martedì 8 agosto 2017

Essere Kafka!

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Kafka sulla tramvia
- di Enrique Vila-Matas -

Nel trovarmi di nuovo di fronte al penultimo frammento del "Jakob von Gunten" di Robert Walser - quello in cui il signor Benjamenta ed il narratore cavalcano per il mondo in un sogno di libertà assoluta - percepisco un'eventuale rassomiglianza familiare con "Desiderio di diventare un indiano", uno dei brevi racconti raccolti in "Meditazione" [Betrachtung], il primo libro pubblicato da Kafka. In quella breve ed indecisa prosa giovanile, Kafka mostra il suo desiderio di essere davvero un indiano, sempre attento, su un cavallo che va al galoppo, senza briglie, viaggiando per il mondo. Anche se la prosa è incerta, anche se si tratta di uno dei suoi primi testi giovanili, qui si trova, in tutta la sua pienezza, lo spirito di un Kafka arrivato fresco fresco dalle letture di Walser.

Incontrarmi di nuovo con questa breve prosa di un Kafka che comincia a manifestarsi - questa prosa in cui si trovava già condensato allo stesso tempo sia lo scrittore incomprensibile che quello sorprendentemente trasparente che è stato - fa sì che mi renda conto che Kafka non è stato sempre Kafka. Oggi siamo abituati a leggerlo come tale, però c'è stata una tappa - fatta di giorni di indecisioni ed esitazioni - in cui attraversò la classica crisi per cui passano coloro che desiderano cavalcare senza briglie e senza essere degli stranieri dentro il consueto e vile panorama letterario della sua epoca. Vale a dire, anche Kafka si è dovuto forgiare uno stile. Lo ha inventato all'ombra di Walser, ma anche all'ombra di Kleist, di Checov, di Dickens e del "cervantino" Flaubert.

Forse nessuno ha studiato meglio di Reiner Stach, in "Questo è Kafka?", gli anni della formazione dello stile kafkiano. Gli anni delle decisioni. È un libro che ho appena riletto in questi giorni e che credo funzioni come un perfetto antidoto contro la devastante e ostentata venerazione di Kafka da parte di coloro i quali pensano che la sua creatività sia stata solitaria e geniale. Indubbiamente, Kafka è stato un genio, ma non era così miope da aver voluto produrre i suoi testi a partire da un'inferiorità dovuta alla mancanza di esperienza. «Al contrario: proprio il suo stile controllato, artigianalmente raffinato, con influenze ed echi, lo segnala come autore della modernità, che - almeno in tal senso - si allinea con Musil, Joyce, Broch e Arno Schmidt», ci dice Reiner Stach, studioso degli anni in cui lo scrittore di Praga desiderava diventare Kafka, e per fare questo doveva sbarazzarsi, innanzitutto, del suo amico Brod, che gli proponeva di scrivere prose a quattro mani. E quindi, dopo essersi liberato di un simile impiccio, leggere in maniera approfondita, ad esempio, un Dickens, un autore con grandi dosi di umorismo nelle sue opere, quell'umorismo che tardava ad essere percepito in Kafka, il quale aveva scritto "Il disperso" ["America"] pensando di scrivere a tratti una novella comica dickensiana, e della quale Walter Benjamin diceva che quel libro era, soprattutto, una grande pagliacciata, dal momento che uno avrebbe potuto ridere ad ogni pagina.

Ma è vero che anche "Il Castello" ed "Il Processo", che sono romanzi che hanno provocato tanta ansia e tanta angoscia, hanno molte situazioni che possono suscitare ilarità. Ilarità che il lettore in certe occasioni reprime perché si trova coinvolto dentro un assurdo, dentro una problematica che provoca terrore. Però tali elementi umoristici sono il contrappunto che stabiliva Kafka stesso per togliere pressione al dramma. Un'ilarità appresa proprio in quei giorni in cui leggeva ad alta voce Robert Walser e scoppiava letteralmente a ridere, in particolare con il "Jacob von Gunten": «Qui si apprende assai poco, manca il personale docente e noi, i ragazzi dell'Istituto Benjamenta, non arriveremo mai  a niente»

Il personale docente, Kafka lo trovò nei libri dei suoi autori preferiti. Nei giorni dell'apprendistato, fino al 1910, cominciò a lavorare in un peculiare laboratorio di influenze, il più singolare di tutto il secolo scorso. I Diari, da un lato, e, dall'altro, le prose indecise che sarebbero andate a formare il suo primo libro, Meditazione, pubblicato nel 1912, libro cui mancano meno di quattro anni prima che alcuni amici dei numeri tondi celebrino il suo centenario. Si direbbe che sia passato molto più tempo da quando Kafka cominciò ad essere Kafka e si lasciò alle spalle alcune indecisioni. «Mi trovo sulla piattaforma di un tram, e mi sento del tutto insicuro riguardo la posizione che occupo in questo mondo, in questa città, in seno alla mia famiglia», scrisse ne "Il passeggero", una delle prose brevi di "Meditazione". In quei giorni, Kafka non si sentiva in grado nemmeno di giustificare quello che stava facendo su quella piattaforma, aggrappato a quella maniglia, lasciandosi trasportare dal tram. Ma in quei giorni Kafka era anche implacabile. Per esempio con una ragazza che si piazza vicino agli scalini, pronta a scendere dal tram. «Mi sembra così vera, come se l’avessi palpata.(...) l’orecchio minuto, lo vedo bene perché sono vicino, ha il padiglione che aderisce all’ombra che proietta sul collo.», scrive. E finisce chiedendosi come mai quella ragazza non si meravigli di sé stessa e tenga la bocca chiusa senza dire niente.

Tutto questo avvenne negli anni delle letture decisive, negli anni delle incertezze sparse sulle piattaforme di tutte le tramvie. Per un certo tempo, i coniugi Nabokov, nella Berlino del 1922, salirono sullo stesso tram che aveva preso Kafka, il Berlín-Litchterfelde. Non hanno mai parlato perché non sapevano che era lui, però Vera Nabokov ha sempre detto di ricordare «quel viso, il suo pallore, la pelle tirata, quegli occhi così straordinari, occhi ipnotici come se brillassero in una caverna».

Nessuno si è mai liberato degli anni della formazione nell'oscura caverna. Neanche Kafka. Nessuno in quei giorni esigeva che egli giustificasse le sue letture, né la sua presenza sulla strana piattaforma della vita. Ma la grande tramvia, al di là delle influenze iniziali, stava per partire. «È vero che nessuno me ne chiede conto, ma questo non importa.»

- Enrique Vila-Matas - Pubblicato il 22 novembre del 2008 su El País -

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