sabato 30 settembre 2017

Giornali

Goncourt

Il 19 luglio 1870 la Francia dichiara guerra alla Prussia nel generale tripudio patriottico di un’opinione pubblica conquistata dalla stampa imperialista. Con la vera ubiquità del cronista, Edmond de Goncourt si sposta da un quartiere all’altro della capitale per essere quanto più possibile vicino agli avvenimenti, ritrarne la verità istantanea. Nonostante l’elitismo politico e sociale ostentato, egli ci ha lasciato una delle testimonianze più vaste, dettagliate e suggestive del dramma storico che ha vissuto Parigi nel tempo dell’Assedio e della Comune. 

(dal risvolto di copertina di: Edmond de Goncourt: L’assedio e la Comune Parigi 1870-1871, Aragno, pp.XXXVI + 284, € 20,00)

GoncourtComune

L’implacabile azzurro di un cielo colera
- di Pasquale Di Palmo -

«I Goncourt sono dei clown che si pigliano sul serio» scrisse Tolstoj a proposito dei fratelli Goncourt, esponenti di spicco del naturalismo, universalmente conosciuti per la stesura del Journal. Nella celebre foto di Nadar che li ritrae insieme, Edmond e Jules sembra recitino una parte, con quella loro espressione corrucciata e severa, pressappoco la stessa con cui giudicavano il mondo dalle pagine caustiche del loro diario. Erano diversi in tutto, i fratelli Goncourt, a cominciare dall’aspetto: il più giovane, Jules, biondo, mentre Edmond è bruno. Secondo le definizioni di Mario Lavagetto, Jules è lo «stilista» mentre Edmond è il «costruttore». Quest’ultimo, nato a Nancy nel 1822, era più anziano di otto anni rispetto al fratello. Si dedicarono, con trasporto quasi ascetico, barricandosi nel loro appartamento parigino, a una serie infinita di lavori d’arte, di critica e storia, inseguendo vanamente il successo. Titoli che, al giorno d’oggi, sono quasi del tutto dimenticati come L’art du XVIIIe siècle (1859) cui si affianca La femme au XVIIIe siècle (1862), nonché studi sulla Rivoluzione francese, il Direttorio, biografie di Maria Antonietta (appena riproposta da Sellerio), di Madame Pompadour, di Madame du Barry. Ma composero anche pièces teatrali e romanzi, tra cui Renée Mauperin (1864), Germinie Lacerteux (’65), Manette Salomon (’67), Madame Gervaisais (’69).
Il «secolo dei lumi» li intrigava, li incantava. E non poteva che essere così, qualora si consideri che il Journal accoglie una serie impressionante di aneddoti, pettegolezzi, malignità, su tante figure conosciute e sconosciute della seconda metà dell’Ottocento, che sembrano derivare direttamente dall’epoca delle raffinatezze cromatiche dei Watteau, dei Fragonard, degli Chardin. Figure, al contempo, osservate con la medesima perizia con la quale l’entomologo cataloga i suoi insetti. Naturalismo allo stato brado: «Il realismo nasce ed esplode nel momento in cui il dagherrotipo e la fotografia mostrano quanto l’arte differisca dal vero». Memori di quest’asserzione, mettono in caricatura, come il loro amico Gavarni, gli intellettuali del tempo, coi loro tic e i loro vezzi: Sainte-Beuve «ha qualcosa di un batrace»; «Renan «una testa di bue con i rossori e le callosità del sedere di una scimmia»; Flaubert un’«allegria bovina che manca di ogni fascino»; Balzac ambisce a «scoreggiare in società», e via di questo passo. Ce n’è per tutti: da Baudelaire a Gautier, da Zola a Maupassant. Loro stessi non si salvano da quest’autodafé. Jean Borie osserverà che la loro scrittura sarà «sempre combattuta tra le drammatiche lezioni di anatomia e l’estenuante ricerca delle sfumature».
Iniziarono a lavorare al Journal nel 1851 e l’impegno si protrarrà fino alla morte di Edmond, nel 1896. Il sottotitolo di quei loro appunti, che contrassegnano un’epoca, è quanto mai indicativo: Mémoires de la vie littérarie. Non poteva essere che quello, visto che si occupano, tra una cena da Marny e la frequentazione di salotti eleganti, di Verlaine che lascia la famiglia per un adolescente, «superbo della propria abiezione», o di Huysmans impegnato ad Amburgo a frequentare prostitute ungheresi di quindici o sedici anni. Scene di fronte alle quali la bohème descritta da Murger è poco più di un orpello. Lavoravano in perfetta simbiosi, come si arguisce da un passaggio scritto nell’agosto del 1859: «Ieri ero a una delle estremità del grande tavolo. Edmond, all’altro capo, parlava con Therèse. Non sentivo nulla, ma quando sorrideva, sorridevo involontariamente, e con la stessa posa del capo… Non c’è mai stato un simile caso di due corpi e un’anima sola». In un altro sintomatico frammento si legge: «Adulavo l’amore paragonandolo al nostro affetto fraterno». Non è perciò un caso che, alla morte prematura di Jules, avvenuta nella loro casa di Auteuil nel 1870, Edmond venga tacciato, con la stessa insolenza con cui il Journal fustigava i costumi dei letterati, di esserne diventato la veuve. Vedova inconsolabile del fratello, così versato in quell’écriture artiste che, come osserva Lavagetto, faceva «concorrenza alla rappresentazione pittorica che costituirà una delle “insegne” più riconoscibili della ditta Goncourt».
Dopo un inevitabile periodo di prostrazione, Edmond riprenderà in mano il Journal, sollecitato dagli avvenimenti del conflitto franco-prussiano, anche se naturalmente la scrittura non sarà più la stessa, orientandosi verso una descrizione quasi cinematografica dei fatti. L’assedio e la Comune Parigi 1870-1871 (Aragno, pp. XXXVI + 284, € 20,00), tradotto da Vito Sorbello, rappresenta un estratto della versione integrale del Journal, curata dallo stesso Sorbello per Aragno in 7 volumi. Il libro costituisce la testimonianza di Edmond de Goncourt sull’agonia del fratello e sugli eventi storici che caratterizzarono quel biennio controverso che segnò la Francia in maniera indelebile. Come Restif de la Bretonne che fu spettatore «notturno» della Rivoluzione, Edmond si prodiga, con sfrontato piglio di voyeur, al fine di rendere pubbliche vicende che, se non altro, lo distraggono dalla perdita del congiunto (il connubio sarà rievocato nel romanzo, del 1879, Les frères Zemganno). La sua scrittura adesso ha un andamento più nervoso, da cronista che non deve necessariamente indulgere alla riflessione tout court. «Sono triste per mio fratello, triste per la sorte della Patria» confessa. È una nemesi, annunciata dalla scomparsa dell’adorato Jules.
Nonostante la sua posizione politica non brilli certo per essere troppo libertaria («Dove il canagliume danza in tempi di calma, legifera in tempi di rivoluzione»), l’atteggiamento di Edmond è quanto mai rigoroso nella descrizione di quei fatidici giorni. Si sposta, con estrema disinvoltura, da una parte all’altra della città, ansioso di novità, catapultando la propria attenzione da un episodio all’altro. «Da Auteuil a Ménilmontant – scrive Sorbello nella sua introduzione – egli percorre quasi tutti i giorni a piedi la capitale con la vera ubiquità del reporter, ma adottando il punto di vista moderno di Fabrizio a Waterloo». È costretto a nascondere le sue collezioni dedicate all’arte settecentesca e giapponese, di cui sarà un antesignano, che verranno immortalate in La Maison d’un artiste (1881), catalogo che sembra prefigurare l’estetismo di Praz. Quelle stesse collezioni saranno vendute all’incanto, su volontà di Edmond, al fine di patrocinare la fondazione che darà vita a uno dei premi letterari più prestigiosi d’Oltralpe.
Con un approccio quasi stenografico, tutto giocato sul filo dei nervi (i Goncourt stessi si autoproclamarono «i San Giovanni Battista del nervosismo moderno»), in cui non di rado si accendono i colori smaglianti di una tavolozza impressionista, Edmond segue, passo dopo passo, il caotico susseguirsi degli accadimenti: l’avanzata dei prussiani, gli assembramenti formati da militari e borghesi, lo sventramento del paesaggio (vedi il Bois de Boulogne) per creare fortificazioni e linee di difesa, i cannoneggiamenti, il panico, le «mille espressioni di ansietà, di speranza, di disinganno», la nascita della Comune. Non c’è più posto per accogliere facezie o pruderies. «Le pietre qui hanno attualmente il raccoglimento umano delle grandi catastrofi» annota.
Sia che descriva il funerale del figlio di Victor Hugo sia che rammenti i pasti frugali a base di carne di animali zoologici a causa della penuria di cibo (al ristorante Voisin lo scrittore assaggerà sanguinaccio di elefante), Edmond si avventura verso gli eventi capitali, a tratti conquistato dall’eroismo dei comunardi. Si limiterà tuttavia, durante la Settimana di sangue relativa alla repressione della Comune, a osservare il triste epilogo dalla finestra di casa. Ha capito che niente sarà più come prima, che rimarranno per sempre impresse le tracce di quell’«implacabile azzurro di un cielo di colera».

- Pasquale Di Palmo - Pubblicato su Alias del 4 giugno 2017 -

venerdì 29 settembre 2017

Il superamento del libro

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La rivendicazione contro il mondo secondo Blanchot
- di Marco Dotti -

Poche figure hanno attraversano il Novecento filosofico, critico, letterario senza lasciare una sola e afferrabile immagine di sé, disseminandolo però di perduranti, ma sfuggenti, tracce. Una di queste figure è senza dubbio Maurice Blanchot. Narratore e critico letterario, saggista capace di portare la forma-saggio alle sue altezze più estreme, Blanchot è autore che tutti hanno se non letto intercettato, se non cercato incrociato, se non visto sentito nei propri percorsi di lettura o ricerca: Kafka, Derrida, Bataille, Lévinas, Hölderlin, René Char, Foucault. Tutto ciò di cui ci ha parlato, ora ci parla di lui.
Forse per questa ragione Roland Barthes vedeva in Maurice Blanchot una sorta di incarnazione di eroismo letterario, ovvero «l’attaccamento intrattabile a una pratica, cioè la rivendicazione, contro il mondo, di un’autonomia, di una solitudine». Non è un caso, allora, se di Blanchot abbiamo pochissime fotografie attorno alle quali il suo nome, e men che meno la sua pratica, potesse lasciarsi afferrare. Sempre al cuore della questione intellettuale, non si è lasciato monopolizzare. La periferia era il codice implicito di pratica che è oggi fonte di un’attenzione critica sempre crescente, fatta forse eccezione per il nostro Paese dove l’interesse, soprattutto editoriale, è scemato con gli anni o – e questo concerne il lato più strettamente letterario della sua opera – dove la scintilla non è scoccata affatto.
A rilanciare la sfida prova ora l’ultimo, bel numero di Riga (edito da Marcos y Marcos pp. 218, euro 28). È il trentasettesimo del semestrale di Marco Belpoliti e Elio Grazioli, ed è dedicato proprio a Blanchot per la cura di Giuseppe Zuccarino, uno dei suoi più profondi e meticolosi conoscitori.
Il volume di Riga si apre con gli omaggi ispirati, a firma di René Char, Marco Ercolani, Enzo Campi e Benoît Vincent e prosegue con testi, per lo più incipit da romanzi e racconti (da Thomas l’obscur, Le Très-Haut e Au moment voulu), inediti in italiano e prosegue infine con una corposa silloge di saggi critici, da Lévinas a Pierre Klossowski, da Georges Bataille a Jacques Derrida, fino a Georges Didi-Huberman, Jean-Luc Nancy e Bernard Stiegler, del quale Zuccarino e Paolo Vignola hanno tradotto una lunga conferenza sulla «farmacologia dell’amicizia» risalente al 2011. A questi saggi, antologizzati in traduzione, si affiancano quelli, scritti appositamente per Riga, di studiosi italiani: Alberto Castoldi, Manlio Iofrida, Igor Pegrelfi, Bruno Moroncini, Riccardo Panattoni, Marco Della Greca.
«Se Blanchot si rivolge a tutte le grandi opere della letteratura mondiale e le intesse nel nostro linguaggio», osserva Michel Foucault, «lo fa proprio per dimostrare che queste opere non si possono mai rendere immanenti, che esse esistono al di fuori, che sono nate al di fuori e che, se esistono al di fuori di noi, noi siamo a nostra volta al di fuori di esse. E se manteniamo un certo rapporto con queste opere è a causa di una necessità che ci costringe a dimenticarle e a lasciarle cadere fuori di noi».
Nel suo intervento (Blanchot e il superamento del libro), Zuccarino richiama il giudizio di Foucault, che aveva ad oggetto il rapporto con lo spazio letterario, riportandolo a un tema, quello sull’inquietudine riguardo alla forma-libro, che attraversa tutta l’opera di Blanchot, da Le livre, testo del 1943, passando per Le livre à venir del 1957, fino agli ultimi testi, su tutti L’écriture du désastre, edito nel 1980 da Gallimard.
Se la civiltà, scriveva Blanchot nell’articolo del ‘43, si configura e si riconfigura in termini di rispetto o disprezzo del libro, tanto più che il rogo dei libri è considerato a tutt’oggi, anche in tempi «liquidi», una delle forme più radicali di violenza, la domanda che si pone e ci pone affiora in tutta la sua portata assumendo una carica che con un termine un poco scontato definiremmo «epocale». Chiede infatti Blanchot ne Le livre à venir: «dove va la letteratura?». Risposta: «la letteratura va verso se stessa, verso la sua essenza che è la sparizione».
Non potendo più rispondere a un’esigenza di assoluto, la letteratura, e con essa la forma-libro, perde la propria sovranità sul presente, presentandosi – il discorso di Blanchot poggia qui sul Coup de dés di Mallarmé – come forma futura, come forma possibile del possibile. Che ne è, allora, del libro a venire? Derrida ne trasse un lungo commento, nel 1997, pubblicandolo poi nel suo Papier à écrire (Galilée, 2001): senza supporto il libro infinito evocato da Blanchot poteva infine coincidere con la fine del libro? Fruizione senza limiti, ipertrofia dei mezzi, bulimia di messaggi: le cose spicciole e il tempo della rete sembrerebbero dare ragione al Derrida che, a sua volta, sembra dare ragione a Blanchot. Non fosse che con Blanchot le cose sono più complesse e, ci ricorda Zuccarino, ben più radicali. Ecco, allora, l’attualità di Blanchot, la sua etica in rapporto a quegli «amici lontani» che, rovesciando la formula di Jean Paul («i libri sono solo lettere agli amici lontani»), sono i libri. Il libro è per Blanchot qualcosa che sempre eccede il supporto. Lo eccede e lo precede Forse per questo Foucault parlava di una impossibile immanenza, di un fuori tanto radicalmente, totalmente altro?«Se per una prima volta il libro potesse davvero iniziare», scriveva Maurice Blanchot, «allora già da tempo, per un’ultima volta, sarebbe giunto alla fine». Per fortuna, quel tempo non è ancora giunto. Almeno per noi.

- Marco Dotti - Pubblicato sul Manifesto il 27/6/2017 -

giovedì 28 settembre 2017

Cripto-Mania

bitcoin-bubble

Le Blockchain e la crypto-mania
- di Michael Roberts -

Nelle recenti settimane, l'entusiasmo per la cripto-valuta sembra aver avuto un crollo da quando le autorità cinesi hanno bloccato la speculazione sul mercato dei bitcoin. La storia dei mercati finanziari è piena di "bolle" dei prezzi, dai tulipani dei primi anni del 17° secolo agli esempi più recenti, come quelli degli "Internet Stocks" della fine degli anni 1990 e i prezzi degli immobili negli Stati Uniti prima del 2008. Questa sembra esse un'altra di quelle. L'ascesa della valuta virtuale del bitcoin, che recentemente è arrivata ai 5.000 dollari e quest'anno è cresciuta di circa il 350%, ora si è invertita, scendendo fino a 3.000 dollari, anche se si trova ancora molto al di sopra della sua partenza iniziale. Ma questo potrebbe preludere all'inizio di un ricalcolo.
Il bitcoin mira a ridurre i costi di transazione nei pagamenti su Internet e ad eliminare completamente la necessità degli intermediari finanziari come le banche. Ma fino ad adesso il suo utilizzo principale è stato quello che concerne la speculazione. Quindi, il bitcoin, la valuta digitale che opera su Interner, è solo una truffa speculativa, un altro Schema Ponzi, oppure dietro tutte queste cripto-valute, come vengono chiamate, c'è molto di più?
Il denaro nel moderno capitalismo non è più soltanto una merce come l'oro ma è piuttosto una "valuta fiat", sia in moneta che in banconota o, com'è per lo più adesso come credito nelle banche. Tali valute fiat, vengono accettate in quanto vengono stampate e garantite dai governi e dalle banche centrali, e sono soggette a regolamentazione e "fiat". La stragrande maggioranza di denaro fiat non è più in moneta o in banconote, bensì in depositi o in titoli nelle banche. Nel Regno Unito, banconote e monete sono solo il 2,1% rispetto al totale della riserva di 2,2 miliardi di sterline.

Il fattore per cui si è diffuso il bitcoin, insieme ad altre cripto-valute concorrenti, è stato Internet e la crescita del commercio e delle transazioni basate su Internet. Internet ha generato una richiesta di transazioni online a basso costo anonime e rapidamente verificabili, da essere usate per uno scambio online, e la moneta da poter usare rapidamente è emersa come conseguenza.
Le cripto-valute mirano ad eliminare il bisogno di intermediari finanziari offrendo pagamenti online diretti "peer to peer" (P2P). La principale innovazione tecnologica dietro la cripto-valuta è stata la "blockchain", un "registro" [libro mastro] che contiene tutte le transazioni per ogni singola unità di valuta. Differisce dai registri esistenti (fisici o digitali) per il fatto di essere decentralizzato, vale a dire, non c'è alcuna autorità centrale che verifica la validità delle transazioni. Invece, esso utilizza una verifica basata su prove crittografiche, dove i diversi membri della rete verificano i "blocchi" di transazioni circa ogni 10 minuti. L'incentivo a fare questo è il compenso sotto forma di nuova cripto-valuta "coniata" per il primo membro che fornisce la verifica.
La più nota cripto-valuta è di gran lunga il bitcoin, concepito solo nove anni fa da un anonimo e misterioso programmatore, Satoshi Nakamoto. Il Bitcoin non è localizzato in una particolare regione o in un paese, né ha come scopo quello di essere usato per una qualche particolare economia virtuale. A causa della sua natura decentralizzata, la sua circolazione è largamente oltre la portata della regolamentazione diretta da parte della politica monetaria e non si cura di tutto ciò che è stato tradizionalmente in qualce modo imposto per mezzo di denaro privato localizzato e attraverso il denaro elettronico.
L'innovazione maggiore portata dalla "blockchain" consiste nel registrare  pubblicamente l'integrità delle transazioni senza che ci sia un'autorità centrale. La tecnologia del "blockchain" offre a ciascuno l'opportunità di partecipare a contratti sicuri nel tempo. ma senza essere in grado di evitare che venga registrato quello che è stato concordato in quel momento. Così, una "blockchain" è un database delle transazioni che si basa su un registro crittografato mutualmente condiviso fra tutti in un sistema. La frode viene impedita per mezzo della validazione del blocco. La "blockchain" non richiede un'autorità centrale o una terza parte fidata per coordinare le interazioni o per validare le transazioni. Una compia completa della "Blockchain" contiene ogni transazione mai eseguita, fornendo informazioni sul valore che riguarda ogni indirizzo attivo (account) accessibile in qualsi punto della storia.

Ora, per gli appassionati di tecnologia e anche per coloro che vogliono costruire un mondo al di fuori del controllo della macchina statale e delle autorità di regolamentazione, tutto questo sembra essere molto eccitante. Le comunità e le persone potrebbero fare transazioni senza che ci sia il diktat da parte di governi corrotti e si potrebbero controllare i redditi e la ricchezza senza il permesso delle autorità - questo potrebbe essere anche l'embrione di un mondo post-capitalistico senza Stati.
Ma questa nuova tecnologia di "blockchains" e di cripto-valute è davvero sul punto di offrirci un simile nuovo mondo utopico? Come avviene con ogni tecnologia, questo dipende se riduce il tempo di lavoro e fa aumentare la produttività di cose e servizi (valori d'uso)  o se, sotto il capitalismo, sarà un'altra arma per far crescere il valore ed il plusvalore. Può la tecnologia in sé - anche una tecnologia che apparentemente non è controllata da nessuna compagnia o da nessun governo - rendere davvero libere le persone dalla legge del valore?
Penso di no. All'inizio, per un po', il bitcoin era limitato alle persone che avevano una connessione internet. Il che significa che miliardi di persone sono esclude dal processo, anche se nei villaggi e nelle città delle "economie emergenti" il settore del "mobile banking" è cresciuto. Finora è quasi impossibile comprare qualcosa di importante con i bitcoin. Globalmente, le transazioni con i bitcoin sono circa tre al secondo, rispetto al credito Visa che interessa 9.000 transazioni al secondo. E l'allestimento di un "portafoglio" per portare a termine delle transazioni in bitcoin su internet è ancora una procedura difficoltosa.
In maniera ancora più decisiva, la questione è quella che interessa il fatto se attualmente il bitcoin soddisfi ai criteri del denaro nelle economie moderne. Sotto il capitalismo, laddove cose e servizi vengono prodotti in quanto merci da vendere su un mercato, il denaro svolge tre funzioni. Il denaro dev'essere accettato come mezzo di scambio. Deve essere un'unità di misura del valore con un certo grado di stabilità di modo che si possa comparare il costo dei beni e dei servizi nel tempo e fra gli esercenti. E dovrebbe essere anche una riserva di valore che rimanga ragionevolmente stabile nel tempo. Se si sviluppa iperinflazione o una spirale deflattiva, allora la valuta nazionale ben presto perde il suo ruolo dal momento che la "fiducia" nella valuta scompare. Nella storia ci sono molti esempi di una valuta nazionale che viene rimpiazzata da un'altra valuta o dall'oro (perfino dalle sigarette), quando si perde la "fiducia" nella sua stabilità.
Con i bitcoin il problema della fiducia si aggrava in quanto essi si basano sui "miners", ovvero membri che forniscono potere computazionale per risolvere un complesso problema di crittografia e che verificano le transazioni che ci sono state entro un breve periodo di tempo (10 minuti). Queste transazioni vengono poi pubblicate in blocco, ed il "minatore" che ha ne pubblicato per primo la prova riceve una ricompensa (attualmente 25 bitcoin). La dimensione massima di un blocco è di 1MB, che corrisponde ad approssimativamente sette transazioni al secondo. Per poter assicurare che i blocchi vengano pubblicati all'incirca ogni 10 minuti, la rete regola automaticamente la difficoltà del problema crittografico da risolvere.

L'attività di "mining" dei bitcoin richiede della attrezzature specializzate, così come dei costi sostanziali di elettricità, e quindi i "minatori" devono equilibrare la loro tecnologia e l'investimento in energia. Ciò significa che i bitcoin potrebbero funzionare sempre più come sostituto alternativo alla valuta globale solo se l'attività di "minatore" diventa operativamente ampia. E ciò significa il coinvolgimento delle grandi compagnie, quelle in mano alle entità capitalistiche, che eventualmente potrebbero essere in grado di controllare il mercato dei bitcoin. Anche se il bitcoin dovesse diventare una valuta buona per pagare le tasse al governo, ciò richiederebbe allora una qualche forma di relazione di prezzo con le riserve esistenti di "denaro fiat". Così i governi saranno ancora lì.
Infatti, l'ostacolo più sorprendente per il bitcoin, o per qualsiasi altra cripto-valuta che possa avere il sopravvento, è il consumo di energia coinvolto. Per l'alimentazione dei computer, l'attività di "mining" per i bitcoin sta già consumando più energia di quella corrispondente al consumo annuo dell'Irlanda. Le temperature registrate nei pressi dei centri per il "mining" da parte dei computer sono salite alle stelle. Forse questo calore potrebbe essere usato ecologicamente, ma la non-redditività di un simile riciclaggio energetico potrebbe "bloccare" questa espansione del "blockchain".
Il capitalismo non sta ignorando la tecnologia del "blockchain". Anzi, come fa con qualsiasi altra innovazione, cerca di portarla sotto il suo controllo. I registri distribuiti mutualmente (MLDs) nella tecnologia "blockchain" forniscono una registrazione elettronica pubblica dell'integrità delle transizioni senza che ci sia una proprietà centrale. La capacità di avere globalmente disponibile una fonte di dati, verificabile e che non può essere manomessa, dà a chiunque desideri fornire servizi di terze parti affidabili - cioè, la maggior parte delle imprese di servizi finanziari - la possibilità di farlo a buon mercato ed energicamente. È questa infatti la strada che le grandi banche ed altre istituzioni finanziarie stanno prendendo. Sono molto più interessate a sviluppare tecnologia "blockchain" al fine di risparmiare sui costi e per controllare le transazioni su internet.
Come fa notare uno dei critici del "blockchain": « In primo luogo, non siamo convinti che il "blockchain" possa essere separato con successo da un coupon o da un gettone per un pagamento senza che venga compromessa la sicurezza del sistema. In secondo luogo, non siamo convinti che l'economia del "blockchain" possa funzionare per qualcosa se non per pochi casi d'uso ad alta intensità. Terzo, il "blockchain" sarà sempre molto più costoso di un sistema centrale puro poiché dovrà essere sempre un lavoro di elaborazione svolto da una molteplicità di agenti, piuttosto che da uno solo, cosa che fa di esso un costoso servizio di ripulitura - soprattutto se separato da una cedola azionaria -  e non un servizio economico. » (Kaminska, I., 2015, “On the potential of closed system blockchains,” FT Alphaville.)

Tutto questo suggerisce che la tecnologia "blockchain" verrà incorporata nella creazione del valore senza che ce ne sia bisogno se viene largamente applicata. Le cripto-valute diverranno parte della cripto-finanza, e non il mezzo per un nuovo mondo di transazioni libere e autonome. Più probabilmente, il bitcoin ed altre cripto-valute rimarranno nella micro-periferia dello spettro delle monete digitali, similmente a quel che ha fatto l'esperanto nel suo ruolo di linguaggio globale universale contro la potenza dell'imperialista inglese, dello spagnolo e del cinese.
Ma la cripto-mania potrebbe benissimo continuare ancora per un bel po', insieme alla crescita a dismisura in tutto il mondo dei mercati azionari e obbligazionari, dal momento che il capitale cerca rendimenti più elevati provenienti dalla speculazione finanziaria.

- Michael Roberts - pubblicato il 17/9/2017 su Michael Roberts Blog -

FONTE: Michael Roberts Blog

mercoledì 27 settembre 2017

Secoli

bergerac

«Il Medioevo del Seicento»
- di Marcello Simoni -

Se si volesse scrivere un thriller ambientato nel passato, e infondergli il giusto tocco di oscurità, sarebbe arduo scegliere l’epoca storica più adatta. A prestare ascolto a certi appassionati del Medioevo, i più spaventosi flagelli si sarebbero abbattuti sul genere umano tra la fine del mondo antico e l’inizio dell’età moderna. L’apocalisse, in sostanza, sarebbe già avvenuta intorno all’anno Mille. Scavando a fondo, però, ci si rende conto che le cose andarono diversamente. L’evo di mezzo subì la sua buona dose di barbarie, è incontestabile, ma assistette anche alla fioritura delle università, dei comuni e degli scriptoria monastici. La peste nera, per cui è spesso citato, ne segna soltanto l’autunno. Se poi fossimo in vena di fare i pignoli, potremmo scovare dei clamorosi equivoci. Basti pensare ad alcuni fenomeni di lunga durata che incisero in negativo sull’evoluzione religiosa, antropologica e sociale dell’Occidente. Fenomeni giunti a maturazione all’inizio del Seicento, in pieno Barocco. In molti, a questo punto, citeranno con sdegno il Cogito ergo sum e il teorema di Pascal, innalzando i vessilli della ragione e del progresso. E in una certa misura non avranno neppure torto. Il Secolo di Ferro apre le porte a un pensiero nuovo e a una nuova dinamica degli Stati e della politica. Tuttavia non brillò soltanto per i lumi dell’intelletto, ma anche per quelli dei roghi. I fenomeni di lunga durata a cui accennavo sono infatti l’inquisizione e la stregoneria. Spesso, a torto, releghiamo queste «macchie nere» della storia al Medioevo, dimentichi del fatto che stiamo riciclando un cliché mutuato dal Romanticismo. È da lì che proviene la formulazione dei cosiddetti «secoli bui», insieme a una fascinazione letteraria veicolata dal nascente romanzo storico, i cui più celebri esempi sono Ivanhoe e l’Adelchi manzoniano.
Ma se guardiamo oltre Notre-Dame di Victor Hugo, scopriremo che la paura delle streghe non appartiene all’epoca feudale, durante la quale si era più inclini a far
strage di eretici e di saraceni. Catari, Valdesi, Dolciniani, questi sono i nomi attribuiti al Diavolo in quei tempi. Di contro, è l’età moderna a generare le fantasie più oscene e suggestive sulle adoratrici di Diana, rielaborando i concetti della strix dell’epoca classica, del Sabba, dei conciliaboli nelle foreste e delle confraternite di donne dedite a corrompere la purezza — e la noia — dell’ordinamento sociale moderno.
Delle «femmine malefiche» ci parlano numerosi teologi, demonologi e trattatisti del Seicento. Alcuni di questi sono inquisitori, come il milanese Francesco Maria Guaccio, che scrisse il Compendium maleficarum basandosi su fonti francesi e tedesche, ma anche su una persecuzione che lui stesso compì in Renania. In alcune
illustrazioni del suo trattato compaiono donne tramutate in animali selvatici, altre intente ad arrostire bambini e apparizioni del Diavolo voltato di schiena, per farsi baciare l’ano dai suoi adepti. La lista tuttavia si prolunga all’inverosimile. Partendo dalla fine del Cinquecento con la Demonolatria di Nicolas Rémy, si continua con le disquisizioni del gesuita spagnolo Martín Del Rio, autore di un’enciclopedia di magia nera divenuta un autentico bestseller (fu ristampata una ventina di volte), e con il Tableau de l’inconstance di Pierre de Lancre, un giudice francese responsabile di un’estesa caccia alle streghe avvenuta nei paesi baschi. Si rammenti inoltre la diffusione del Formicarius del domenicano Johannes Nider, ripescato dal Quattrocento e dedicato, in parte, agli «inganni dei malefici».
Per farla breve, abbiamo superato di gran lunga le ossessioni degli inquisitori medievali Nicolas Eymerich e Bernardo Gui, e pure i delitti pseudo-apocalittici descritti da Umberto Eco nel Nome della rosa. Se il Sant’Uffizio nasce nel XIII secolo, è a cavallo del Concilio di Trento che giunge al suo massimo potere. Ed è proprio a partire da questo momento che intraprende, in modo tanto sistematico quanto spietato, una guerra intesa da un lato a uniformare la devozione cristiana e dall’altro a castrare ogni residuo folklorico (paganeggiante) sopravvissuto alle epoche precedenti.
Come effetto di ogni azione repressiva, anche in questo caso assistiamo a un rigurgito di fantasie deliranti degne della pittura tardogotica di Hieronymus Bosch.
Fantasie che sembrano perseguitare più i cacciatori delle prede, dal momento che è proprio nei loro scritti che prendono forma. Del resto, malgrado lo sfarzo del Barocco, il Seicento non si può certo definire un secolo felice. Gravato dalla Guerra dei Trent’anni, dalla carestia e da una corrente artistica intrisa di sensibilità macabra, rappresenta un terreno più che adatto a coltivare incubi.

Così si mise a punto, per la prima volta nella storia, un efficentissimo sistema burocratico e di polizia volto a sopprimere i crimini più turpi riconosciuti dalla Chiesa. Le indagini si svolsero mediante la regola del sospetto, celebrata dalla bolla Licet ab initio di Paolo III (1542) e supportata dai non valori dell’intolleranza e della paura del diverso. Le vittime però non furono le sole, presunte streghe. Una delle categorie più a rischio fu quella di scrittori e tipografi, divulgatori di un libero pensiero che sfidava i dettami delle sfere ecclesiastiche. Anche gli illustratori, i gazzettieri, gli attori e persino i compositori di musica non ebbero vita facile.
Stanchi di bruciare gli uomini, si passò quindi ai libri. La Congregazione dell’Indice, nata in clima tridentino da una costola dell’Inquisizione, avviò una tale opera di controllo, emendazione e censura da lasciar basiti molti eruditi del tempo. Non furono soltanto i testi di Calvino e di Lutero a finire tra le fiamme, ma anche quelli di Guglielmo di Occam, Erasmo da Rotterdam, Boccaccio, il De monarchia di Dante e le Satire dell’Ariosto. In uno scambio epistolare tra il segretario cardinalizio Girolamo Aleandro e l’astronomo francese Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, si arrivò a lamentarsi: «In queste nostre parti (Roma) non si usa stampar libri curiosi, anzi il negotio va tanto restringendosi, che credo ci ridurremo solamente a stampar i messali, e breviari».
Parlavamo però di scrivere romanzi, e a ben vedere sarebbe scortese dilungarsi sul Secolo di Ferro senza spendere una parola sulle opere letterarie che contribuirono a dargli la fama di periodo terribile. Dumas prima di tutti, con I tre moschettieri, descrive un’epoca fatta di avvelenamenti, prelati ombrosi e donne più imprevedibili di qualsiasi fattucchiera. Si tratta di un mondo più complesso e tenebroso del Medioevo. Gli eroi che lo popolano non corrispondono al profilo del cavaliere senza macchia ma, D’Artagnan docet, a quello dell’impertinente con il «genio dell’intrigo». Dell’intrigo e della lingua tagliente, se tiriamo in ballo Cyrano de Bergerac, quello della commedia teatrale di Rostand e pure l’uomo in carne e ossa.
Se infatti il Seicento è un secolo pericoloso per sognare, dà voce al più grande sognatore di tutti i tempi. Nei suoi viaggi metafisici, Cyrano inseguì la luna più di
qualsiasi alchimista o scienziato. Fu filosofo, libertino e narratore dell’immaginifico, l’unico capace di scoperchiare senza filtri il calderone visionario che risiede nel cuore dell’uomo del XVII secolo. E se incarnò l’ideale del linguaggio arguto declamato dalla poesia dell’epoca, nei momenti in cui la favella non gli bastò combatté duellando in punta di spada, o di naso, per opporsi alla grettezza del mondo.
Del resto ogni epoca ha il proprio eroe, o meglio il suo simbolo dell’eroismo. Se per il Medioevo fu il conte Orlando, «ucciso» da Cervantes, per il Secolo di Ferro serve qualcuno in grado di ribaltare la pesantezza della guerra, dell’inquisizione e della censura. In sostanza, un Perseo di calviniana leggerezza che tenderei a riconoscere proprio in Cyrano. In alternativa si dovrebbe cercare nell’ombra, regno incontrastato di un (anti)eroe nato sul chiudersi del Cinquecento per dominare le sale di teatro del secolo successivo. Mi riferisco al Faust di Marlowe, il doctor diaboli che vendette l’anima a Satana pur di accedere a una sapienza sconfinata. E con questa figura si va ben oltre il simbolo, permettendoci di accedere sia alla stregoneria sia all’alchimia, tanto amata durante tutta l’età moderna (basti pensare all’exploit dei Rosa Croce).
Non serve molta fantasia, a questo punto, per immaginarsi gabinetti alchemici celati in monasteri, cripte e palazzi cardinalizi. Anche a Roma, sotto un sole che tinge d’oro le cupole vaticane.

- Marcello Simoni - Pubblicato su Il Corriere/La Lettura del 20 Novembre 2016 -

martedì 26 settembre 2017

BisPensiero

benoit

Abbattiamo questo sistema, ce lo chiedono i capitalisti!
- di Benoit Bohy-Bunel -

Se i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici vengono messi in discussione, il movimento di contestazione sociale che denuncia ciò si trova di fronte ad un problema di ordine teorico e strategico.
Vale a dire che leggi come la "loi travail 2" sono soprattutto ricche di insegnamenti.
Un sistema che mette al primo posto delle finalità quali la "crescita", la "produttività", la "competitività", se da un lato assicura una legalità la quale permette che il suo funzionamento non esclude affatto che vengano negati gli interessi vitali della classe lavoratrice (rendendo pertanto possibile la creazione del valore, nel senso stretto del termine), in quello stesso momento fa una confessione esplicita.

In un certo qual modo, ed in maniera paradossale, questo sistema si auto-denuncia. Proclama spudoratamente che ciò che per lui è "virtuoso" corrisponde, nei fatti, ad un oscuramento della qualità del vissuto concreto di coloro che fanno "funzionare" la macchina, vale a dire corrisponde a ciò che è in sé scandaloso.
Questa confessione è una manna dal cielo: la classe che detiene il capitale, e lo Stato che difende i suoi interessi, ci forniscono così la mazza con cui picchiarli. Un simile cinismo, talmente evidente, ci mostra in maniera definitiva che il sistema non ha assolutamente niente di "sano" (cosa che il mito dei "gloriosi trent'anni" tende a farci dimenticare).
Una dimostrazione così radicale di quello che è un disprezzo istituzionalizzato, è un invito all'insurrezione.

Qual è il senso di tale "provocazione"? Chi provoca si aspetta una reazione proporzionata all'entità della provocazione. L'attuale legge sarà una provocazione finale, che richiede una risposta che sia commisurata allo scandalo. In un simile contesto, non ci si può limitare all'ennesima riforma, rispetto alla quale si tratterebbe soltanto di esigerne la "revisione", o perfino "l'abolizione". Quello che è in atto è piuttosto un salto qualitativo. Il sistema del valore accumulato mostra il suo vero volto, e bisogna saper cogliere quest'opportunità. L'inconscio degli agenti del mantenimento del sistema "repubblicano" è un vasto campo pieno di rovine che potremmo esplorare.
Qui si possono trovare ideali abbandonati di gioventù, rinunce, abdicazioni. Dovunque si trovino, regna incontrastato un "bis-pensiero" (Orwell) secondo il quale si tratta di formulare, secondo un modo fatico, delle prescrizioni tecnocratiche disincarnate, di cui si è completamente dimentica il significato propriamente "umano".

La loro connessione sociale si riassume nell'analisi quantitativa delle "curve" o dei "grafici", dei "sondaggi" o delle "statistiche", che non hanno più niente di tangibile. In seno a questo patetico marasma, emerge allora un discorso: la "virtù" di questo sistema, ci dice, corrisponde alla necessità di calpestare coloro che consentono il suo funzionamento.
E all'improvviso, ci viene consegnata, indirettamente ma sicuramente, un'amara verità, che avevamo preferito non vedere: il sistema di cui parliamo non ha come finalità la considerazione ed il riconoscimento positivo dei suoi membri laboriosi. Un individuo che riconosce che la sua "virtù" consiste nell'occultazione-distruzione degli altri si autocondanna: tale provocazione richiede una reazione proporzionata.
Analogamente, un sistema che rende possibili delle leggi come la "loi travail XXL" chiede di essere messo in discussione, chiama alla sua radicale abolizione.
Inconsciamente, gli agenti del mantenimento del sistema "repubblicano", proponendo e sostenendo dei progetti che negano l'umanità in maniera così scandalosa, sanno che provocheranno una reazione proporzionata: loro malgrado, sono guidati da una logica irreversibile, che è la logica dell'auto-superamento del capitalismo, verso una società post-capitalista.

Si dovrà perciò essere all'altezza dello scandalo. In questo movimento di lotta, vanno considerate due opzioni: o rivendichiamo esclusivamente la soppressione della legge (e così, se abbiamo successo su questo terreno, potremo tornare alle nostre "normali" attività, potremo continuare a sopravvivere in un sistema che avrà tuttavia esibito in maniera così fiera il suo nichilismo intrinseco); oppure possiamo approfittare di questa occasione per promuovere, in maniera più globale, l'abolizione radicale del sistema, ed il passaggio a nuove forme di vita, creative e intense.
Naturalmente, le due opzioni non si escludono a vicenda.

Innanzitutto, in un contesto che non è ancora rivoluzionario, bisogna ovviamente difendere i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nel momento in cui vengono minacciati, nella misura in cui il capitalismo non è stato ancora abolito, bisogna pur vivere, e questo deve avvenire nelle migliori condizioni possibili. Ma dovrà essere anche possibile - ed anche necessario, mi pare - tenere insieme le due finalità: mentre difendiamo i diritti dei lavoratori salariati, mentre tentiamo di ridurre le ineguaglianze a livello della distribuzione delle merci e del valore, mentre vogliamo evitare che la politica partitica produca dei danni irreparabili, possiamo preparare l'avvento di una società nella quale verranno aboliti il lavoro, la proprietà privata dei mezzi di produzione, la merce, il valore e lo Stato.

L'attuale attenzione sulla "loi travail XXL" (che non è affatto solo un pretesto, ma piuttosto un detonatore) non rinuncerebbe così ad un orizzonte rivoluzionario, e non si priverebbe di un progetto post-capitalista. Essere alla "altezza" della scandalosa confessione che ci è stata appena fatta, essere all'altezza di una provocazione che rivela il sistema nel suo essere amorale e nichilista, potrebbe perciò voler dire: portare avanti una lotta più radicale, mettere in discussione le regole del gioco economico e sociale, al di là di qualsiasi ritocco cosmetico. Questa legge rivela l'essenza del lavoro in regime capitalista.

Innanzitutto, il lavoro è in crisi. La rivoluzione micro-informatica ha reso sempre meno indispensabile il lavoro vivente. Il ricorso massiccio all'automazione della produzione, che consente guadagni competitivi, produce una relativa inutilità di un gran numero di lavoratori e di lavoratrici. Ma per l'appunto questa inutilità è solo relativa: dal momento che il sistema capitalista ha bisogno, sottobanco, di lavoro vivente sfruttato, affinché si accumuli, e anche perché si conservi, il valore, essendo la forza lavoro la sola "merce" in grado di creare più valore di quanto costi.
A causa di questa contraddizione, il capitalismo si confronta con una radicale ed irreversibile svalorizzazione del valore. Il lavoro, diventato inutile, si mette ad affermare il sua irriducibile necessità. Politicamente, tale tensione inerente al capitalismo non si traduce in un ultimo riconoscimento dei lavoratori e delle lavoratrici, ma piuttosto nella loro irrimediabile precarizzazione, per mezzo di una legislazione appropriata: poiché, nella misura in cui il sistema si confronta con la potenzialità della propria auto-distruzione, l'estrazione del plusvalore deve diventare più "aggressiva", più "efficace".

Un'altra lezione: il lavoro non vale in quanto produce dei valori d'uso concreti, in grado di avere una concreta particolare qualità sociale, ma vale solo in quanto consente una "crescita" considerata in maniera quantitativa ed astratta. Con la "loi travail XXL", nella continuità della "loi El Khomri", quel che emerge radicalmente è l'idea del "lavoro in generale", del lavoro "tout court": poco importa la vostra attività, il modo in cui voi vi riconoscete in essa, e la maniera in cui essa serve il bene comune; ciò che importa, è innanzitutto il fatto che essa sia attività salariata produttiva di valore astratto. Poiché la "crescita" di cui tanto si preoccupa la Politica non è altro che un obiettivo senza corpo, al di là di ogni progetto ragionevole o autenticamente umano.
Questa legge svela l'essenza dello Stato in regime capitalista. Dobbiamo far tesoro di questa lezione. Qual è questa lezione? Lo Stato è solo il manager del capitalismo. I suoi obiettivi (produttività, competitività) possono essere tutti ridotti al concetto di profitto (profitto che riguarda un'infima minoranza della popolazione).
Il modo in cui definisce la sua gestione dell'insieme sociale rimanda al privilegiare sistematicamente un insieme di interessi privati che negano il benessere comune. Il "pensiero doppio" [bis-pensiero] che indossa consiste nel far passare dei giochi vaghi e mal definiti (la crescita) per delle questioni che riguardano un qualche "interesse generale" astratto ed immediatamente seducente. Ma ogni cosa universale-astratta, tuttavia, nasconde qualcosa di particolare e concreto che ha la tendenza totalitaria a farsi ingannevolmente passare per il tutto, quando non è altro che una parte non rappresentativa di questo tutto. Per mezzo di leggi come la "loi travail XXL", lo Stato "repubblicano" ci fa una confessione: per lui, la libertà non è altro che la libertà di impresa (o di consumare); ma tale libertà è il contrario della libertà politica in senso stretto, la quale è una libertà positiva nei fatti e nelle parole; per lo Stato, l'uguaglianza è una uguaglianza quantitativa che riguarda la sfera della circolazione dei beni; ma tale uguaglianza si basa sul principio inegualitario per eccellenza (lo sfruttamento nella produzione).
Prendere atto di questa confessione, significa prendere atto di un fatto importante: lo stesso Stato che afferma la necessità di difendere il principi "democratici" sta affermando che egli reclama la sua abolizione, nella misura in cui sostiene il contrario della democrazia reale.
In ambito democratico, è questa la conseguenza del "bis-pensiero" : gli stessi individui che sono dei "rappresentanti" del "potere" "democratico" esigono, certamente in maniera inconscia, di essere rovesciati, e che si ponga fine alla loro pagliacciata. Se fossero coerenti, e se comprendessero davvero ciò che significa la loro difesa della "democrazia", sarebbero essi stessi a non voler più governare, e riconoscerebbero la legittimità di ogni movimento di disobbedienza civile. Quindi, a tal proposito, ascoltiamoli e in conformità con il loro desiderio inconscio: abbattiamo il loro sistema, visto che sembrano desiderarlo così tanto (sebbene essi stessi non lo sappiano...).

- Benoit Bohy-Bunel - Pubblicato il 24 settembre 2017 su Les Enragés
(da: Benoit Bohy-Bunel, La lutte contre la loi travail XXL. Finalités révolutionnaires, stratégies possibles, internationalisme)

fonte: Les Enragés

lunedì 25 settembre 2017

L’economia della promessa!!!

salari

Nel 1995 Jeremy Rifkin annunciava, con l'omonimo libro, "la fine del lavoro". L'emblematico titolo rimandava a una visione del futuro nella quale, complice la Terza rivoluzione industriale, sarebbe stato possibile per tutti ridurre le ore di lavoro erogato. All'alba della Quarta rivoluzione industriale siamo costretti a parlare della fine del lavoro pagato, a indicare un'epoca nella quale l'innovazione tecnologica, la robotica e il digitale vengono usati principalmente per ridurre i salari, inducendo ciascuno a lavorare sempre di più per compensare un lavoro che vale sempre di meno. In questi anni, il lavoro gratuito è in rapida crescita - lo ritroviamo nei grandi eventi come Expo, in stage e tirocini sino all'alternanza scuola-lavoro - a normalizzare quello che per lungo tempo è stato un ossimoro: l'impiego di lavoro libero e non pagato. Quali sono le conseguenze della diffusione del lavoro non pagato? È possibile pensare il rifiuto del lavoro ai tempi della precarietà e della disoccupazione? Come, in ultima analisi, muovere verso un modello economico che riconosca il valore del lavoro e della riproduzione sociale? 

(dal risvolto di copertina di: Francesca Coin (a cura di): Salari rubati. Economia, politica e conflitto ai tempi del salario gratuito, ombre corte)

Mappe per sfuggire all’inferno del lavoro gratuito
- di Roberto Ciccarelli -

Il lavoro non pagato è il presente, e il futuro, sia nel settore pubblico che in quello privato. In Italia prende la forma del tirocinio nell’alternanza scuola-lavoro resa obbligatoria dalla «buona Scuola» di Matteo Renzi; nel curriculum universitario, nel servizio civile e nel «volontariato» all’Expo o nei bandi del ministero dei beni culturali; nel pagare per lavorare nell’intervallo tra un contratto e l’altro. «Il lavoro gratuito – scrive Francesca Coin, curatrice di un volume collettaneo Salari rubati. Economia politica e conflitto ai tempi del lavoro gratuito (Ombre Corte, pp.133, euro 12) – è un moto di spontanea solidarietà del lavoro nei confronti del capitale, legittima la competizione al ribasso che acuisce la povertà e la diseguaglianza sociale».
Formula Paradossale – un lavoro è tale se è pagato – il lavoro gratuito è un’espressione che traduce la tendenza del capitalismo contemporaneo a estrarre da una forza lavoro impiegata 24 ore su 24 quello che Marx chiamava plusvalore assoluto. Dal punto di vista del salario, questo plusvalore assume le caratteristiche della «dis-retribuzione»: il pagamento di una prestazione in denaro è solo una delle forme della retribuzione, per di più sottodimensionata e ritardata all’inverosimile. L’altra è la promessa «di futuri guadagni e di uno status spendibile nel presente», scrive Marco Bascetta. Oggi si è pagati con la promessa di essere stabilizzati in un ufficio pubblico, o in una cattedra a scuola o all’università, nel lavoro culturale. Oppure con la promessa di ottenere «visibilità» e «contatti» utili per una commessa o un «lavoretto».
Nel lavoro autonomo e nella pubblica amministrazione il lavoro gratuito è una formula che traduce un atteggiamento neo-servile presente nella forza lavoro contemporanea: chi crede nella promessa sceglie di svolgere un lavoro con un’adesione e convinzioni superiori a quelle richieste al lavoro salariato classico. È l’applicazione dei manuali del management delle risorse umane: non obbligare i lavoratori, ma renderli partecipi al proprio auto-sfruttamento in vista di una redenzione cThe non arriverà mai: un’assunzione, un salario vero, tutele sociali e previdenziali che in tutta evidenza non esistono più.
È il «trucco» del diversity management, sostiene Alessia Acquistapace: anche gay, lesbiche, trans o eterosessuali trovano nell’azienda un riconoscimento che non hanno nella società. Per questo sono grati ai datori di lavoro, lavorano di più in condizioni da incubo per tenersi stretti uno dei pochi posti di lavoro da cui possono essere esclusi in ogni momento.
La lettura di Salari rubati permette di interrompere, per un momento, l’ipnosi in cui viviamo: quello che chiamano «amore», partecipazione o promessa è uno sfruttamento che mette al lavoro l’antropologia umana. La critica spietata che il femminismo marxista rivolgeva negli anni Settanta a Marx, oggi può essere estesa alle «buone pratiche» del «capitale umano» (Anna Curcio).
Il nuovo capitalismo ha sussunto il femminile, generalizzato le caratteristiche oblative e volontarie del suo lavoro riproduttivo al lavoro in quanto tale. Allo stesso tempo indebolisce il ruolo maschile del capofamiglia, maschio, portatore del pane in famiglia protagonista della società salariata. Per Cristina Morini il doppio processo di «femminilizzazione» del lavoro (gratuito) e «maschilizzazione dell’esclusione» è «un gioco perverso di comunicazioni paradossali che rende vittime entrambi i generi» nella medesima condizione precaria che esalta la gratuità di un lavoro che ha perso la finalità del lavoro salariato.
Chi si ritrae da questa «economia della promessa» nega la sua disponibilità a essere «occupabile» ed è condannato moralmente: non può tuttavia partecipare a un processo di individualizzazione e colpevolizzazione della condizione lavorativa, ricorda Andrea Fumagalli. Rompere l’ideologia neoliberale dell’homo oeconomicus, basata sull’imprenditorialità di sé (Silvia Federici), significa «monetizzare il lavoro gratuito» per remunerare una riproduzione del lavoro vivo sganciata dal lavoro servile (Christian Marazzi). La miseria esiste, spiega Franco Berardi (Bifo), perché «la nostra attività è ridotta a un salario» pari a zero. Per rifiutare questo lavoro è necessario un reddito di base incondizionato. Formula antica, e attualissima, questa può essere la battaglia della prossima generazione.

- Roberto Ciccarelli - Pubblicato sul Manifesto del 3 giugno 2017 -

domenica 24 settembre 2017

Contro-fuoco

contro

Contro-realismo
- di Robert Kurz -

I conflitti sociali sono sempre anche una lotta intorno ai concetti, a causa del "potere di definizione" della forma secondo la quale i problemi devono essere affrontati. Si potrebbe anche dire che i problemi vengono definiti, quasi naturalmente, secondo i criteri della logica del sistema dominante. Ed in questo modo i concetti assumono il colore corrispondente, come fa il camaleonte. Non esiste un divieto espresso o una censura, poiché il meccanismo di costruzione dei concetti ed il processo di definizione procedono entrambi seguendo una forma molto più sottile. Una forma determinata del discorso si manifesta in un determinato modo e, all'improvviso, tutti incominciano a parlare la stessa lingua, manifestando apparentemente una profonda medesima convinzione. È soprattutto sul piano economico, che si istituisce, per quanto attiene alla ricerca scientifica, nei media e nella classe politica, una regolamentazione generale del discorso, "un discorso del consenso", il quale funziona in maniera ancora più rigida dal momento che non è stato fissato a livello amministrativo.

Questa situazione si basa sul fatto che la scienza, i media e la politica non potrebbero funzionare in maniera così stupida ed automatica così come avviene con la mano invisibile del mercato. Essi istituiscono il lato "soggettivo" in relazione alle leggi "oggettive" del sistema. La conformità agli imperativi capitalisti non è perciò mai data di per sé, ma deve essere sempre prodotta in un processo discorsivo. Una funzione essenziale di tale discorso consiste nel disporre i partecipanti, gli uni contro gli altri, in base al "bollettino metereologico" capitalista, al quale devono essere adattate tutte le relazioni sociali e culturali. Ed è proprio per questo che serve una regolamentazione del discorso. In questo senso, scienza, media e classe politica costituiscono una sorta di cartello che assicura che nessuno esca dai binari. Viene istituito un quadro generale in cui, se da un lato, la clientela stessa rimane impigliata nella chiacchiera del marketing, dall'altro lato, rimane aggrappata al freno.

La semantica del controllo ideologico è dominata da coloro che detengono il potere fondamentale di definire che cosa sia la "realtà" e, di conseguenza, la "Realpolitik" (la politica realista). Il cartello semantico oggi dominante ha elevato a principio di realtà le esigenze dell'amministrazione capitalista della crisi ed ha ridefinito, in maniera corrispondente, il concetto di riforma. Il vecchio "pathos" del riformismo, sociale ed emancipatore, così come si era costituito nel discorso dello sviluppo storico della contrattazione collettiva, dello "Stato sociale" e del servizio pubblico, viene ora, proprio al contrario, strumentalizzato ai fini della contro-riforma. Le campagne di privatizzazione e di restrizioni sociali vengono subordinate allo slogan: "noi siamo la modernità". Tanto più è privato ed a buon mercato, tanto più è meglio.

Tutti si preoccupano di fare le "riforme" contro "l'eterno passato". Viene proposto il compromesso per quel che riguarda la "conformazione della società" Per esempio: si riduce la spesa del 5 o del 10%? Dev'essere chiuso l'ospedale o l'asilo? Devono essere eliminate le cure per i malati di cancro o per i disabili? Si aumenta dell'1% un qualsiasi beneficio ma si triplicano le spese ida un'altra parte? "Miglioramenti per le persone", è il modo in cui viene chiamato ora il minor grado di deterioramento al quale, con un gesto riformatore, si può scendere. La lotta politica riguarda solo quello che serve per sapere chi è che ha maggior abilità nel vendere i nuovi tagli che sono sempre più duri. La sinistra politica è minacciata di "essere ridotta a diventare insignificante" se non fa delle "riforme convincenti". La "volontà dell'elettorato" - in questo modo si intravvede la semantica del controllo - rigurgita di "realismo" e di "maturità dei cittadini", proprio nel momento in cui è avida di bassi salari, di distruzione del sistema di sicurezza sociale e di privatizzazioni.

Questa regolamentazione dominante del discorso è ormai esaurita in quanto annuncio di un progresso imminente, noiosamente ripetuto da molti anni. Se le cose continueranno così, la parola "riformista", prima rispettabile, rischia di convertirsi in una volgare insulto, con cui l'uomo comune definirà un cattivo vicino o un cane cattivo. Il lavaggio del cervello non sempre funziona. Il potere dominante della definizione della realtà può essere spezzato per mezzo di un forte contro-realismo. In questo senso, un'ampia campagna su vasta scala contro i progetto di salari bassi, assai più che una semplice politica sociale nei limiti dell'aritmetica politica, sarebbe una "Kulturkampf" (lotta culturale), un'offensiva di civiltà. Una contro "Realipolitik", che ponga implacabilmente in discussione tutte le ramificazioni, i meandri e le complicità dell'amministrazione repressiva della sicurezza sociale e del lavoro, avrebbe probabilmente successo a livello di massa.

Ciò equivale, in primo luogo, ad una seria lotta per la manutenzione dei servizi pubblici come parte di uno "standard" minimo di vita. Le persone sono talmente stufe delle ferrovie per azioni, delle poste per azioni, e della minaccia dell'acqua per azioni, così come di una assistenza medica di seconda classe e del sistema di (non) istruzione a basso costo. Il "controfuoco" (Pierre Bourdieu) non dev'essere l'eterno ritorno al passato della tradizione burocratica statale. Si può anche ipotizzare un concetto di servizio pubblico sotto forma di società senza fini di lucro auto-amministrate che sarebbero responsabili della gestione delle infrastrutture. L'orientamento verso un valore di uso pubblico non sarebbe al di là della forma del valore, ma sarebbe un momento di trasformazione emancipatrice.

Se il capitalismo non riesce a mantenere il livello di civiltà, allora non dev'essere "accettato" con riverenza. Al contrario, si deve trarre la conclusione che il capitalismo, da parte sua, "accetta" sempre meno gli esseri umani. La necessità di forme di rappresentazione organizzata dei socialmente esclusi dalla cittadinanza non verrà facilmente risolta come avvenne con i rifugiati della Seconda Guerra Mondiale, assorbiti dal "miracolo economico", ma, al contrario, continueranno ad aumentare, e non solo nella Germania dell'Est. L'aritmetica del cartello semantico e politico dominante non può dare loro voce, può solo portare la loro voce verso gli ingranaggi di risentimento nazionalista e razzista. Diciamoci la verità: non si tratta di annunciare la fede nello Stato, ma la responsabilità personale. Una responsabilità nel senso non burocratico di un contro-movimento sociale autonomo, e che non sia nel senso di una fede nel mercato fortemente autoritaria e felicemente rassegnata.

- Robert Kurz - Pubblicato su Neues Deutschland, nell'ottobre 2010 -

Fonte: EXIT!

sabato 23 settembre 2017

Contro i noiosi!

noia

Scacco della ragione, sopore dell’animo, paralisi della volontà, luogo di sospensione del mondo, la noia aleggia da sempre sulle vite degli uomini come una “nebbia silenziosa” che confonde tutte le cose. Dall’acedia del monaco medioevale alle tentazioni del demone meridiano, da Leopardi a Nietzsche, da Heidegger a Moravia fino ai casi di cronaca dei giorni nostri, questa parola, che nomina una condizione esistenziale e psichica insieme, non smette di essere il movente non censito delle nostre decisioni e relazioni.
In un dialogo a più voci fra filosofi, antropologi, psicoanalisti questo libro cerca di gettare luce intorno ai concetti che gravitano attorno alla nozione di “noia”, delineando concezioni e orientamenti disciplinari ma soprattutto additando luoghi della riflessione per ripensare il suo attuale significato.

(dal risvolto di copertina di: Otto Fenichel: Noia, editrice Grenelle)

Il doloroso desiderio di nulla
- di Gianpaolo Cherchi -

Ingannare il tempo. È quello che cerchiamo di fare quando ci coglie la noia, quando scrolliamo senza interesse la home di Facebook, o quando fumiamo una sigaretta senza in realtà averne alcuna voglia e giusto per non star lì, fermi, in attesa di non si sa bene cosa.
Ci annoiamo, e perciò inganniamo il tempo, in un percorso laterale di costante desiderio e di altrettanto costante insoddisfazione. Percorso che viene affrontato nel bel volume della giovane casa editrice Grenelle, che inaugura la sua collana «Sproni» con la pubblicazione di uno scritto finora inedito in italiano di Otto Fenichel, psicoanalista fra i più autorevoli della «sinistra freudiana», il cui saggio si intitola, appunto, Noia (pp. 184 p., euro 15), e attorno al quale si inseriscono gli interventi dello psicoanalista Sergio Benvenuto, del filosofo Bruno Moroncini e dell’antropologo Giorgio Pizza, creando un dialogo a più voci in cui convergono differenti punti di vista e piani di analisi, diverse prospettive di studio.
Pur muovendosi in piena aderenza alle linee classiche della psicoanalisi freudiana, il saggio di Fenichel è in grado di far emergere molteplici configurzioni della noia, che si spingono ben al di là della sua considerazione esclusivamente psicologica: scopriamo così che la noia possiede anche una dimensione politica, per esempio, così come una estetica, o ancora economica.
Perché la noia «abbraccia stati della mente e atteggiamenti psicologici assai differenti»: nella sua struttura psicologica essenziale, può essere definita come un «ingorgo della libido», come un insieme di pulsioni che non riescono a trovare soddisfazione. La frustrazione che ne deriva, questa «esperienza amara della delusione che investe il soggetto», può sfociare nella totale apatia, nell’oblomovismo e persino nella depressione; oppure può essere disciplinata socialmente, facendo in modo che il piacere sia correlato all’assolvimento di un dovere particolare. È qui, per esempio, che la noia assume una dimensione economica: vi è infatti una connessione strettissima fra stimoli monotoni e libido, tale che si possono produrre stati di eccitamento e talvolta persino di estasi. Un po’ come succedeva al Lulù interpretato da Gian Maria Volonté ne La classe operaia va in paradiso, che per non annoiarsi e anzi per battere continuamente i tempi di produzione, pensava a far l’amore con la sua collega.
Ad assumere un’importanza centrale è il meccanismo della «diversione»: quando esiste una tensione pulsionale, essa viene percepita anche quando la sua meta è assente, ed è in questo momento che subentra la diversione, come nevrosi, come dipendenza o come semplice «comportamento impulsivo»: mangiare, bere, fumare, sono le più comuni attività di diversione, quasi che si chieda al mondo esterno di intervenire e darci quel qualcosa che cerchiamo, e che tuttavia non riusciamo a trovare.
Come la coscienza, anche la pulsione è sempre intenzionale: è sempre pulsione di qualcosa, «tranne che nella noia, doloroso desiderio di nulla». Nella noia è l’esistenza stessa dell’oggetto che viene a mancare, la sua posizione in un mondo che si restringe e si riduce a «reale puro», «a qualcosa che non interessa». Ecco allora che il tempo si presenta come una cosa corpulenta, come scriveva Gramsci nelle sue lettere dal carcere.
Al tempo lungo della noia, materializzatosi in corpo, in un orologio che si guarda in continuazione, si accompagna lo «scacciatempo, il cui compito è quello di spronare il tempo affinché passi il più in fretta possibile e cessi di annoiarci».
Ma se il mondo non ci interessa, è perché «ciò che si desidera è altra cosa da quello che il mondo può offrire». La noia rimanda sempre a un contrasto, a una dimensione conflittuale, politica.
Walter Benjiamin si chiedeva quale fosse il correlato dialettico della noia, il suo contrario. E lo rintracciava nel sogno: la noia favorisce la fantasia. Non si tratta allora di ingannare il tempo nel disperato tentativo di farlo trascorrere, quanto piuttosto di indurlo ad arrestarsi, incamerando la sua energia: solo in questo modo la noia può deflagrare e aprire al sogno, decisamente qualcosa d’altro dalla banale realtà quotidiana.

- Giampolo Cherci - Pubblicato sul manifesto del 21/6/2017 -

venerdì 22 settembre 2017

La nube e la tempesta

linguaggio corretto

L'«identità» è la versione liscia della parola «razza»?
- ovvero, come l'estrema destra porta avanti la battaglia del linguaggio -
- di Nicolas Lebourg -

La difficoltà consiste innanzitutto nel definire il politicamente corretto- In Francia, è un fatto acquisito che il fenomeno è dovuto all'influenza, presumibilmente debilitante, degli Stati Uniti. Nel 1996, Philippe de Villiers ha pubblicato un Dizionario del Politicamente Corretto, in cui affermava di essere un archeologo del linguaggio, e spiegava che il "politicamente corretto" sarebbe una "tirannia della minoranza" a beneficio della globalizzazione, e che sarebbe stata imposta alla Francia da Bruxelles, dopo che era nata dall'altra parte dell'Atlantico. Ma, negli Stati Uniti, il "politicamente corretto" è stato denunciato dalla destra conservatrice come una "francesizzazione" dei costumi... Una disputa fra la Francia e gli Stati Uniti nella quale ognuno vuole attribuire all'altro la paternità di un fenomeno: come esprimere meglio a parole la difficile immagine del politicamente corretto?
Ricominciamo. Durante gli anni 1970, la sinistra americana si concentra sulla questione delle "minoranze". «Un uomo non può essere allo stesso tempo politicamente corretto e fallocrate», scrive negli anni '70 Toni Cade Bambara. Da allora in poi, le cose si complicano... La scrittura di un articolo richiede che si definiscano i personaggi che vengono evocati. Se redigo l'articolo al di fuori del politicamente corretto, scriverò «la scrittrice Toni Cade Bambara». Ma se ne assimilo i suoi principi, bisogna che io rilevi che si tratta della «scrittrice afroamericana» . Poiché, dopo un decennio come quello degli anni 1970 in cui le università americane si erano concentrate sullo studio delle minoranze, negli anni 1980 verrà lanciata questa grande iniziativa di ridefinizione del linguaggio che sarà il "politicamente corretto".

L'anti-America
Per combattere le discriminazioni, il politicamente corretto lavora quindi ad una correzione, vale a dire una riorganizzazione, del linguaggio, che è stata ampiamente derisa, ma che ha saputo parzialmente imporsi. Questo successo ha suscitato un fuoco di sbarramento da parte degli ambienti conservatori, che hanno ritenuto che questa invasioni mini la coesione nazionale di una società pluralista, con il rischio della "ghettizzazione" e del "multi-culturalismo".
Al politicamente corretto, i francesi attribuiscono tutto ciò che a loro non piace della società americana. Omettono di considerare il fatto che loro stessi si sono posti delle questioni simili, come viene sottolineato dalla creazione di una commissione relativa al vocabolario che riguarda le attività femminili, nel 1984. Nel 1991, un articolo della rivista Esprit, molto seria ed intellettuale, ne definisce bene il tono. Sottolineando tutta una serie di veri e propri abusi ridicoli, e denunciando una società preda di una sorta di neo-maccartismo, conclude informandoci con orrore del fatto che sei mila imprese americane non accettano più i fumatori. Nella Francia del 2016, è oramai un fatto acquisito che non si fumi più nei luoghi di lavoro: quindi, siamo oramai sottomessi al politicamente corretto? Oppure, lo abbiamo amalgamato con altre questioni? Forse, un po' tutt'e due le cose.
È vero che il dibattito invita al momento ad una vampata di anti-americanismo. Il 1991, è stato anche l'anno della guerra dell'Occidente contro l'Iraq che sembrava aprire ad un mondo unipolare in cui l'America avrebbe regnato incontrastata nel nome della sua propria forza e della sua concezione della morale. Contro il supposto imperialismo degli Stati Uniti, una petizione pacifista ha riunito membri della Nuova Destra e firme di sinistra. Troviamo la stessa miscela nel "Collettivo contro l'Eurodisneyland". E si ha la medesima alleanza nel giornale allora diretto da Jean-Edern Hallier, "L'Idiot international". Tutto questo creerà una polemica sul fenomeno fantasmatico dei "rosso-bruni". Ma questo significa qualcosa.

L'estrema destra e la lotta culturale
Istintivamente, tutti hanno in mente la richiesta di porre fine al politicamente corretto portata avanti dall'estrema destra. Si cita continuamente l'utilizzo che viene fatto del filosofo marxista italiano Antonio Gramsci da parte degli intellettuali della corrente cosiddetta della "nuova destra" a partire dagli anni '70: questo utilizzo li avrebbe portati a privilegiare le riforme lessicali nel condurre la lotta culturale che dovrebbe permettere loro la vittoria politica. Le cose si rivelano essere più complesse.
All'inizio degli anni '50 si erano formate delle internazionali europee composte da coloro che ritenevano che l'errore di Hitler fosse stato quello di aver preferito l'imperialismo tedesco all'edificazione sincera di un'Europa unita. In seguito al loro fallimento politico, alcuni avevano deciso di abbandonare la lotta aperta a favore di quella dello spettacolo: avvenne il lancio della rivista tedesca "Nazione Europa", ancora attiva, da parte dell'ex Waffen-SS Arthur Ehrhardt, oppure il romanzo nazista di fantascienza dell'ex Waffen-SS austriaco Wilhelm Landig [La Trilogia di Thule].
Dieci anni dopo, l'idea si era imposta su tutti quelli che continuavano a coltivare una nostalgia del nazismo, così la sezione francese della "World Union of National-Socialists" (WUNS) da inizio ad una riflessione sul suo vocabolario, consapevole, secondo una formula di una delle sue note interne, che occorre "de-satanizzare" l'immagine del nazionalsocialismo.
Da parte dei militanti francesi, predomina soprattutto l'attivismo volto a mantenere francese l'Algeria. Ma la guerra d'Algeria segue a quella d'Indocina, e quest'ultima ha portato gli ambienti militari più sediziosi ad appropriarsi dei principi della "guerra rivoluzionaria che li aveva sconfitti. La questione della rifondazione del vocabolario si impone a partire dalla constatazione del fallimento della "Organisation de l'Armée Secrète" (OAS).Il colonnello Trinquier, uno dei padri della "guerra anti-sovversiva", insiste su questo tema. Ma è anche diventato un chiodo fisso di Dominique Venner, e le note interne della sua "Fédération des Etudiants Nationalistes" (FEN) continuano a tornare su questa necessità di reinventare il vocabolario politico, di imporre le sue parole e di cambiare il senso della parole degli avversari.
Dieci anni dopo, i nazionalisti-europei francesi vedono morire il loro ennesimo gruppuscolo, il "Rassemblement européen de la liberté" (REL).Gli intellettuali che fanno parte di questa tendenza lanciano un nuovo progetto: la Nuova destra, incarnata soprattutto dal "Groupement de Recherches et d’Études pour la Civilisation Européenne" (Grece) di Alain de Benoist, ed una strategia di influenza culturale e di sovversione lessicale che definiscono come "gramscismo di destra" (oggi bisogna leggere Gaël Brustier) o "metapolitica". Il riferimento a Gramsci viene a dare nuovo lustro a ciò che quindi è stata una pratica interna all'estrema destra radicale.
L'ex presidente del "Grece", Jacques Marlaud, lo ha definito come «ogni lavoro di riflessione, di analisi, di diffusione di idee e di pratiche culturali suscettibili di influenzare a lungo termine la società politica. Non si tratta più di prendere il potere, ma di fornirgli alimento ideologico, filosofico e culturale che sia in gradi di orientare (o di contraddire) le sue decisioni»
La battaglia delle parole è stata dichiarata prioritaria. D'altro canto. si tratta di una necessità imposta dall'esterno. Infatti, nel 1972, la Francia adotta una legislazione antirazzista, la  Legge Pleven, che vieta tutta quella che era la propaganda del "REL". Un gruppuscolo nazionalista-europeo vicino alla "Nuova destra" impartisce un ordine ai militanti: la parola "razza" dev'essere sostituita con quella di "identità". Rapidamente questo diviene il tormentone della Nuova destra.
Inoltre, il movimento non aveva affatto escluso la possibilità di influenzare un eventuale riarmo intellettuale della destra in vista della riconquista delle posizioni che aveva perduto a vantaggio di una sinistra allora ancora egemone nel campo culturale. Lo strumento di questa influenza è stato il "Club de l’Horloge", il "think-tank" che raggruppava giornalisti, saggisti ed alti funzionari. Fondato nel 1974 da Yvan Blot, da Jean-Yves Le Gallou e da Henry de Lesquen, cui si era ben presto unito Bruno Mégret, un tempo protetto di Michel Poniatowski, il Club ha prodotto alcune opere assai commentate ed ispirate ad una dottrina che si può definire come social-darwinista (il neoliberismo veniva a completare il razzismo per produrre un neo-darwinismo integrale), e che diventa progressivamente nazional-liberale in economia.

«La battaglia delle parole diventa prioritaria»
Quelli del "Club de l’Horloge" sono ideologicamente dei radicali, socialmente dei tecnocrati, tatticamente dei pragmatici.
Bruno Mégret lascia il partito di Chirac e nel gennaio 1982 lancia i "Comités d’Action Républicaine" (CAR). Gli "Orologiai" si presentavano già da qualche anno come "i nuovi repubblicani".
I "CAR" (10.000 membri dichiarati nel 1983, probabilmente in realtà erano 4.000) si specializzano nella denuncia della "ideologia marxista" dei libri di testo della scuola, in particolare dei manuali di storia, con un grande successo: fra settembre e ottobre del 1982, le argomentazioni sviluppate vengono riprese da "Minute", "Aspects de la France", "Présent", "Le Figaro Magazine", "Le Figaro" ma anche da "VSD", "La Croix" e "Le Point". Il tema, per altro strutturale per l'estrema destra, ha una riedizione nell'autunno successivo, con dei nuovi comunicati che censurano «i manuali marxisti che presentano la lotta di classe come l'unica cosa che emerge dalla storia». Trent'anni dopo, le riviste di destra continuano a raccontare che i manuali censurano la Storia della Francia per soddisfare al politicamente corretto, come si può vedere.
I "CAR" partecipano al "Club de l'Horloge", che cerca di fornire delle munizioni a tutte le destre. Organizza un seminario dal titolo «La battaglia delle parole. Per un nuovo linguaggio politico dell'opposizione», di cui pubblica l'essenziale nella sua Newsletter del quarto trimestre 1982. Questo documento contiene in germe tutti i principi che gli "Orologiai" vogliono cercare di inculcare nella destra, e che poi applicheranno metodicamente al FN quando ne assumeranno la direzione. Ed anche loro hanno l'ossessione di cambiare linguaggio.
L'editoriale di Michel Leroy pone come preambolo: «La "battaglia delle parole" diventa prioritaria (...) Le parole sono un'arma essenziale nella lotta politica. Bisogna maneggiarle con precauzione e non ritorcerle contro di sé. Infine, bisogna sapere che le parole del vocabolario politico sono portatrici di un progetto e che esse assumono il loro significato reale in una struttura dottrinale».

Sette principi
Segue quindi un dossier di Yvan Blot sui «Sette principi del linguaggio politico per l'opposizione» che meritano di essere citati in modo da mettere in mostra la retorica dei diritti.

1. Il primo principio è quello di avere "un linguaggio autonomo": non si deve dire "nazionalizzazione" ma "statalizzazione", non si deve dire "disuguaglianza" ma "giustizia sociale", cosa che "ripristina l'idea di merito", ecc. Non si devono attaccare i socialisti sul tema della "efficacia economica", ma dire che essi provocano delle ingiustizie sociali.
2. Il secondo principio è di avere un linguaggio demistificante: la lotta contro lo Stato Provvidenza deve avvenire a livello "etico" e non a quello dei principi connotati positivamente: «libertà, uguaglianza, fratellanza, pace, giustizia, unità nazionale, ecc.»
3. Il terzo è quello di avere un linguaggio "umano ed umanista": non si deve usare un "linguaggio tecnocratico" e si deve dire che il socialismo «considera l'uomo come il prodotto del suo ambiente sociale».
4. Il quarto è avere un "linguaggio unitario": la destra deve utilizzare il vocabolario della sinistra di modo che gli «permetta di sminuire l'avversario sul piano del linguaggio»; è conveniente non fare uso di riferimenti conservatori o di qualche altro tipo, si devono usare solamente dei riferimenti repubblicani che siano quelli che sono chiaramente prevalenti per i francesi.
5. Il quinto è avere un "linguaggio popolare": la popolazione è legata alla sicurezza, per cui bisogna sottolineare il disinteresse dei socialisti per tale argomento e dire che la sicurezza è scritta nella Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino. Le associazioni e gli organismi rappresentativi, devono essere attaccati nel nome della "autentica democrazia".
6. Il sesto principio è quello di avere un "linguaggio attuale": ci si deve impadronire di tutte le nuove aspirazioni che possono emergere (libertà, ecologia, regionalismi) in modo da non lasciarli agli avversari.
7. Il settimo, e senza dubbio l'essenziale, è avere «un linguaggio radicato nella tradizione repubblicana»: dobbiamo citare Danton o Robespierre, dal momento che questo permette di «toccare il cuore dei francesi». Inoltre, «non si deve lasciare ai marxisti il monopolio della storia».

Questo articolo è seguito da un "Piccolo Glossario Politico" che, su um modello poi recuperato dal FN, fa una lista di parole che devono sostituirne altre: "conservatorismo" è peggiorativo e dev'essere sostituito con "riformismo"; "destra" va sostituita con "repubblicani" e "sinistra" con "socialisti", "generosità" si deve dire "livellamento"; "fronte economico" va usato al posto di "lavoratori", cosa che permette di includere tutti insieme i dirigenti di azienda, i quadri e gli operai.
La riformulazione del neoliberismo qui presentata si ritroverà nel vocabolario della destra, fino al FN - all'inizio degli anni '90, il suo programma affermava che "le imprese statalizzate" devono essere "rese ai francesi", anziché scrivere che le imprese nazionalizzate verranno privatizzate. Mostra perfettamente come due gruppi politici (il multi-culturalismo e l'estrema destra) che di primo acchito si oppongono, stiano entrambi al momento lavorando alla riorganizzazione dei loro lessici.

Fronte Nazionale e Nuova destra
Ma una strategia lessicale non crea degli elettori. Nel 1985, le elezioni cantonali si rivelano una doccia fredda: i 150 candidati di Bruno Mégret che vengono presentati in 75 dipartimenti non ottengono più del 2%. Nello stesso anno, Jean-Yves Le Gallou, vecchio membro della direzione del Partito Repubblicano e del "Club de l’Horloge", è rimasto deluso dall'accoglienza riservata al suo libro "La Préférence nationale". Passa al FN, e la sua concezione diventa il cuore del partito. Con Patrick Buisson, incoraggiano Bruno Mégret a compiere il passo. Patrick Buisson sogna un'unione di tutte le destre; insieme all'ex nazionalista-europeo ed ex segretario generale del FN Alain Renault, pubblicano a quel tempo una "Guide de l’Opposition" che mescola tutti insieme Raymond Barre e Jean-Marie Le Pen.
Nel giro di qualche anno, i dirigenti della Nuova destra prendono il controllo dell'apparato del FN. Lanciano la rivista teorica del FN, "Identité", che riformula tutto il corpus dell'estrema destra intorno a questa parola-concetto. Allo stesso tempo, vengono istituiti un consiglio scientifico, un centro studi e di discussione (sotto l'egida di Jean-Yves Le Gallou), e un laboratorio di propaganda. Si tratta di armonizzare e normalizzare tutte le forme del discorso politico. La battaglia del vocabolario rimane essenziale. Bruno Mégret lo afferma incessantemente: «Le parole sono delle armi».
Come aveva fatto trent'anni prima Dominique Venner con i militanti del FEN, l'equipe Mérgret fornisce a sua volta ai militanti del FN una check-list lessicale con le espressioni da abolire e quelle che le devono sostituire: "L'estrema destra (FN)"? "La vera destra, la destra nazionale", "i comunisti"? "Gli ultimi stalinisti"; "SOS Razzismo, Licra, Mrap, ecc."? "Le lobby dell'immigrazione"; "I padroni"? "I datori di lavoro"; "Il senso della storia"? "Le vicende della storia", ecc.
Bruno Mégret può subito felicitarsi per il fatto che «sul piano delle idee, siamo riusciti a influenzare la società, anche nel suo vocabolario, con i concetti di identità e di istituzione». Questo modo di auto-congratularsi non è mai cessato, e si potrebbero perfino citare numerose recenti dichiarazioni di Marion Maréchal Le Pen assai simili.

L'identitariamente corretto
Si è parlato di "lepenizzazione dello spirito", ed in seguito si è evocata "la zemmourizzazione dello spirito". Nel mondo post 11 settembre, in cui il FN è in crisi in primo luogo in seguito alla scissione mégrettista del 1998-1999, questi sono gli intellettuali francesi che vanno ad imitare i loro omologhi americani neo-conservatori per suonare la carica contro il politicamente corretto che viene considerato "orwellliano", e riaffermare il loro rifiuto di un progressismo che è per loro sinonimo di decadenza. Fuoco sulle minoranze e su coloro che avrebbero abbandonato "i francesi" a loro profitto. E convergenza di molti spiriti in una rilegittimazione delle concezioni di un ruolo biologico dello Stato all'interno di uno spazio normato.
Fdesouche, Polémia (animato da Jean-Yves Le Gallou), ecc.: tutta una galassia web intera, soprannominata dalla stamapa «réacosphère» o «fachosphère» , ma che si auto-definisce come "siti di re-informazione" (sul web di estrema destra si può leggere la ricca indagine che è stata pubblicata Dominique Albertini e David Doucet). Anche qui si corregge il vocabolario per imporre delle idee.
Éric Zemmour continua a spiegare che egli conduce "la lotta delle idee", che lui fa come "Gramsci". In seguito, tutta la destra lo ha ripetuto. Anche Nicolas Sarkozy ha preteso di ispirarsi al filosofo italiano, dichiarando: «In fondo, ho fatto mia l'analisi di Gramsci: il potere si conquista per mezzo delle idee». Vale a dire di Gramsci filtrato da de Benoist filtrato da Zemmour...
Dal momento che Antonio Gramsci non si accontentava di parlare di lotta culturale per la presa del potere. La Nuova destra ed un buon numero dei suoi emuli hanno trascurato una tappa: la costruzione di un "blocco storico". Quello che lega dei gruppi sociali che non hanno certamente gli stessi interessi economici ma che vanno oltre l'antagonismo ed assicurano un compromesso al fine di impadronirsi delle istituzioni. Mentre l'estrema destra è per definizione interclassista, essa ha del tutto trascurato questo aspetto: imporre una griglia di lettura del mondo senza però costruire un blocco storico, significa avere l'egemonia culturale e lasciare il potere a degli avversari minoritari. Dopo le elezioni dipartimentali e regionali, una parte del FN ha cominciato a capire questo schema. Il rifiuto di ammetterlo da parte della direzione del FN è stato pagato caro nel maggio del 2017.
Il mégretismo, il "marinismo" ed il neo-conservatorismo in abiti francesi sono stati in grado di investire il referente lessicale repubblicano, di sovvertirlo se non di saccheggiarlo, ma non hanno costruito un'offerta politica pienamente adatta alla domanda che hanno suscitato - il FN è stato tuttavia quello che c'è andato più vicino.

Oggi, il politicamente corretto è l'identitarismo
Se si intende come politicamente corretto il dominio di un discorso, quello che oggi è politicamente corretto è quindi l'identitarismo. A proposito dello "zemmourismo", Dominique Sistach scriveva: «Il principio di queste ideologie reazionarie e populiste invita sempre a collocare la fede al di fuori del reale, rivendicando la leadership totale sulla realtà. e per il suo effetto, il dominio sulla verità». Chi ha visto uno di quei dibattiti in cui si affrontano un reazionario neo-conservatore ed un progressista della sinistra multi-culturalista, riconosce la medesima volontà feroce di monopolizzare la rappresentazione del reale.
Mostra di essere rivelatore un terreno piuttosto affascinante. Quello dei manuali di storia. Ormai non vengono più accusati di essere marxisti, bensì multi-culturalisti. Dopo che negli ultimi anni sono fioriti gli articoli di stampa che affermano che i manuali scolastici sono stati purgati della presenza di Carlo Martello e della battaglia di Poitier, e che gli storici avevano minimizzato lo scontro delle civiltà che sarebbe stata questa battaglia, al fine di compiacere le popolazioni di origine araba-musulmana. William Blanc e Christophe Naudin sono partiti da questo per il loro appassionante "Charles Martel et la bataille de Poitiers: dalla storia al mito identitario". Dopo lo studio dei fatti e della loro rappresentazione vista fino ai nostri giorni, gli autori consacrano tutto un capitolo alla questione della censura dei libri di testo. Ora, lo studio di questi libri di testo scolastici dopo la Terza Repubblica mostra il carattere fantasmatico di simili asserzioni. Nella migliore delle ipotesi, la battaglia viene rappresentata come un argomento relativo all'edificazione della nazione, e non come un confronto fra civiltà, o etnie. Questi due fenomeni storici, Carlo Martello e la battaglia di Poitiers, sono diventati elementi dell'immaginario politico solo socializzando delle rappresentazioni dell'estrema destra.
Se Édouard Drumont aveva saputo riposizionarli nella sua mitologia antisemita, si è dovuto poi attendere la guerra del Kosovo e l'11 settembre perché diventassero centrali, e si potesse allo stesso tempo posizionare il mito che si era cercato di cancellare. Come viene mostrato, fra le altre cose, dalle citazioni di Lorànt Deutsch o di Éric Zemmour, l'inserimento di un fatto in maniera artificiosa diventa popolare, affermando che una semplice battaglia è stata una gigantomachia della civiltà, e asserendo che durante una nuova fase di questo eterno shock è stata scientemente introdotta un'amnesia, e gli autori vengono presentati come gli araldi di un'amnesia sociale contro degli "storici ufficiali".
Coloro che denunciano eternamente il linguaggio orwelliano del politicamente corretto, riscrivono con foga la storia e le parole. In maniera analoga, sia il politicamente corretto che l'alterofobia considerano l'uno e l'altro individuo solo come appartenente ad un gruppo etno-culturale: l'individuo non è né emancipato né membro di una classe sociale, ecc.. È sottomesso alla sua "identità" relativa al gruppo - anche qualora viene definita come "laica". La legge Pleven del 1972 fornisce all'estrema destra la necessità della sua modernizzazione, ma consente anche di rinchiudere l'individuo nel gruppo a cui è chiamato ad appartenere [si vedano su questo le critiche formulate da Anastasia Colosimo].
Ciascuno si considera il nemico inconciliabile dell'altro, ma i multi-culturalisti ed i rivoluzionari convergono in un'ossessione per l'identità, laddove tutti dovrebbero stare insieme a coloro che sono loro simili, piuttosto che coloro che sono uguali. Ogni individuo è tenuto ad essere culturalmente normalizzato. Il multi-culturalista dogmatico dirà che il razzismo è istituzionalmente bianco, un proletario bianco non dovrebbe essere dominato da un ricco nero, il discendente di un popolo colonizzato sarà fatalmente vittima dell'ex colonizzatore. Il reazionario dogmatico dirà che la donna è vittima delle discriminazioni che esistono in Oriente, ma che l'Occidente ebraico-cristiano assicura la libertà delle donne, riconducendo la questione dell'uguaglianza uomo-donna a degli elementi che escludono ogni discriminante socio-economica ed ogni storicizzazione, a beneficio di una rappresentazione fatta secondo dei grossi blocchi a-storici e senza antagonisti interni. Si può capire perché tanti focosi progressisti, invecchiando, diventano dei così bravi reazionari. Il politicamente corretto porta l'identitarismo, come la nube porta la tempesta.

- Nicolas Lebourg - Pubblicato il 25 agosto 2017 su Slate -

fonte: Slate

domenica 3 settembre 2017

Frontiere

magris

« In una pagina ironica e tuttavia amabile, Kafka racconta il suo incontro con un ufficiale tedesco, avvenuto in treno prima della Grande Guerra. L'ufficiale è un suddito dell'impero tedesco, Kafka è suddito dell'impero austro-ungarico, il quale comprendeva numerose nazionalità diverse fra loro. I due si mettono a parlare; ad un certo punto, l'ufficiale gli domanda da dove provenga e quindi di che nazionalità sia. Kafka risponde, ma l'altro non riesce del tutto a capire quale sia realmente la sua nazionalità. Kafka è nato a Praga, però non è ceco; è un cittadino austriaco; è ebreo, però è un ebreo sradicato rispetto alle origini ebraiche. L'identità di Kafka disorienta il militare, occasionale compagno di viaggio. Kafka è di per sé una frontiera: il suo corpo è un luogo nel quale si incontrano, si intrecciano e si sovrappongono, come cicatrici, molte frontiere diverse.
Credo che questo episodio sia uno dei tanti che si potrebbero citare al fine di sottolineare un aspetto complesso e contraddittorio delle identità di frontiera, ma forse c'era da parte sua anche una certa compiacenza nel sentirsi incompreso. Tutto questo suggerisce in qualche modo che cercano di trovare la loro identità autentica proprio in questa impossibilità di essere compresi.»

- Claudio Magris - Da "Escrituras de frontera", publicato in "Quaderns de la Mediterrània" n°10 del 2008 -

sabato 2 settembre 2017

Criticare la disperazione!

zizek

Perché non possiamo non dirci comunisti
- di Slavoj Zizek -

Nella scena finale di "V for Vendetta" (2006), migliaia di londinesi disarmati mascherati da Guy Fawkes marciano verso il Parlamento; lasciato senza ordini, l'esercito permette loro di entrare nel palazzo: il popolo si impadronisce del potere. Quando Finch chiede a Evey quale sia l'identità di V, lei risponde: «Era tutti noi». D'accordo, un bel momento d'estasi, ma venderei mia madre come schiava per poter vedere "V for Vendetta, parte II": che cosa succede il giorno dopo la vittoria del popolo? Come (ri)organizzarebbero la vita di tutti i giorni?
   Sulla scia delle grandi proteste popolari degli ultimi anni - assembramenti di centinaia di migliaia di persone nei luoghi pubblici, da New York, Parigi e Madrid ad Atene, Instambul e Il Cairo - l'«assemblage»[...], i suoi effetti performativi, la sua capacità di sfidare le relazioni di potere esistenti sono divenuti un argomento di moda nella riflessione teorica. E tuttavia verso di esso dovremmo mantenere una certa distanza scettica: nonostante i meriti, lascia immutato il problema fondamentale di come passare dagli assembramenti di protesta all'imposizione di un nuovo potere, e della diversità del funzionamento di questo nuovo potere dal vecchio [...]

I rifugiati
Un'idea sotterranea circola fra i delusi della sinistra radicale, ripetizione più morbida della scelta terroristica successiva al movimento del 1968 (Action Directe in Francia e la Baader-Meinhof in Germania, ad esempio): solo una catastrofe estrema (preferibilmente ecologica) può risvegliare le masse e dunque dare nuovo impeto all'emancipazione radicale. La sua versione più recente riguarda i rifugiati: l'ingresso di un ingentissimo numero di rifugiati può forse rivitalizzare l'estrema sinistra europea. Trovo questo ragionamento osceno: a parte il fatto che una simile evenienza intensificherebbe enormemente la violenza xenofoba, il suo aspetto puramente folle sta nel mirare a colmare la lacuna dovuta all'assenza di proletari importandoli dall'estero, e dunque a ottenere la rivoluzione tramite un attore rivoluzionario surrogato...
   Certo, potremmo sostenere che le ripetute sconfitte della sinistra siano solo tappe in un lungo processo formativo che potrebbe condurre alla vittoria: ad esempio, Occupy Wall Street ha creato le condizioni per il movimento di Bernie Sanders, che è forse a sua volta il primo passo verso un movimento di sinistra ampio e organizzato. E però, il meno che si possa dire è che, a partire dal 1968, il sistema di potere ha dimostrato una straordinaria abilità nell'utilizzare i movimenti di contestazione come fonte del proprio rinnovamento. Ma se il quadro è così desolato, perché non rinunciamo e non ci rassegniamo a un modesto riformismo? Il problema è, semplicemente, che il capitalismo globale ci mette davanti ad una serie di antagonismi che non è possibile controllare e neppure contenere entro la cornice della democrazia capitalista globale.

Robot e lavoro
Lo slogan «i robot lavoreranno al posto vostro e lo Stato dovrà pagarvi il salario» è stato escogitato nientemeno che da Elon Musk, personaggio emblematico della Silicon Valley, fondatore di SolarCity e di Tesla: la forza lavoro del futuro parrebbero essere i computer, le macchine intelligenti e i robot. E a mano a mano che gli impieghi umani verranno svolti dalle tecnologie, le persone avranno meno da lavorare e finiranno per dovere essere mantenute da trasferimenti governativi [...] Dunque oggi l'unica vera domanda è questa: sosteniamo la predominante accettazione del capitalismo come fatto di natura (umana), o l'odierno capitalismo globale contiene antagonismo abbastanza forti da impedirne l'indefinita riproduzione?
   Ci sono quattro antagonismi di questo tipo. Riguardano (1) "I beni comuni della cultura" nel suo senso più ampio di capitale "immateriale": le forme immediatamente socializzate di capitale "cognitivo", in primo luogo il linguaggio, i nostri mezzi di comunicazione e istruzione, per non parlare della sfera finanziaria, con le assurde conseguenze della circolazione incontrollata di denaro virtuale; (2) "I beni comuni della natura esterna", minacciata dall'inquinamento umano: i vari pericoli specifici - il riscaldamento globale, la morìa dei mari, ecc. - sono tutti aspetti del deragliamento del sistema complessivo di riproduzione vitale sulla terra; (3) "I beni comuni della natura interna" (l'eredità biogenetica dell'umanità): con le nuove tecnologie biogenetiche, la creazione di un Uomo Nuovo - nel senso letterale di un cambiamento della natura umana - diviene una prospettiva realistica; e da ultimo, ma non da meno, (4) "I beni comuni dell'umanità" stessa, dello spazio condiviso sociale e politico: più globale diventa il capitalismo, più sorgono muri e apartheid, che separano chi è DENTRO da chi è FUORI. La divisione globale viene accompagnata dal nascere di tensionifra nuovi blocchi geopolitici (lo «scontro di civiltà»). Questo riferimento ai beni "comuni" giustifica la rinascita della nozione di comunismo: essa ci consente di vedere le progressive «recinzioni» dei beni comuni come un processo di proletarizzazione di coloro che che vengono così esclusi dalla stessa sostanza della propria vita. Solo il quarto antagonismo, il riferimento agli esclusi, giustifica il termine «comunismo»: i primi tre riguardano di fatto la sopravvivenza economica, antropologica, persino fisica dell'umanità; il quarto, in ultima analisi, riguarda la giustizia. [...]
   Il compito che ci troviamo ad affrontare è proprio la reinvenzione del comunismo, un cambiamento radicale che si spinge molto oltre una vaga nozione di solidarietà sociale. Poiché, nel corso del processo storico del mutamento, è il suo stesso scopo a dover essere ridefinito, possiamo dire che il «comunismo» va reinventato in quanto nome di ciò che emerge come scopo dopo il fallimento del socialismo.

- Slavoj Zizek - Pubblicato su La Stampa del 16 giugno 2014 -
(Estratto da: "Il coraggio della disperazione. Cronache di un anno agito pericolosamente" - Ponte alle Grazie)

Un futuro bello e impossibile
- di Benedetto Vecchi -

I paradossi scandiscono da sempre la produzione teorica di Slavoj Zizek. È in base al loro uso smodato che il filosofo sloveno occupa da anni il centro della scena pubblica. È in base ad essi che si è gettato a testa bassa contro le ipocrisie, le contraddizioni della produzione culturale mainstream. Lo ha fatto nel denunciare l’apparente ragionevolezza del politicamente corretto o la tesi sull’attuale sistema di vita come imperfetto, ma che è senza alternative. Zizek ha mostrato e dimostrato che la tolleranza, il rispetto delle minoranze, il diritto alla diversità sono spesso le sbarre che definiscono i confini di un vivere sociale dove sono stigmatizzati gli antagonismi sociali. Per far questo ha attinto a piene mani nella fantascienza, nella musica rock, nelle serie televisive, individuando nella cultura pop il contesto obbligato per decostruire il pensiero dominante. Spesso però i paradossi e le iperboli di Zizek offuscavano il lavoro teorico che vi era alla loro base. Alla fine i paradossi e le iperboli scivolavano via come sabbia. E nulla rimaneva nelle mani del lettore.
Il libro che Ponte alle Grazie, la casa editrice che ha pubblicato gran parte della torrentizia produzione di Zizek, ha mandato alle stampe Il coraggio della disperazione (pp. 412, euro 20), una raccolta di scritti a commento dell’ultimo biennio, scegliendo un registro diverso, a tratti antitetico a quello del passato. Più che fare sfoggio di brillanti paradossi e iperboli, Zizek si propone di fare i conti con i paradossi presenti nelle opere di autori conservatori (Peter Sloderdijk), liberal (Paul Krugman e Joseph Stiglitz) e della cosiddetta «sinistra radicale» che invita a declinare il populismo in senso progressista, perché solo così si riuscirebbe a parlare alla «gente» e al «popolo».
I temi dai quali prende spunto Zizek sono la crescita dei partiti xenofobi in Europa, la crisi dell’Unione europea, la Brexit, l’esperienza politica di Syriza in Grecia, quella di Podemos in Spagna, la novità politica costituita dalle figure politiche di Bernie Sanders e Jeremy Corbin, il politicamente corretto del femminismo statunitense mainstream, la politicizzazione della religione islamica e protestante, il relativismo culturale. Infine, l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Temi dunque legati alla contingenza, perché solo dalla contingenza, afferma l’autore, parafrasando una tesi di Alain Badiou, è possibile fare filosofia.
Il prologo è programmatico. Viviamo in tempi disperati, afferma Zizek, perché non possiamo immaginare nessuna credibile alternativa al capitalismo globale. Risibili sono le proposte di una dolce decrescita o sulla diffusione virale di cooperative sociali e produttive non mercantili. Velleitario è anche il richiamo a fantasmatiche fuoriuscite dal capitalismo fondate su modi di produzioni locali o autoctoni. Sono tutte esperienze che rafforzano il capitalismo, sentenzia Zizek. Giudizio impietoso. E talvolta errato quando affronta il mutuo soccorso o la cooperazione sociale autorganizzata cresciuta in questa ultima decade. I loro limiti, semmai, non vanno cercati nell’incapacità di sviluppare antagonismo, bensì nella visione semplicistica del Politico e dei rapporti sociali di produzione che veicolano.
In ogni caso, vanno proprio nella direzione auspicata da Zizek. Consentono cioè di guadagnare tempo, mantenere aperta la possibilità di sovvertire lo status quo. Sono infatti istituzioni di contropotere aperte a una sperimentazione propedeutica all’accumulo di potenza politica da usare quando le condizioni la richiedono. Più o meno, come Zizek auspicava nel 2015 alla Grecia di Syriza.
Da Slavoj Zizek ci si aspetterebbe un j’accuse contro il «tradimento» di Alexis Tsipras e del suo governo rispetto il referendum vittorioso che chiedeva di non accettare il ditkat della Troika europea. Invece nessun dito puntato, Syriza non aveva alternativa, chiosa Zizek.
L’errore che ha compiuto questo governo di sinistra sta nel non aver immaginato una politica dei due tempi: accettare l’austerity e lavorare ad allargare i margini di iniziativa politica e sociale a favore di operai, impiegati, disoccupati, pensionati. L’austerity, sostiene Zizek, doveva essere usata come leva per modernizzare la struttura statale e come ariete contro l’oligarchia. Bisognava cioè salvare il capitalismo da se stesso per poi immaginare un suo superamento, evocando un celebre passo di un saggio del «marxista irregolare» Yanis Varoufakis, in queste pagine dipinto come l’unico esponente politico lucido sulla portata del braccio di ferro tra la Grecia e l’Unione europea.
In Grecia, la posta in gioco era quella di pensare a come gestire il potere in una condizione sfavorevole, avversa, ricomponendo il nesso tra modernizzazione e lotta di classe. Non c’è rivoluzione se non c’è modernizzazione, sentenzia il filosofo sloveno. La matassa da sbrogliare è quindi sempre quella che solo la Rivoluzione di Ottobre e la vittoria dell’armata rossa in Cina nel 1949 erano riuscite a dipanare. Come governare un paese in una situazione di rapporti di forza sfavorevoli?
Il primo paradosso che va interrogato è dato quindi dal proposito di salvare il capitalismo da se stesso e al contempo immaginare un suo superamento. Ma i paradossi, oltre che interrogati vanno smontati, destrutturati per evidenziare le trappole e gli esiti conservativi dello status quo che contengono. La disperazione può, sì, dare la buona dose di adrenalina teorica, ma poi occorre passare a un più prosaico e niente affatto disperato momento costruttivo, aperto all’impossibile ma ancorato ai rapporti sociali. Ogni momento «destituente» è infatti effimero se non presente al tempo stesso il carattere costituente che l’antagonismo prefigura. Per Zizek l’antagonismo è un misteriosofico «uno che si divide in due», citando nuovamente la frase ad effetto che Alain Baidiou ha usato per immaginare una «politica comunista».
L’encomiabile tentativo di interrogare i paradossi del reale si oscura per le sue ambivalenze. Sono queste che vanno quindi interpellate, sciolte, come nel caso del populismo di sinistra. Zizek svolge una critica pungente al concetto di gente – «la gente non esiste», scrive a ragione Zizek – e al concetto di popolo, unità indistinta ed espressione di un’astrazione tesa a legittimare un sovrano o un parlamento che dovrebbero rappresentarli. Ma quando si trova vis-à-vis con i rapporti sociali di produzione e le soggettività che agiscono in essi, si ritrae per incamminarsi su strade note.
Il populismo è dunque visto, a ragione, come un dispositivo politico che risponde alla marxiana falsa coscienza. Non esiste, infatti, il popolo come unità organica, definita da un territorio e dei confini. Il populismo si costruisce a partire da un Altro da sé, da un esterno che nel capitalismo globale non è lo «straniero», bensì la casta, l’oligarchia, che parassitariamente si appropriano della ricchezza prodotta e che si fanno forti del loro essere senza patria. È il vecchio e mai tramontato «socialismo degli imbecilli», anticamera del fascismo e del nazismo.
A sinistra, invece, i balbettii sulla possibilità di usare il frame populista sono mimetici. Il popolo è un aggregato di operai, disoccupati, precari, ceto medio impoverito, espressioni di interessi sociali e culturali parziali che una sintesi superiore ricomporrà. Da qui la nostalgia della forma politica del partito che ha il potere di ricomporre al suo interno le parzialità in base proprio a una sintesi superiore esterna al popolo. Un miraggio, per Zizek.
Qui la consultazione dei paradossi però si arresta. Zizek richiama la moltitudine in quanto categoria del Politico; ne sottolinea la forza performativa, ma poi scantona perché vi vede tracce di un vitalismo – la potenza del fare, lo «strutturalismo delle passioni» – che l’antropologia filosofia «pessimista» che scandisce il libro avversa, perché considerata, chissà perché, anticamera di una adesione allo status quo. Per Zizek è infatti la disperazione il sentimento che consente di pensare l’impossibile – la rivoluzione, forse -, non la potenza del desiderio o del comune riscoperto come ripetono alcuni teorici marxisti o alcune filosofe femministe (Zizek cita Judith Butler e Frédéric Lordon). Più che la disperazione, viene il sospetto, il coraggio giunge però da quell’esercizio di un ottimismo della ragione, che scommette sull’impossibile intravisto proprio in quelle esperienze di autorganizzazione sociali senza le quali non sarebbe immaginabile pensare l’impossibile.

- Benedetto Vecchi - Pubblicato sul Manifesto del 16 giugno 2017 -