anselm Doering-Manteuffel) — che aveva trasformato la società tedesca. Di questa metamorfosi il ’68 fu al tempo stesso fattore di accelerazione e di conclusione: «Il vero ’68 fu il ’67 che rappresentò il culmine di un processo iniziato nel 1964. Col 1968 ebbe inizio un anno in cui le idee della generazione del ’67 andarono in pezzi, si radicalizzarono o si rovesciarono. L’antiautoritarismo divenne autoritarismo» (Klaus Hartung). Dai primi anni ’60, in particolare col processo di Francoforte del 1964 contro i responsabili di Auschwitz, venne fatta luce su quel “labirinto del silenzio” costruito nel primissimo dopoguerra tedesco da una società che aveva cercato di ottenere una collettiva amnistia grazie alla amnesia collettiva della colpa chiamata Shoah e aveva sperato di cavarsela sostituendo l’antico antisemitismo col nuovo anticomunismo. L’arrivo sulla scena di una generazione nata negli ultimi anni della guerra o in quelli immediatamente successivi segnò una cesura decisiva: «Nel 1967 accadde in Germania qualcosa che può essere paragonato all’Autunno caldo in Italia o al Maggio del ’68 in Francia. Venne posto all’ordine del giorno il compito di portare a termine la liberazione del passato nazista» (Detlev Claussen). E così quella Germania che nel 1950 era apparsa ad Hannah Arendt incapace di “rielaborare il lutto” per il «rifiuto profondamente radicato, ostinato e in qualche caso brutale di confrontarsi e fare i conti con ciò che è realmente accaduto» ( Ritorno in Germania, Donzelli) voltò pagina. La contestazione studentesca scardinò le tradizionali coordinate del modo di pensare e di stare al mondo divenendo nuovo senso comune di massa: il pensiero critico in cui la lezione di Freud contava quanto quella della tradizione del marxismo critico penetrò dentro le relazioni personali.
A differenza di quanto accade col ’68 in Italia o in Francia la metamorfosi della società tedesca (occidentale) provocò una profonda riforma del lessico dei rapporti interpersonali. Davvero il privato divenne politico cambiando la dinamica delle relazioni quotidiane e affettive.
Grazie al movimento degli studenti termini quali Kindergarten e Antiautoritarismus conquistarono notorietà internazionale pari a quella che in passato avevano avuto termini quali Panzer e Blitzkrieg.
Insomma secondo la celebre formulazione di Jürgen Habermas «i mandarini furono mandati in pensione». La rivolta studentesca fu dunque al tempo stesso esito finale e fattore di socializzazione di quello che potremmo definire la “degermanizzazione” dello spirito tedesco. E al di là e addirittura anche contro le intenzioni soggettive dei protagonisti fattore di arricchimento della vita politica e di rafforzamento delle istituzioni democratiche che gli Alleati avevano imposto alla Germania dell’Anno zero.
Poi si aprì un nuovo ciclo politico: nel ’69 col primo governo guidato da Willy Brandt e soprattutto con la sua trionfale riconferma nella elezione del 1972, la Spd sfiorò la maggioranza assoluta, ebbe inizio il “dorato decennio” socialdemocratico che realizzò una radicale democratizzazione della società e delle relazioni economiche e sindacali che i politologi indicarono come Modell Deutschland. Del resto non era stato proprio Rudi Dutschke a parlare di “lunga marcia attraverso le istituzioni”?

- Angelo Bolaffi - Pubblicato su Repubblica il 10/4/2018 -

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