venerdì 5 gennaio 2018

Perché non eliminarlo?!?

stireriaI datori di lavoro esercitano un vasto controllo sulle nostre vite, anche quando non ci troviamo sul posto di lavoro, Come hanno fatto a guadagnare quel potere che non ha neppure il governo stesso?

Gli Stati Uniti del Lavoro
- di Miya Tokumitsu -

Il lavoro non funziona più. «Hai bisogno di acquisire più competenze», viene detto ai giovani in cerca di lavoro il cui curriculum, a 22 anni, è già molto più lungo di quello che avevano i loro genitori, a 32 anni. «Il lavoro darà un senso alla tua vita», in questo modo vengono incoraggiati a ripetere a sé stessi, cosicché possano passare 60 o più ore la settimana a lavorare, togliendole così da oltre forme di significato, come ad esempio dalla vita sociale o dal sognare ad occhi aperti. «Il lavoro ti darà delle soddisfazioni», si insiste a dire, anche se esso richiede che si devono rispettare le regole imposte dai datori di lavoro, e le regole non scritte del mercato, e questo per la maggior parte delle ore in cui siamo svegli. Quanto meno, il lavoro dovrebbe essere un mezzo per ottenere un reddito. Ma se si considera che oggi è possibile lavorare a tempo pieno e vivere allo stesso tempo ancora in povertà, che senso ha?
Anche prima della crisi finanziaria globale del 2008, era già diventato chiaro che se era il lavoro salariato a dover misurare il benessere e la struttura sociale, allora, secondo le sue stesse condizioni, aveva già fallito. Negli Stati Uniti, a partire dagli anni 1970, i salari reali delle famiglie erano rimasti stagnanti, anche se erano cresciuti i costi delle spese universitarie e quelli per ottenere altri titoli. I giovani trovano un panorama occupazionale definito da tirocini non retribuiti, da lavoro temporaneo, e da salari bassi. L'eccesso di lavoratori in possesso di laurea, ha spinto molti di loro nella forza lavoro semi o non-specializzata, rendendo ancora peggiori le prospettive per i non-laureati. Infatti, i salari di ingresso per i diplomati delle scuole superiori sono crollati. Secondo uno studio della Federal Reserve Bank of New York, questi guadagni perduti deprimeranno i salari di questa generazione per tutta la loro intera vita lavorativa. Nel frattempo, quelli in cima - molti dei quali non ricavano la loro ricchezza dal lavoro, ma dai rendimenti da capitale - assorbono una quota sempre più grande di agiatezza.
Contro questo squallido panorama, un numero crescente di ricerche accademiche mirano a rovesciare i più profondi assunti culturali secondo i quali il lavoro conferisce ricchezza, significato, e assistenza sociale. In "Private Government: How Employers Rule Our Lives (and Why We Don’t Talk About It)", Elizabeth Anderson, una professoressa di Filosofia alla University of Michigan, analizza come la disciplina del lavoro sia essa stessa diventata una forma di tirannia, documentando il potere espansivo che le aziende ora esercitano sui loro dipendenti riguardo ad ogni cosa, da come si vestono a ciò che twittano. James Livingston, uno storico alla Rutgers, nel suo "No More Work: Why Full Employment Is a Bad Idea", fa un ulteriore passo in più. Anziché insistere nella richiesta di un posto di lavoro per tutti, o proporre che vengano imposti standard più elevati ai datori di lavoro, Living argomenta che dovremmo semplicemente eliminare completamente il lavoro.
Delle due, quella di Livingston è la posizione più radicale; il suo libro è una polemica a largo raggio che di solito dà voce al ritornello “Fuck work.” ["Fanculo il lavoro"]. Ma entrambi i libri, in maniera originale, affermano con forza: che oggi le nostre vite sono irreggimentate, soprattutto, dal lavoro. Possiamo anche provare a convincere noi stessi che siamo liberi, ma nella misura in cui dobbiamo sottometterci alla crescente autorità dei nostri datori di lavoro e a quella del mercato, non lo siamo. Tuttavia, fantastichiamo di voler lavorare, che il lavoro radica il nostro carattere, che i mercati contengono tutto il possibile. Non siamo in grado di immaginare che chi potrebbe essere una vita piena, e ancor meno siamo in grado di viverne una. Ancora più radicalmente, entrambi i libri evidenziano i drammatici ed allarmanti cambiamenti che il lavoro ha subito nel secolo scorso - insistendo sul fatto che, spesso in maniera invisibile, la natura mutevole del lavoro minaccia gli ideali fondamentali della democrazia: l'uguaglianza e la libertà.

libro Andersen

L'idea più provocatoria della Anderson è che le grandi aziende, le istituzioni che impiegano la maggior parte dei lavoratori, costituiscono di fatto una forma di governo, che esercita un potere massiccio ed invadente sulla nostra vita quotidiana. A differenza dello Stato, questi governi privati sono in grado di esercitare il potere facendo uso di poca supervisione, poiché i dirigenti ed i consigli di amministrazione che li governano non devono rendere conto a nessuno se non a sé stessi. Sebbene esercitino a vari gradi il loro potere, ed attraverso mezzi sia diretti che "soft", i datori di lavoro possono dettare il modo in cui dobbiamo vestirci e lo stile secondo il quale dobbiamo tagliare i nostri capelli, decidere quando dobbiamo mangiare, quando (e se) dobbiamo usare la toilet, con chi possiamo collaborare e a quali condizioni. I datori di lavoro possono sottoporre i nostri corpi a test antidroga; monitorare le nostre conversazioni sia dentro che fuori dal lavoro; chiederci di rispondere a dei questionari circa le nostre abitudini, il nostro consumo di alcol fuori dall'orario di lavoro, e sulle nostre intenzioni di procreare; e frugare fra le nostre cose. Se lo Stato avesse poteri così vasti, sostiene la Anderson, probabilmente non ci considereremmo uomini e donne libere.
Nel frattempo, i dipendenti hanno pochi modi di reagire. Certo, possono licenziarsi, ma facendo così di solito si finisce per essere disoccupati o si viene assunti da un'altra compagnia, andando a lavorare sotto regole simili. I lavoratori si possono organizzare, ma negli ultimi anni i sindacati sono stati talmente decimati che il loro peso si è enormemente ridotto. Inoltre, i datori di lavoro sono pronti a licenziare chiunque sia sospettato di parlare di organizzazione con i propri colleghi, la maggior parte dei lavoratori non ha né tempo né risorse per intentare una causa per ingiusto licenziamento.
Si pensava non dovesse essere così. Mentre le corporazioni lavoravano metodicamente per accrescere il loro potere assoluto sui propri dipendenti, hanno continuato a tenere alto il seducente principio della libertà individuale, proclamando che soltanto i mercati privi di regole possono garantire la libertà personale. Invece, operando in base ad un numero relativamente basso di regole, queste compagnie sono riuscite ad imporre ai propri dipendenti ogni tipo di regolamentazione. Come dire, usano il linguaggio della libertà individuale per affermare che le corporazioni richiedono libertà per trattare i lavoratori come vogliono.
La Anderson procede screditando tali argomenti riconducendoli alla loro origine storica. Il concetto secondo cui la libertà personale è radicata nel libero mercato, per esempio, è nata con i Levellers nell'Inghilterra del XVII secolo, quando le condizioni lavorative differivano sostanzialmente da quelle attuali. I Levellers ritenevano che fosse essenziale una società di mercato per poter liberare gli individui da quello che rimaneva delle gerarchie feudali: la loro visione utopica era quella di un mondo in cui gli uomini potevano incontrarsi ed interagire  in un rapporto di uguaglianza e dignità. Le loro idee si diffondevano per mezzo della scrittura e della politica di figure che sarebbero venute dopo come John Locke, Adam Smith, Thomas Paine, e Abraham Lincoln, che ritenevano che il mercato aperto avrebbe fornito l'infrastruttura essenziale perché gli individui potessero modellare il proprio destino.
C'è una linea anti-statalista che unisce molti di questi pensatori, soprattutto i Levellers e Paine, che consideravano i mercati come un baluardo contro l'oppressione statale. Paine e Smith, tuttavia, oggi difficilmente si definirebbero dei libertari intransigenti. Smith credeva che l'istruzione pubblica fosse essenziale per un'equa società di mercato, e Paine aveva proposto un sistema di assicurazione sociale che comprendeva pensioni di vecchiaia e indennità di reversibilità ed invalidità. Non speravano in un mondo di competizione in cui si vinceva o si moriva, ma in un mondo in cui i mercati aperti avrebbero consentito agli individui di utilizzare pienamente le loro attitudini, liberi dai monopoli di stato e da capi ficcanaso.
Per la Anderson, quest'ultimo punto è essenziale; il concetto di un impiego permanente sotto un capo, era un anatema per queste prime visioni della libertà personale. Scrivendo negli anni 1770, Smith presume che gli attori indipendenti nella sua società di mercato siano lavoratori autonomi, e come esempi di questi lavoratori fa uso di macellai e di fornai; la sua "fabbrica di spilli", intesa ad illustrare la divisione del lavoro, utilizza solo dieci persone. Questi pensatori non avrebbero potuto immaginare un mondo in cui la maggior parte dei lavoratori passava la maggior parte del loro tempo a svolgere un lavoro salariato sotto un solo datore di lavoro. In un discorso tenuto davanti alla Wisconsin State Agricultural Society, nel 1859, Lincoln affermava: «Nel mondo, il principiante prudente e senza un soldo per un po' lavora per un salario. mette da parte un'eccedenza con cui comprare per sé attrezzi o terra, poi lavora per conto suo per un altro po', e alla lunga assume un altro nuovo principiante che lo possa aiutare.» In altre parole, anche nel XIX secolo, i difensori di una società di mercato senza regole vedevano il lavoro salariato come un periodo temporaneo lungo la strada che portava ad essere un proprietario.
Lo scenario di Lincoln non riflette affatto il modo in cui oggi lavora la maggior parte delle persone. Eppure, il "piccolo imprenditore" resiste nei panni dell'azionista americano, che viene evocato dai politici per spingere verso misure di deregolamentazione a vantaggio delle grandi corporazioni. In realtà, grazie alla mancanza di un'assistenza sanitaria garantita e nazionalizzata, e grazie al logoro welfare, per molti americani, che per la loro assicurazione sanitaria e per il loro reddito devono fare affidamento sui loro datori di lavoro, creare una piccola impresa è semplicemente troppo rischioso. Queste condizioni rendono l'impiego a lungo termine più appetibile di un'esistenza precaria o ad un'attività di concerti freelance, cosa che inoltre dà alle compagnia la licenza di opprimere i propri dipendenti.

repubblica

La moderna relazione fra datore di lavoro e dipendente ebbe inizio con l'ascesa delle grandi compagnie, avvenuta nel XIX secolo. Anche se ci sono contratti di lavoro che risalgono al Medioevo, gli accordi preindustriali somigliano assai poco ai documenti che conosciamo oggi. Come i moderni dipendenti, spesso gli operai qualificati e gli apprendisti servivano per anni i loro datori di lavoro, ma i maestri eseguivano il loro stesso lavoro, o lavori simili, in prossimità dei loro subordinati. Di conseguenza, sottolinea la Anderson, le condizioni lavorative - la velocità richiesta ai lavoratori e i rischi cui avrebbero potuto essere esposti - erano controllate a seconda da quello che il maestro era disposto a tollerare.
La rivoluzione industriale aveva portato a dei cambiamenti radicali, mentre le compagnie diventavano sempre più grandi e le strutture gestionali diventavano sempre più complesse. «I datori di lavoro non facevano più lo stesso genere di lavoro dei dipendenti, quando non lavoravano affatto», osserva la Anderson. «Il lavoro mentale era stato separato dal lavoro manuale, che era stato radicalmente dequalificato.» Le aziende si era rapidamente moltiplicate in termine di dimensioni. Ora, i contratti di lavoro legavano i lavoratori ad organizzazioni di massa in cui disciplina, istruzioni, e ordini fluivano verso il basso, ma i cui leader erano irraggiungibili da parte dei lavoratori ordinari. Oggi, gli addetti dei fast food o i cassieri di banca sarebbero costretti a presentare la loro petizione personalmente all'amministratore delegato della McDonald's o della Wells Fargo.
Ciò nonostante, parliamo spesso di contratti di lavoro come se fossero di accordi fra eguali, come se stessimo vivendo nel mondo sognato da Adam Smith nel XIX secolo.
In un testo del 1937, ancora influente, dal titolo "The Nature of the Firm" ["La natura dell'Impresa"], l'economista e premio Nobel Ronald Coase dimostrava di essere uno dei primi osservatori e teorici delle preoccupazioni aziendali. Egli descriveva il contratto di lavoro non come un documento che conferiva imprevedibili poteri al datore di lavoro, ma come quello che circoscriveva tali poteri. Nel firmare un contratto, il dipendente «accetta di obbedire alle direttive di un imprenditore entro certi limiti», viene sottolineato. Ma simili caratterizzazioni, come osserva Anderson, non riflettono la realtà; la maggior parte dei lavoratori accetta il posto di lavoro senza alcuna negoziazione, e senza neppure che vi sia una comunicazione che riguarda il potere del proprio datore di lavoro e dei suoi limiti. Le eccezioni a questa regola sono assai poche e degne di nota: atleti professionisti di alto livello, celebrità dell'intrattenimento, superstar accademiche, e gruppi (sempre più piccoli) di lavoratori che sono in grado di contrattare collettivamente.
Tuttavia, poiché i contratti di lavoro creano l'illusione che i lavoratori e le aziende siano arrivati ad un accordo reciprocamente soddisfacente, le restrizioni sempre più onerose nei confronti dei moderni dipendenti vengono assai spesso presentate come se fossero la «migliore prassi» e lo «standard di settore», volto ad inquadrare ogni tipo di comportamento di modo che porti a risultati che dovrebbero essere intrinsecamente desiderate dai lavoratori stessi. Chi è che, dopo tutto, non vorrebbe lavorare nel modo «migliore»? Al di là dei contratti di lavoro, per promuovere l'obbedienza, le imprese si affidano anche alla pressione sociale: se in un ufficio rimangono tutti regolarmente fino alle sette di ogni sera, chi è che si azzarderebbe ad uscire alle cinque, anche se tecnicamente gli fosse consentito? Tali impulsi sociali coesistono insieme a codici compartimentali più rigidi che dettano ogni comportamento, da quanto è visibile il tatuaggio del dipendente fino a quando e per quanto tempo i lavoratori possono fare una pausa per il pranzo.
Infatti, molti lavoratori non percepiscono il senso della portata giuridica del potere dei loro datori di lavoro. La maggior parte di loro rimarrebbe scioccata nello scoprire che potrebbero essere licenziati nel caso dovessero essere troppo attraenti, se dovessero rifiutare di partecipare ad una manifestazione del partito politico preferito del loro datore di lavoro, o se dovessero scoprire che la loro figlia è stata violentata da un amico del capo - tutti esempi di vita reale, questi, citati da Anderson. Infatti, è solo dopo il licenziamento per tali motivi che molti lavoratori vengono a sapere di quanto sia diffuso il posto di lavoro «liberamente recedibile», la norma contrattuale che permette ai datori di lavoro americani di licenziare i lavoratori senza preavviso e senza giusta causa, tranne che quei motivi che sono ritenuti esplicitamente illegali.
In realtà, il panorama occupazionale è ancora più terribile di quello tratteggiato da Anderson. L'ascesa delle agenzie per fornire personale o di "lavoro temporaneo", ad esempio, rimuovono l'idea stessa di una relazione diretta fra il lavoratore ed il datore di lavoro. Nel suo libro "The Temp Economy: From Kelly Girls to Permatemps in Postwar America", la sociologa Erin Hatton osserva come milioni di lavoratori ora lavorino attraverso accordi di subappalto, che danno ai datori di lavoro una maggior libertà di poter abusare dei dipendenti. Per anni, Walmart - il più grande venditore al dettaglio americano - ha utilizzato un' impresa di subappalto per assumere centinaia di addetti alle pulizie, molti dei quali provenienti dall'Europa dell'Est, che hanno lavorato per mesi senza che venisse loro pagato lo straordinario o gli venisse dato un solo giorno libero. Dopo che gli agenti federali hanno fatto irruzione in dozzine di Walmart, ed aver arrestato gli addetti alle pulizie in quanto immigranti clandestini, i dirigenti aziendali hanno utilizzato l'accordo di subappalto per sottrarsi alle responsabilità circa lo sfruttamento degli addetti alle pulizie, dichiarando di non essere a conoscenza del loro status o della loro condizione di immigrati.
Secondo qualsiasi criterio ragionevole, molto lavoro "temporaneo" non è nemmeno temporaneo. I dipendenti a volte lavorano per anni nello stesso unico posto di lavoro, venendo anche promossi, senza mai nemmeno essere riconosciuti ufficialmente come dipendenti. Allo stesso modo, le piattaforme della "gig economy" [economia dei lavoretti] come Uber, designano i loro lavorati "contrattisti" piuttosto che come dipendenti, una distinzione che esenta la società dal dover pagare loro il salario minimo e gli straordinari. Molti "permatemp" [lavoratore Permanente Temporaneo: un lavoratore temporaneo che lavora per un lungo periodo, senza contributi, malattia o ferie pagate] e molti contrattisti svolgono il medesimo lavoro che svolgono i dipendenti, ma mancano di qualsiasi protezione e qualsiasi beneficio che viene concesso ai lavoratori a tempo pieno.
Un mercato del lavoro debole, accoppiato ad una sempre più crescente precarietà del lavoro, significa che sempre più lavoratori sono costretti a guadagnarsi da vivere arrangiandosi per mezzo di lavoretti autonomi o di contratti a tempo determinato, che assoggettano questi lavoratori ad un numero ancora maggiore di regole e restrizioni. Oltre i loro veri posti di lavoro, i contrattisti ed i lavoratori temporanei devono svolgere il lavoro supplementare di dover apparire affabili ed adoperabili non solo sul lavoro, ma anche durante tutti i loro sforzi continui volti ad assicurarsi il loro prossimo lavoretto. Agitarsi continuamente, scrivere applicazioni, e promuoversi a livello personale sui social media richiede un livello di auto-censura, per paura che un tweet controverso o una foto compromettente su Facebook affondino le loro prospettive di lavoro. Costretti ad anticipare i desideri, non di uno specifico datore di lavoro, ma di tutti i potenziali futuri datori di lavoro, molti si astengono dal partecipare ai social media o dal fare politica in qualsiasi modo che possa essere visibile. Le loro personalità pubbliche sono modellate non da quello in cui credono e che desiderano, ma dalle domande del mercato del lavoro.

Libro Livingston

Per Livingston, il problema non sono solo i datori di lavoro ma il lavoro stesso. Noi fatichiamo perché dobbiamo, ma anche perché la nostra cultura ci ha insegnato a vedere il lavoro come se fosse la più grande realizzazione della nostra dignità e del nostro carattere personale. Livingston ci sfida a rifiutare simili idee antiquate, radicate negli ideali protestanti. Come Anderson, perlustra secoli di teoria del lavoro con efficienza impressionante, da Marx ed Hegel a Freud e Lincoln, di cui anch'egli cita il discorso del 1859. Livingston si focalizza su questi pensatori perché tutti loro hanno trovato la connessione che esiste fra lavoro e virtù preoccupanti. Hegel riteneva che il lavoro portasse gli individui a rimandare i loro desideri, alimentando così una "moralità dello schiavo". Marx affermava che «la vera libertà viene dopo il lavoro». E Freud aveva compreso l'etica protestante del lavoro in quanto «sintomo di repressione, forse perfino di regressione.»
Esaltare il lavoro non è neanche pratico, sostiene Livingston: semplicemente non ci sono abbastanza posti di lavoro per poter mantenere occupati, ad un salario di sussistenza, la maggior parte degli adulti, vista l'ascesa dell'automazione e l'incremento della produttività. Inoltre, la relazione fra reddito e lavoro è del tutto arbitraria. Cucinare per la tua famiglia è un lavoro non pagato, mentre cucinare per degli estranei di solito fornisce un salario. Non c'è nessuna differenza inerente al lavoro di cui stiamo parlando - tranne che per il compenso. La Anderson sostiene che il lavoro impedisce la libertà individuale; Livingston evidenzia come raramente paghi abbastanza. Dal momento che il progresso tecnologico  continua ad indebolire la domanda di lavoro umano, i salari inevitabilmente verranno trascinati sempre più verso il basso. Anziché idealizzare il lavoro e farne il fulcro dell'organizzazione sociale - suggerisce Livingston - perché non eliminarlo?
Livingston appartiene ad un gruppo di pensatori, fra i quali Kathi Weeks, Nick Srnicek, ed Alex Williams, i quali credono che, in una forma o nell'altra, dovremmo ambire ad una società "post-lavoro". Il filo rosso di quest'idea parte almeno dal saggio di Keynes del 1930, a proposito delle "Possibilità economiche per i nostri nipoti" [si può leggere e/o scaricare qui]. Non solo il lavoro sarebbe stato eliminato, o largamente ridotto, dalla tecnologia, aveva previsto Keynes, ma da questo ne avremmo anche tratto sollievo spiritualmente. La devozione per il lavoro era, secondo lui, uno dei tanti «principi pseudo-morali» che «esaltavano alcune delle qualità umane più ripugnanti mettendole al posto delle più alte virtù.»
Dal momento che in questo nuovo mondo le persone non dovrebbero più guadagnare un salario - immagina Livingston - dovrebbero ricevere un qualche tipo di reddito universale di base [universal basic income: UBI]. UBI è un concetto scivoloso, che si adatta sia alla sinistra socialista che alla destra libertaria. ma essenzialmente implica che venga distribuito un salario di sussistenza a ciascun membro della società. Nella maggior parte delle concettualizzazioni, il reddito è davvero di base - niente casse di Dom Pérignon - e dovrebbe coprire le cose essenziali come l'affitto e i generi alimentari. Gli individui dovrebbero essere liberi di scegliere se e quanto vogliono lavorare per integrare l'UBI. Chi la propone da sinistra tende a sostenere di integrare l'UBI con un forte stato sociale per poter fornire assistenza sanitaria, istruzione gratuita, ed altri servizi. Alcuni libertari vedono l'UBI come un modo per abbattere lo stato sociale, sostenendo che è meglio dare soldi alle persone per comprarsi direttamente cibo e assistenza sanitaria, piuttosto che costringerli a dover avere a che fare con buoni pasto e burocrazie sanitarie.
Secondo Livingston, a causa dell'automazione, finalmente ci troviamo sul punto di arrivare a questa società post-lavoro. Oggi i robot sono abbastanza avanzati per farsi carico di lavori complessi in aeree come quelle agricole e minerarie, eliminando così che ci sia bisogno che gli esseri umani svolgano compiti pericolosi o noiosi. In pratica, però, l'automazione è un'arma a doppio taglio che ha la capacità di opprimere come quella di liberare. Le macchine spesso accelerano la velocità a cui gli esseri umani possono lavorare, opprimendoli piuttosto che liberarli. Il nastro trasportatore ha eliminato per i lavoratori la necessità di dover passare il pezzo non ancora finito al proprio collega - ma come hanno dimostrato in maniera esilarante Charlie Chaplin e Lucille Ball, il nastro è anche servito ad incrementare il ritmo al quale alcuni lavoratori devono girare la chiave inglese e al quale devono avvolgere i cioccolatini. Nella vendita al dettaglio e nel servizio ai clienti, una delle funzioni principali dell'automazione non è quella di eliminare il lavoro, ma di eliminare il lavoro salariato trasferendolo in gran parte sui consumatori, che ora al supermercato devono pesare e codificare i loro ortaggi e la loro frutta, e all'aeroporto etichettare il proprio bagaglio .
Allo stesso tempo, potrebbe essere sempre più difficile automatizzare alcuni lavori che richiedono un tocco umano, come la fioristica e le acconciature. Lo stesso vale anche per il delicato lavoro della cura dei giovani, dei malati, degli anziani, o di chi sia comunque vulnerabile. Nell'economia odierna, la domanda per tali lavori sta crescendo rapidamente: «Nove dei dodici settori più in rapida crescita», scrive all'inizio di quest'anno il New York Times, «sono modi diversi di dire "infermiere".» Si tratta anche di lavori a basso salario, emotivamente e fisicamente estenuanti, sporchi, pericolosi, e che vengono in larga misura svolti da donne ed immigrati. Indipendentemente dal fatto che l'occupazione sia o meno virtuosa, il nostro obiettivo immediato dovrebbe essere forse quello di distribuire il peso dell'assistenza, dal momento che tale lavoro è essenziale per il funzionamento della società ed è a beneficio di tutti.

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Un mondo veramente libero dal lavoro dovrebbe richiedere una rivoluzione rispetto alla nostra attuale organizzazione sociale. Non si potrebbe più concepire il welfare come l'ultima delle risorse - come implica la metafora della "rete di salvataggio" - ma saremmo costretti a considerarlo come un aspetto scontato ed universale della nostra vita. Questo da solo già richiederebbe di favorire una massiccia ridistribuzione della ricchezza, e di recuperare le nostre istituzioni politiche emancipandole dai grandi interessi monetari che sono allergici a simili cambiamenti. Compiti davvero difficili - ma come ci ricordano Smircek e Williams nel loro libro, "Inventing the Future: Postcapitalism and a World Without Work", i neoliberisti hanno portato a termine una rivoluzione del genere negli anni del dopoguerra. Grazie ai loro sforzi, il liberalismo del libero mercato ha sostituito il keynesismo, come senso comune economico e politico, in tutto il mondo.
Un'altra possibile soluzione alle attuali miserie della disoccupazione e dello sfruttamento dei lavoratori è quella che Livingstone rifiuta fina dal suo titolo: piena occupazione. Per i partigiani dell'anti-lavoro, la piena occupazione ci porta nella direzione sbagliata, e UBI serve a correggere la rotta. Ma le due cose non si escludono a vicenda. In realtà, piuttosto che creare nuovi posti di lavoro, la piena occupazione potrebbe richiedere che noi diminuiamo drasticamente le nostre ore lavorative e le dividiamo per tutta la forza lavoro - uno schema che potrebbe decentrare radicalmente il lavoro salariato rispetto alle nostre vite. Una duplice strategia di perseguire la piena occupazione mentre allo stesso tempo si richiedono benefici universali - ivi incluse assistenza sanitaria, istruzione, e alloggi a prezzi accessibili - massimizzerebbe il potere contrattuale dei lavoratori e garantirebbe che i lavoratori, e non solo i proprietari di capitale, possano effettivamente godere della generosità della tecnologia di risparmio del lavoro.
Tuttavia, la critica della piena occupazione svolta da Livingston merita attenzione. Proprio come è avvenuto con l'automazione, tutto può andare storto se usiamo la bandiera della piena occupazione per creare dei ruoli inutili - quello che David Graeber ha definito "bullshit jobs" ["lavori di merda"], in cui i lavoratori stanno seduti per otto ore al giorno in qualche seminterrato succhia-anime - o dei valori dannosi, come costruire armi nucleari. Se non abbiamo una politica deliberatamente radicata nella giustizia sociale universale, allora la piena occupazione, un reddito di base, e l'automazione non ci libereranno dal degrado del lavoro.
Sia Livingston che Anderson ci mostrano quanto abbiamo già ceduto del nostro potere facendo del lavoro salariato il passaggio in cui incanalare i nostri ideali di libertà e di moralità. La dimensione e la coordinazione delle istituzioni contro cui ci battiamo per la nostra emancipazione, come dimostra la Anderson, è sconcertante. I datori di lavoro detengono gli strumenti del nostro benessere, ed hanno la legge dalla loro parte. Gli sforzi individuali per arrivare ad avere per noi stessi e per le nostre famiglie un miglior "equilibrio fra vita e lavoro" non sono rivolti al problema maggiore con cui ci scontriamo in quanto dipendenti salariati. Livingston dimostra quale deve essere il livello a cui dovremmo pensare: le nostre richieste dovrebbero essere rivoluzionarie, la nostra immaginazione dovrebbe essere ampia. In piedi in mezzo alle macerie delle elezioni presidenziali avvenute lo scorso anno, quale altra scelta abbiamo?

- Miya Tokumitsu - Pubblicato il 18/4/2017 su New Republic -

fonte: New Republic

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