venerdì 1 settembre 2017

Il nome e l'esilio

benjdante

«Come Dante, nel tempo dell’esilio, ha saputo riconoscersi in Cacciaguida, così Walter Benjamin, nel momento dell’estremo pericolo, ha saputo riconoscersi in un verso di Dante».
Intorno alla primavera del 1940, nella fase estrema della sua vita, Walter Benjamin riprende le tesi Sul concetto di storia, che aveva concluso l’anno precedente, per tradurle in francese. In questa occasione, il filosofo tedesco inserisce nella quinta tesi, quella in cui è definito il decisivo concetto di «immagine dialettica», un sibillino riferimento alla Commedia di Dante, assente nella versione originale. A partire da questo indizio, Marco Maggi indaga il ruolo che la lettura di Dante ha rivestito nel pensiero di Benjamin, guidando il lettore in un inedito itinerario attraverso le sue opere. Il riferimento del ’40 è infatti solo l’ultima di una lunga serie di citazioni dantesche che si susseguono nei lavori benjaminiani, a cominciare da un’evocazione dell’episodio di Paolo e Francesca nel saggio sulle Affinità elettive di Goethe, per culminare nella descrizione della metropoli moderna come inferno, negli studi sulla Parigi di Baudelaire. In dialogo con le più significative correnti del dantismo novecentesco in Germania, da Stefan George a Erich Auerbach, Benjamin individua nella poesia della Commedia la più alta consapevolezza nell’uso delle immagini in relazione alla rievocazione del passato. In questo studio, che si avvale di inediti materiali di archivio, le «immagini dialettiche» di Dante nella produzione di Benjamin entrano in costellazione con l’interpretazione di due poeti, Yves Bonnefoy e Giovanni Giudici, che attraverso l’opera del pensatore tedesco hanno cercato di interpretare nel contemporaneo il rapporto tra poesia e memoria.

(dal risvolto di copertina di: Marco Maggi: Walter Benjamin e Dante Una costellazione nello spazio delle immagini, Donzelli, pp. 175, € 19.00)

L’immagine dialettica iscritta nell’aura di una “Vita nova”
- di Corrado Bologna -

A Parigi, durante gli ultimi, convulsi giorni dell’estate 1940, poco prima di fuggire verso il confine con la Spagna dove si sarebbe tolto la vita per il terrore di venir consegnato alla Gestapo, Walter Benjamin si concentrò a tradurre in francese le sue tesi Sul concetto di storia, destinate a rimanere inedite a lungo e a diventare, negli anni sessanta, uno fra i testi decisivi del pensiero moderno.
Da anni il francese era la sua seconda lingua, scavata nello studio di Baudelaire, di Blanqui, di Proust, in vista del libro sui «passaggi» alla modernità. Nella quinta tesi, là dove il testo originale tedesco dice che «la vera immagine del passato guizza via», per tradurre quell’idea fondamentale contenuta nei verbi aufblitzen e huschen che connotano l’immagine dialettica, ormai da anni al centro della sua riflessione, Benjamin sceglie il sostantivo éclair: «L’image authentique du passé n’apparaît que dans un éclair».
In quel momento lui, che vent’anni prima aveva dedicato alla teoria della traduzione pagine importanti, coglieva «la sopravvivenza dell’originale» depositata nell’istante dell’ispirazione durante il passaggio dall’una all’altra lingua, e attuava nei fatti la sua idea che in questo modo «la vita dell’originale raggiunge, in forma sempre rinnovata, il suo ultimo e più comprensivo dispiegamento». Un bagliore, un fulmine, un lampo che guizza via: questa è l’immagine dialettica del passato che «giunge a leggibilità» nello Jetzt, l’adesso di «una determinata epoca storica». Ed è la nostra quell’«epoca determinata» in cui il senso della categoria benjaminiana si fa infine pienamente «leggibile».
Dobbiamo soprattutto al lavoro esegetico di Giorgio Agamben la comprensione della lenta metamorfosi per cui il progetto del Passagenwerk si orienta negli anni dai «passaggi» della Parigi moderna verso la poesia di Baudelaire: sublime «rimuginatore», dice Benjamin, che «è di casa tra le allegorie».
Un libro intenso e innovativo di Marco Maggi, Walter Benjamin e Dante Una costellazione nello spazio delle immagini, Donzelli, pp. 175, € 19.00) introduce ora, fra le pieghe mentali e culturali in cui prende forma la categoria di immagine dialettica, un altro nome decisivo, quello di Dante, finora mai sufficientemente considerato tra le fonti di ispirazione di Benjamin.
Muovendo da alcune sottili proposte di Sigrid Weigel, su un’intuizione di alta filologia Maggi impernia un paziente, fecondo lavoro di rilettura dell’intera opera benjaminiana. Questo piccolo libro pieno di sorprese e di emozioni è per un verso un ottimo viatico per un riesame del pensiero del filosofo tedesco e della sua formazione, in dialogo con alcuni grandi spiriti europei (Georg Simmel, Hugo von Hofmannsthal, Bertolt Brecht, Ernst Bloch, il cui Spirito dell’utopia, nel 1918, «culmina in un annuncio dall’impronta dantesca: «”Incipit vita nova”»).
Per un altro verso aiuta a rimeditare alcuni punti di snodo e di incontro della riflessione di Benjamin intorno all’immagine dialettica con le ricerche di Erich Auerbach sulla Commedia, a partire dal saggio del 1921 Per l’anniversario di Dante fino a Dante, poeta del mondo terreno, del 1929, che Benjamin cita sintomaticamente, lo stesso anno, nel saggio sul surrealismo.
Il luogo cruciale della ricerca di Marco Maggi è l’individuazione di un minimo, ma importantissimo dettaglio in cui, per dirla con Aby Warburg, dimora il buon Dio. Nell’appunto autografo con la traduzione francese della quinta tesi di filosofia della storia, conservato nell’Archivio Benjamin di Berlino, subito dopo l’éclair in cui si manifesta «l’immagine autentica del passato», Maggi recupera un particolare fulminante: un riferimento a Dante, incompleto e misterioso, assente nella versione originale in lingua tedesca. Benjamin intende citare un verso, ma non realizza la citazione, perché la memoria non lo aiuta o perché si distrae. Quell’attimo di incertezza rimane bianco: su quel vuoto, su quell’immagine che balena ma svanisce prima di essere verbalizzata, prende corpo la ricerca di Maggi.
Dante nutre la riflessione di Benjamin fino a grandi profondità, irradiandosi in maniera occulta, segreta, come Maggi dimostra, suggerendo anche che il sostantivo éclair sia scelto da Benjamin per tradurre aufblitzen con tutta probabilità perché così le traduzioni francesi della Commedia a lui note rendono il fulgore dei versi finali di Paradiso XXXIII, il lampo che invade e vince l’«alta fantasia» negli ultimi versi del poema.
Nei commenti di alcuni traduttori di Dante «sono percepibili significative assonanze con la concezione benjaminiana dell’immagine dialettica, soprattutto nell’enfasi posta sulla labilità del ricordo di tale esperienza». Questa riflessione è davvero magnifica. Vediamo più a fondo negli spessori culturali di un grande pensatore, e scopriamo che come nella Commedia «il culmine della visione coincide con il suo crollo, l’immedesimazione fa tutt’uno con la sua caduta», così l’immagine dialettica di Benjamin è una «forma di conoscenza “lampeggiante”», che illumina la mente e svapora.
Il nome, una promessa
È straordinario riconoscere come la viva presenza di un Dante (ri)scoperto attraverso la traduzione di Stefan George e le pagine critiche di Auerbach agisca in profondo, sia pure con prese di distanza notevoli, nella riflessione su temi fondamentali per Benjamin. Una sua pagina del 1929 sull’Amore platonico dialoga con il saggio su Dante che il grande filologo pubblica lo stesso anno, coniugando la riflessione sulla perdita d’aura dell’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità a una lettura illuminante dell’intera Commedia: «La vera espressione di quella tensione, di quella inclinazione alla lontananza che si definisce amor platonico è il fatto che esso conserva e custodisce inviolato il nome, il nome di battesimo dell’amata. (…) Così la Divina Commedia non è che l’aura intorno al nome di Beatrice, la più possente rappresentazione del fatto che tutte le forze e le figure del cosmo provengono dal nome uscito salvo dall’amore».
Rinviando al saggio sulla lingua del 1916, uno dei primi scritti di Benjamin, Maggi ricorda che per lui il nome è «il punto in cui la lingua umana realizza la più intima partecipazione all’infinità divina del semplice verbo», e commenta: «La Commedia è dunque per Benjamin l’apparizione irripetibile della premessa contenuta nel nome di Beatrice («il nome / che ne la mente sempre mi rampolla») ; di più, «la scrittura dell’opera è, nella sua natura “platonica” di relazione a distanza, l’unica forma possibile di amore che salva la potenza, insita nel nome dell’amata, di dare luogo a un’illuminazione profana».
«Benjaminiano nell’oggetto, questo libro si vuole benjaminiano anche nel metodo». La più bella fra le costellazioni dantesche e benjaminiane disegnate da Maggi è forse quella della «stella cadente», del «fulgore», subitaneo éclair che attraversa il cielo della Commedia nei canti del Paradiso abitati da Cacciaguida, antenato del poeta, il quale chiosando la profezia abbozzata all’Inferno dal suo maestro Brunetto Latini, «profetizza» al poeta l’esito del suo «cammino»: «Come Dante, nel tempo dell’esilio, ha saputo riconoscersi in Cacciaguida, così Walter Benjamin, nel momento dell’estremo pericolo, ha saputo riconoscersi in un verso di Dante».

- Corrado Bologna - Pubblicato su Alias del 4 giugno 2017 -

Nessun commento: