giovedì 25 gennaio 2018

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Chi fu Walter Benjamin? A questa domanda poteva forse dare risposta solo Hannah Arendt. Lo aveva conosciuto e frequentato a Parigi, negli anni d'esilio dalla Germania nazionalsocialista, prima che ponesse fine alla sua vita in Spagna nella fuga verso gli Stati Uniti, diventando un simbolo del tragico destino dell'ebraismo tedesco nel Novecento. Quando pubblicò un celebre saggio sull'amico nel 1968 - qui per la prima volta tradotto dalla versione originale tedesca - molte pagine erano dedicate alla biografia non già per ricercare motivi all'origine del suo pensiero, bensì per risalire alle cause della sua fama postuma. Scritti su letteratura ed estetica venivano riletti alla luce della critica politica, scoprendo intenti maturati dal confronto col marxismo dietro agli aspetti filosofici e religiosi rilevati fino ad allora dagli interpreti. Un'accusa che all'epoca si trasformò in polemica sullo sfondo dell'antagonismo tra capitalismo e comunismo, che richiedeva nuove soluzioni al problema della libertà dell'uomo d'imprimere un senso alla sua storia di catastrofi e non di progresso tra politica e teologia. Quel saggio dal lapidario titolo "Walter Benjamin" contribuì come nessun altro alla fortuna di un pensiero che accoglieva impulsi dalla metafisica per affrontare questioni della politica, come abbozzato nella serie di tesi "Sul concetto di storia", tradotte qui dal manoscritto originale affidato all'amica e presto riconosciute come suo testamento spirituale. Oltre alle loro lettere (1936-1940) sono raccolti in questo volume anche i principali documenti sulle discussioni che si accompagnarono alla riscoperta di un autore che continua a rivelarsi nella sua inattualità perché guardò oltre ogni attualità.

(dal risvolto di copertina di: Hannah Arendt Walter Benjamin: L’angelo della storia. Testi, lettere, documenti, a cura di D. Schöttker e E. Wizisla, traduzione italiana di C. Badocco, Giuntina, pp. 263, euro 15)

Un amorevole risarcimento per Walter Benjamin
- di Marco Pacioni -

Dopo la bocciatura del Dramma barocco tedesco che avrebbe dovuto garantirgli l’accesso all’università, a Walter Benjamin rimane aperta l’incerta strada della dipendenza economica da istituzioni culturali come quella dell’Istituto di Ricerche Sociali di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno per i suoi studi. Una strada fatta di precarietà, corroborata da collaborazioni occasionali con giornali e radio che comunque non avrebbero potuto sostituirsi all’aiuto fornitogli dalle finanze familiari. La condizione precaria di Benjamin si aggrava quando il nazismo lo costringe all’esilio in Francia e da qui al tentato espatrio negli Stati Uniti naufragato con il suicidio a Port Bou il 26 ettembre del 1940.
Anche nella difficile condizione di chi fugge con pochi mezzi, Benjamin non rinuncia a portare avanti i suoi studi e a scrivere. Gli scritti del periodo dell’esilio francese portano forti i segni delle difficili condizioni in cui era venuto a trovarsi. Altresì forti in questi testi sono le tracce del condizionamento degli interlocutori che anche a distanza cercano di influenzare e indirizzare la sua opera. La filologia di queste intricate e controverse vicende inscindibilmente testuali e biografiche, solo in parte ricostruibili attraverso gli scambi epistolari, ha determinato una vera e propria competizione sulla sull’opera interrotta dall’improvvisa morte.
Da un lato gli interlocutori a distanza come Adorno e Horkheimer (dalla loro parte si schiererà anche Scholem dopo l’interruzione dei rapporti con Arendt in seguito alla pubblicazione di Eichmann a Gerusalemme nel 1963) e dall’altro lato Hannah Arendt che con Benji (questo il modo familiare con il quale la filosofa si rivolgeva a Benjamin) era entrata in contatto diretto proprio nell’ultima fase della sua vita. È proprio sull’intenso rapporto con Arendt durante l’esilio francese e sulla ricezione postuma dei suoi ultimi scritti che verte il libro Hannah Arendt Walter Benjamin, L’angelo della storia. Testi, lettere, documenti (a cura di D. Schöttker e E. Wizisla, traduzione italiana di C. Badocco, Giuntina, pp. 263, euro 15).
Il volume ha un valore documentale notevole. Vi compare tradotta dal tedesco la prima versione del saggio di Arendt su Benjamin pubblicato a più riprese nel 1968 sulla rivista «Merkur» – saggio che nello stesso anno diventerà il testo dell’introduzione a Illuminazioni, la raccolta di scritti allestita da Arendt che risulterà determinante per la diffusione dell’opera di Benjamin soprattutto nei paesi anglofoni.
Nell'Angelo della Storia troviamo pure per la prima volta la traduzione italiana facsimilare delle Tesi sul concetto di storia nella versione che Benjamin aveva dato a Arendt. Questa versione fornirà una delle basi fondamentali per la primissima edizione di questo scritto nel ciclostilato commemorativo fuori commercio allestito dall’Istituto francofortese nel 1942 a ricordo della morte di Benjamin. Nel libro curato da Schöttker e Wizisla, a parte il loro importante saggio introduttivo, troviamo anche tradotti in italiano e in riproduzione fotografica cartoline, lettere e altri documenti di Arendt, Benjamin e altre personalità coinvolte nel conflitto sulla proposta e ricezione dell’opera di quest’ultimo.
Su cosa si appunta la controversia su Benjamin fra Arendt e gli altri? Si è detto più volte che la contesa riguarda in che misura si possa considerare materialistico il pensiero storico politico di Benjamin e, di conseguenza, quanto nella sua opera invece continui o meno ad agire la teologia, riguardo la quale Benjamin interloquiva soprattutto con Scholem.
Una lettura attenta dei documenti di questo libro, al di là del materialismo, della teologia e di altri elementi concettuali, alimenta il sospetto che la controversia su Benjamin verta anche su ragioni in un certo senso personali e biografiche che i curatori del volume definiscono come la volontà di «risarcimento» di Arendt per i danni provocati al pensiero e all’opera di Benjamin dalla condizione di dipendenza e precarietà che i supposti amici francofortesi non avrebbero saputo e voluto lenire.
Secondo Arendt, Benjamin sarebbe stato letteralmente tradito proprio da chi intellettualmente e materialmente avrebbe potuto e dovuto aiutarlo. Dalle lettere raccolte nel libro, si nota che l’intenzione di Arendt di contrapporsi a Adorno e Horkheimer riguardo Benjamin si palesa ben prima che lei scriva il saggio sull’amico pubblicato da «Merkur» nel 1968 e altresì prima della pubblicazione delle Lettere curate da Scholem e Adorno che avevano fatto deflagrare a più ampio raggio la polemica su Benjamin. Già in una sua missiva a Blücher dell’agosto del 1941, Arendt si esprime senza mezzi termini nei confronti di Horkheimer e Adorno che arriva a definire «porci», sostenendo che il manoscritto delle Tesi sul concetto di storia inviato a loro da Benjamin in realtà era stato fatto sparire da loro stessi che non avrebbero voluto pubblicarlo, così come non avevano pubblicato quella che Arendt in una lettera inviata a Adorno chiama la «versione originale» del saggio su Baudelaire. Solo forse la circostanza della commemorazione della morte di Benjamin, secondo Arendt, avrebbe potuto convincere quelli dell’Istituto di Ricerche Sociali a pubblicare, come infatti avvenne, l’ultimo lavoro di Benjamin e cioè le famose Tesi sul concetto di storia che la stessa Arendt aveva provveduto nuovamente a inviare a Adorno.
Oltre la presa di posizione che esprime soprattutto nello scritto pubblicato su «Merkur», Hannah Arendt vuole anche una sua personale selezione di scritti di Benjamin. All’inizio dell’appendice del libro curato da Schöttker e Wizisla, si trova una significativa foto della filosofa che brandisce sorridente l’edizione tedesca delle Illuminazioni mentre annuncia a che presto il libro sarà disponibile anche in inglese e che l’edizione in due volumi degli Scritti di Benjamin curati da Adorno e sua moglie Gretel «è esaurita già da anni ormai».

- Marco Pacioni - Pubblicato sul Manifesto del 12/7/2017 -

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Quell’instancabile desiderio di libertà
- di Gianpaolo Cherchi -

«In una situazione senza uscita non ho altra scelta che quella di farla finita». Sono le ultime parole che Walter Benjamin scrisse ad Adorno quando, braccato dai nazisti e bloccato dalla polizia di frontiera spagnola, decide di togliersi la vita con una overdose di morfina. Il pomeriggio successivo, a confermare l’avversità della sorte nei suoi confronti, sarebbe arrivato il visto che gli avrebbe consentito di imbarcarsi negli Stati Uniti. È il noto epilogo di una vicenda esistenziale costellata da delusioni e fallimenti senza sosta, l’atto definitivo di una vita mutilata e offesa, su cui la sfortuna non ha smesso di accanirsi nemmeno dopo la morte: il suo cadavere verrà gettato in una fossa comune, rendendo così impossibile qualsiasi identificazione.
C’è tuttavia, nella sventura benjaminiana, una purezza straordinaria, data da un instancabile desiderio di libertà. Troppo spesso, infatti, si è guardato al pensiero di Benjamin con giudizio malinconico e arrendevole, come se i fallimenti della sua esistenza si siano riversati in ogni riga e in ogni parola dei suoi scritti. Si è diffusa perciò l’immagine di Walter Benjamin «magnifico perdente», il cui pessimismo malinconico si riflette nello sguardo dell’angelo della storia: così come quest’ultimo viene spinto verso la bufera, che si impiglia nelle sue ali e gli impedisce di fermarsi, allo stesso modo Benjamin, con la sua imperizia, con la precisione di un sonnambulo (come racconta bene di lui Hannah Arendt) riusciva a dirigersi sempre al centro della catastrofe.
Se si osserva per un momento quell’uomo cardiopatico, logorato nel corpo e nello spirito dall’internamento nei campi di prigionia nazisti, che fino all’ultimo cerca disperatamente la sua redenzione, inerpicandosi lungo un pietroso sentiero dei Pirenei; se ci si sofferma con attenzione su questa goffa figura che porta con sé una valigetta nera contenente pagine ben più importanti, a suo dire, della sua stessa vita, si noterà che quanto più la sventura lo perseguitava, tanto più egli era in grado di tirare fuori frutti spirituali di infinito valore. Se si osserva con la dovuta cura l’opera di Walter Benjamin si riuscirà a vedere un instancabile combattente, sempre disposto a sondare con determinazione eroica ogni ambito del sapere, mai pago delle consolazioni date dalle varie forme di rappresentazione della realtà e sempre alla continua ricerca di esperienze in grado di rivoluzionarla.
È da una simile prospettiva che si deve guardare alla recente pubblicazione degli scritti politici benjaminiani, nel volume curato da Massimo Palma ed edito da Castelvecchi, il cui titolo è emblematico: Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940) (pp. 304, euro 25). La Politik è infatti un oggetto teorico frammentato, sparso, dissolto sottotraccia e sedimentatosi nell’intero quadro dell’opera di Benjamin senza un intento sistematico preciso. Una «teleologia acefala», priva appunto di quell’elemento di finalità che si determina nell’idea kantiana di un soggetto morale che agisce nel mondo. Uno spazio vuoto, quello della finalità della politica, che se da un lato inquieta, dall’altro invita ad andare oltre una prospettiva banalmente soggettivistica, a rimodellare e a riformulare la nostra esperienza stessa di soggetti.
È questa l'essenza della Kritik benjaminiana: un nichilismo metodico che deve fare tabula rasa di una concezione tutta moderna dell’esperienza, ormai non più in grado di ricongiungerci autenticamente con il nostro intero patrimonio culturale. L’esperienza del soggetto si configura come una «acquiescenza confacente» in cui «il senso della relazionalità si ottunde man mano che il meccanismo sociale funziona», come ben scrive Libero Federici nel suo Il misterioso eliotropismo. Filosofia, politica e diritto in Walter Benjamin (Ombre Corte, pp. 141, euro 13). Il merito di questo bel saggio è ricostruire i nodi tematici principali della riflessione benjaminiana mettendone in risalto la posta in gioco politica. Questa consiste nel continuum del rapporto identitario fra violenza e diritto, che rende il dominante di ogni epoca l’erede di tutti coloro che hanno sempre dominato nella storia.
Ecco dunque la povertà che caratterizza l’uomo moderno, la sua ricaduta nella barbarie mitica, prodotto di una Kultur che non è altro che pura mimesis, «assimilazione levigata al meccanismo sociale». L’immedesimazione emotiva con i vincitori va sempre a vantaggio dei dominatori del momento. È questa la civiltà, il corteo trionfale in cui i dominatori danno mostra del loro bottino: un patrimonio culturale in cui ogni documento è sempre anche, e soprattutto, un prodotto della barbarie, il risultato di un servaggio, di un abuso, di una violenza amministrata, e perciò riprovevole, perché esercitata storicamente come diritto.
Si spiega allora la necessità di fare tabula rasa di questa esperienza su cui si è edificato il soggetto moderno: un soggetto povero a cui la storia, con il suo continuum, ha negato il fondamentale diritto alla differenza.
Scardinare questo continuum della storia diventa allora il compito autentico della Politik benjaminiana, che è priva di finalità, appunto, perché il modello di storia a cui fa riferimento è fondato sullo Jetztzeit, su una nozione del presente che non è transizione temporale, mero passaggio, ma al contrario stasi, arresto: quell’adesso che rappresenta il freno d’emergenza politico della storia, la chance sempre attuale della differenza.
È in questo «adesso» che si inserisce l’interessante saggio di Giuseppe Buondonno, Il soggetto rivoluzionario. Attualità di Walter Benjamin (Ombre Corte, pp. 142, euro 13), dove la battaglia benjaminiana sul vero concetto di storia viene presentata come quella battaglia «che consente al soggetto la comprensione critica di sé stesso». Infatti «solo il soggetto che distrugge l’immagine reificata di sé può reinterpretare la realtà e la propria storia, può essere altro».
L’attualità del pensiero di Benjamin consisterebbe allora nella sua capacità di restituire al soggetto di oggi la vitalità del pensiero di Marx, ovvero la possibilità di cogliere nella lotta di classe quella capacità di «esprimere i processi storici come soggettività reale»: una precisa prassi politica in cui il soggetto rompe lo scrigno incantato della naturalezza apparente dei rapporti sociali per riconoscersi come «sostanza cosciente della storia», in grado perciò di articolare storicamente il passato, e di distruggere il continuum ideologico del dominio. Ma si badi, non si parla qui di un soggetto monolitico, omogeneo, coerente con sé stesso e autoreferenziale nelle sue varie modalità di esperienza del mondo: non si tratta, banalmente, del soggetto kantiano, trascendentale e piatto, ma di un soggetto rivoluzionario, storico, che incorpora in sé stesso l’elemento distruttivo, la crisi, e che sulla crisi si costituisce. Nella storia, infatti, «non si tratta mai di risposte evolutive alla crisi (anche nel caso delle risposte democratiche), ma di risposte soggettive al movimento reale di un soggetto determinato».
Ecco apparire, allora, di nuovo, la centralità della lotta di classe: la contraddizione, l’espressione più acuta ed evidente del carattere soggettivo della trasformazione storica. Sarebbe sempre il soggetto, quindi, nella lettura di Buondonno, a rappresentare la capacità di trasformare il punto di vista sulla storia, a generare la rottura con la tradizione, ad assumere su di sé la distanza critica della mediazione dialettica.
Un’idea forte di soggettività rivoluzionaria, che si costruisce nel rapporto con quelle esperienze capaci di produrre un punto di vista critico verso quei processi che hanno progressivamente svuotato e impoverito la nostra eredità umana, gettandoci nuovamente nella barbarie. Barbarie che, tuttavia, ha anche una valenza positiva, perché ci induce a ripartire da zero, a ricostruire una coscienza dei soggetti. «La possibilità del radicalmente nuovo nasce proprio dalla coscienza del radicalmente povero». Lasciarsi attraversare dal negativo, dunque, organizzare politicamente il pessimismo. Questo è il messaggio politico autentico di Benjamin. Contro ogni estetizzazione della politica, è necessario invece riorganizzare i disperati, gli ultimi, le rovine frammentate della storia. Non più piangere, non più sperare, ma cercare nuove armi.

- Gianpaolo Cherchi - Pubblicato sul Manifesto del 25.7.2017 –<

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