mercoledì 31 gennaio 2018

Il BIG BOOM-BUST

madera

Madeira, l'isola che ha contribuito ad inventare il capitalismo.
- di Matthew Wills -

Oggi Madeira è nota per il suo vino ed il suo turismo, ma i visitatori non sospettano nemmeno che quell'isola sia stata una delle culle del capitalismo. Secondo alcuni storici, la "Commodity Frontier" [La frontiera delle materie prime], che si sposta, via via che la terra viene privata delle sue sostanze nutritive e le foreste vengono abbattute, ha avuto inizio a Madeira. Infatti, uno degli avventurieri che aveva imparato il riciclaggio monetario attraverso la brutalità della schiavitù sull'isola, era stato Cristoforo Colombo, il quale aveva già allenato lo sguardo più ad ovest.
Il modello boom-bust [serie di cicli di impennate e crolli dei prezzi], sviluppato e applicato per la prima volta sull'isola, riproduceva lo schema di quello che gli storici chiamano "ecologia-mondo del capitale". Jason W. Moore descrive questo sistema come una sorta di miscelare insieme «la produzione della natura, la ricerca di energia, e l'accumulazione di capitale, il tutto visto come un insieme organico», un sistema sociale che colonizza tutta la Terra stessa. Si tratta di un sistema che si era mosso andando al di là delle sue radici europee, arrivando nel Nuovo Mondo, in Asia, e in Africa.
Madeira, 560 chilometri ad ovest del Marocco, ha una superficie di 741 chilometri quadrati. La colonizzazione portoghese ha avuto inizio nel 1420. L'isola, ricca di foreste e disabitata, venne dapprima popolata con mucche, maiali, e pecore, che per mezzo del pascolo diedero inizio al processo di cambiamento del paesaggio. L'isola trasse il nome da quello del suo legname (madeira), che era stata la sua prima merce ad essere esportata. Poi, il grano coltivato per il Portogallo sostituì le foreste. Si trattava, sostiene Moore, di una transazione economica essenzialmente medievale, rimasta immutata dai tempi dell'Impero Romano: le materie prime di base venivano rimandate indietro verso il centro coloniale.

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Ma a partire dagli anni 1490, Madeira era entrata a far parte di un nuovo sistema economico Mediterraneo-Europeo, controllato dalla corona portoghese e finanziato dai banchieri di Genova e delle Fiandre. Gli schiavi provenienti dalle isole Canarie e dall'Africa continentale vennero utilizzati per scavare 2.100 chilometri di canali di irrigazione necessari alla fiorente industria dello zucchero che riforniva i golosi del Portogallo e del resto dell'Europa. Nel giro di pochi decenni dalla sua scoperta, la piccola Madeira aveva superato tutti gli altri siti europei nei quali si produceva zucchero.
Così come viene descritto da Moore, questo fu il primo grande "boom and bust" [impennata e crollo dei prezzi] del capitalismo emergente. Nel 1472, «l'isola aveva esportato 280 tonnellate [di zucchero], arrivando nel 1506 ad un picco di quasi 2.500 tonnellate», ma nel 1530, la produzione era diminuita quasi del 90%. «Dire zucchero significa dire deforestazione», scrive Moore, sottolineando il fatto che solo la metallurgia aveva divorato le foreste così rapidamente come aveva fatto lo zucchero: una «libbra di zucchero richiedeva non meno di 50 libbre di legna da ardere (e questa che stiamo facendo è una stima prudente)». Verso gli anni 1530, su Madeira non c'era più disponibile abbastanza legno per alimentare le caldaie. (La topografia assai scoscesa dell'isola era riuscita a mantenere invariata in qualche modo la vecchia produzione). E nel 1560, il vino aveva sostituito lo zucchero, come prodotto da esportazione più famoso di Madera. Già nel diciassettesimo secolo, il legno per le botti di vino doveva essere importato dal New England!Era nata a Madeira quella che Moore chiama «una civiltà che unisce la conquista infinita della natura e l'accumulazione infinita». Tutto questo avvenne in maniera assai più estesa e assai più rapida di qualsiasi altra cosa conosciuta nel Medioevo. In era feudale, «il commercio seguiva le persone» che si erano stabilite nelle nuove aree. Dopo il 1450, «le persone seguivano le materie prime» - spesso controvoglia, dal momento che questo genere di produzione dipendeva da milioni di schiavi.

- Matthew Wills - Pubblicato l'11 dicembre 2017 sul JSTOR.Daily -

fonte: JSTOR.Dailly

martedì 30 gennaio 2018

Tapis Roulant

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Coniugando i metodi etnografici e comparativi dell'antropologia con materiali storici e sociologici (dall'economia politica alla biofisica ecologica) - e considerando temi quali il consumo di energia, l'urbanizzazione, la gestione dei rifiuti, la mobilità umana e la diffusione delle tecnologie d'informazione -, Fuori controllo offre un'inedita prospettiva rispetto alle drammatiche urgenze della contemporaneità.
Densa, veloce, surriscaldata; contraddistinta da ineguaglianze e iniquità. È l'età dell'Antropocene, il segno indelebile dell'umanità sul pianeta. È la globalizzazione - ma non come la conosciamo. Thomas Hylland Eriksen dà nuova linfa alla discussione intorno alla modernità globalizzata, adottando l'approccio antropologico nell'analisi di tre crisi interconnesse: ambientale, economica e identitaria. Se è vero che queste crisi sono globali per ampiezza, vengono però percepite e subite a livello locale, e sono moltissime le contraddizioni che sorgono tra le forze di standardizzazione dell'età dell'informazione del capitalismo globale e la natura socialmente stratificata delle vite individuali. Se il globale è di fatto ingovernabile, una possibile forma di opposizione consisterà per l'autore nell'individuare tattiche e interventi legati a congiunture e contesti locali: resistenze e strategie di sopravvivenza che possono invertire il corso di un mondo in crisi e prossimo alla catastrofe.

(dal risvolto di copertina di: Thomas Hylland Eriksen: Fuori controllo, Einaudi)

Lo stress per il dominio del mondo
- di Teresa Numerico -

 
La sindrome da tapis roulant è descritta da Lewis Carroll in Alice: all’arrivo della regina di cuori Alice è spinta a correre più forte possibile, eppure ha la sensazione di non muoversi per niente. La risposta è che lì si corre a più non posso per restare fermi. Il regime di competizione al quale siamo sottoposti nelle società contemporanee induce le persone a faticare enormemente solo per non retrocedere, e questo produce l’effetto burned-out (bruciato, esaurito), l’esaurimento psichico da stress.
La competizione da tapis roulant è uno dei concetti usati da Thomas Hylland Eriksen – un eminente antropologo sociale norvegese – per articolare l’analisi etnografica del suo ultimo libro Fuori controllo (Einaudi, pp. 217, euro 20). Il lavoro si concentra sulle conseguenze sociali e antropologiche della globalizzazione spaziando dall’industria estrattiva energetica, alla mobilità internazionale, dall’organizzazione delle città, alla gestione complessa dei rifiuti, passando per le trasformazioni delle tecnologie della comunicazione.
Dappertutto assistiamo al surriscaldamento e all’accelerazione dei processi dovuta allo sviluppo energetico e tecnologico. Eppure l’intenso sfruttamento delle risorse naturali che aumenta il benessere e la ricchezza del mondo è uno di quei fenomeni «fuori controllo» che usando un concetto di Gregory Bateson – uno degli ispiratori di Eriksen – si possono spiegare con la schizogenesi di un sistema a feedback positivo che non smette di amplificare i propri effetti, replicandosi. Qualora non incontri un agente esterno capace di contenerlo, esplode producendo conseguenze catastrofiche. Il successo incontrastato del neoliberalismo conduce a esiti potenzialmente distruttivi di lungo periodo, come l’esaurimento delle risorse, il surriscaldamento globale, la riduzione della flessibilità del sistema, la distruzione delle condizioni di possibilità di certi stili di vita e la conseguente espulsione delle persone che li adottavano.
Tuttavia, pur essendo chiaro che ci sono dei limiti allo sfruttamento delle risorse disponibili, nessuno è pronto a rinunciare al proprio benessere o alla prospettiva di miglioramento della propria condizione economica. Si tratta del «doppio legame» introdotto ancora da Bateson: la politica bifronte da una parte favorisce lo sviluppo che consuma risorse ecologiche e, dall’altra, firma gli accordi di Parigi per limitare le emissioni di CO2. L’educazione basata sul doppio legame spinge le persone alla follia. Cosa succederà alle nostre società contraddittorie e iperconnesse?
Per Eriksen non c’è un’unica via d’uscita dal doppio legame che ci governa e non possiamo attribuire la responsabilità del disastro all’avidità delle multinazionali estrattive e di tutte le altre industrie che ne adottano i metodi intensivi anche in ambito tecnologico. Incolpare il sistema neoliberale della tragedia imminente non è giusto né proficuo, significa scaricare il barile di rifiuti tossici da un’altra parte, senza trovare una soluzione sistemica. Bisogna invece progettare delle soluzioni glocali capaci di tenere conto delle specificità dei luoghi e del carattere generale dei processi globali in corso. Siamo tutti immersi nell’alterità e nella super-diversità e tutti partecipiamo delle responsabilità per l’attivazione di un dialogo e di soluzioni per problemi complessi che non sono stati creati da noi, ma che impattano costantemente sulle nostre vite. Sebbene talvolta la descrizione a volo d’uccello dei fenomeni messi a confronto possa apparire troppo generica, soprattutto nella parte dedicata alle tecnologie, il lavoro dell’antropologo norvegese è stimolante e originale.
Eriksen sarà in questi giorni al festival Pordenonelegge (domenica 17 settembre, alle 10.30 nell’Auditorium dell’Istituto Vendramini) per presentare il suo libro.

Nel suo ultimo volume «Fuori controllo» si discute di alcuni effetti della globalizzazione che vanno dall’eccesso di rifiuti, all’«information overload», fino al traffico nei grandi agglomerati urbani. Perché ritiene che siano le aree più interessanti per comprendere il surriscaldamento del pianeta?

Avrei potuto scegliere altri esempi per spiegare il surriscaldamento, letteralmente un insieme di processi di crescita interconnessi e accelerati che sono, in ultima analisi, largamente distruttivi per il pianeta e la società umana. Per esempio, la crescita nei commerci mondiali stimolata dal completo dominio delle navi da container è cruciale, come lo sono le bolle finanziarie. Ho scelto queste aree in parte per la loro importanza intrinseca per comprendere il mondo – il consumo di energia e la rivoluzione informatica sono tra le caratteristiche principali del mondo surriscaldato – ma anche perché i lettori dentro e fuori dall’antropologia potranno facilmente collegare questi temi al proprio quotidiano.

Nel libro si parla di differenze di scala nei processi e di come questi diversi livelli di impatto dei fenomeni producano costantemente contraddizioni. Nella sua visione, il conflitto vero non è tanto tra locale e globale in sé, ma piuttosto nell’opposizione tra astratto, universale e particolare… È così?

Sono convinto che una corretta comprensione di queste differenze di scala in conflitto siano essenziali per venire a patti con il mondo contemporaneo. La logica del pianeta surriscaldato e del capitalismo contemporaneo implica che più grande è meglio, e in economia come in politica, più grande significa più astratto e distante.
Le decisioni che hanno conseguenze sulla nostra vita sono prese molto lontano, e sebbene possiamo avere una completa libertà di espressione a disposizione, possiamo fare poco per influenzarne l’esito. Questi salti di livello producono risentimento, disperazione e controreazioni in tutto il mondo, dalla politica dell’identità militante, fino alla ritirata nel nazionalismo. Le persone continuamente si chiedono «di chi è la colpa, e cosa posso fare?» e quando le cause dei loro problemi locali come l’inquinamento o la disoccupazione sono – diciamo – cambiamenti nel prezzo del carbone o trasformazioni climatiche, diventa molto difficile rispondere a queste domande.

Sebbene nei processi di globalizzazione ci sia una forte asimmetria di poteri in azione tra i vari protagonisti dei cambiamenti, nel libro si critica l’idea che le aziende multinazionali e le politiche neoliberali siano responsabili dei fenomeni di surriscaldamento e accelerazione. Può spiegarci perché?

Possono sembrare come i grandi colpevoli, ma le multinazionali sono solo sintomi, possibili grazie ai mercati deregolamentati, che a loro volta sono resi possibili dai cambiamenti tecnologici come la comunicazione in tempo reale via Internet, la riduzione dei costi dei trasporti per la standardizzazione dei container e per altre forme di razionalizzazione. Dobbiamo guardare alla tecnologia, e al modo in cui viene applicata, per trovare le cause. Ma c’è anche una logica inerente alla modernità, che favorisce il cambiamento e la crescita in molti campi, perché li considera segnali di sviluppo e di miglioramento in se stessi. Tale tendenza funziona a un livello anche più profondo del semplice capitalismo.

Il suo suggerimento per l’uscita dai fenomeni contraddittori dello sviluppo accompagnati da accelerazione e sovraccarico con conseguente surriscaldamento dei sistemi è quindi costruire una dimensione culturale creola, basata sul dialogo possibile grazie alle tecnologie della comunicazione…

Una cultura creola suona bene – un sistema di vita misto, bastardo dove molti mondi di origini diverse si incontrano e si integrano per trovare un linguaggio condiviso attraverso cui parlare delle sfide comuni. Forse questa è la possibilità più promettente e l’aspetto più positivo del nostro mondo strettamente integrato, frenetico e autodistruttivo: siamo finalmente capaci di parlarci e di sviluppare una conversazione globale. Nonostante l’avvento del presidente di Twitter, la diffusione delle fake news, la popolarità delle teorie cospiratorie, il fanatismo religioso e le ideologie retrograde, anno dopo anno le persone cominciano a realizzare di vivere in un pianeta condiviso. Ci sono 7.5 miliardi di persone nel mondo e dobbiamo trovare urgentemente modi per vivere, non solo insieme, ma anche facendo pace con il resto dei viventi.

Non si vede all’orizzonte un’unica proposta no global contro gli effetti di surriscaldamento della globalizzazione, tuttavia lei crede nella possibilità di soluzioni diverse, flessibili, mutevoli e locali per contrastare il problema dei limiti dello sviluppo. Può aiutarci a capire meglio?

In effetti non c’è nessuna soluzione universale al casino nel quale ci troviamo. Continuiamo ad aver necessità di istituzioni su larga scala. Qualcuno deve negoziare gli accordi sul clima, qualcuno deve costruire ospedali. Dobbiamo rafforzare la nostra consapevolezza globale e non ritirarci in mondi ristretti.
Ma tutte le soluzioni hanno bisogno di essere ancorate localmente perché le persone riguadagnino il controllo delle loro vite e si liberino del potere distruttivo delle corporazioni guidate dal profitto. Raffreddamento, rallentamento e resistenza contro le forze che ci invadono dovrebbero essere ora le nostre prime priorità.

-Teresa Numerico - Pubblicato sul Manifesto del 12.9.2017

lunedì 29 gennaio 2018

Leggendo Postone

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Secondo Moishe Postone, finché la schiavitù salariale è autorizzata ad esistere, essa continuerà a ricostituire sé stessa come necessaria. Sta in questo il significato di ogni crisi capitalista:

«Nel quadro dell'analisi di Marx, la spinta all'aumento continuo della produttività porta ad una sempre maggiore importanza della scienza e della tecnologia nella produzione. Vale a dire, che la dinamica del capitale genera storicamente un rapido accumulo di conoscenza sociale generale. La tendenza a lungo termine di questo sviluppo storico è far sì che la produzione venga ad essere basata sul tempo di lavoro - cioè, sul valore e, perciò, sul lavoro proletario - in maniera sempre più anacronistica. Da un lato, questo apre alla possibilità di una riduzione generale, su larga scala sociale, del tempo di lavoro, e a dei fondamentali cambiamenti nella natura e nell'organizzazione sociale del lavoro; il che suggerisce che, per Marx, l'abolizione del capitalismo non implicherebbe l'auto-realizzazione del proletariato, ma la sua auto-abolizione.»

«E tuttavia, dall'altro lato, dal momento che la dialettica della trasformazione e della ricostituzione non solo fa aumentare la produttività, ma ricostituisce anche il valore, ha come risultato anche quello di ricostituire la necessità del lavoro che crea valore, cioè, lavoro proletario.»

«La dinamica storica del capitalismo, quindi, punta sempre più ad andare oltre la necessità del lavoro proletario mentre ricostituisce quella stessa necessità. Queste due cose creano la possibilità di un'altra organizzazione della vita sociale e tuttavia impediscono che tale possibilità venga realizzata.»

(-da:  Moishe Postone - La crisi attuale e l'anacronismo del valore: una lettura marxiana –)

Nel seguente passaggio, Postone usa il termine, "valore", ma essenzialmente intende dire "salario".

«Nel contesto dell'approccio qui delineato, il carattere sempre più anacronistico del valore [salario] in assenza del diffondersi di un immaginario relativo ad un futuro senza valore [salari] - cioè, un futuro post-proletario - sta avendo delle conseguenze economiche, sociali, politiche, ed ambientali enormemente distruttive. È il capitale stesso, nel suo sviluppo, che ci sta ponendo sempre più severamente la scelta fra socialismo e barbarie.»

(Moishe Postone, The Current Crisis and the Anachronism of Value: A Marxian Reading.)

Finché i comunisti non saranno disposti a mettere in discussione il sistema salariale stesso, continueranno a scegliere - inconsciamente - la barbarie, vale a dire, il fascismo. Questo è inaccettabile.

Nel testo che segue ho leggermente alterato quanto ha scritto Postone, per rimuovere l'astrattezza relativa alle categorie di analisi di cui egli fa uso, e per potere così scoprire il verso senso di questo discorso. In particolare, ho sostituito, al termine valore, il termine salari, di modo da vedere così quanto impatto possa avere il suo significato. Non posso dire con certezza che una simile procedura sia valida, ma ha una notevole risonanza dal punti di vista strategico.

Da:
«Affermare, come fa Marx, che il valore è storicamente specifico del capitalismo significa affermare non solo che le società non capitaliste non erano strutturate dal valore, ma anche che inoltre una società post-capitalista non sarebbe basata sul valore. Questo, a sua volta, implica che la tendenza del capitale è quella di rendere il valore sempre più anacronistico.»

A, quindi:
«Affermare, come fa Marx, che il SALARIO è storicamente specifico del capitalismo significa affermare non solo che le società non capitaliste non erano strutturate dal SALARIO, ma anche che inoltre una società post-capitalista non sarebbe basata sul SALARIO. Questo, a sua volta, implica che la tendenza del capitale è quella di rendere il SALARIO sempre più anacronistico.»


Se sto leggendo Postone in maniera corretta, allora, non c'è modo che una società post-capitalista possa tollerare dei salari, o il lavoro salariato. in una qualsiasi sua forma. L'abolizione del capitalismo richiede immediatamente l'abolizione dei salari e del lavoro salariato. Niente di meno di questo funzionerà.

In un altro breve passaggio, Postone scrive: «a critical theory should be able to problematize its own historical situatedness.» [«Una teoria critica dovrebbe essere in grado di problematizzare la propria situazionalità»]. Quando ho letto quest'affermazione per la prima volta, non avevo alcuna idea di cosa Postone intendesse dire. Poi, indagando:

Problematizzare: 1) Trasformare qualcosa in un problema; 2) considerare qualcosa come se si trattasse di un problema; 3) esaminare qualcosa in modo approfondito e articolato. A partire da questo, si potrebbe parafrasare l'affermazione di Postone: «Una teoria critica dovrebbe essere in grado di spiegare sé stessa all'interno di un dato contesto storico specifico.»

Perché il valore oggi è anacronistico, e quando Marx scrisse il capitale non lo era? O più concretamente, perché oggi i salari sono anacronistici . e quando Marx scrisse il capitale non lo erano?
Nella seconda domanda, sostituisco "valore" con "salari", cioè, sostituisco al "valore" il valore di scambio della forza lavoro. Si potrebbe obiettare a questo tipo di riduzione, ma io ritengo che sia valida come sostituzione, sulla base del fatto che esiste una sola vera merce capitalista: la forza lavoro. E quindi il suo valore di scambio è il salario. In sostanza, nel modo di produzione capitalista, l'unico valore che conta è il valore (ossia, il tempo di lavoro socialmente necessario) della forza lavoro.

Affermandolo chiaramente (e forse assolutamente troppo presto), Postone deve ancora dimostrare come avviene che i salari, che una volta erano uno stimolo alla produzione sociale, ora funzionano come un ostacolo alla produzione sociale. Ma Postone si limita solo a fare quest'asserzione proponendo il valore come anacronistico, senza dimostrarlo. Ma non è solo Postone a non riuscire a dimostrare la sua tesi centrale. Nessuno si è mai preso la briga di indagare circa la questione di stabilire che cosa costituirebbe una prova della sua tesi secondo la quale ora il valore (il salario) sarebbe anacronistico. Alcuni autori hanno suggerito che la teoria di Marx non può essere né dimostrata né smentita; ma piuttosto essa serve a fornire una struttura che può servire da supporto per l'analisi delle relazioni sociali all'interno del modo di produzione capitalista.
Sono assolutamente in disaccordo con un simile punto di vista: Marx riteneva chiaramente che le sue idee fossero scientifiche e che avrebbero dovuto essere sottoposte al confronto con delle prove empiriche, che le avrebbero sostenute o le avrebbero rese false. Accettare la lettura di Marx che viene fatta da Postone, implica anche che tale lettura debba essere verificata o invalidata, sulle basi delle attuali prove empiriche.

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Secondo Postone, il termine "capitalismo" è stato reintrodotto come concetto che permette di afferrare il nostro tempo. Come capitalismo si dovrebbe intendere soprattutto una forma storicamente specifica di vita sociale che fondamentalmente ha trasformato ed ha costituito il pianeta. Una teoria che possa essere in grado di cogliere adeguatamente il carattere dinamico di questa forma di vita sociale può essere sviluppata in maniera più rigorosa sulla base di una rinnovata lettura delle opere del Marx maturo.
Sebbene io sia fondamentalmente d'accordo con Postone su un tale punto di vista, il suo recente discorso, «L'Attuale Crisi e l'Anacronismo del Valore: una Lettura Marxiana», mi dà modo di evidenziare delle lacune in un approccio con il quale per lo più sono d'accordo.

Ecco, qui di seguito, il genere di eventi, fra i più disparati, che Postone ritiene possano essere spiegati dalla sua "rinnovata lettura" della teoria di Marx:

- L'elezione di Donald Trump, il voto sulla Brexit, e l'ondata di populismi di destra che ha investito gran parte dell'Europa.
- Il persistere dell'esistenza di gravi crisi economiche.
- Le trasformazioni strutturali delle società industriali.
- Il fallimento della via statalista alla accumulazione nazionale di capitale.
- La sempre più crescente finanziarizzazione della vita sociale.
- Il prevalere della povertà di massa.
- Lo sfruttamento strutturale su scala globale.
- La crescita drammatica della disuguaglianza.
- Il degrado ambientale.
- Lo svuotarsi del lavoro.

Postone in realtà deve dimostrare che, ad un qualche livello, «l'elezione di Donald Trump» sia connessa al «fallimento del modello di crescita economica diretta dallo Stato», e che entrambe queste cose devono essere spiegate per mezzo di una «forma storicamente specifica di vita sociale che costituisce il mondo». L'unica cosa che sappiamo è che l'intuizione di Postone riguarda il fatto che tutte queste cose possono essere spiegate per mezzo di uno stesso identico processo capitalista. Ma L'intuizione di Postone non è una prova.

Come primo passo, nell'offrire delle prove che sorreggano le sue intuizioni, Postone propone quello che dice sia un modello globale in cui inquadrare molte delle questioni sollevate, e a partire da questo suddivide i punti della lista in più categorie:

- Cambiamenti economici, tra cui l'aumento della disuguaglianza, la crescita del PIL, i salari e l'occupazione industriale.
- Cambiamenti politici, inclusi quelli riguardo le forme dello Stato borghese.
- Un modello globale di crisi.

Postone ci dà l'esempio di un modello di cambiamento economico:
«Significativamente, questo modello di un cambiamento nella disuguaglianza è sovranazionale ed è parallelo ad altri modelli generali. Per esempio, il tasso medio di crescita economica per i paesi capitalisti avanzati è stato relativamente basso durante la prima metà del secolo, e poi è più che raddoppiato nel periodo verso la metà del 20° secolo - che è stato anche il periodo di minor disuguaglianza. Poi, a partire dall'inizio degli anni '70, questo processo si è invertito: con il crescere della disuguaglianza, la crescita economica è diminuita.»

Postone asserisce che questo stesso modello può essere trovato in tutta una serie di altri indicatori economici, inclusi i cambiamenti nel tasso di PIL pro capite, nei salari e nei posti di lavoro manifatturieri, i quali mostrano tutti dei modelli simili fra loro.
Nello stesso periodo, in coincidenza con questi cambiamenti, c'è un cambiamento ancora più importante nella forma dello Stato: L'emergere, l'evoluzione ed il collasso finale di quello che Postone chiama «capitalismo fordista Stato-centrico».
«La sostituzione del capitalismo liberale del 19° secolo con il capitalismo fordista Stato-centrico, già fin dall'inizio della prima guerra mondiale e della rivoluzione russa, arrivato al suo apice nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, ed al suo declino dopo l'inizio degli anni '70, e poi la sostituzione, a sua volta, con il capitalismo globale neoliberista.»

In questi modelli Postone vede in maniera distinta un modello di sviluppo globale:
«Quello che è importante in questa traiettoria, è il suo carattere globale. Esso ha compreso sia i paesi capitalisti occidentali sia i paesi comunisti, così come le terre colonizzate ed i paesi decolonizzati.»
Ci sono delle differenze, ammette Postone, ma tali differenze non appaiono essere significative.
«Sebbene si siano verificate delle importanti differenze nello sviluppo storico avvenuto, naturalmente, dal punto di vista privilegiato del 21°secolo, queste differenze appaiono più come delle modulazioni di quello che è un modello comune, piuttosto che degli sviluppi fondamentalmente differenti. Ciò non significa che questo modello sia omogeneo o modulare. Il modo in cui viene compresa l'irregolarità, ad ogni modo, dipende da come vengono compresi gli sviluppi storici globali della modernità.»
Il carattere globale di questi modelli suggerisce il dispiegarsi di una necessità immanente al capitalismo stesso, che Postone chiama "Unfreedom" ["Mancanza di Libertà"]:
«Questa forma di mancanza di libertà... è l'oggetto centrale della critica che fa Marx dell'economia politica, e che fonda il carattere storico dinamico ed i cambiamenti strutturali del mondo moderno secondo dei vincoli e degli imperativi che sono storicamente specifici della società capitalista.»

Sono del tutto scettico per quel che riguarda la dipendenza di Postone dal libro di Piketty sulla disuguaglianza e la sua presunta connessione ai cambiamenti nei modelli di crescita nei paesi capitalisti nelle ultime centinaia di anni. Trovo sciagurato che Postone basi la sua argomentazione sul lavoro di Piketty.
Le mie ragioni sono molteplici: in primo luogo, l'approccio di Piketty non è coerente con quello proprio di Marx. Piketty non sa niente della teoria del valore del lavoro e non ne fa alcun uso nella sua discussione sulla disuguaglianza. Questo significa che dovremmo ammettere che le scoperte sulla disuguaglianza fatte da Piketty abbiano una qualche fondatezza all'interno della teoria di Marx. In secondo luogo, è la categoria stessa ad essere sospetta. Non so niente di alcuna corrispondenza di questa categoria nella teoria di Marx. Introdurre nella discussione la categoria di Piketty, significa distrarsi inutilmente rispetto alla discussione di Postone.

Per fare un esempio: in Unione Sovietica, secondo la maggior parte delle fonti che ho letto, la distribuzione del reddito, misurata in rubli, è stata abbastanza piatta fino al momento in cui ha collassato. Il modello globale discusso da Postone non è per niente evidente in Unione Sovietica. Similmente, per quel che posso dire, i salari e l'occupazione industriale mostrano poco o niente del modello visibile in Occidente, fino a quando l'Unione Sovietica non è realmente crollata.
Indipendentemente dai modelli globali, le intuizioni di Postone devono verificarsi ad un livello di analisi che non coinvolge la disuguaglianza, i salari o l'occupazione. Eppure, sembra che in Unione Sovietica la discesa verso la stagnazione sia strettamente parallela alla discesa simile avvenuta negli Stati Uniti e nell'Occidente in generale. Postone ha ragione a richiamare l'attenzione ad un simile ravvicinato parallelo, ma egli non lo spiega semplicemente a partire dal carattere globale del modello.
Se la tesi centrale di Postone va difesa, allora bisogna che Postone mostri perché l'Unione Sovietica si adatta a quello che Postone chiama il puzzle del modello globale, nonostante significative differenze.

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«Marx afferma esplicitamente nei Grundrisse che le sue categorie fondamentali non sono trans-storiche, ma storicamente specifiche. Perfino delle categorie come il denaro ed il lavoro che appaiono trans-storiche a causa del loro carattere generale ed astratto, secondo Marx sono valide nella loro astratta generalità solo per la società capitalista.»
Qui, Postone chiarisce che le categorie del capitale non devono essere comprese in maniera trans-storica, ma solo a partire dal modo in cui compaiono nel modo di produzione capitalista.
Cosa significa questo?
Nel caso della merce, spiega Postone, Marx «non si riferisce alla merci, come se esse potessero esistere in molti diversi tipi di società.» Nel modo di produzione capitalista, l'unica vera merce immanente (nativa? peculiare?) a quella forma di società è la forza lavoro. Mentre le merci possono essere prodotte in molte differenti forme di società, la forza lavoro è la sola merce specifica del capitalismo
Postone spiega il significato di questa caratteristica della merce nella sua forma capitalista, vale a dire, la sua forma come forza lavoro.
«Marx prende il termine e lo usa per riferirsi alla relazione sociale più basilare della società capitalista, la sua forma fondamentale di mediazione sociale e di principio strutturante. Questa forma, secondo Marx, è caratterizzata da un duplice carattere storicamente specifico (valore d'uso e valore). Egli perciò cerca di spiegare la natura e la dinamica sottostante alla modernità capitalistica a partire dal carattere duplice di questa forma strutturante, a partire dalle interazioni delle sue dimensioni costitutive. Al cuore della sua analisi c'è l'idea che il lavoro nel capitalismo ha un'unica funzione socialmente mediatrice che non è trans-storicamente intrinseca all'attività lavorativa.»

Il valore d'uso della forza lavoro sta nel fatto che essa è l'unica fonte di valore e di plusvalore; mentre il valore della forza lavoro è espresso nei salari pagati per la forza lavoro. In primo luogo, nel modo di produzione capitalista, in primo luogo quello che il lavoro produce è la forza lavoro della società, e non metri di stoffa o cappotti. Nel modo di produzione capitalista, il lavoro viene trasformato dall'essere semplicemente un mezzo per produrre scarpe, cappotti e biancheria in un'attività che media (espande?) sé stessa, vale a dire, viene trasformata in lavoro salariato.
Il lavoro salariato non è il lavoro così come viene inteso trans-storicamente; ma è un lavoro senza sosta che si auto-espande.
«Nelle opere mature di Marx, quindi, il concetto di centralità unica del lavoro nella vita sociale non è una proposizione trans-storica. Piuttosto, si riferisce alla costituzione storicamente specifica di una forma di mediazione sociale che fondamentalmente, attraverso il lavoro nel capitalismo, caratterizza quella società. Rivelando questa mediazione, Marx tenta di fondare socialmente, e di chiarire, i tratti fondamentali della modernità capitalista, come quelli relativi alla sua dinamica storica globale.»
Come nota a margine, qui Postone guadagna punti, credo. A mio avviso, ottiene un bel punteggio segnando un colpo a proposito del modo di produzione sovietico. L'unica caratteristica che il modo di produzione sovietico ha in comune con l'Occidente è quella che la forza lavoro viene venduta come merce. Postone, qui, ha semplificato notevolmente questo problema.

Precedentemente, ho affermato che, seguendo la lettura di Marx fatta da Postone, le categorie del capitale sono specifiche del capitale. Cosa significa? Se ho ragione nella mia riformulazione di Postone, la risposta è sorprendente. Prendiamo ad esempio il seguente passaggio, da Postone:
«Al cuore di quest'analisi si trova una distinzione per cui Marx distingue esplicitamente fra il valore - in quanto storicamente specifico, forma strutturante della ricchezza e della mediazione sociale nel capitalismo - e quella che egli chiama ricchezza materiale, la quale viene misurata dalla quantità prodotta, ed è una funzione della conoscenza, dell'organizzazione sociale, e delle condizioni naturali, oltre che del lavoro. La ricchezza materiale è mediata dalle relazioni sociali esterne a sé stesse. Il valore. secondo Marx, è una forma auto-mediatrice, ed è essenzialmente temporale. Esso è costituito unicamente dal dispendio del tempo di lavoro socialmente necessario.»

Ho dovuto leggere più volte questo passaggio, quasi parola per parola, prima che l'argomentazione di Postone avesse un senso per me. Per dimostrare tale argomentazione lasciatemela parafrasare, come ho fatto prima, sostituendo "salari" al termine valore: «Al cuore di quest'analisi si trova una distinzione per cui Marx distingue esplicitamente fra [i salari] - in quanto storicamente specifici, forma strutturante della ricchezza e della mediazione sociale nel capitalismo - e quella che egli chiama ricchezza materiale, la quale viene misurata dalla quantità prodotta, ed è una funzione della conoscenza, dell'organizzazione sociale, e delle condizioni naturali, oltre che del lavoro. La ricchezza materiale è mediata dalle relazioni sociali esterne a sé stesse. [I salari], secondo Marx, sono una forma auto-mediatrice, e sono essenzialmente temporali. [I salari] sono costituiti unicamente dal dispendio del tempo di lavoro socialmente necessario.»

Seguendo Postone, la merce non è la merce così come viene intesa nelle diverse società produttrici di merci, ma è specifica del capitale, vale a dire, quando parliamo di merce nella società capitalista, noi ci riferiamo unicamente alla forza lavoro, la forma specifica della merce originaria di questa società. Allo stesso modo, ciò significa che il valore non è il valore così come viene inteso nelle diverse società che producono valore, ma esso è specifico del capitale, vale a dire che quando parliamo di valore nella società capitalista, ci riferiamo unicamente al valore della forza lavoro, ossia ai salari, la forma specifica originaria del valore in quella società.
Marx, sostiene Postone, distingue esplicitamente fra salari - in quanto «forma storicamente specifica. strutturante, della ricchezza e della mediazione sociale nel capitalismo - e quella che egli chiama ricchezza materiale, la quale viene misurata dall'ammontare della quantità prodotta e che è una funzione della conoscenza, dell'organizzazione sociale, e delle condizioni naturali, oltre che del lavoro.» 

Da un lato, la ricchezza materiale, così come viene genericamente intesa, è mediata attraverso i salari; dall'altro lato, i salari sono una forma di ricchezza che si auto-media, ed è costituita unicamente dal dispendio di tempo di lavoro socialmente necessario. Per dirlo nella maniera più semplice possibile, il valore delle merci generiche viene misurato a partire dai salari spesi per la loro produzione; mentre il salario viene misurato unicamente a partire dal tempo di lavoro socialmente necessario richiesta per la sua produzione. Tutto ciò ha delle implicazioni così dannatamente profonde che sarebbe impossibile affrontarle completamente qui. In sostanza, Postone sta dicendo che nel modo capitalista di produzione, l'idea secondo cui il valore di una merce generica sia uguale al suo tempo di lavoro socialmente necessario potrebbe essere erronea. Infatti, nel modo di produzione capitalista può essere la sola merce il cui valore è uguale al tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la sua produzione. Penso che questo potrebbe essere in linea con l'argomentazione di Postone secondo cui il carattere astratto e generale delle merci è valido, per quel che attiene alla sua astratta generalità, solo per la società capitalista.

Ma Postone, in "The Current Crisis and the Anachronism of Value", non solo ha affermato che il lavoro salariato è anacronistico, ma nel corso della sua argomentazione ha compiuto un'interessante svolta a proposito di una questione posta dalla teoria marxiana fin da quando è stato pubblicato il III volume del Capitale: In che modo avviene la trasformazione del valore del lavoro in prezzi? Naturalmente, qui si tratta del tristemente famoso "problema della trasformazione", il tormento della teoria economica marxista.

Postone mostra che per determinare il prezzo di una merce generica dobbiamo arrivare ad effettuare questa determinazione in due fasi: nella prima fase, il valore della merce uguale al suo prezzo. Ma Postone sostiene che, nel modo di produzione capitalista, questa identificazione fra valore e prezzo è vera solamente per la merce storicamente specifica: la forza lavoro. Il valore è uguale al prezzo della merce, ma solo nella misura in cui questa merce è la forza lavoro. La categoria, il prezzo, come tutte le altre categorie, è storicamente specifica del modo di produzione. Il valore della forza lavoro - e solo il valore della forza lavoro - è la [diretta] espressione del tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la sua produzione. Noi chiamiamo il valore di scambio della forza lavoro, "salari". Ne consegue che il valore della merce storicamente specifica, la forza lavoro, viene quindi trasformato immediatamente in prezzo nel momento in cui viene venduto al capitalista. Nella seconda fase, Postone sembra suggerire che i prezzi di tutte le altre merci capitaliste prodotte non siano espressione diretta del loro valore in quanto merci, bensì l'espressione del valore della forza lavoro spesa per la loro produzione. Il valore della forza lavoro entra nei prezzi delle altre merci nella misura in cui i salari assegnati dal capitalista al lavoratore entrano nei loro costi di produzione.
Il risultato dovrebbe essere quello che attualmente i prezzi di produzione delle merci generiche non riflettono il loro specifico tempo di lavoro socialmente necessario speso per la loro produzione.

Questo è molto diverso da come avviene nella produzione di merci semplici. Nella produzione di merci semplici, il valore della merce risulta dal dispendio diretto di forza lavoro nella produzione. Il denaro non cambia di mano fino a ché non viene prodotta la merce. E tale denaro esprime il valore della merce prodotta.
Con la produzione capitalista di merci, tuttavia, la forza lavoro viene prima scambiata con denaro, con salario - viene convertita in prezzo monetario. Poi, quindi, la forza lavoro viene direttamente spesa per la produzione di merce. Prima che la forza lavoro venga effettivamente spesa per la produzione della merce, il valore della forza lavoro è già stato convertito in prezzi, (il salario), ma questi prezzi esprimono il valore della forza lavoro, e non il valore che risulta dalla produzione di merci ordinarie.(anche perché, in effetti, a questo punto la produzione non è nemmeno incominciata). Ne consegue che sono i valori della forza lavoro (i salari) ad essere espressi nei prezzi delle merci ordinarie. Mentre i valori delle merci ordinarie esprimono il tempo di lavoro socialmente necessarie richiesto per la loro produzione. I prezzi di queste merci ordinarie riflettono il valore della forza lavoro spesa nella loro produzione. Ciascuna merce ha sia un prezzo che un valore, ma che non sono necessariamente uguali l'uno all'altro.

Per dirlo in un altro modo, la conversione della forza lavoro in prezzi avviene non quando la merce prodotta capitalisticamente viene alla fine venduta sul mercato, ma quanto la forza lavoro impiegata nella sua produzione viene venduta al capitalista. Prima che la forza lavoro venga effettivamente spesa nella produzione della merce, il suo valore è già stato convertito in un prezzo monetario (il salario), ma questo prezzo monetario esprime il valore della forza lavoro stessa, non quello della merce che è il risultato della produzione.
Da questo ne consegue che è il valore della forza lavoro (il salario) a venire espresso nel prezzo del costo della merce. Il valore della merce prodotta capitalisticamente esprime il tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la sua produzione, ma il prezzo della merce esprime invece il valore - il tempo di lavoro socialmente necessario - della forza lavoro che è stata impiegata nella sua produzione.

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Se tale lettura di Postone a proposito del problema della trasformazione è corretta, la traiettoria del modo di produzione capitalista diventa molto più chiara. Il capitale non ha a che fare con la produzione del valore in senso generale, ma solo con la produzione del valore nella forma peculiare del modo di produzione, vale a dire, ha a che fare con il valore della forza lavoro (salari). A sua volta, la produzione di valore nella forma peculiare del modo capitalista di produzione (salari) media generalmente la produzione di ricchezza materiale all'interno del modo di produzione. Quel che importa non è la produzione di ricchezza materiale in quanto tale, ma la produzione di ricchezza materiale solo nella misura in cui essa è richiesta per la produzione di forza lavoro, la peculiare merce capitalista.
All'interno del modo di produzione capitalista, la forza lavoro non è una categoria naturale, trans-storica, simile ad esempio alla forza lavoro del contadino o dello schiavo. Ma è una relazione sociale peculiare unica che viene prodotta solo all'interno del modo di produzione capitalista. Come dice Postone:

«Marx prende il termine [merce] e lo usa riferendolo alla relazione sociale più basilare della società capitalistica, alla sua fondamentale forma di mediazione, al suo principio di strutturazione.»
La forza lavoro è la relazione sociale più basilare della società capitalista, la sua forma fondamentale di mediazione sociale ed il suo principio strutturante. Non è una cosa, come lo sono le case o le scarpe, ma una relazione sociale che appare sotto forma di una cosa. Questa è una concezione assai diversa della forza lavoro rispetto a quella cui siamo abituati. Non so voi, ma io avevo la tendenza a pensare la forza lavoro come se si trattasse di una cosa, posseduta dal lavoratore, che può essere venduta da lui ed essere comprata dal capitalista. Ma se la forza lavoro è una relazione sociale, come si fa a vendere le proprie relazioni sociali? Come può acquistare il capitalista le tue relazioni sociali? È l'idea che sembra bizzarra.
Nel Capitale, la forza lavoro non è la capacità lavorativa individuale di un produttore, ma è sociale direttamente. È questa relazione sociale - e non il tempo di lavoro individuale socialmente necessario per le merci ordinarie - a mediare la produzione di ricchezza sociale. Questa relazione sociale, come tutte le relazioni sociali, si compone di molti individui, ma, diversamente dalle altre relazioni sociali, la forza lavoro media la produzione di ricchezza materiale e determina la struttura della società in generale. A tutti gli effetti, la forza lavoro è il mondo:

«In una società in cui la merce [forza lavoro] è la categoria strutturante di base del tutto, il lavoro ed i suoi prodotti non vengono socialmente distribuiti secondo norme tradizionali, o secondo relazioni palesi di potere e di dominio, come avviene nel caso delle altre società. Invece, è il lavoro stesso che costituisce una nuova forma di interdipendenza, dove le persone non consumano quello che loro producono, ma dove, ciò nondimeno, il loro lavoro o i loro prodotti del lavoro fungono da mezzi quasi-oggettivi per ottenere i prodotti degli altri.»
Precedentemente, abbiamo visto che il valore della forza lavoro viene espressa come prezzi delle merci ordinarie, e quindi media la loro produzione. Essenzialmente, nel modo di produzione capitalista, la forza lavoro sovrascrive i tempi di lavoro individuali, socialmente necessari richiesti per la produzione di merci ordinarie, con il tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la propria produzione. Postone sostiene anche che essa parimenti contrasti le forme precedenti di mediazione sociale - e che costituisca «una nuova forma di interrelazione sociale.»

Un altro passaggio estremamente interessante del discorso di Postone su "Current Crisis and the Anachronism of Value":

«[Il lavoro] costituisce esso stesso una nuova forma di interdipendenza, in cui le persone non consumano quello che producono, ma dove, , ciò nondimeno, il loro lavoro o i loro prodotti del lavoro fungono da mezzi quasi-oggettivi per ottenere i prodotti degli altri. Nello svolgere, in quanto mezzo, tale funzione, il lavoro ed i suoi prodotti in effetti contrasta quella funzione da parte delle relazioni sociali palesi; e media così una nuova forma di interrelazione sociale.»
Come avviene con le categorie, il valore e la merce, secondo Postone, il lavoro stesso dovrebbe essere considerato come storicamente specifico del modo di produzione capitalistico, e non trans-storico. Nel modo di produzione capitalistico, quello che intendiamo per "merce" si riferisce unicamente alla merce che è storicamente specifica del modo di produzione, la forza lavoro. Quello a cui riferiamo come "valore", è il valore della merce storicamente specifica, la forza lavoro. Da quanto detto, potrebbe sembrare che con "lavoro" non ci stiamo riferendo all'attività produttiva materiale, così come viene intesa in molti diversi modi di produzione e società, ma solo ad una specifica forma di attività produttiva materiale che si trova nel modo capitalista di produzione. Marx chiama questa forma storicamente specifica di attività produttiva materiale, lavoro sociale. Il lavoro sociale non andrebbe confuso con il lavoro individuale svolto separatamente. Il lavoro è direttamente sociale e perciò non comporta uno scambio fra i singoli produttori individuali. Il lavoro sociale, a differenza del lavoro nella semplice produzione di merci, non è mediato attraverso lo scambio. Esso è un'attività auto-mediata:
«Al centro dell'analisi [di Marx] sta l'idea secondo cui il lavoro nel capitalismo ha una funzione di mediazione sociale unica che non è trans-storicamente intrinseca ad alcuna attività lavorativa.»
Se il lavoro sociale ha una funzione di mediazione sociale che c'è unicamente nel modo di produzione capitalistico, qual è questa funzione di mediazione sociale unica? La risposta sembra essere quella secondo cui il lavoro sociale è il mezzo attraverso cui la forza lavoro produce e riproduce sé stessa. Il che significa che il lavoro nel modo di produzione capitalista non ha a che fare con la produzione di valore d'uso in generale, ma riguarda unicamente la produzione del valore d'uso storicamente specifico, la forza lavoro.

L'unica funzione del lavoro sociale nel modo di produzione capitalista è quella di produrre forza lavoro. L'unico valore d'uso della forza lavoro riguarda il lavoro sociale, vale a dire, la produzione di forza lavoro.
Da questo dovrebbe conseguire che, nel modo di produzione capitalistico, la categoria di "tempo di lavoro socialmente necessario" non si riferisce al tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per, (ad esempio), la produzione di scarpe, case, automobili ed altre merci ordinario, ma ha a che fare esclusivamente con il tempo di lavoro socialmente necessario richiesto dalla produzione di forza lavoro, la peculiare merce capitalista storicamente specifica.
Nel modo di produzione capitalista, il termine "tempo di lavoro socialmente necessario" si riferisce alla durata del lavoro, (misurato in una qualche unità di tempo), che viene richiesta perché venga prodotta la totale forza lavoro della società. Sarebbe un errore pensare che il tempo di lavoro socialmente necessario alle merci individuali ordinarie venga espresso per mezzo dei singoli prezzi di produzione, Questo non vuol dire che i tempi individuali di lavoro socialmente necessari non esistano; piuttosto, significa solo che i tempi di lavoro socialmente necessari delle merci ordinarie non vengono espressi dal presso di produzione delle merci ordinarie. Quel che viene espresso nel loro prezzo di produzione è il tempo di lavoro socialmente necessario della forza lavoro. Questo potrebbe spiegare l'osservazione di Postone secondo cui:
«Il lavoro nel capitalismo, quindi, secondo Marx è simultaneamente sia lavoro, trans-storicamente e secondo il buon senso comune, sia attività di mediazione sociale storicamente specifica. Per cui, quello che il lavoro produce, le sue oggettivizzazioni - e qui mi riferisco alla merce e al capitale - sono allo stesso tempo sia concreti prodotti del lavoro che forme oggettive di mediazione sociale.»
In quanto lavoro trans-storicamente inteso produce il valore ed il valore d'uso della merce ordinaria. In quanto lavoro compreso all'interno delle specifiche condizioni storiche del capitale, però, non produce valore e valore d'uso della merce ordinaria, ma il valore ed il valore d'uso della forza lavoro stessa. Un altro modo di dire che:
«i valori delle merci ordinarie non giocano alcun ruolo nella regolamentazione del modo di produzione, e i prezzi delle merci individuali ordinarie non ci dicono nulla a proposito del loro valore individuale.»
Questo è importante perché se stai cercando la legge del valore per spiegare i prezzi delle merci ordinarie, devi partire ovviamente dai valori delle merci ordinarie stesse. Postone dice che questo è sbagliato. I valori delle merci ordinarie non giocano alcun ruolo sui prezzi del mercato.

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Una delle categorie del capitale più importanti e più neglette, è il tempo. Questa categoria è il tema centrale di "The Current Crisis and the Anachronism of Value". Il valore, dice Postone, «è costituito unicamente dal dispendio di tempo di lavoro socialmente necessario.»
A tal proposito scrive:
«Lasciatemi sviluppare un concetto brevemente, considerando il modo in cui Marx determina la magnitudine del valore nei termini di tempo di lavoro socialmente necessario. Questo non è semplicemente descrittivo, ma tratteggia un'interessante norma socialmente generale. Se deve generare il pieno valore dei suoi prodotti, la produzione deve conformarsi a tale norma temporale. Nel processo, l'intervallo temporale (ad esempio, un'ora) diventa costitutivo di una variabile indipendente.»
Il tempo di lavoro socialmente necessario - così come la forza lavoro, i salari ed il lavoro sociale - non è una categoria trans-storica, ma una categoria peculiare del modo di produzione capitalistico. Il tempo di lavoro socialmente necessario stabilisce che il tempo di lavoro che può produrre valore è soggetto ai limiti materiali definiti che non hanno niente a che fare con la produzione di ricchezza materiale in quanto tale. Al di là di questo limite materiale definito, il dispendio di forza lavoro (lavoro sociale) diventa superfluo per la produzione di valore. Per capire cosa ciò significhi, i produttori sociali possono lavorare otto o dieci ore, ma non producono più valore di quello contenuto in tre o quattro ore di lavoro sociale. Postone illustra quest'argomento facendo uso di quella che lui chiama l'analogia del tapis roulant. Quest'analogia non mi convince del tutto, ma ne parlerò lo stesso. Secondo Postone:
«L'ammontare di valore prodotto per unità di tempo è una funzione solo dell'unità di tempo; rimane lo stesso indipendentemente dalle variazioni individuali o dal livello di produttività. Ne consegue - come peculiarità del valore in quanto forma temporale della ricchezza - che, sebbene l'incremento della produttività aumenti la quantità di valore d'uso prodotto per unità di tempo, per quel che riguarda l'incremento nella grandezza del valore creato per unità di tempo, questo si traduce in un aumento solo a breve termine.»
Tanto per ripetere l'argomentazione di Postone, il valore di un'ora di lavoro rimane un'ora di lavoro, a prescindere dalla produttività del lavoro o dell'abilità del lavoratore. Anche se l'aumentata produttività fa crescere la produzione di ricchezza materiale per una data unità di tempo, nel lungo periodo questo non ha alcun impatto sulla quantità di valore creato.

«L'effetto è quello di una sorta di tapis roulant. Livelli più elevati di produttività determinano forti aumenti della ricchezza materiale,ma a lungo termine, in proporzione, non determinano un incremento del valore per unità di tempo. Questo, a sua volta, porta ad ulteriori incrementi di produttività.»
In altri termini, nel lungo periodo, i perfezionamenti nella produttività del lavoro producono più ricchezza materiale (valore d'uso), ma non possono fare aumentare la quantità di valore prodotto in un dato periodo di tempo. D'altra parte, nel breve periodo, può essere creato valore addizionale per mezzo di perfezionamenti nella produttività del lavoro.
«...una peculiarità del valore in quanto forma temporale della ricchezza - quella per cui, sebbene la produttività aumentata incrementi la quantità di valore d'uso prodotto per unità di tempo, ciò si traduce solo in un aumento a breve termine della quantità di valore creato per unità di tempo. »
Per ribadire l'argomentazione di Postone: sebbene il capitalista non possa incrementare la quantità di valore prodotto in dato periodo di tempo, egli è incentivato a perfezionare la produttività del lavoro al fine di ottenere un super-profitto a breve termine. In altri termini, anche se assumiamo che il valore creato in un'ora di lavoro sia costante, in realtà esso può variare, e varierà, nel breve periodo, a causa del miglioramento della produttività del lavoro.

«Una volta che il capitalismo è pienamente sviluppato, le sue forme temporali generano continui incrementi nella produttività. Tali incrementi, come abbiamo visto, non cambiano la quantità di valore prodotto per una determinata unità di tempo. L'unità di tempo (astratta) rimane costante; la stessa unità di tempo genera la stessa quantità di valore. Tuttavia, cambiamenti della produttività rideterminano quell'unità; come dire, la spingono in avanti
Un'ora di lavoro è sempre un'ora di lavoro, ma ciò che costituisce un'ora di lavoro in termini di quantità di valore d'uso che può essere prodotto in un'ora, viene continuamente rideterminato.
Nel primo capitolo del Capitale, Marx discute circa questo problema nel seguente modo:
«Dopo l'introduzione del telaio a vapore in Inghilterra, è bastata forse la metà del tempo prima necessario per trasformare in tessuto una data quantità di filato. Il tessitore inglese al telaio a mano aveva di fatto bisogno dello stesso tempo di lavoro, prima e dopo, per questa trasformazione; ma il prodotto della sua ora lavorativa individuale rappresentava ormai, dopo l'introduzione del telaio meccanico, soltanto una mezza ora lavorativa sociale, e quindi scese alla metà del suo valore precedente.»
All'interno del modo di produzione capitalistico, ciò che chiamiamo tempo non è il tempo dell'orologio, non è il tempo astratto omogeneo di un'unità assolutamente invariante, ma una categoria sociale, "il tempo di lavoro socialmente necessario". Questa categoria, come tutte le altre categorie di cui abbiamo discusso finora, non è trans-storica, ma riguarda unicamente il modo di produzione capitalista.

Secondo Postone, nella critica dell'economia politica di Marx, ogni categoria di cui egli discute è storicamente specifica del modo di produzione capitalistico, ed «è valida nella sua astratta generalità solamente per la società capitalista».
Applicando l'argomentazione di Postone alla categoria della merce, ho asserito che la categoria marxiana della merce è valida, nella sua astratta generalità, solamente per la forza lavoro. La discussione di Postone sul tempo. si applica solamente al tempo di lavoro socialmente necessario, richiesto per la produzione di forza lavoro. Perciò, il valore del tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la produzione di forza lavoro, definisce una norma irresistibile, socialmente generale, alla quale il capitalista deve necessariamente conformarsi. Postone afferma:
«La produzione deve conformarsi a questa norma temporale se vuole generare il pieno valore dei suo prodotti.» Ma mi si permetta di riformulare la frase come:
«La produzione [capitalista] deve conformarsi al [tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la produzione di forza lavoro] se vuole generare il pieno valore dei suo prodotti [la forza lavoro].»
Il tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la produzione di forza lavoro, svolge la funzione di limite ultimo per il capitale. Il limite che viene posto alla produzione capitalista non è il tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la produzione di merci ordinarie in generale, ma il tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la produzione di quella che è l'unica merce peculiare capitalistica, la forza lavoro. In tal modo, il valore nel modo di produzione capitalista svolge la funzione di forma di ricchezza auto-mediante. Questa mediazione, afferma Postone:
«è essenzialmente temporale. Essa è costituita unicamente dal dispendio di tempo di lavoro socialmente necessario.»

La distinzione fra il valore della forza lavoro all'inizio del processo, e il valore della forza lavoro alla fine del processo, si riferisce essenzialmente a due diverse grandezze del tempo di lavoro socialmente necessario. Dal momento che la forza lavoro è allo stesso tempo sia il mezzo che il prodotto della produzione capitalista, la differenza non può essere trovata nel valore d'uso della forza lavoro, ma nel valore. Qui, i valori delle merci ordinarie non contano niente. Il capitale è la produzione di forza lavoro, e di forza lavoro solamente. La forza lavoro è la sola merce in grado di creare capitale reale (valore reale auto-espandibile) a partire dal capitale monetario. Sebbene il capitale produca una sconcertante varietà di merci, la forza lavoro è l'unica merce essenziale del modo capitalistico di produzione. Il valore auto-espandibile richiede una merce che sia in grado di aumentare il proprio valore. Solo la forza lavoro può fare questo.
Dal momento che il capitale è un valore che auto-espande sé stesso, e dal momento che il lavoro vivente è l'unica fonte di nuovo valore, la produzione e la riproduzione di forza lavoro non sono la produzione e la riproduzione di una cosa. Sono la produzione e la riproduzione di una relazione sociale
specifica del modo capitalistico di produzione, il lavoro salariato. Sono la produzione e la riproduzione della situazione nella quale,
«Il lavoratore, anziché essere nella posizione di vendere merci nelle quali si trova incorporato il suo lavoro, dev'essere obbligato ad offrire in vendita come una merce la sua forza lavoro, la quale esiste sono all'interno di sé stesso.»

La norma temporale cui la produzione deve conformarsi, non è quella richiesta per la produzione di scarpe o di automobili; piuttosto, si tratta di una norma che garantisce che il lavoratore sia costretto ad offrire sé stesso (la sua capacità di lavorare) per vendersi come merce. La riproduzione della forza lavoro è immediatamente la riproduzione della dipendenza del lavoratore a partire dalla vendita della sua forza lavoro in cambio di un salario. Il carattere auto-mediante del valore all'interno del modo di produzione capitalistica significa che la lavoro salariato riproduce la dipendenza assoluta del lavoratore dalla vendita della propria forza lavoro. Il valore, in quanto forma auto-mediante della ricchezza, non si riferisce al valore degli oggetti, ma alla riproduzione della subordinazione assoluta del lavoratore al capitale, subordinazione costituita a partire dal proprio lavoro. Per parafrasare Postone: Il lavoro salariato appare come naturale, anziché sociale, e condiziona la concezione della realtà sociale, insieme alla concezione della realtà naturale, poiché esso riproduce la dipendenza dell'operaio dalla vendita della sua forza lavoro. Nel modo capitalistico di produzione, ciò che innanzitutto la forza lavoro produce  è sé stessa: la dipendenza assoluta del lavoratore dalla vendita della sua capacità di lavorare.

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Postone mi piace. Mi piace un bel po'. Lo trovo spesso assai illuminante. Ma nella sua lettura, "The Current Crisis and the Anachronism of Value", all'incirca verso il 25° minuto, Postone fa un errore, quanto meno stupido, anche se non imperdonabile, quando dichiara:
«Non c'è modo di dimostrare che sta andando giù. Non è questo il modo in cui funziona la teoria del valore.»
Fino a che punto può essere preziosa una teoria che non può essere né verificata né falsificata? A volte i marxisti sono dei tali completi idioti che a volte fa male solo starli a guardare. Amo leggere Postone, ma passa troppo tempo in giro con degli inutili teorici del valore tedeschi: stanno cominciando a corrompere il suo giudizio. Se avesse avuto un po' di buonsenso, lo avrebbe intitolato. "L'anacronismo del Lavoro", e non del "Valore" - oppure, meglio ancora, "L'anacronismo dei Salari".
A rendere così frustrante il punto di vista di Postone, è il fatto che egli fa tutta una serie di asserzioni, piuttosto sorprendenti, rispetto al Capitale, e poi afferma che non possono essere dimostrate. Inclusa l'asserzione che ci sono degli schemi per degli eventi di cui siamo stati testimoni, i quali possono essere spiegati solo quando adottiamo la sua lettura di Marx. Una lettura che comprende l'assunto secondo il quale Marx non utilizza trans-storicamente le categorie politico-economiche, ma solo così come esse appaiono all'interno del modo capitalistico di produzione. Ciò significa, fra le altre cose, che la merce in Marx si riferisce unicamente alla forza lavoro; che il valore in Marx si riferisce unicamente al valore di tale forza lavoro; e, che il lavoro in Marx si riferisce unicamente al lavoro salariato.

Quindi Marx:

- non sta parlando delle merci in generale, ma solo della forza lavoro;
- non sta parlando del valore in maniera trans-storica, ma solo del valore della forza lavoro, la quale è espressa nel prezzo della forza lavoro, cioè, dei salari;
- sta dicendo che la forza lavoro è una relazione sociale che media la produzione di ricchezza materiale e tutte le altre relazioni sociali nella società capitalista;
- sta dicendo che la forza lavoro ricostituisce sé stessa come necessaria anche se facendo così si rende anacronistica:
- sta dicendo che questa auto-ricostituzione spiega sia la mancanza di una visione del futuro, cosa che ha enormi conseguenze distruttive sul presente;
- sta dicendo che il lavoro salariato è specifico del capitale e non può essere la base per una futura società comunista;
- sta dicendo che il lavoro salariato ha reso sé stesso anacronistico - un'affermazione, questa, che non era vera ai tempi di Marx;
- sta dicendo che la forza lavoro può essere l'unica merce il cui valore è uguale al tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la sua produzione;
- sta dicendo che il lavoro nelle specifiche condizioni storiche del capitale produce specificamente il valore ed il valore d'uso della stessa forza lavoro;
- sta dicendo che il tempo di lavoro socialmente necessario si riferisce al tempo di lavoro richiesto per la produzione solamente della forza lavoro:
- sta dicendo, infine, che il lavoro salariato del lavoratore riproduce la sua assoluta dipendenza dalla vendita della sua forza lavoro.

Queste sono, in ogni caso, alcune delle sue affermazioni piuttosto stravaganti, ma diventano piuttosto incredibili quando Postone si aspetta che le prendiamo sul serio senza che venga offerta alcuna prova della loro validità, se non la piuttosto nebulosa, e per di più speciosa, argomentazione di un economista borghese minchione come Piketty, che una volta ha sostenuto che «Il Capitale di Marx, penso sia molto difficile da leggere e per me non è stato molto influente.»
Postone può fare meglio di così. Dovrebbe passare più tempo a collegare le sue idee alle prove empiriche, o quanto meno spiegare come queste sue idee potrebbero essere espresse concretamente. Senza che avvenga questo, l'idea secondo cui ora il lavoro salariato è anacronistico non potrà mai emergere fra i comunisti. La maggior parte dei comunisti continueranno a basarsi sulla teoria neoclassica borghese.

Affrontare le implicazioni radicali dell'anacronismo del valore, non è un problema solo dei marxisti. Anche i minchioni borghesi non riescono andare al di là delle presupposizioni fondate sul lavoro salariato. Nel suo libro, "The Economic Singularity", Calum Chace spiega - ragionando nei limiti politico-economici borghesi - proprio su ciò che intende Postone quando sostiene che il valore è anacronistico. Il libro si legge come se fosse un rapporto indirizzato al Dipartimento della Difesa, e proietta sul futuro le tendenze attuali dell'automazione. Chace pensa che presto l'automazione sostituirà il lavoro umano nella maggior parte delle aree dell'economia. Ritiene che non ci sia niente in grado di impedire che ciò accada, poiché le imprese ed il governo sono fortemente incentivati a trasformare in realtà quella che è un'economia completamente automatizzata. Certo, ci sono ovviamente dei problemi tecnici; ma tali problemi saranno risolti a tempo debito. Ben presto faremo sesso con i nostri "amici" dotati di Intelligenza Artificiale nei nostri piccoli mondi virtualmente reali. La conclusione cui arriva Chace è cruda: il capitalismo non è in grado di sopravvivere all'attuale fase dell'automazione; ai pianificatori fascisti dovrà servire un piano B. Perciò, mi aspetto di sentire parecchio rumore a favore del Reddito Universale di Base[universal basic income (UBI)] da parte da un bel po' di esperti del Dipartimento della Difesa!

Nella produzione, gli esseri umani sono obsoleti. Le macchine possono fare meglio di noi quello che noi facciamo perché è così che li abbiamo progettati. Per la maggioranza della società, la prospettiva di non dover più timbrare un cartellino in questa vita dovrebbe essere motivo di grande gioia.
Ma allora perché ho come la sensazione che Chace tutto questo non lo colga tanto come un'opportunità di pensionamento anticipato, ma più come l'essere vittima di una qualche malattia devastante, rispetto alla quale non c'è più speranza! Il motivo potrebbe essere che questo sviluppo ha delle implicazioni assai vaste per quello che Chace chiama "redistribuzione del reddito".
«Se e quando le società raggiungeranno il punto in cui dovremo ammettere che una parte significativa della popolazione non lavorerà mai più nuovamente - anche se non per colpa loro - dovrà essere trovato un meccanismo per poter mantenere in vita tutte queste persone. E non solo rasentando la soglia della povertà: dovranno essere dotati di un reddito che permetta loro almeno la possibilità di una vita decente secondo quelli che sono gli standard della società in cui vivono.»
Dal momento che la stragrande maggioranza della ricchezza e del reddito si trova ad essere monopolizzata nelle mani di pochi, una volta che la gente comincerà a domandarsi come farà a mangiare, persone come Bill e Melinda Gates tenderanno ad assomigliare sempre più a Luigi e a Maria Antonietta. Cominceranno a crescere ghigliottine tutt'attorno!!!

cache

Chace fa un'importante distinzione, che viene accettata di rado, fra quella che le cose che lui chiama "singolarità tecnica" e "singolarità economica".
Una singolarità tecnica avviene nel momento in cui viene raggiunta la completa abolizione, nella produzione, del lavoro umano. Questo, egli assume, richiederà ancora "non pochi decenni". Al contrario, una singolarità economica si verifica nel momento in cui miliardi di persone in tutto il mondo non saranno più in grado di guadagnarsi da vivere vendendo la loro forza lavoro. A quest'ultimo evento, a suo avviso, dovrebbero mancare tutt'al più trent'anni. Essenzialmente, assai prima che alla fine tutto il lavoro umano venga eliminato dalla produzione, il lavoro di miliardi di persone sarà superfluo per la produzione di ricchezza materiale. La completa eliminazione del lavoro nella produzione, potrà richiedere anche altri cent'anni, ma assai prima il lavoro umano non sarà più necessario per la maggior parte dei settori della produzione. Questo ci porta ad affrontare decenni in cui una massa enorme di persone non sarà in grado di trovare lavoro in una società nella quale il consumo si trova ad essere ancora basato sul lavoro salariato.
Naturalmente, questa è una ricetta per la povertà di massa e per le agitazioni sociali, come nota Chace:
«Come ama dire il co-fondatore di DeepMind, Demis Hassabisi, il piano dell'umanità per il futuro dovrebbe consistere di due passaggi: il primo, risolvere il problema dell'intelligenza artificiale in generale, ed il secondo passaggio, usare quest'intelligenza artificiale per risolvere tutto il resto. "Tutto il resto" include la povertà, la malattia, la guerra, e perfino la stessa morte.»

Chace sostiene, senza avere alcuna prova, che la maggior parte dei mali sociali del mondo legati al lavoro salariato possono essere risolti unicamente dalla completa abolizione del lavoro umano nella produzione - un evento per il quale bisogna aspettare ancora "un bel po' di decenni". Perciò, da qualche parte per un tempo che va dai prossimi trent'anni ad "un bel po' di decenni" (chiamiamolo pure secolo), una massa sempre più ampia e crescente di persone in tutto il mondo dovrà affrontare "malattia, guerra, e perfino la morte stessa", senza essere in grado di vendere la loro forza lavoro, e quindi senza nessun mezzo per vivere.
Vediamola in questo modo: Quante generazioni possono vivere nel garage dei genitori? Cosa succederà quando i "millennial" che vivono in quei garage non ci vivranno semplicemente, ma avranno in quei garage ed in quelle cantine le loro famiglie? Il modo in cui leggo questo passaggio di Chace è che per i prossimi cento anni, il crescente problema degli Stati capitalisti avanzati sarà sempre più quello di gestire (la mera sopravvivenza) la sempre più diffusa disintegrazione della società civile. Chace ritiene che i diplomati all'accademia di West Point e delle altre accademie militari dovrebbero prestare maggiore attenzione ai punti più delicati dell'amministrazione militare e della governance.

La prospettiva secondo la quale un gran numero di persone diverrà ridondante per la produzione di ricchezza materiale molto tempo prima che venga del tutto eliminata la necessità di lavoro umano nella produzione, porta Chace ad ammettere l'inevitabilità di un qualche tipo di reddito di sostegno su larga scala, che non sia legato all'occupazione: un reddito universale di base. Il problema con quest'idea, secondo Chace, è che non si tratta di un problema ciclico; i posti di lavoro non torneranno mai. Fondamentalmente, Chace sta proponendo di pagare una qualche sorta di reddito universale per sempre. Perché? Che senso può avere pagare un reddito universale fino alla morte dell'universo? Se, come sembra credere Chace, è probabile che all'orizzonte si vede una società post-lavorativa senza precedenti - e che si tratta di un evento irreversibile - quale ragione possibile ci può essere per proporre un programma come quello di un reddito di sostegno per una massa sempre più crescente di persone che non saranno in grado di trovare un impiego?
Vediamola in un altro modo: I sostenitori delle politiche keynesiane (imbastardite) "dal lato dell'offerta" argomentano a favore delle politiche di intervento statale in quanto ritengono che la disoccupazione sia ciclica; alla fine, i posti di lavoro ritorneranno. Il ruolo dello Stato era quello di fornire uno stimolo temporaneo per aiutare l'economia sulla strada della piena occupazione. Ad ogni modo, Chace non offre una simile garanzia. I posti di lavoro perduti in seguito all'automazione sono andati per sempre e la maggior parte di essi non verrà sostituita da nuovi posti di lavoro.

Passate più tempo con la vostra famiglia e con i vostri amici, fatevi un hobby, gente! Non esisterà mai nessun programma statale possibile in grado di rendere nuovamente redditizio impiegare manodopera per produrre ammennicoli. Quindi Chace si guarda intorno ed offre quello che nel migliore dei casi è un programma da spilorci, a breve termine, per mezzo di un reddito di sostegno riguardo ad un problema che egli sostiene sarà il nuovo stato permanente della società. Inoltre, Chace pensa che ben presto diventerà chiaro a tutti che la produzione per il profitto è morta. Quando ciò avverrà, si scatenerà l'inferno, allorché le persone cominceranno a liberarsi delle loro proprietà.
«A meno che non si passi rapidamente e senza intoppi al Reddito Universale di Base, sembra probabile che il prezzo dei tipici beni posseduti da queste persone della classe media, quali le case sub-urbane e le automobili prodotte in serie, crollerà nella misura in cui i possessori cercheranno di rimpiazzare il reddito perduto liquidando le loro proprietà. Tutto ciò potrebbe avvenire rapidamente, in quanto le persone guardando avanti vedono quello che sta per arrivare, e decidono di incassare prima che ci sia davvero lo scivolone. I prezzi dei beni sono notoriamente difficili da prevedere poiché dipendono da degli eventi che non possono essere previsti, ed anche da percezioni su quello che può succedere, e dalle percezioni su quelle percezioni. Questa è un'altra buona ragione perché dovremmo pensare seriamente a tutte queste questioni, prima piuttosto che dopo.»
Nel loro saggio, "Systemic Fear, Modern Finance and the Future of Capitalism", Bichler e Nitzan hanno fatto più o meno lo stesso ragionamento:
«Supponiamo, per amore del ragionamento, che i capitalisti, invece di aspettarsi che la capitalizzazione continui indefinitamente, credano che il processo potrebbe smettere di esistere ad un certo punto del futuro. A quel punto, con la fine della capitalizzazione, le loro proprietà avrebbero valore zero, per definizione; e con i prezzi futuri che sono diventati zero, i prezzi correnti potrebbero tendere solamente al ribasso.»
Una volta che diventa ovvio che la produzione per il profitto non continuerà indefinitamente, i prezzi delle proprietà dei capitalisti cominceranno a precipitare, e continueranno a farlo finché non arriveranno a zero. Nel frattempo, la disoccupazione salirà in maniera relativamente rapida al 100%, mentre i mercati del capitale si dissolvono. Non c'è modo per cui un programma di reddito universale possa risolvere tutto questo. Nel migliore dei casi, il Reddito Universale di Base potrà servire solo a ritardare l'inevitabile.

«Nel modo di produzione capitalistico, quel che la forza lavoro produce innanzitutto è sé stesso: l'assoluta dipendenza del lavoratore dalla vendita della sua capacità di lavorare.»
Nel modo di produzione capitalistico, il lavoratore è obbligato a vendere la sua forza lavoro come merce. La forza lavoro, tuttavia, non è una cosa, come le scarpe o le case; ma è una relazione sociale di di dipendenza assoluta del lavoratore. dal capitale, per i mezzi di sussistenza. Durante il suo lavoro, l'operaio rimpiazza il valore della sua forza lavoro e aggiunge ad esso un ulteriore incremento di plusvalore. La parte di giornata lavorativa dedicata a rimpiazzare il valore della sua forza lavoro, non è nient'altro che il tempo di lavoro necessario a riprodurre nell'operaio la sua assoluta dipendenza dalla vendita della propria forza lavoro.
Ora, secondo Postone, è il valore della forza lavoro, vale a dire, il tempo lavorativo richiesto per riprodurre l'assoluta dipendenza del lavoratore dalla vendita della sua forza lavoro, a mediare con la produzione di ricchezza materiale. Nonostante il grande incremento che c'è stato, nella capacità tecnica della società, di produrre ricchezza materiale - alimentato da un incredibile aumento della conoscenza scientifica e dell'automazione - il tempo di lavoro dedicato alla produzione di forza lavoro non può mai eccedere il tempo di lavoro necessario a riprodurre l'assoluta dipendenza del lavoratore dalla vendita di forza lavoro.

La ragione per cui tutto questo, in teoria, dev'essere vero, è ovvia: se il lavoratore non fosse obbligato ad offrire in vendita la sua forza lavoro, la produzione per il profitto non potrebbe continuare. La vendita della sua forza lavoro in cambio di salario, deve apparire come una condizione naturale della sua esistenza. Il tempo di lavoro dedicato alla produzione di ricchezza materiale, nel modo capitalistico di produzione, è fondamentalmente determinato dal tempo di lavoro richiesto per riprodurre l'assoluta dipendenza del lavoratore dalla vendita della sua forza lavoro in cambio di salario. Con il grande incremento della capacità produttiva legata al capitale, il tempo di lavoro richiesto per riprodurre la dipendenza assoluta del lavoratore dalla vendita della sua forza lavoro in cambio di salario, diminuisce.
Secondo Postone, attualmente la forza lavoro ricostituisce sé stessa come necessaria, anche se normalmente noi pensiamo a questo processa dal punto di vista del capitalista, come spiega Postone:
«[Poiché] la dialettica della trasformazione e della ricostituzione non solo spinge la produttività, ma ricostituisce anche il valore, in questo modo ricostituisce anche strutturalmente la necessità di lavoro che crea valore, vale a dire, la necessità di lavoro proletario.»

L'idea per cui il capitale malvagio ricostituisce il lavoro salariato come necessario, può essere psicologicamente soddisfacente, dal momento che in questo modo postula che su di noi ci sia un potere alieno, ma il fatto è che il valore - i salari - ricostituisce sé stesso come necessario. Esso media la produzione di ricchezza materiale, mentre allo stesso tempo auto-media la propria produzione. Sappiamo che su questo Postone deve avere ragione, per lo stesso motivo per il quale sappiamo che il capitalismo non ha bisogno neppure di un capitalista. Per il capitalismo, la sola classe necessaria è la classe operaia. Infatti, tutti i mali che attribuiamo ai capitalisti devono essere riprodotti dalla stessa classe operaia. Come avviene con Dio, se i capitalisti non esistessero, la classe operaia avrebbe dovuto inventarli. Secondo Postone, il marxismo del XX secolo consisteva in: «[Un] quadro interpretativo generale nel quale il capitalismo viene analizzato essenzialmente in termini di relazioni di classe che sono radicate nella proprietà privata e che sono mediate dal mercato, ed il dominio sociale viene compreso principalmente in termini di dominio di classe e di sfruttamento.»
Postone sostiene che un simile approccio è fondamentalmente anacronistico. Andrebbe sostituito con una nuova concezione del capitalismo che non si basi sulle personificazioni archetipiche del marxismo del XX secolo:
«Questa forma di dominio sociale storicamente nuovo, è quella che assoggetta le persone ad imperativi strutturali impersonali, sempre più razionalizzati, e ad costrizioni che non possono essere pienamente colte in termini di dominio di classe, o, più in generale, in termini di dominio concreto da parte di gruppi sociali o da parte di agenzie istituzionali dello Stato e/o dell'economia. Non ha un focus, un centro determinato e, sebbene sia costituito da determinate forme di pratica sociale, sembra che non sia affatto sociale.»

In altre parole, se non sai spiegare come funziona il capitalismo, senza fare riferimento alla personificazione dei "malvagi capitalisti", tipica del XX secolo, la tua strategia non funzionerà. Cerca solamente di spiegare come mai il lavoratore finisce sempre per vivere in estrema povertà, e fallo senza fare uso, a tal fine, del capitalista emblematico!
Il problema con l'approccio del "capitalista malvagio", è che nessun lavoratore riesce a vedere qualcosa che assomigli ad un capitalista malvagio che lo piomba nella povertà. Quello che vede, invece, sono "i negri" o "i bianchi razzisti", gli immigrati, le donne, le tasse e le regolamentazioni governative, la concorrenza straniera, ecc. Si trovano assediati da tutte le parti da delle forze che li piombano nella povertà. Così, quando ti presenti e cerchi di convincerli che il problema sono i "capitalisti malvagi", non c'è alcun modo per far far capire loro che la tua spiegazione coincide con la loro esperienza pratica. Lo stesso approccio marxista del XX secolo che si è dimostrato inadeguato a spiegare il razzismo, il nativismo e la misoginia, si è dimostrato anche inadeguato ad affrontare il razzismo, il nativismo e la misoginia, poiché si basa su delle personificazioni (caricature) che diventano sempre più irrilevanti rispetto all'effettivo funzionamento del modo di produzione nel tempo. Tanto più il capitalista diventa irrilevante e non necessario per l'effettivo funzionamento del modo di produzione, tanto più le personificazioni perdono il potere di spiegare la pervasività dei mali sociali.
L'inadeguatezza del marxismo del XX secolo caratterizza tutti gli aspetti della vita politica, afferma Postone:
«E, infatti, vorrei suggerire come un senso di inadeguatezza di tutto l'impianto marxista tradizionale abbia influenzato - almeno tacitamente - per decenni la critica politica progressista. Il concetto di post-capitalismo, di socialismo, come società basata sul lavoro industriale, sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione, e sulla pianificazione centrale, aveva cominciato a non fare più presa sull'immaginario di molti intellettuali progressisti, studenti e lavoratori, durante la crisi del capitalismo fordista, alla fine degli anni '60 e all'inizio dei '70. »

Se dovessimo chiudere qui la discussione, penso che comunque le argomentazioni di Postone non sarebbero sufficienti a richiedere una rilettura della teoria di Marx. Tutto ciò che Postone ci ha detto è che il marxismo del XX secolo non spiega più niente. In tal senso, il marxismo del XX secolo non è né meglio né peggio di una miriade di altri approcci. Prendete un numero e mettetevi in fila!

Grazie a Jehu e a the Real Movement

domenica 28 gennaio 2018

Silenzio! Parla Beckett

beckett lettere

Samuel Beckett è stato a lungo conosciuto, e venerato, anche per la sua aura, dovuta all'aspetto fisico, all'inaccessibilità e al singolare dono per cui certe sue battute – scritte o recitate che fossero – entravano subito nella leggenda e nell'uso quotidiano. Ma soprattutto colpiva, intorno a lui, una zona di silenzio, che era in primo luogo una cifra stilistica. Così, di fronte alle sue lettere straripanti torna in mente il celeberrimo slogan inventato dai produttori di Ninotchka per la Garbo: Beckett parla! Sì, perché nelle sue lettere Beckett parla, moltissimo, e di tutto: del suo primo datore di lavoro, «Mr Joyce»; delle regioni più impervie della psiche, che esplorava con l’aiuto di Wilfred Bion; delle numerose lingue che abitava, e da cui spesso si sentiva posseduto; della miseria in cui era costretto a vivere; della stupefacente quantità di rifiuti editoriali accumulati dal suo primo romanzo, Murphy; e dei suoi viaggi in Europa, su cui spicca una straordinaria esplorazione della Germania di Hitler, in cui Beckett si addentra con il proposito di vedere quadri degli antichi maestri ma anche dei moderni, esattamente quelli che i nazisti, ritenendoli degenerati, avevano appena tolto dalla circolazione. A tratti, le pièce che il giovane viaggiatore avrebbe scritto dopo la guerra sembrano ispirate a fatti realmente accaduti e il «Fallire ancora, fallire meglio» appare qualcosa di più che un programma estetico. E, a libro chiuso, si ha la sensazione rara che, con Beckett, le sorprese siano appena cominciate.

(dal risvolto di copertina di: Samuel Beckett, "Lettere. 1929-1940". Adelphi.)

“Non passerò la vita a scrivere libri che nessuno legge”
- di Paolo Bertinetti -

È appena arrivato in libreria il primo volume delle Lettere di Samuel Beckett, quelle scritte tra il 1929 e il 1940, cioè quando Beckett non era ancora Beckett. O quasi. Quasi perché non aveva ancora dato alle stampe, Malone muore, Aspettando Godot, Finale di partita e gli altri capolavori a cui è legata la sua fama. Ma aveva già scritto il volume di racconti Più pene che pane, che in Irlanda fu vietato per «oscenità» fino al 1953. E aveva già fatto pubblicare un delizioso romanzo, quel Murphy che era passato quasi del tutto inosservato. 
Nelle lettere Beckett non dice molto del libro di racconti, contento, come si legge in una lettera dell’ottobre 1932, per l’anticipo sui diritti d’autore, 25 sterline, che l’editore gli aveva fatto avere. Assai di più dice del suo primo romanzo, Murphy, rifiutato da una mezza dozzina di editori. Beckett, seppure amareggiato, il 17 luglio 1936 scrive diplomaticamente all’editore Chatto: «Mi creda, capisco benissimo la sua posizione». Poi, finalmente, gli arriva il telegramma con cui il suo grande amico George Reavey gli annuncia che il libro è stato accettato dall’editore Routledge: «Niente giubilo, ma bien content quand même», scrive Beckett il 10 dicembre 1937.
Le bozze di Murphy gli furono portate all’ospedale dove era stato ricoverato dopo essere stato accoltellato per strada da un balordo. Le corresse a letto, ma poi, come leggiamo alla fine di una serie di brevi lettere, le fece ancora rivedere da un amico. In ospedale andò a trovarlo un’occasionale compagna di partite a tennis, Suzanne Deschevaux-Dumesnil: fu l’inizio di un rapporto che durò tutta la vita. Nelle lettere Beckett non parlò di lei fino al 1939, quando in aprile scrisse a Tom McGreevey: «C’è anche una ragazza francese a cui voglio bene, senza passione, e che è molto buona con me. La puntata non avrà rilancio. Dato che tutti e due sappiamo che finirà, non si sa quanto può durare». Eccesso di prudenza. In ogni caso, questo è l’unico riferimento alla relazione con Suzanne presente nel volume. Il fatto è che delle 15.000 lettere raccolte dai curatori, Beckett autorizzò la pubblicazione soltanto di quelle che «avessero attinenza» con il suo lavoro. Ragion per cui i riferimenti alla sua vita sentimentale si colgono solo indirettamente all’interno delle lettere di argomento professionale. 

La lettera con cui si apre il volume, datata 23 marzo 1929, è diretta a James Joyce e si conclude con un formale saluto. «Mi ricordi a Mrs Joyce, a Giorgio e a Lucia». Lucia, la figlia di Joyce, si era innamorata di Beckett, che non sapeva bene come gestire la situazione. C’è una lettera dei primi di maggio del 1930, in cui Beckett scrive, «Lucia viene a prendere il tè. Che Dio ci assista». L’imbarazzo era accentuato dal fatto che l’equilibrio mentale della giovane donna era alquanto precario; ma era comunque profondo l’affetto che Beckett provava per lei. Nel gennaio 1931 scriveva all’amico Tom di avere ricevuto «una lettera assai tranquilla da Lucia che mi consiglia di accettare il mondo e di andare alle feste». Da una lettera di James Joyce sappiamo che nel febbraio del 1935 Lucia si trovava a Londra e che si era vista qualche volta con Beckett: «hanno cenato insieme». Ma all’interno di una lunga lettera di pochi giorni dopo, del 10 marzo, anche questa diretta a Tom, leggiamo che «la brace di Lucia ha avvampato e si è spenta con un sibilo». L’anno dopo la salute mentale di Lucia peggiorò drasticamente; fu ricoverata in una maison de santé a Ivry , dove, come sappiamo da una testimonianza del 1939, le uniche due persone che vedeva erano il padre e Beckett.
Molto positiva, e passionale, fu invece la relazione con Peggy Guggenheim, «esplosa» nella notte di Santo Stefano del 1937 e seguita poco dopo da una settimana di sesso non-stop. Ma della relazione nel volume non c’è traccia, sebbene numerose siano le citazioni relative alle mostre da lei promosse e in cui Beckett era in qualche modo coinvolto.
Dalle lettere «attinenti al lavoro di scrittore» emerge la figura di un giovane uomo dalla cultura enciclopedica e dagli interessi vastissimi, alla ricerca di una sua collocazione artistica. «Non ho voglia», dichiara in una lettera del luglio 1936, «di passare il resto della mia vita a scrivere libri che nessuno legge». Tant’è vero che un paio di mesi prima aveva mandato una lettera a Ejzenstejn chiedendogli di essere ammesso alla Scuola di cinema di Mosca. L’incertezza aveva a che fare con la riuscita assai modesta del libro di racconti e con il fatto che Murphy non trovava un editore. Ma contava anche la difficoltà con cui affrontava uno stato di inquietante depressione. Nel 1934 Beckett era entrato in analisi: nelle lettere conta le sedute («questa è la centotrentatreesima volta»), teme che l’analisi «si rivelerà un fallimento», non vede come l’analisi possa «giungere al termine». Nel 1935 scrive a Tom McGreevy che ci sono sintomi di miglioramento; ma è soltanto nel maggio del 1937, dopo che l’analisi è finita, che può scrivergli di avere «superato la necessità di tornare a vomitare».
 
Beckett, come evidenziano le lettere, passa intere giornate davanti ai quadri delle pinacoteche di mezza Europa. E divora libri su libri, lanciandosi in giudizi di fulminante intensità, spesso sprezzanti nei confronti dei contemporanei: D’Annunzio scrive parole in libertà, l’ultimo lavoro di Huxley non merita nemmeno di essere citato, dello stesso Proust gli danno fastidio certe sbrodolature. Ma La nausea di Sartre è un libro «straordinario». In compenso ha grande ammirazione non solo per i classici ma anche per Jane Austen, per Henry Fielding, per Il mulino sulla Floss di George Eliot. E’ soprattutto qui che si scatena la brillantezza della scrittura di Beckett (resa benissimo in traduzione da Massimo Bocchiola e Leonardo Pignataro), che rende questo volume di Lettere una sorta di Ritratto dell’artista da giovane che non ha bisogno, come invece nel caso di Joyce, del filtro della forma romanzesca.
L’ultima lettera è del 10 giugno 1940, quattro giorni prima che Parigi fosse occupata dai tedeschi. Nell’aprile del 1939 aveva scritto: «Se ci sarà una guerra, come temo che succederà presto, mi metterò a disposizione di questo paese». Così fece, unendosi al gruppo della Resistenza che faceva capo al suo amico Alfred Peron.

- Paolo Bertinetti - Pubblicato sulla Stampa del 20/1/2018 -