giovedì 31 agosto 2017

Nemico dello Stato

LENIN

Per il giurista morto durante il governo Stalin, il diritto può esistere solo nel capitalismo
- di THIAGO ARCANJO CALHEIROS DE MELO -

Le celebrazioni del primo centenario della rivoluzione russa hanno prodotto quanto meno un buon risultato in Brasile: le riedizione de "La Teoria Generale del Diritto ed il Marxismo" di Eughenij Bronislavovic Pasukanis (1891-1937). Il libro, pubblicato nel 1924, potrebbe ben figurare su qualsiasi elenco dei grandi classici delle scienze umane nel XX secolo.
Per la prima volta, la sua traduzione viene effettuata direttamente dal russo; nelle tre versioni precedenti - una degli anni '70, in Portogallo, e due degli anni '80, in Brasile - come base era stata presa un'edizione francese, che a sua volta proveniva dalla traduzione di una pubblicazione tedesca.
Si possono immaginare i vantaggi che ne potrà trarre ora il lettore brasiliano, in termimi dichiarezza e vicinanza stilistica. Le edizioni sono ben due: una per la "Boitempo" ("Teoria Geral do Direito e Marxismo" [trad. Paula Almeida, 144 págs., R$ 43]) e una della Sundermann ("A Teoria Geral do Direito e o Marxismo e Ensaios Escolhidos (1921-1929)" [trad. Lucas Simone, org. Marcus Orione, 384 págs., R$ 45]), il cui volume comprende anche sei articoli del giurista sovietico.

Pasukanis, nato il 23 febbraio del 1891 a Staritsa, in Russia, era cresciuto in una famiglia di intellettuali che aveva combattuto contro il regime imperiale allora vigente nel paese. Già fin dall'adolescenza, nel 1917, il futuro giurista rivoluzionario aveva aderito alla Gioventù del Partito Operaio Social-Democratico Russo (POSDR), nel contesto della lotta anti-zarista e socialista dell'epoca. Da questa sigla emergeranno i raggruppamenti menscevichi e bolscevichi, protagonisti degli avvenimenti del 2017.
Nel 1909, Pasukanis si iscrisse alla Facoltà di Diritto di San Pietroburgo, ma, a causa della sua attività politica, venne arrestato l'anno successivo e fu costretto ad esiliarsi in Germania.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, Pasukanis era già tornato in Russia, deciso ad essere parte attiva, prima della frazione bolscevica del POSDR e, successivamente, del Partito Comunista. Negli anni '20, comincia le sue ricerche nell'ambito della sezione di Teoria dello Stato e del Diritto dell'Accademia Comunista, che diviene ben presto un importante centro di studi giuridici marxisti.

AMORE e ODIO
Grazie alla pubblicazione del suo libro principale, nel 1924, Pasukanis guadagna grande influenza, arrivando ad avere posti di alta responsabilità nell'ambito dell'Unione Sovietica. Diventa, ad esempio, vice commissario alla Giustizia e partecipa alla commissione che redige la Costituzione sovietica del 1936.
Ma l'impatto avuto dalle sue tesi, però, attrae anche l'attenzione della vigilanza stalinista. A partire dal 1930, si vede costretto ad abbandonare progressivamente le sue concezioni, in quanto si scontrano con la politica imposta da Josef Stalin (1878-1953).
Contraddicendo gli approcci tradizionali, secondo i quali il Diritto sarebbe esistito praticamente in tutte le epoche, Pasukanis riteneva che invece esso fosse esistito solo con il capitalismo. Nella sua visione, quello che oggi chiamiamo "giuridico" ha molto poco a che vedere con quello che c'era nelle civiltà antiche o nel Medioevo.
Per Pasukanis, l'elemento giuridico centrale non consiste nelle leggi o nelle norme, ma è un elemento caratteristico: il soggetto del Diritto, risultante dalla caratterizzazione di tutti gli esseri umano, in quanto individui indipendenti fra di loro, formalmente liberi, uguali gli uni agli altri e proprietari di merci (o di sé stessi).
Così, secondo Pasukanis, la vera comprensione del Diritto non comincia a partire dallo studio delle leggi e delle norme, ma dall'analisi del soggetto del Diritto, una forma storicamente specifica dell'individuo.
Nelle società dell'India Antica o dell'Impero Inca - fra altri esempi - lo scambio di prodotti avveniva solamente nella relazione fra le comunità, e non fra gli individui. Quando ad eseguire lo scambio era una persona sola, egli agiva come rappresentante di un collettivo, e non a suo proprio nome.
Col tempo, questi scambi smisero di essere occasionali, ed una frazione di prodotti passò ad essere riservata ad un tale fine. Ma dal momento che questo settore era assai piccolo, però, avveniva che una comunità negoziasse la sua produzione solo in forma residuale. Vale a dire, questo a sua volta implicava che, in misura molto limitata, gli individui si trattassero come formalmente indipendenti gli uni dagli altri; nella più parte dei casi, si trattava di rappresentanti delle comunità alle quali appartenevano.
In altre parole, prima che sorgesse il capitalismo, la produzione sociale ai fini dello scambio, anche durante l'Antichità greca e romana, non è mai diventata il modo predominante e stabile della società nel suo insieme.

Il DIRITTO
Nel capitalismo, l'emergere del lavoro salariato generalizza lo scambio mercantile, che a sua volta si sviluppa come relazione fondamentale fra gli individui. Ormai il lavoratore non è più né servo né schiavo, ma è un soggetto formalmente libero e uguale agli altri.
In questa società, non si verifica più soltanto un semplice scambio delle merci da una mano all'altra. Il modo di produzione stesso ora presuppone un interscambio, un contratto in cui il proprietario della forza lavoro viene remunerato per mezzo del salario. Questo contratto può essere firmato soltanto se sia il lavoratore che il capitalista si presentano come proprietari formalmente autonomi, liberi e uguali gli uni agli altri - come in ogni scambio di merci fra individui.
Da una parte, il lavoratore (il proprietario della forza lavoro) produce al fine di ricevere salario, la sua unica forma di sopravvivenza. Dall'altra parte, il capitalista (il proprietario dei mezzi di produzione) investe affinché le sue merci vengano vendute.
Nessuna delle parti viene coinvolta in questo processo allo scopo di consumare la merce prodotta. In questo modo, la produzione, la circolazione ed il consumo stesso degli oggetti socialmente prodotti si realizzano solamente per mezzo di una relazione mercantile fra proprietari privati.
Quindi si può dire che il lavoro salariato, generalizzando lo scambio di merci, istituisce il concetto di soggetto del Diritto come elemento centrale delle relazioni del modo di produzione capitalista.
A partire da questo periodo storico, gli individui appaiono in ogni momento come soggetti del Diritto, come proprietari di merci con libertà ed uguaglianza formali. Solo allora si può parlare di maniera precisa di un soggetto giuridico; il Diritto, a sua volta, può essere compreso, nella sua essenza, come una mediazione sociale dei proprietari privati di merci.
Stabilendo una relazione necessaria fra l'esistenza del soggetto del Diritto ed il modo di produzione capitalistica, Pasukanis sta anche dicendo che il superamento di questo sistema implica l'estinzione del Diritto in quanto tale. In questo senso, la scomparsa del Diritto borghese sarebbe allo stesso tempo la scomparsa del Diritto in generale.

Un'OPERA PROIBITA
Una delle conseguenze di questa conclusione - come si vedrà - è l'affermazione secondo cui il Diritto ha una natura borghese, cosa da cui deriva l'impossibilità di affermare un "Diritto proletario".
Nella misura in cui il regime sovietico stalinista procedeva sempre più attraverso un'affermazione giuridica statale, le conclusioni pasukaniane apparivano come un affronto al governo, il quale si dichiarava "pienamente socialista". Nel 1937, insieme a molti altri militanti classificati come "nemici del popolo", Pasukanis venne arrestato ed assassinato, in circostanze che ancora oggi non sono del tutto note.
E come se non fosse sufficiente l'esecuzione del rivoluzionario russo, anche la sua opera venne proibita. È stato riabilitato solo molti decenni più tardi, e in parte a causa di ciò, fino a tutt'oggi, molti degli scritti di Pasukanis non hanno ancora alcuna traduzione.
L'edizione di Sundermann, però, contiene anche sei saggi del giurista sovietico che fino ad oggi erano stati pubblicati solamente in russo. Scritti del 1921 e del 1929, mentre il suo autore manteneva ancora la propria autonomia intellettuale, questi "nuovi" testi meritano che vengano studiati in modo che possa essere delimitato il loro campo di applicazione.
Ma ancor prima che ci sia quest'approfondimento teorico, tuttavia, si può già affermare che questi saggi completano in maniera significativa dei punti centrali della trama teorica pasukaniana, sia con il chiarire le sue posizioni in relazione agli altri pensatori, sia sviluppando tesi a proposito della natura dello Stato e del Diritto.
Nel testo "I dieci anni di Stato e Rivoluzione di Lenin", Pasukanis visita una delle più importanti opere politiche del XX secolo. In un altro dei suoi saggi ("L'apparato sovietico nella lotta contro il Burocratismo"), spicca la lucidità nella descrizione dei problemi affrontati dall'apparato statale recentemente creato.
Avendo presente tutto questo, in quest'occasione si può affermare che la più significativa critica teorica del Diritto ha ricevuto un riconoscimento compatibile con la sua grandezza. Più che mai, Pasukanis è un autore che dev'essere riletto.

THIAGO ARCANJO CALHEIROS DE MELO - Pubblicato su Folha De S.Paulo il 19/8/2017

Pasukanis

mercoledì 30 agosto 2017

Il meccanismo di Arlecchino

medioevo

Aboliamo il Medioevo
- di Amedeo Feniello -

Fasi cronologiche, periodizzazioni, scansioni temporali: questioni importanti. Perché spezzare il tempo e il suo divenire non è un atto neutro. Ma rappresenta qualcosa di artefatto. Di congiunturale. Provvisorio, legato al momento, alla sua fase storica. Alle società e alle epoche in corso. E, perciò, continuamente sottoponibile a giudizio. A modificarsi a seconda delle evoluzioni, poiché fondato su convenzioni che variano al variare di sensibilità, gusto e stagioni. Eppure questo problema, il problema del periodizzare, anche noi storici di frequente lo sottovalutiamo. Così, continuiamo (per comodità pedagogica, per consuetudine) a tagliare la storia a fette, con un tempo costruito artificialmente, frazionato in cinque momenti. E, sin dai banchi della scuola elementare, sappiamo che la storia si divide in un’età preistorica, una antica, una medievale, una moderna e una contemporanea. Cinque grandi compartimenti che tutto contengono. Che tutto facilitano. Che tutto rasserenano, eliminando soverchie controversie.
Questa suddivisione è conveniente ma genera problemi. Ed è proprio il periodo che chiamiamo Medioevo – questo orrido buco nero su cui pesano disprezzo e condanna (chi di noi non ha usato almeno una volta, per parlare di una situazione degradante, il termine «medioevale» o, peggio ancora, «feudale»?) – che, di dubbi, ne produce più di altri. Perché non ci si fa caso, ma dobbiamo esserne consapevoli: il Medioevo non è altro che una costruzione ideologica. Fino al XIV secolo, nel parlare di storia, l’unica rottura concepibile in Occidente era la nascita di Cristo: un avvenimento cruciale che trasformava la storia da unidimensionale in bidimensionale, con un prima e un dopo. A cominciare invece da una serie di personaggi straordinari – come Francesco Petrarca – affiora la prima grande frattura, con l’idea di una grande stasi temporale che si poneva a metà tra un’antichità immaginata e una modernità tutta ancora da immaginare. L’età di mezzo. Il Medioevo.
Cos’è allora il Medioevo? È una parola fantasma. Inventata. Che, una volta nata, da sola non bastava. Serviva che venisse precisata; che le si attribuissero connotati; che si strutturasse. Fino a una data centrale: il 1688, quando, appena 330 anni fa, Christoph Keller, il Cellario, nella sua opera Historia medii aevi, adotta per primo, in maniera formale, degli estremi cronologici: e presenta un intervallo quasi monolitico composto da mille anni inclusi tra due estremi, il regno dell’imperatore Costantino (306-337) e la caduta di Costantinopoli, nel 1453.
Oggi, considerare il Medioevo come un blocco uniforme, senza nuances, suonerebbe ridicolo. Come si fa ad abbracciare, con un solo sguardo, l’evoluzione della specie umana e i suoi comportamenti lungo un tempo così estremo per la sua intensa disparità? O valutare all’unisono gente mossa da impulsi tanto diversi, come Alboino, Carlo Magno, Luigi IX di Francia, Giotto o Cosimo dei Medici, solo perché vissuti tutti, disgraziatamente, entro questo intervallo? È assurdo. Tanto quanto parlare di idealtipo dell’uomo medievale. Tuttavia, se ci si svincola da questo preconcetto e si tenta di segmentare il Medioevo, l’affare si complica. A partire dai limiti cronologici. Comincia davvero in un momento preciso? E quando finisce? Chi lo decide? Giacché, si badi bene, non siamo davanti a postulati, ma a scelte.
Prendiamo, ad esempio, la nascita. Se ci ragioniamo, adoperare una data precisa è pratico ma fuorviante. In quanto inganna e distorce il fluire del tempo, creando strappi e salti innaturali. Con studenti e insegnanti che, ho potuto verificarlo di persona, continuano a immaginare che, una volta deposto l’ultimo imperatore romano nel 476, il giorno dopo l’umanità cambia faccia, precipitando nell’inevitabile declino di un mondo calpestato dalla barbarie mentre 24 ore prima si navigava nello splendore!
Al di là dell’ironia, si tratta di generalizzazioni ingenue, ma purtroppo diffuse. Quando può essere meglio adoperare un’altra strada, con lo scindere dal Medioevo una fase duratura, non fondata su un unico, grande avvenimento periodizzante ma su un grappolo di episodi-chiave che ne cadenzano il cammino. Nel 1971, Peter Brown, nel suo libro The World of Late Antiquity (Il mondo tardo antico, Einaudi, 1974), inaugurava questa strada parlando di Tardoantico: un lunghissimo e instabile periodo che va dal 200 all’800 d.C. nel quale la lenta dissoluzione dell’antico mondo mediterraneo lascia il posto alla creazione di tre civiltà, tutte continuatrici, ognuna a suo modo, della civiltà ellenistico-romana: l’Occidente europeo, Bisanzio e l’Islam. All’interno del quale non bisogna cercare un singolo episodio dominante ma una serie di fatti-cerniera che saldano l’intera epoca, in una sequenza che, per esempio, dalla Constitutio Antoniniana di Caracalla del 212 passa attraverso Adrianopoli (378), il sacco di Roma di Alarico del 410, l’Egira del 622, Poitiers nel 732 e giunge fino alla morte di Carlo Magno nell’814.
Analogo problema sta nel definire la conclusione, con periodizzazioni che assumono un’estrema elasticità. Che si riduce d’ampiezza se si seppellisce il Medioevo nel corso del Trecento, quando, per gli storici dell’arte, comincia una fase del tutto nuova per lo spirito e la cultura umana, che ha spinto a creare un’altra bolla temporale, definita in area anglosassone early modern Renaissance. Oppure si dilata, con un Rinascimento che viene assorbito in toto in un lungo Medioevo, assimilato come sua parte essenziale: un tipo di lettura che ne estende i contorni ai primi decenni del Cinquecento. Senza contare poi gli studi economici, dove la lenta età preindustriale prolunga i suoi tentacoli nel Settecento, tanto da lambire la prima rivoluzione industriale.
E per le demarcazioni interne? Cosa c’è dopo il Tardoantico? C’è una lunga fase, compresa tra metà del IX e fine dell’XI secolo, caratterizzata da una sequenza di fenomeni diversi e tumultuanti, nella quale convivono accanto a forti periodi di caos politico e sociale i primi segnali di ripresa. Un’«età dell’anarchia», che si può chiudere con l’evento periodizzante della Prima Crociata e si confonde con la successiva, che copre il XII e il XIII secolo: l’epoca delle rinascite, con le grandi sperimentazioni politiche, sociali ed economiche che vanno dalla ripartenza delle città alle esperienze comunali, dal feudalesimo alle rivoluzioni agricole e commerciali. Secoli che terminano con l’inizio della grande epoca delle distruzioni creative trecentesche, con il prevalere degli Stati-nazione; di una nuova concezione del lavoro e della finanza; e di un rinnovato ambiente culturale e di sollecitazione tecnologica che è il Rinascimento.
Se queste distinzioni aiutano a declinare meglio il discorso, finiscono comunque per proporre sempre visioni d’insieme che si intrecciano tra loro, ma non tengono conto della miriade di variabili che rappresentano il dato pregnante del mondo medievale. Cui sarebbe meglio sostituire, all’etichetta uniforme di «Medioevo», quella forse più pertinente di «società medievali», adatta a distinguere un contesto, come fu quello occidentale, dove ogni cosa apparve difforme da un luogo all’altro, da una regione all’altra e perfino da una città all’altra. In cui nozioni di comodo come quelle di crescita o di crisi, spesso adoperate nelle periodizzazioni, appaiono eccessive, considerata l’impossibilità di valutare, con delle espressioni che tutto vogliono contenere, un mondo che, nei fatti, fu incontenibile, parcellizzato, incostante e variabile.
D’altra parte, bisogna riflettere su un altro aspetto: la nozione di Medioevo a chi appartiene? Solo all’Occidente cristiano, dove la parola significa qualcosa, mentre altrove, nel resto del mondo, comunica poco o nulla. Fino a qualche decennio fa, potevamo infischiarcene. Ma oggi, in una dimensione dove la storia globale ribadisce il suo ruolo, il concetto di Medioevo perde importanza, in una logica in cui la storia si amplifica e smarrisce i suoi tradizionali connotati. Infatti, se si considera l’intero globo come unità di misura, i nostri termini cronologici si relativizzano e non funzionano più. Che senso ha assumere come punto di riferimento la deposizione di Romolo Augustolo? Nessuna, se il nostro punto di osservazione spaziale diventa, come ha fatto di recente Frederick Starr nel suo Illuminismo perduto (Einaudi), l’Asia centrale. E il metro «Medioevo» diventa ancora più incoerente se prendiamo in considerazione regioni come il centro Africa o addirittura il mondo precolombiano. Ma questo metro continuiamo a usarlo, imponendolo. Con una tendenza a considerare tutto ciò che è al di fuori di noi come corrispondente alla nostra stessa cultura.
In questo atteggiamento, di voler riprodurre a tutti i costi il medesimo schema cronologico occidentale anche per realtà diverse dalla nostra, si nasconde un vecchio presupposto eurocentrico. Mossi come siamo, come ha sottolineato scherzosamente lo storico dell’Oriente Urs App, dal «meccanismo d’Arlecchino», secondo cui l’uomo occidentale ragiona come la maschera veneziana, ossia «pensa che il resto del mondo sia la riproduzione esatta della sua famiglia, e agisca di conseguenza». Invece, i paradigmi si stanno allentando, anche quelli riguardanti il nostro modo di periodizzare. Dopo più di 300 anni da Cellario è venuto il momento di proporne, per il Medioevo, di nuovi. Più attuali. Aderenti alle sfide che ci aspettano.

- Amedeo Feniello - Pubblicato su La Lettura del 4 giugno 2017 -


Scansioni temporali Sul numero #286 de «la Lettura», uscito il 21 maggio, il paleoantropologo Giorgio Manzi ha posto l’esigenza di introdurre una nuova visione della storia, in modo da comprendervi anche le vicende del genere umano che precedono il sorgere della civiltà egizia e di quella mesopotamica. Su «la Lettura» #117 del 16 febbraio 2014 si è svolto un dibattito sul libro di Jacques Le Goff (1924-2014) Il tempo continuo della storia (traduzione di David Scaffei, Laterza, 2014), in cui il grande storico francese metteva in discussione le periodizzazioni classiche e proponeva di prolungare la durata del Medioevo fino al XVIII secolo. Hanno partecipato alla discussione Giuseppe Galasso, Franco Cardini, Maurice Aymard.

La svolta L’editto di Caracalla, chiamato anche Constitutio Antoniniana, è un provvedimento assunto nel 212 dopo Cristo, con cui veniva riconosciuta la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero, tranne i dediticii (categoria sulla cui natura si discute molto tra gli studiosi). L’editto, da cui alcuni storici fanno cominciare il Medioevo, venne emanato dall’imperatore Marco Aurelio Severo Antonino Pio Augusto, detto Caracalla (188-217), che regnò dal 211 alla morte

Bibliografia Un grande classico sugli albori del Medioevo è il libro postumo Maometto e Carlomagno (1937) dello storico francese Henri Pirenne (1862-1935), la cui edizione italiana più recente è uscita nel 2015 da Laterza nella traduzione di Mario Vinciguerra, con prefazione di Ovidio Capitani. Autunno del Medioevo (1919) è il titolo di un altro libro famoso, scritto dallo storico olandese Johann Huizinga (1872-1945), la cui edizione più recente è stata pubblicata da Bur nel 2015, tradotto da Bernard Jasink, con l’introduzione di Eugenio Garin. Risale invece al 2009 l’edizione più recente del libro del francese Marc Bloch (1886-1944) Lavoro e tecnica nel Medioevo (traduzione di Giuliano Procacci, Laterza). Lavori più recenti: Jacques Le Goff, Il Medioevo. Alle origini dell’identità europea (traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti, Laterza, 1996); Giuseppe Sergi, L’idea di Medioevo. Fra storia e senso comune (Donzelli, 2005); Giovanni Vitolo, Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione (Sansoni, 2000). Sul passaggio dall’Antichità al Medioevo: Stefano Gasparri, Cristina La Rocca, Tempi barbarici (Carocci, 2012). Da segnalare anche il Dizionario del Medioevo di Alessandro Barbero e Chiara Frugoni (Laterza, 1994), completato dalla raccolta di documenti e illustrazioni, curata sempre da Barbero e Frugoni, Medioevo. Storia di voci, racconto di immagini (Laterza, 1999)

martedì 29 agosto 2017

Radici

razzismo

L'alba razzista del capitalismo
- di Peter James Hudson -

Dieci anni prima del suo assassinio avvenuto nel 1914 per mano di un nazionalista, il socialista francese Jean Jaurès aveva portato a termine un'opera storica che aveva cambiato radicalmente lo studio della rivoluzione francese. Laddove gli altri si erano focalizzati sulle dispute intorno alla politica e alle ideologie politiche, i quattro volumi della Storia socialista della Rivoluzione francese di Jaurés avevano come soggetto le trasformazioni apportate da un capitalismo emergente, mettendo in primo piano le sue irruzioni nell'economia francese. Facendo uso di una lente marxista, Jaurés sottolineava il conflitto fra l'Ancien Régime e la borghesia appena giunta al potere, e tirava fuori dagli archivi della rivoluzione le lotte dei contadini e dei lavoratori francesi.
Sebbene fosse stato snobbato dagli studiosi che gli erano succeduti, ansiosi di prendere le distanze dal marxismo di Jaurés, la "Storia socialista" era storia "dal basso" ante litteram. Le sue analisi riguardavano anche qualcosa che aveva anticipato un sotto-campo storico - la storia del capitalismo - che adesso decollava da questo lato dell'Atlantivo. Dopo un inizio energico all'interno della professione storica americana, la storia del capitalismo era cresciuta rapidamente negli ultimi anni ed aveva guadagnato l'attenzione dei media più accademici finora solo sognata. La sua popolarità in parte era stata innescata dalla crisi finanziaria del 2008, che risollevava dei dubbi sulle promesse del capitalismo, e che la faceva emergere sulla lunga scia della morte dell'identità politica e della svolta culturale che c'era stata fra gli intellettuali americani. Emerge al di là dei presunti limiti, al di là delle preoccupazioni settarie per quei gruppi particolari rimasti fuori dalla storia principale - uomini e donne, contadini e schiavi, neri e omosessuali. Alcuni studiosi invece avevano messo in discussione la capacità di inclusione democratica di questo nuovo campo; altri si erano adoperati a dimostrare che questo non voleva essere una summa della storia sociale che si basava sul lavoratore bianco maschio, o una storia del capitalismo che feticizizzava il capitalista bianco maschio. Ad ogni modo, i suoi pregiudizi istituzionali ed ideologici spesso trasparivano attraverso quelli che erano i loro soggetti favoriti ed i loro protagonisti consacrati.
Il punto di vista di Jaurès sulle questioni economiche come principale motore del cambiamento politico e sociale, il suo collegare il capitalismo alla modernità, il suo mostrare le élite come attori storici - tutte preoccupazioni, queste, che si sono ripresentate nelle recenti storie del capitalismo. Ma forse la cosa che più impressiona circa questo campo di indagine, è il modo in cui rimaneggiano e sconfessano la tradizione intellettuale radicale cui appartiene Jaurès, e che fa derivare le questioni storiche tanto dall'impegno politico quanto dalle preoccupazioni accademiche. Jaurès condivideva tale tradizione con autori neri come W. E. B. Du Bois e come il teorico di Trinidad C. L. R. James, che aveva preso parte, dall'interno, a quella che Cedric Robinson aveva definito la "tradizione nera radicale". Il loro interesse per la storia del capitalismo non era meramente accademico: era una parte integrante del moderno progetto di emancipazione. Forse il problema sta qui. Nella sofferenza degli allievi, quando rinnegano le loro origini radicali e nell'utilizzo che fanno delle loro ricerche?

Il ripudio, da parte della nuova storia del capitalismo, delle origini radicali appare più chiaro nel suo trattamento della schiavitù. che, per più di un secolo, è stata la principale preoccupazione degli studiosi che erano parte della tradizione radicale. Jaurés, per esempio, ha tracciato una linea che collegava i profitti provenienti dal commercio degli schiavi con la crescita delle industrie e dell'ideologia del capitalismo.
C.L.R. James aveva ripreso queste affermazioni ne "I Giacobini Neri - La prima rivolta contro l'uomo bianco"(1938). Il libro poneva sia le "masse" caraibiche che quelle europee al centro della rivoluzione haitiana, usandola come un modello per quello che James aveva visto come il prossimo movimento per la decolonizzazione e per la sovranità africana. James criticava Jaurés per la sua insufficiente attenzione nei confronti del colonialismo francese, tuttavia citava circa ventidue pagine dalla "Storia socialista", per dimostrare l'importanza economica delle colonie dei Caraibi per la prima crescita industriale della Francia. James citava da Jaurés un estratto che catturava l'apparente contraddizione storica attraverso la quale l'asservimento africano aveva portato alla libertà europea: «Triste ironia della storia umana. ... Le fortune create a Bordeaux, a Nantes, dal commercio degli schiavi, conferirono alla borghesia quell'orgoglio di cui aveva avuto bisogno per la libertà e che aveva contribuito all'emancipazione umana.» Una provocazione simile era apparsa anche in "A History of Negro Revolt" di James, una breve monografia sulla resistenza nera globale, anch'esso pubblicato nel 1938: «La schiavitù negra sembrava o'a vera base del capitalismo americano.»
Ad una simile triste ironia era stata data piena forma storica dall'ambizioso ex allievo di James, Eric Williams, che sarebbe diventato il primo Primo Ministro di Trinidad e Tobago. Williams aveva esposto la sua tesi ad Oxford nel 1938; venne pubblicato sei anni dopo col titolo "Capitalismo e Schiavitù". Benché, come aveva spiegato il filoso politico caraibico Aaron Kamugisha,James e Williams avessero avuto delle divergenze sulle questioni politiche, Williams aveva riconosciuto il suo debito nei confronti di James per avere influenzato la sua affermazione secondo cui l'abolizione della schiavitù nell'Impero Britannico era stata il risultato di una razionalizzazione economica - e non di umanitarismo e di convincimento morale. Williams aveva asserito anche che l'accumulazione del capitale era stata svolta attraverso la schiavitù che aveva finanziato l'espansione nazionale dell'agricoltura, la crescita delle istituzioni bancarie e delle compagnie di assicurazioni, e lo sviluppo delle prime infrastrutture industriali dell'Inghilterra.

Mentre James e Williams stavano scrivendo in Europa, Du Bois stava arrivando a conclusioni simili riguardo l'impatto e la natura della schiavitù negli Stati Uniti. Il suo "Black Reconstruction in America: An Essay Toward a History of the Part Which Black Folk Played in the Attempt to Reconstruct Democracy in America, 1860–1880", pubblicato nel 1935, metteva gli afroamericani al centro del dramma e delle conseguenze della Guerra Civile. Per Du Bois, la libertà nera non era il dono della benevolenza bianca; l'emancipazione era stata in gran parte il risultato della resistenza e delle lotte dei neri. Ridando forma allo schiavo come lavoratore, Du Bois dimostrava che c'era continuità fra l'organizzazione della schiavitù americana ed il consolidamento del capitalismo americano, mentre respingeva l'opinione, prevalente a quel tempo, secondo cui il fallimento della Ricostruzione era dovuto all'ignoranza dei neri, alla loro disonestà, stravaganza, pigrizia, e, in ultima analisi, incapacità congenita all'auto-governo e mancanza di preparazione alla libertà - tutto ciò che Dubois riteneva essere "la propaganda della storia". Come sapeva bene Du Bois, la Ricostruzione Nera era un assalto in piena regola, da parte degli storici americani, alla posizione degli afroamericani all'interno della storiografia americana.
Queste provocazioni erano accolte sia con scetticismo che con rabbia. "Capitalismo e Schiavitù". mentre era oggetto di molti dibattiti, venne spesso liquidato dagli storici, e Williams e Du Bois rimanevano ai margini dell'accademia professionale (anche se bisogna riconoscere che le vere ambizioni di Williams riguardavano la politica, nonostante il decennio trascorso alla Howard University). L'esclusione riguardo l'istruzione superiore significava che Du Bois era stato emarginato nell'ambito del mondo accademico degli Stati Uniti, e c'è voluto più di mezzo secolo prima che le premesse di base del suo "Black Reconstruction" venissero considerate seriamente; oggi, ottant'anni dopo la sua pubblicazione, viene evocato ma non letto, citato ma non analizzato, famoso ma non sposato. Nella storia contemporanea del capitalismo, le opere, le idee, e gli argomenti di Williams, Du Bois, ed altri studiosi radicali vengono selettivamente citate, completamente ignorate, o prese a prestito senza alcuna conoscenza né degli autori né del contesto politico-economico in cui tali opere sono state prodotte, e a quali opere rispondevano. I nuovi libri degli storici americani Sven Beckert ed Edward Baptist esemplificano questo trend.

"L'impero del cotone: Una storia globale" di Beckert è probabilmente la più celebrata fra tutte le opere recenti sulla storia del capitalismo. È un libro notevole, sotto vari aspetti. Scritto sul genere dello studio su una merce - inaugurato dalla storia globale del merluzzo di Harold Innis e dalle storie dello zucchero di Fernando Ortiz e di Sidney Mintz - Beckert ripercorre la storia del mondo attraverso l'economia politica del cotone. Il "globale" del sottotitolo non è una mera pretesa: sebbene si concentri sull'espansione, sulla crescita, e sulla caduta del dominio europeo della produzione di cotone, la sua storia si stende migliaia di anni all'indietro fino ai primi tentativi di addomesticamento in Europa, Medio Oriente, Nord Africa, e Cina e allo sviluppo della filatura e della tessitura nel Sud dell'Asia, in America Centrale, nell'Est dell'Africa. Descrive la crescita della coltivazione del cotone e la sua prima tecnologia manifatturiera ed il passaggio dalla produzione familiare a quella commerciale.
Sebbene per Beckert il mondo islamico non sia un passo importante per l'epoca europea, "L'impero del cotone" sottolinea come il cotone ed il capitalismo siano stati aggressivi globalmente fin dall'inizio, in quanto la ricerca per dei mercati e la caccia alle materie prime ad al lavoro siano andati oltre i confini di terra e di mare. Quest'affermazione viene sostenuta facendo uso di un'impressionante ricerca transnazionale negli archivi ed in un insieme di fonti secondarie. Senza sacrificare l'attenzione per i dettagli locali, che si tratti di Messico o di India, di Europa occidentale o di Africa dell'Ovest, "L'impero del cotone" narra i molteplici e simultanei processi di trasformazione storica e di conflitti in tutto il mondo.
Al centro del libro c'è un argomento che attiene a ciò che Beckert chiama "capitalismo di guerra". Ma con questo termine Beckert designa il sanguinoso preambolo all'emergenza del capitalismo maturo, un primo processo di "crudezza e violenza": accumulazione di ricchezza segnata dall'asservimento africano, dall'espropriazione dei territori aborigeni, dalla coercizione e dallo sterminio come di controllo del lavoro e di conquista territoriale, e la nascita di uno Stato imperiale le cui leggi e polizie servivano una classe capitalista emergente: «Di solito pensiamo al capitalismo, quanto meno a quello globalizzato, come ad un tipo di produzione di massa che conosciamo oggi, come è emersa intorno al 1780 con la rivoluzione industriale. Ma il capitalismo di guerra, che comincia a svilupparsi nel XVI secolo, è arrivato molto prima delle macchine e delle fabbriche.» E continua, «Quando pensiamo al capitalismo, pensiamo ai lavoratori salariati, ma questa fase precedente del capitalismo non si basava sul lavoro libero, bensì sulla schiavitù. Associamo il capitalismo industriale con i contratti e con i mercati, ma il capitalismo all'inizio si basava più spesso sulla violenza e sulla coercizione corporale.» Beckert descrive questa fase come «una fase importante ma spesso non riconosciuta dello sviluppo del capitalismo» la cui storia è stata cancellata da coloro che «desideravano una più nobile, e più pulita» narrazione.
Ma chi è questo "noi" scorporizzato, de-razializzato? Sicuramente, molti storici neri non hanno una simile visione del capitalismo. Forse Beckert ha avuto in mente le storie della creazione di studiosi come Jared Diamond, ma è fuorviante dire semplicemente che "le origini illiberali del capitalismo" sono state spesso ignorate - ed hanno dato credito a narrazioni rivedute più allegre - senza che vengano esaminate le basi di una tale cancellazione. Non è una coincidenza il fatto che molti intellettuali che hanno riconosciuto la violenza coercitiva del capitalismo degli inizi abbiano messo una fine politica al loro approccio, ma queste figure sono state lasciate fuori dalla narrazione di Beckert. Egli può aver coniato il termine "capitalismo di guerra" ed aver citato Williams e James in alcune note a piè di pagina, ma non riesce a riconoscere apertamente nel suo testo le origini radicali del concetto. L'idea appare già pienamente formata nel capitoli finali del primo volume del Capitale di Marx e viene presentata come "accumulazione primitiva":
«La scoperta dell'oro e dell'argento in America, lo sradicamento, la riduzione in schiavitù e la tumulazione nelle miniere della popolazione indigena di quel continente, gli inizi della conquista ed il saccheggio dell'India, e la conversione dell'Africa in una riserva per la caccia commerciale dei pellenera sono tutte cose che caratterizzano l'alba dell'era della produzione capitalista»

«Questa idilliaca successione di eventi», continua Marx, «è il momento clou dell'accumulazione primitiva.» Così era stata anche la nascita del sistema di fabbrica e lo sviluppo dei nuovi regimi legali che avevano spossessato contadini e operai della loro terra e del loro lavoro. Successivamente, il geografo David Harvey ha descritto tali processi come "accumulazione attraverso espropriazione". È mistificante trovare delle omissioni così grandi come quelle che si trovano in un libro che è altresì confezionato in maniera elegante, ma che è rivolto ad un modello che è ansioso di smarcarsi dalla storiografia radicale. Il risultato è una versione stranamente astorica dell'inchiesta storica, che ignora i contesti razziali e politici in cui emergono questioni e concetti accademici.
Per me, la questione non è quella di demolire racconto che Becker fa del capitalismo e della schiavitù, unendovi i nomi degli studiosi o i titoli dei libri che egli non cita, in quanto le sue affermazioni, sebbene difficilmente siano originali, sono ben argomentate e convincenti. Né intendo feticizzare ciò che è radicale come se si trattasse di una forza di opposizione astratta e indefinita all'interno di una sotterranea pratica storica. Ma l'ignoranza storiografica, le omissioni, e l'assenza marginalizza ancora di più quello che è un sotto-campo marginalizzato insieme alle comunità intellettuali che lo hanno alimentato. Quali limitazioni metodologiche vengono causate da una simile trascuratezza? Cosa perdiamo quando rinneghiamo la scuola storiografica impegnata? In che modo una seria lettura di "Black Reconstruction" di Du Bois, e la tradizione dell'inchiesta radicale che esso rappresenta, servirebbe in maniera più generale sia al"L'impero del cotone" che alla nostra comprensione della storia del capitalismo? E quale politica e quale impegno si nasconde dietro la scusa del disinteresse accademico? Alcune questioni accademiche, forse, possono solo essere sollecitate dall'esterno, e a meno che non soccombano alla soffocante tirannia del mainstrean, quelli che si trovano ai margini della storia e della storiografia sono costretti a prendere in considerazione nuovi archivi, nuovi metodi, nuovi approcci. Per Du Bois ed altri all'interno della tradizione radicale nera, questo significa ampliare il marxismo, come osservava Frantz Fanon a proposito della questione coloniale, per comprendere l'indelebile natura razziale del capitalismo.
Mostrare che la storiografia de-razializzata di Beckert è eludere il ruolo della razza, del razzismo, e della supremazia bianca per quel che riguarda l'emergenza e l'organizzazione dell'impero del cotone. Mentre Beckert enfatizza il ruolo della schiavitù nel sorgere del capitalismo, egli ignora il ruolo della razza nell'emergere di entrambi. Eppure fin dall'inizio dell'immagine di copertina queste descrizioni della gerarchia globale del lavoro e della produzione che segna il moderno capitalismo sono chiaramente razziali: questa immagine di apertura raffigura degli uomini bianchi a Manchester che sono felici del prodotto e della redditività della loro industria globale. Beckert non considera cosa significa il bianco dei suoi uomini bianchi; la loro razza gli appare incidentale.

razzismo cotone

Per di più, in un capitolo fortemente argomentato, Beckert mostra come la Guerra Civile aveva provocato una crisi globale del "capitalismo del cotone" poiché aveva obbligato ad una disperata ricerca per una nuova terra e per una nuova fonte di lavoro in India, Egitto, e in Argentina. Ma la guerra, e l'emancipazione, avevano a che fare con la condizione dei neri nella società moderna in quanto erano un modo di organizzazione economica. Infatti, Beckert usa una lunga citazione tratta da un articolo del dicembre 1865 pubblicato sull'Economist di Londra che lamenta il fatto dell'emancipazione dei neri. Per l'Economist, le sue ripercussioni minacciava non solo l'ordine economico, ma anche l'ordine razziale; i capitalisti bianchi non sarebbero più stati in grado di attingere ad una riserva di "lavoratori scuri" che facevano la loro offerta, nelle condizioni di loro scelta, ad un prezzo che essi imponevano. L'Economist chiariva che, per i capitalisti dell'epoca, la questione della razza non era - per prendere in prestito James - meno importante della questione della classe. Questi uomini d'affari avevano capito che la protezione dei loro interessi economici era legata alla protezione dei loro interessi in quanto uomini bianchi.
Allo stesso modo, più di una volta Beckert sottolinea il fatto che i capitalisti bianchi spesso hanno visto l'emancipazione nera negli Stati Uniti come un'altra Santo Domingo - un'altra asserzione della sovranità nera - ma non riesce a tratteggiare e ad analizzare in dettaglio il significato di tale analogia come una "guerra delle razze", così come veniva interpretata da un lavoratore del cotone. Nella narrazione di Beckert, razza e razzismo sono solo preoccupazioni marginali, anche quando oggi si continua a sperimentarle entrambe. Vengono evocate esplicitamente sono poche volte nel diverse centinaia di pagine del libro. Nella sua de-razzializzazione di cos' tante prove che hanno un evidente significato razziale, il libro mostra involontariamente che il capitalismo di guerra, se così lo vogliamo chiamare, è stato innegabilmente un progetto razziale - in effetti, quello che Cedric Robinson aveva chiamato capitalismo razziale.

Al cuore del libro di Edward Baptist, "The Half Has Never Been Told: Slavery and the Making of American Capitalism", sta l'affermazione secondo la quale i profitti e l'accumulazione della schiavitù hanno contribuito alla formazione del capitalismo contemporaneo. Come Beckert, anche Baptist si rivolge alla storia dell'industria del cotone, anche se si concentra sugli Stati Uniti del periodo che va dall'epoca coloniale alla fine della guerra civile. Però, se la storia di Beckert è la storia fatta dai proprietari di schiavi, quello di Baptist è la storia del mondo fatta dallo schiavo. «Gli afroamericani schiavizzati hanno costruito i moderni Stati Uniti,» dichiara, «e in realtà l'intero mondo moderno, in dei modi che sono sia evidenti che nascosti.» Noi sappiamo che l'affermazione per cui gli afroamericani schiavi hanno costruito i moderni Stati Uniti non è nuova. Questa "metà", infatti, è stata raccontata -  molteplici volte e più spesso dagli scrittori non neri, alcuni dei quali sono stati menzionati fugacemente da Baptist nelle note a piè di pagina. Ma l'affermazione che gli afroamericani hanno costruito il mondo è semplicemente sbagliata. Il libro di Baptist è segnata da simili eccessi retorici, che si prestano ad un eccezionalismo americano ottuso e narcisistico. Il risultato è una visione del capitalismo e della schiavitù talmente semplificata da ignorare il contributo storico alla modernità dato dagli africani nei Caraibi e nella stessa Africa.
Nell'opera di Baptist, quello che è innovativo non è la storia ma la narrazione. " The Half Has Never Been Told" cerca deliberatamente di raggiungere un pubblico più vasto, al di là dell'accademia. Inoltre è anche sperimentale: si prefigge lo scopo di sovvertire e modificare quelle che sono le tipiche pratiche della scrittura storica. Baptist definisce il suo stile come "storia evocativa", che per mezzo di vignette micro-storiche, aneddoti, e quadri speculativi intende far balenare tutto il febbrile apparato sensoriale della vita dei neri sotto il capitalismo e la schiavitù. Questo miscuglio narrativo suggerisce un doppio strato di significati che in alcuni casi vengono suggeriti per mezzo di ammiccamenti e sguardi sottili.
I capitoli del libro sono intitolati con parti del corpo umano, dalla testa ai piedi e dal sangue al seme; queste sono le immagini dell'analisi storica di Baptist. Occasionalmente, c'è una cesura fra il linguaggio di Baptist e i suoi soggetti: schiavitù, coercizione, violenza. Queste cose non richiedono certamente una prosa ipocrita e tracotante, ma a volte il frivolo e discorsivo linguaggio di Baptist, il suo tono intimistico - ivi incluso lo spostamento dissonante sulla seconda persona - indebolisce il peso della sua analisi. Il capitolo "Seed" ["seme"], ad esempio, contrappone scene sorprendenti di violenza sessuale all'emergere delle banche allo scopo di poter fare delle affermazioni sulle storie intrecciate di stupri e finanza:

La lettura di Baptist (se non la sua scrittura) si basa sulla scuola letteraria di femministe nere e di storici come Hortense Spillers, Deborah Gray White, e Jennifer L. Morgan volte a dimostrare le economie libidiche ed erotiche della schiavitù e lo status del corpo delle donne nere nella storia del capitalismo. Ma le stilizzazioni di Baptist poggiano su un terreno etico instabile, e la sua storia, occasionalmente sovraestetizzata, impedisce una posizione più critica. Le sue discussioni sulla violenza razziale e sessuale, ad esempio, accendono la spia di un allarme; il suo ripetere la metafora di un "uomo da un occhio solo" tradisce una puerilità da scuola media allo stesso tempo in cui maschera una barzelletta prolungata a proposito della violenza sulle donne nere.
Uno degli scopi di Baptisté quello di recuperare e rappresentare le vite interiori delle persone nere che vivevano nel passato, per documentare la coscienza nera storica in tempo reale. Sta cercando non solo di concentrarsi sui neri nella storia del capitalismo e della modernità, ma anche di recuperare le loro voci, i loro sentimenti, ed i pensieri - spesso a livello sinaptico. È un compito nobile, sebbene sia in molti modi anche paternalistico, e questo stile di interlocuzione storica rischia il sentimentalismo. È sempre pericoloso entrare in un territorio che è dominio delle romanziere nere, ivi incluse Gayl Jones e Toni Morrison, i cui testi incandescenti hanno illuminato archivi di cose dimenticate.
Il recupero, da parte di Babtist, della coscienza nera non è il recupero della resistenza nera. Infatti, all'inizio del libro egli respinge le rivendicazioni che riguardano la più parte delle rivolte degli schiavi negli Stati Uniti. Sminuisce anche argomenti, resi popolari da storici come Robin D. G. Kelley, che riguardano i modi di "resistenza nascosta" ed "infrapolitica" attraverso cui i neri sopravvivevano alla sofferenza quotidiana della schiavitù, anche se non si mobilitavano per rovesciare il sistema. Il disconoscimento della resistenza consolida una narrazione assimilizazionista riguardo ai neri all'interno degli Stati Uniti, che Baptist colloca sempre come americane. Ma che dire dell'Africa? Contrariamente a testi quali "Slave Culture: Nationalist Theory and the Foundations of Black America"(1987), di Sterling Stuckey, e "Gold Coast Diasporas" (2015), di Walter C. Rucker, nei quali si pretende che l'Africa sia una fonte indipendente di cultura e di coscienza nera, mentre nel ritratto della vita nera ottocentesca negli Stati Uniti che ne fa Baptist, l'Africa esiste come un residuo esotico.

Razzismo Battista

Se Beckert e Baptist eludono la storiografia radicale della schiavitù, i recenti libri degli storici  Walter Johnson e Nicholas Draper inceve approcciano questo aspetto, mostrando come costruire su tali idee in maniera produttiva.
"River of Dark Dreams" di Johnson rivendica il suo debito con la tradizione radicale ed interviene direttamente nel dibattito su capitalismo-e-schiavitù. Sostiene che è inutile cercare di imporre un'astrazione puramente teorica del capitalismo sulle sue attuali iterazioni, asserendo che ciò che spesso si perde sono i nudi fatti di ciò che realmente è accaduto:
«Un'analisi storica e materialista - che mette l'accento su ciò che é accaduto, piuttosto che su come ciò che è accaduto è stato diverso da quello che sarebbe dovuto accadere se il Mississippi fosse stato, difatti, un po' più come Manchester - comincia dalla premessa che nel fatto storico reale non c'era nessun capitalismo del XIX secolo senza la schiavitù. In qualsiasi altro modo il capitalismo industriale avrebbe potuto svilupparsi in assenza di cotone prodotto da schiavi e di mercati del capitale del Sud, ma non si è sviluppato in quel modo.»
Per Johnson, la razza e la supremazia bianca sono stati essenziali ai fini dello sviluppo storico del capitalismo.

razzismo river
Assumendo la nozione di Cedric Robinson di capitalismo razziale, Johnson sostiene che i conflitti storici e politico-economici del XVII e del XIX secolo nella Valle del Mississippi possono essere visti attraverso il prisma del "capitalismo schiavista-razziale" - una frase che cattura il modo in cui la supremazia bianca procede per mezzo di una razionalità economica, che a sua volta organizza una gerarchia razziale. Al centro di questa logica c'è il cotone. Adottando la metodologia politico-economica di Marx per decifrare il "geroglifico sociale" delle merci, "River of Dark Dreams" descrive la feroce transustanziazione attraverso la quale gli uomini sono stati convertiti in macchine, la carne e la terra è stata trasformata in capitale, e il capitale raffigurato come la storia stessa della modernità.
La luminescente prosa di Johnson offre un peso morale alle tribolazioni del passato, ma possiede anche una forte immaginazione geografica che cattura gli sconvolgimenti spaziali, i ricorrenti conflitti e le contraddizioni riguardanti la terra e l'acqua, che hanno segnato la storia della schiavitù e del capitalismo nella Valle del Mississippi. Johnson scrive di come le trasformazioni rivoluzionarie della tecnologia del battello a vapore abbia continuamente spinto le possibilità di fare nuovi profitti fino al punto di saturazione e collasso. Descrive il bombardamento ecologico attraverso il quale la valle del Missisippi venne riordinata e rimappata sulla griglia del capitalismo. Narra della creazione di un paesaggio carcerario in cui la piantagione è diventata un panopticon, sorveglianza, punizione, ed una polizia che costringe il corpo nero in un costante stato di furtività e di fuggitività.

Sul corpo dello "schiavo", Johnson scrive facendo uso di una po' di romanticismo: è stato degradato e violato per mano dei bianchi, mentre le donne nere e gli uomini neri sono diventati il veicolo per l'accumulazione del capitale bianco. Questo non vuol dire che Johnson ometta di parlare della resistenza nera. Ne fa un trattamento assai più completo di quanto ne faccia Babtist, e rivendica la realtà di una "agency" nera - una parola, osserva, che è piena di pericoli, usata male, ed abusata. La resistenza, per Johnson, assume la forma della rivolta: la storia della resistenza dev'essere scritta "con un senso di bruciante soddisfazione", che può essere trovata nei racconti neri di violenza difensiva ed emancipatrice. Ma la resistenza emerga anche, in maniera critica, attraverso e per mezzo del lavoro stesso, visto come ripetizione dei compiti svolti - non importa quanto siano coercitivi, alienati o monotoni - e che ha prodotto nel lavoratore nero esperienza, conoscenza, e abilità intellettuale necessaria alla sopravvivenza. Anche così, alla domanda liberale che si chiede se i bianchi abbiano visto i neri come esseri umani durante la schiavitù, Johnson, suggerisce freddamente che lo hanno fatto. «Un modo migliore di pensare alla schiavitù», scrive, «potrebbe essere visto come un sforzo concertato volto a disumanizzare le persone schiavizzate.» Questa disumanizzazione, questo spogliarla di potere umano mentre si mantiene l'umanità del soggetto, appare doppiamente crudele, doppiamente odiosa - perfino peggiore della disumanizzazione.
Johnson scrive contro una narrazione liberale della Guerra Civile che vede il Sud come un'unità omogenea, spazialmente definita e geograficamente consolidata. Invece, Johnson mostra come, nel tentativo di mantenere la schiavitù e la supremazia bianca - soprattutto contro lo spettro della guerra di razza - i sudisti adottano un'ideologia espansionistica. La crisi economica e razziale porta all'emergere di un imperialismo sudista ed ai tentativi di incorporare Cuba ed il Nicaragua in un impero di asservimento altrettanto energico e muscolare dell'impero della libertà di Jefferson - esso stesso, come sottolinea Johnson, saturo di ideologia della supremazia bianca. Questa visione imperiale era stata rafforzata per mezzo degli sforzi del Sud di riaprire il commercio degli schiavi negli anni 1850. Questi sforzi fallirono e la sconfitta della Confederazione, d'altronde, non garantiva la prospettiva della libertà dei neri dopo l'emancipazione dei neri.

razzismo price

La questione dell'emancipazione sta al centro di "The Price of Emancipation" di Nicholas Draper, un libro che ruota intorno ad un singolo momento nel tempo: il 1° Agosto 1834, la data dell'emancipazione nelle colonie britanniche. Sulla base degli archivi della "Slave Compensation Commission" - un'agenzia governativa creata per gestire la proprietà di schiavi a causa della loro perdita dovuta all'emancipazione - Draper studia gli effetti della schiavitù non sugli africani schiavizzati ma sulla piccola nobiltà e sull'élite prevalentemente bianca in Inghilterra. Mentre gli ex schiavi non avevano ricevuto niente, il salvataggio governativo dei possessori di schiavi divenne il più grande versamento statale della storia inglese, ed ammontava a più di 40.000 risarcimenti e a 20 milioni di sterline (oggi, circa 17 miliardi di sterline).
"The Price of Emancipation" conferisce materiale empirico e di archivio a "Capitalismo e Schiavitù" di Williams, proprio dimostrando il valore della schiavitù nel contesto dell'economia inglese. Draper è metodico e ponderato; non c'è sovraccarico retorico, solo una cauta dissezione degli argomenti contro e dei limiti della tesi di Williams. Per esempio, egli non afferma che la schiavitù era un'arma unica ed unilaterale per stimolare l'industrializzazione inglese e la crescita del capitalismo inglese. Piuttosto, egli sostiene che era importante per lo sviluppo di parti dell'economia moderna. In quanto tale, "The Price of Emancipation" agisce come un libro bianco per il risarcimento attuale nei confronti delle ex colonie inglesi dell'India occidentale, un compito che si è assunto il vice-cancelliere della "University of the West Indies", la storica Hilary Beckles.
La ricerca di Draper fa parte di un progetto archivistico e storico collettivo che coinvolge sia l'Inghilterra che i Caraibi. Oltre alla storica Catherine Hall e al team  della University College London, Drape ha creato la "Legacies of British Slave-ownership", un database online dei file della "Slave Compensation Commission". In esso si trova non solo la natura dei compensi ma anche i nomi e le genealogie dei proprietari di schiavi e degli ex schiavi ed un cumulo di informazioni - che continuano a crescere grazie a contributi volontari - su storia, cultura, società, ed economia politica dell'Ottocento nei Caraibi e in Inghilterra. Né speculativo né retorico, il database fornisce una sezione trasversale di dettagli storici che dimostrano sia la presenza permanente nel capitalismo contemporaneo del passato della schiavitù ed il persistere dell'importanza delle questioni poste dalla tradizione radicale.

- Peter James Hudson - Pubblicato sul Boston Review il 14/3/2016 -

lunedì 28 agosto 2017

Senza il Fine

karmen

Giorgio Agamben: "Il vero Karma dell'Occidente"
- di Chiara Valerio -

Se, in questa vita, rispondiamo delle nostre azioni attraverso il sistema delle leggi, e nell'altra ne rispondiamo, secondo il buddismo, attraverso reincarnazioni successive, il motivo sta - scrive Giorgio Agamben nel saggio Karman - nel fatto che morale religiosa, diritto ed etica fondano sul principio per cui ogni azione è legata alle sue conseguenze, e noi, a tale principio, soggiaciamo.
Qualche anno fa Agamben ha diviso il mondo in due gruppi. Gli esseri viventi e l'insieme di istituzioni, saperi e pratiche che controllano e orientano i gesti e i pensieri degli esseri viventi: i dispositivi.

Domanda: Professore, il diritto - le cui porte, se fosse un edificio sarebbero la causa e la colpa - è un dispositivo al quale sottrarsi?

Agamben: "Il diritto è una parte troppo essenziale della nostra cultura perché ci si possa semplicemente sottrarre a esso. Altrettanto vero è, però, che la nascita del cristianesimo coincide con una critica implacabile della Legge. È difficile immaginare una obiezione più radicale di quella contenuta nelle affermazioni di Paolo secondo cui senza la legge non ci sarebbe stato il peccato e il messia è la fine e il compimento (il telos) della legge. E, tuttavia, come lei sa, la Chiesa ha pazientemente ricostruito quell'edificio della legge che il cristianesimo primitivo intendeva mettere in questione, anche se puntualmente fenomeni come il francescanesimo hanno rivendicato ogni volta la possibilità di una vita al di fuori del diritto. Io penso che una società vivibile possa risultare solo dalla dialettica di due principi opposti e, in qualche modo, coordinati: il diritto e l'anomia, un polo istituzionale e uno non istituzionale o anarchico - o, per usare le sue espressioni, gli esseri viventi e i dispositivi storici. Ciò è evidente nel linguaggio: una lingua viva risulta dalla relazione armonica fra spontaneità (il "parlar materno" di Dante) e regola (la lingua "grammatica" di Dante). Mi sembra che oggi questa dialettica sia dovunque - nella lingua come nei rapporti sociali - distorta o spezzata".

Domanda: Lei scrive " la volontà agisce come un dispositivo il cui scopo è quello di rendere padroneggiabile ciò che l'uomo può fare". Anche la volontà è un dispositivo al quale sfuggire?

Agamben. "Nel libro ho cercato appunto di mostrare che il concetto di volontà (quasi sconosciuto al mondo antico) è il dispositivo attraverso il quale la teologia cristiana ha inteso fondare l'idea di un'azione libera e responsabile e quindi imputabile a un soggetto: è il "libero arbitrio", che definisce l'azione umana non meno di quella divina (il Dio cristiano non agisce per necessità, come il dio di Aristotele, ma per arbitrium voluntatis). La volontà è il mistero insondabile che sta alla base di quel concetto di azione legalmente sanzionabile (il crimen- karman) senza il quale l'etica e la politica moderna crollerebbero. Se l'uomo antico è un uomo che può, l'uomo moderno è invece un uomo che vuole. Nel mio libro la critica del primato del concetto di azione procede pertanto di pari passo a una critica del concetto di volontà. Mi ha sempre stupito che da Aristotele a Hannah Arendt l'idea di azione sia sempre rimasta immutabilmente al centro della tradizione dell'occidente.
Non so se ci sono riuscito, ma ho comunque provato a spostare altrove il luogo dell'etica e della politica".

Domanda: Restiamo sull'evoluzione de " l'uomo che può" ne " l'uomo che vuole". Marina Cvetaeva osservava "Non posso" è il superamento di tutti i miei "non voglio", il correttivo di tutti i miei voleri. Che rapporto dovrebbe esserci tra volontà e potenza, oggi?

Agamben: "Le rispondo con le parole di un'altra grande poetessa russa. Anna Achmatova racconta che mentre negli anni delle persecuzioni faceva da mesi la fila davanti alla prigione di Leningrado dove era recluso suo figlio, una donna un giorno la riconobbe e le chiese: "può dire questo"? La poetessa tacque per un istante e poi, senza sapere come e perché, sentì affiorarle alle labbra la risposta: "sì, io posso". Che cosa intendeva dire? Non certo che aveva un così grande talento o una così grande padronanza della lingua da poter dire tutto ciò che voleva dire. Quell'"io posso" non si riferiva ad alcuna certezza o abilità e tuttavia la impegnava e metteva integralmente in gioco. È qualcosa del genere che aveva in mente Spinoza quando definisce la letizia più grande accessibile a un uomo come la contemplazione di ciò che egli può fare. Per questo la trasformazione cristiana e moderna della potenza in volontà mi sembra deleteria".

Domanda: Landau. ne "La Fisica per tutti" osserva" Se all'improvviso il fermacarte fa un salto, penserete di avere le traveggole. Se si ripete, vi metterete di lena a cercare la causa che toglie questo corpo dallo stato di quiete. Perciò è naturale considerare razionale il punto di vista secondo cui i corpi in quiete non si spostano senza l'intervento di una forza". È razionale pensare che i corpi umani non si spostino, non compiano azioni, senza l'intervento di un fine?

Agamben: "Nel libro la critica del fine è inseparabile da quella dell'azione.  Uno dei presupposti che siamo abituati a dare per scontati è che ogni azione sia rivolta a un fine e che questo fine sia il bene che l'agente ogni volta necessariamente si propone. In questo modo, poiché il fine è concepito come qualcosa di trascendente o comunque di esterno, il bene viene separato dall'uomo. Come mi sembra più convincente l'idea epicurea secondo la quale nessun organo del corpo umano è stato creato in vista di un fine e ogni cosa che nasce genera nell'uso il suo bene! A furia di gesticolare, la mano trova la sua delizia e il suo uso, l'occhio a furia di guardare si innamora della visione e le gambe, piegandosi a tentoni, inventano la passeggiata. Del resto è quel che vediamo avvenire nei bambini ed è quello che ci suggeriscono le arti come la danza, che non hanno altro fine che la pura esibizione di un gesto, di ciò che un corpo può fare. Per questo ho cercato di sostituire al paradigma dell'azione rivolta a un fine quella del gesto sottratto a ogni finalità".

Domanda: Un filosofo ha detto che definire i termini è il momento poetico del pensiero. Come definirebbe il fine?

Agamben: "Le dò una risposta insieme stoica e zen: il fine è ciò che si raggiunge solo a condizione di non porselo mai".

Domanda: Se "agisce contro la legge, chi fa ciò che la legge proibisce" e se " non c'è pena senza colpa", cos'è nata prima, la colpa, la legge o la sanzione?

Agamben: "Come Paolo aveva capito ("la legge è venuta perché la colpa abbondasse"), ogni giurista intelligente sa che il principio secondo cui "non c'è pena senza colpa" va in realtà rovesciato in quello secondo cui "non c'è colpa senza pena". "Non c'è pena senza colpa" significa che la pena può essere inflitta solo in conseguenza di un certo atto, ma la colpa esiste solo in virtù della pena che la sancisce. La sanzione non è accessoria alla legge: la legge consiste essenzialmente nella sanzione".

Domanda: Ne "Il Nome della Rosa", Eco racconta che il volume riguardante la commedia di Aristotele non ci è mai giunto perché trattava del riso e il riso crea disordine. In "Karman", lei (come già Guglielmo da Baskerville) lo deduce dal volume sulla tragedia e ipotizza pure che Aristotele non lo abbia mai scritto per muovere una critica a Platone. Quale?

Agamben: "In Grecia il concetto di un'azione colpevole viene elaborato per la prima volta attraverso una riflessione sull'eroe tragico. È quello che fa Aristotele nella Poetica quando scrive che la felicità consiste nell'azione e che nella tragedia gli uomini non agiscono per imitare i caratteri, ma assumono liberamente il loro personaggio attraverso le azioni. Anche se Aristotele non ha completato la sua trattazione della commedia, possiamo dedurne che il personaggio comico agisce invece per imitare il suo carattere e che per questo le sue azioni non possono essergli mai imputate come una colpa. Platone, che teneva sotto il cuscino non le tragedie, ma i mimi di Sofrone, fa dire al suo eroe antitragico, Socrate, che "nessuno fa il male volontariamente", il che implica l'impossibilità della tragedia".

Domanda: La filosofia s'interessa prima di tutto dell'essere, ma l'essere appare subito con le sue "qualità": possibilità, contingenza e necessità. Lei osserva che è necessario riflettere sull'utilizzo che la filosofia fa dei verbi modali: " posso", " voglio", " devo". Mi segua in un passaggio di certo azzardato. La lingua della politica, aderendo (talvolta pure nei corpi) a quella televisiva, ha progressivamente abolito le subordinate, le " qualità" della frase: modali, temporali, causali. Senza queste "qualità" siamo costretti a un parlare ( e a un agire) privi di conseguenze. C'è modo di mantenere la complessità del linguaggio e non rimanere chiusi nel presente indicativo (e televisivo) dello stare al mondo?

Agamben: "Se la sua domanda è di ordine poetico-letterario, allora le rispondo con le tarde poesie di Hölderlin, in cui i nessi sintattici sono aboliti e sospesi e nel verso sembrano sopravvivere solo i nomi nel loro isolamento (a volte, anche solo una particella: aber, che significa "ma"). Vi è nella poesia una tradizione, da Arnaut Daniel a Mallarmé, che tende ostinatamente non alla frase, ma al nome - anzi, forse in ultima analisi ogni poesia non è che una tensione verso il nome, che per definizione è sottratto a ogni articolazione modale. Se la sua domanda è di ordine etico-politico, le risponderei allora che si tratta di disfare il nesso perverso tra i tre verbi modali che Kant ha messo a fondamento della sua etica: "si deve poter volere". Questa frase mostruosa è il condensato parodico dei dispositivi che il mio libro cerca di disattivare".

Domanda: Sulla quarta di copertina si legge "Giorgio Agamben ha insegnato Filosofia teoretica... è stato visiting professor...". Se le chiedessi cenni biografici al tempo presente?

Agamben: "Le risponderei spinozianamente:
"contempla ciò che può e ciò che non può fare". Ho sempre amato il motto meraviglioso di van Eyck: "Als ich kann", "come posso". Conoscere i propri limiti significa conoscere la misura della propria potenza e della propria impotenza".

- Intervista pubblicata su Repubblica del 27/8/2017 -

domenica 27 agosto 2017

“Disaccoppiatevi!” ?!?

glaciazione

Era glaciale per la Teoria critica?
- Lettera aperta alle persone interessate ad EXIT! -
di Robert Kurz

Per marcare il passaggio al nuovo anno, è d'uso, alla fiera postmoderna della vanità, che ogni bottega si presenti, in tutta modestia, come la storia di un successo, a dispetto di qualsiasi realtà, e che lo faccia con ottimismo; si tratta dei "soliti affari" che sono all'ordine del giorno dell'emancipazione. La riflessione teorica è minacciata di annegamento, ancora una volta, nel pragmatismo generale, tanto più dopo che la precarizzazione si è imposta come sfondo della vita. La pragmatica, sia nel senso di un agire a titolo provvisorio che nel senso di un'apertura verso le risorse naturali ed umane, sarà possibile solo quando la "corazza di ferro" della "seconda natura" capitalistica verrà infranto in un movimento di trasformazione sociale totale. Fino a quando non si verifica niente del genere, la Teoria critica dovrà mantenere una distanza rispetto a tutte le forme immanenti di prassi. In quanto "-ismo", il pragmatismo è da sempre un'ideologia strettamente legata ai modi distruttivi del trattamento della crisi che inducono all'esclusione, anche quando si fingono filantropi.

Quando i media ci parlano di una "svolta a sinistra", sia qui da noi. all'interno dei frammenti della classe politica, sia in America Latina, ciò non ha niente a che fare con la forza sociale effettiva di una riflessione critica. L'effetto che ha questo perno di fare essenzialmente leva sul clima politico superficiale, non è quello della crisi mondiale della terza rivoluzione industriale che continua a consumarsi lentamente. Si tratta, al contrario, dell'illusione di una stabilizzazione economica, anche se questa più volte evocata si disintegra nuovamente. Mentre le manovre delle banche centrali, prese dal panico, segnalano la fine della congiuntura del deficit, estrapolando con ottimismo tale congiuntura, immaginando che saranno portatrici di prosperità e che potranno aprire nuove possibilità di azione. La società esprime un tale bisogno di un po' di calore sociale, senza però voler affrontare le sue proprie condizioni capitalistiche! Ma a parte Knut [*1] non si vede altro all'orizzonte.

Il fatto che il mercato delle idee sia inondato di concetti improntati ad un'esagerazione a buon mercato, rimanda solo alle crescenti difficoltà della legittimazione politica. L'euforia dell'economia ufficiale si trova in flagrante opposizione con l'esperienza della vita quotidiana della maggior parte delle persone, per cui nessuna ripresa è visibile. Da questa situazione risulta una certa tensione ideologica fra il management della bolla finanziaria e la casta politica dipendente dai sondaggi. Il consenso neoliberista che ingloba tutti i partiti non scompare, in questo modo, ma devia al populismo e cresce in maniera direttamente proporzionale alle accuse di populismo che i partiti si rivolgono l'un l'altro in maniera sempre più veemente. Le mitigazioni portate dall'Hart IV che hanno fatto sperare ma che non dovevano costare un centesimo, le campagne contro la "criminalità giovanile", gli appelli al capitale "creativo" e la critica gratuita dei salari esorbitanti dei manager si fanno una forte concorrenza. D'altra parte, il dibattito sul clima (ivi compreso il turismo in Groenlandia) iniziato dal Cancelliere, ha lo scopo di suggerire una coscienza ecologica. Non ci vorrà molto perché i moralisti dei partiti e del governo, seguendo Heiner Geissler [*2], aderiscano in massa ad ATTAC o a Greenpeace, e a difendere allo stesso tempo le emissioni di gas troppo elevati di un'industria automobilistica tedesca gonfia di orgoglio, contro la concorrenza delle piccole auto europee.

Questo si rivolge in fondo alle classi medie che sono minacciate di cadere nella precarizzazione, che notoriamente amano celebrare la loro "nuova cittadinanza" e desiderare il nutrimento ecologico di uno standard più elevato, nel mentre che si vuole mettere la situazione di coloro che sono di fatto già completamente declassati in conto alle cattivi abitudini alimentari e ad un'educazione fallimentare. A ciò corrispondono i premi selettivi per la natalità da parte di un ministro della famiglia sconvolto dalla minaccia di un'estinzione biologica della classe media tedesca; la risposta dello stato infatti non consiste altro che nel progetto di serrare le briglie alle donne della classe popolare che, com'è noto, assassinano i loro bambini, benché si continui a ridurre all'osso i mezzi amministravi previdenziali. Più palesi diventano le contraddizioni, e ancora più forte risuona l'appello al "senso di cittadinanza" per poter controllare in maniera pragmatica, nel bel mezzo di una prosperità fantasmatica, le "catastrofi di natura sociale" nella loro insaziabile progressione.

La fondazione del Partito Die Linke [*3] non costituisce un affatto un contrappunto a questa strana "svolta a sinistra", ma ne è integralmente parte, e non solo in quel che concerne l'illusione riscaldata della via ufficiale di tipo politico-democratico. Il marxismo di partito appartiene alla storia. la marcia attraverso le istituzioni si è arrenata da molto tempo. Il rinnovamento della teoria marxiana non patrocina un simile tentativo, ma, nel migliore dei casi, in quel che rimane sia della sinistra tradizionale sia nel movimento critico della globalizzazione si è affermato un pragmatismo di sinistra nella variante keynesiana. Infatti, il populismo dell'ala Lafontaine [*4] ricade al di sotto della teoria economica di Keynes. L'orientamento nazionalista di sinistra di questa posizione dominante procede di pari passo con un "internazionalismo" lugubre che cerca di adattare i vecchi discorsi ad una malsana alleanza fra il regime petroliere di uno Chavez ed il regime dei mullah iraniani. In simili contesti, per una Teoria critica, non c'è alcuna urgenza ad annusare questo brodo di coltura, né a condividere quello che rimane [*5].

La rondine della sinistra movimentista non fa più rinascere la primavera dell'elaborazione di una teoria creativa, ma al contrario. Quel che è diventato visibile dopo Heiligendamm [*6] è l'esaurimento di una cultura di protesta esclusivamente simbolica. Più sparisce il ricordo di una critica radicale della teoria politica, più i movimenti di protesta si aprono agli ideologemi di una critica tronca del capitalismo, alla quale si legano delle strategie trasversali della destra populista. Finché questo stato di fatto non verrà smascherato, verrà tollerato come innocente un antisemitismo strutturale che mette sotto accusa il capitale "parassita" della finanza e dell'informazione, al contrario, la denuncia degli eccessi apertamente antisemiti non servirà a niente in quanto verrà fatta per mezzo dell'alibi di un pseudo prendere le distanze.

Il fondamento epistemologico di tali posizioni consiste in un "pragmatismo movimentista", come quello che esiste per esempio alla base di una soggettivazione post-operaista dei rapporti feticistici capitalisti; il suo rovescio costituisce il disarmo critico nei confronti delle ideologie. A tal riguardo, dopo che il principio ufficiale dei Zapatisti messicani il metodo del tentativo e dell'errore, lontano dal concetto di Stato, è servito, per un certo tempo, da paradigma romantico che consiste nel suo nucleo ostile ad ogni teoria, ora sembra emergere un cambiamento di orientamento di tipo neo-statalista di una parte della sinistra movimentista. Questo leninismo postmoderno della differenza scommette molto più sulla statalizzazione del tipo "svolta a sinistra" dell'America Latina alla Chavez e vuole che anche nel nostro paese la politica parlamentare dei partiti si integri alla "moltitudine" degli approcci, cosa che non impegna in niente, per immunizzarsi definitivamente contro una riflessione teorica.

Il congresso « No-way-out » [Nessuna via d'uscita] di Francoforte a dicembre ben merita il suo nome in quanto non vuole tematizzare le contraddizioni in termini di contenuto, ma solamente confonderle, più che mai, con un pragmatismo di movimento. All'unisono con la stagione, non ne è uscito altro se non una sorta di mercatino di Natale di un pluralismo di sinistra. Visibilmente, questo avvenimento, in materia di innovazione, è servito solo a far vedere al programma ufficiale la critica borghese del rapporto fra i generi come una povera variante anemica che riflette il fallimento del femminismo all'interno della sinistra movimentista. L'universalismo androcentrico e teoricamente disarmato dell'uomo "casalinghizzatosi" emerso dalla classe media sembra essere la misura di tutte le cose.

In questo ambito, si deve anche naturalmente nuotare insieme alla corrente con una "critica del valore" che non si impegna troppo per far sapere al pubblico poco informato come nell'aria viziata di quest'ambiente si cresce un po' di più al fine di poter accedere allo status di "nuovo maschio-umano" riproduttore. Quando la lama della critica del soggetto viene solo leggermente attenuato da un pragmatismo smussato, come il messaggio che viene trasmesso, ci si sta già muovendo, quanto meno alle spalle, "al di là della forma merce". Dopo che in tutto ciò le riviste gratuite e le officine delle biciclette hanno apparentemente perduto un po' della loro attrazione, ora tocca alla "economia virtuale del peer-to-peer" delle reti di scambio soddisfare i bisogni del piccoli fai-da-te del sociale. Questo equivale tutt'al più ad un piccolo apporto al rinnovamento di una critica radicale, nel senso che questa piccola squadra di bob della Giamaica è riuscita per una volta a partecipare alle Olimpiadi invernali. Ma, non c'è niente da fare, la predisposizione alla "critica del valore" da parte della progenie della classe medie è solo per "Dada", un divertimento senza interesse. E poiché il pluralismo, in questo quadro, diventa molto estendibile, è possibile che nel 2007 la rivista "Bravo" [*7] della critica del valore viennese [*8] possa esprimere un ragionamento pragmatico ad oltranza circa le preoccupazioni sugli attentatori suicidi islamici, le cui motivazioni devono essere cercate soprattutto, è ben noto, nell'elevata mortalità dei bambini nel Medio Oriente. Beh, se ciò può servire ad aumentare il numero di abbonati a delle riviste bisognose...

Si tratta perciò di una nuova era glaciale per l'elaborazione di una teoria critica della dissociazione-valore di Exit!, perché questa dev'essere un nemico irriducibile del falso pragmatismo che deforma in maniera permanente la riflessione in modo strumentale ed ideologico in una ricerca di legittimazione? La famosa mediazione fra la Teoria critica ed un rovesciamento pratico non può partire altro che da un movimento sociale diretto contro la gestione della crisi che includa la totalità sociale con un reale potere di intervento.
L'ideologia della lotta di classe non dev'essere criticata perché essa è una propaganda per la lotta sociale, ma perché essa rimane prigioniera, in maniera anacronistica, all'interno dell'ontologia del lavoro, della forma valore e del rapporto di dissociazione-valore relativo al genere. La parola d'ordine "disaccoppiatevi!" [*9] diventa una frase vuota, quando fa di necessità virtù per potersela svignare, spostandosi dalle parti della socializzazione negativa, nella giungla delle isole alternative-economiche che non per niente si collocano sempre più nella "seconda vita" dello spazio virtuale.

La teoria critica non fa professione di "raccattare le persone laddove si trovano". Codesto è il lavoro della casta pragmatica della politica e dei populisti, e non sarebbe altro che camuffamento "anti-politico". Fino a quando non verrà raggiunta la soglia della resistenza reale e del confronto a livello della totalità sociale, la teoria del valore-dissociazione non può fare altro che accompagnare il conflitto sociale che si produce e che appartiene al trattamento immanente delle contraddizioni, in maniera analitica ed attraverso una critica delle ideologie, senza lasciarsi convincere a rinunciare alla distanza concettuale. Il contributo di una pratica teorica al fine del rovesciamento dei rapporti sociali consiste, innanzi tutto, nel proseguire sul suo stesso terreno proprio l'elaborazione della nuova critica del capitalismo e quindi la "distruzione dei concetti" dei vecchi paradigmi e che sono ancora lontani dall'essere completati.

L'appello a sostenere materialmente un simile programma, può passare a lato della corrente principale del pragmatismo dei movimenti. Tuttavia, sappiamo che esistono alcune persone che tengono a che la voce di Exit! non si spenga. Abbiamo un urgente bisogno di ulteriori mezzi finanziari per dei seminari, per delle riunioni di lavoro e per dei progetti editoriali. Pertanto invitiamo le persone interessate ad investire in questo progetto, sia attivamente sia passivamente. Le possibilità, come sempre, sono rimaste le stesse.

- Robert Kurz - per la redazione di Exit! n°5, gennaio 2008 -

NOTE:

[*1] - Knut era un cucciolo di orso bianco che era stato rifiutato dalla madre dello Zoo di Berlino e che era diventato, come il suo affidatario, sull'onda di una grande mobilitazione di tenerezza, il beniamino dell'opinione pubblica.
[*2] - Politico tedesco.
[*3] - Die Linke: La sinistra.
[*4] - Oskar Lafontaine, politico tedesco, vecchio membro del Partito socialdemocratico tedesco (SPD) e membro fondatore di Die Linke.
[*5] - Letteralmente "... né spremere in 12 una pentola di carne"
[*6] - Heiligendamm è una stazione balneare tedesca sul Baltico che sarà sede di riunione del G8 dal 6 all'8 giugno 2007.
[*7] - Rivista per adolescenti.
[*8] - La rivista austriava Streifzüge.
[*9] - "Disaccopiattevi" è il titolo dell'articolo di Ernst Lohoff, pubblicato a dicembre del 2007 su "Jungle World" e su "Krisis" e probabilmente presentato al congresso "No-way-out" a Francoforte nel dicembre 2007, e che finisce con la seguente frase:
" Quando la valorizzazione del valore disaccoppia la sua riproduzione da quella della riproduzione sociale, come mezzo di emancipazione non rimane altro che il disaccoppiamento della riproduzione sociale da quella della riproduzione della valorizzazione del valore". La parola d'ordine del congresso "No-way-out" sul manifesto dice: Der ... ums Ganze ! Kongress: "Il congresso dei tempi di crisi"

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

venerdì 25 agosto 2017

Erisittone

Erissitone

«Empio e violento, Erisittone non temeva la collera degli dei. Abbatté deliberatamente un bosco sacro a Demetra, con l'intenzione di costruirsi una sala da pranzo. Per punire la sua empietà la dea lo condannò ad una fame inesauribile. Per cibarsi, Erisittone dilapidò tutte le ricchezze della propria famiglia. Infine vendette più volte Mestra, sua figlia, al mercato. Costei aveva infatti avuto dal suo amante Poseidone il dono di prendere qualsiasi forma, il che le consentiva di mutarsi in un animale diverso ogni giorno per essere venduta e sfuggire poi ai suoi padroni.» (da Wikipedia)

La società dell'autofagia
- Capitalismo, eccesso ed auto-distruzione -
di Anselm Jappe

Il mito greco di Erissitone ci parla di un re che si auto-divora perché non c'era niente che riuscisse a placare la sua fame - punizione divina per un oltraggio da lui fatto alla natura.
Quest'anticipazione di una società condannata ad una dimanica autodistruttrice costituisce il punto di partenza del libro "La Société autophage". Anselm Jappe prosegue l'indagine iniziata nei suoi libri precedenti, in cui ci ha mostrato - a partire dalla rilettura delle teorie di Karl Marx attraverso il prisma della "critica del valore" - come la società moderna sia completamente basata sul lavoro astratto e sul denaro, sulla merce e sul valore.
Ma come vivono gli individui della società della merce? Quale tipo di soggettività produce il capitalismo? Per poterlo comprendere, bisogna riaprire il dialogo con la tradizione psicoanalitica, da Freud ad Erich Fromm, o a Christopher Lasch. E rinunciare all'idea, forgiata dalla Ragione moderna, secondo cui il "soggetto" è un individuo libero ed autonomo. In realtà, egli è il risultato dell'interiorizzazione delle coercizioni create dal capitalismo, e oggi è l'involucro in cui si coagula una combinazione letale di narcisismo e feticismo della merce.
Il soggetto feticista-narcisista non sopporta più alcuna frustrazione e concepisce il mondo come se fosse un mezzo senza fine consacrato all'illimitato ed allo smisurato. Una tale perdita di senso e questa negazione dei limiti sfociano in ciò che Anselm Jappe chiama la "pulsione di morte del capitalismo": lo scatenarsi di una violenza estrema, di uccisioni di massa e di omicidi "gratutiti" che stanno facendo precipitare il mondo degli uomini verso la sua caduta.
In questo contesto, i fautori dell'emancipazione sociale devono urgentemente andare oltre la mera indignazione per le disgrazie del presente - che spesso è solo la maschera che cela la nostalgia per i periodi precendei del capitalismo - e prendere atto di una vera e propria "mutazione antropologica" che ha tutte le caratteristiche di una dinamica regressiva.

- La socété autophage - Anselm Jappe - La Decouverte, 14 Septembre 2017 -

giovedì 24 agosto 2017

I primi

presocra

Non chiamateli Presocratici
– di André Laks e Glenn W. Most -

I Presocratici sono sempre stati interessanti, ma oggi sembrano destare un grande fascino e rivelarsi stimolo e punto di riferimento sempre più importante per la riflessione filosofica professionale nel mondo. Ogni anno appaiono numerose autorevoli monografie su singoli presocratici o sull’eredità della prima filosofia greca così come nuove edizioni e traduzioni, e l’International Association for Presocratic Studies, che accoglie centinaia di specialisti da tutto il mondo, ha celebrato lo scorso anno in Texas il suo quinto congresso biennale. Ma i primi filosofi greci sono anche diventati oggetto di grande interesse fuori dall’università, specialmente in Italia: pensiamo all’Eleatica, istituita dalla Fondazione Alario ad Ascea Marina e dedicata dal 2004 allo studio di Parmenide e Zenone, o al Festival della Filosofia in Magna Grecia che è giunto nel 2016 alla sua 22esima edizione, o all’eccitazione generale provocata da straordinarie scoperte quali il papiro di Derveni o il papiro di Strasburgo di Empedocle.

Molteplici sono le cause di questa vera e propria infatuazione. Innanzittutto, i Presocratici sono all’origine delle pratiche intellettuali profondamente nuove che si perpetuano fino ai nostri giorni con il nome di “filosofia” e di “scienza”, termini che non facevano ancora parte del loro vocabolario. Tra di loro vi sono grandissimi scopritori in materia di conoscenza dell’universo, di ontologia, di argomentazione. Poi, siccome essi si situano per definizione “prima”, possono facilmente ergersi a modelli per coloro che, per una ragione o per un’altra, giudicano che il pensiero occidentale abbia preso un corso sbagliato, a partire da Socrate e più ancora da Platone. E così Nietzsche, il quale non è estraneo alla diffusione della denominazione “Presocratici”, ha fatto di Socrate il primo rappresentante di una modernità decadente, ottimista e democratica alla quale ha potuto miticamente opporre quelle grandi individualità aristocratiche, ancora comprese di una visione tragica del mondo, per lui più giusta, che erano Anassimandro, Eraclito, Parmenide o Empedocle. Nella sua scia, Heidegger ha percepito in quelli che chiamava «i pensatori degli inizi» una apertura premetafisica al mondo che alludeva anche a un possibile superamento della metafisica. E infine anche uno spirito pur contrario ai vaticini heideggeriani come Karl Popper ha potuto richiamarsi ai Presocratici, le cui audaci ipotesi scientifiche gli sembravano illustrare in modo paradigmatico la logica della scoperta scientifica.

Ma c’è, accanto a queste due ragioni di fondo, una terza ragione per il fascino che i Presocratici non possono non suscitare e che riguarda il modo in cui essi ci sono stati tramandati. Infatti le opere dei Presocratici che ci sono note, tranne qualche eccezione, sono sottoforma di frammenti, il più delle volte pochi e assai brevi. Certo non si può che deplorare questa grande perdita; mentre, d’altra parte, lo stato frammentario stesso della documentazione ci sottopone a sfide appassionanti. Ricostruire il pensiero dei Presocratici è un esercizio d’immaginazione controllata che incoraggia la riflessione metodologica. È proprio su questo punto e non solo sulle questioni interpretative che la nostra edizione ha cercato di apportare novità.

Per meglio comprendere in cosa consistono le novità, è subito necessario tenere presente che i frammenti in questione sono di due tipi. Da una parte, vi è una serie di citazioni verbali che rimandano all’opera originale. Questi sono dei brani staccati da un insieme ormai perduto, che ci sono pervenuti il più delle volte grazie alle citazioni che ne hanno fatto altri autori, in qualche raro caso in seguito a scoperte papirologiche. E d’altra parte ci sono dei sunti, delle parafrasi, delle allusioni, delle critiche, in breve tutto un insieme di testimonianze dovute ad autori vissuti nel corso dei secoli successivi, tra il VI e il V secolo a.C. e il VI secolo d.C. Le nostre fonti d’informazione sono dunque a volte assai parziali e assai eterogenee. Come farne una presentazione che renda tutto questo chiaro?

La prima raccolta scientifica di questi frammenti, i Fragmente der Vorsokratiker di Hermann Diels, è datato 1903. Nella versione rivista da Walter Kranz tra il 1934 e il 1951, questo lavoro è diventato l’edizione di riferimento e il pilastro di tutti gli studi presocratici moderni. Non è l’intenzione della nostra raccolta di sostituirla ma piuttosto, attraverso diverse innovazioni maggiori, di rendere più intelligibile e più fruibile la natura del materiale di cui disponiamo. Alcune di queste innovazioni comportano semplicemente un aggiornamento della raccolta nei termini del corrente stato delle conoscenze: abbiamo aggiunto certi testi che sono stati scoperti dopo l’ultima edizione di Diels-Kranz e abbiamo corretto tutti i testi riprodotti sulla base delle migliori edizioni recenti disponibili. Altre innovazioni servono solo a renderne più facile l’uso, sia per studiosi, professori e studenti che vogliano orientarsi facilmente in questo materiale complesso e difficile, sia anche per non addetti ai lavori che vogliano sapere quello che dicevano Eraclito, Parmenide o i pitagorici. E dunque noi abbiamo tradotto non solo le citazioni verbali esatte dei presocratici, come aveva fatto Diels, ma anche i resoconti del loro pensiero e delle vicende personali come riportati da altri autori dell’antichità, compresi quelli che hanno scritto in armeno, in siriano, in arabo e in ebraico. Perciò quella di Diels-Kranz resterà un’edizione di riferimento, ma la nostra sarà l’edizione che i più consulterano per prima.

Oltre i punti già indicati, le nostre più significative innovazioni crediamo siano tre: 1) abbiamo deciso di includere non solo tutti i materiali che consentissero, per quanto possibile, di ricostruire il vero pensiero dei primi filosofi greci, ma anche, almeno in linea di massima, quelli che ci rivelano la storia della loro ricezione nella filosofia e nella cultura letteraria greca antica dal loro tempo fino alla fine dell’antichità. Diels senz’altro conosceva tutti, o quasi tutti, quei testi che pubblichiamo nella sezione etichettata con la R (che sta per Ricezione) della maggior parte dei filosofi presocratici, ma li escludeva dalla sua raccolta forse perché li considerava irrilevanti per la ricostruzione di ciò che quei primi filosofi avevano veramente pensato. Noi abbiamo mantenuto il suo obiettivo di tentare un recupero, per quanto possibile, delle loro effettive idee, ma abbiamo imparato dallo sviluppo di decenni di studi sulla ricezione quanto sia importante cercare di correlare i documenti che ci restano del passato alle tradizioni interpretative più tarde che li hanno trattati esegeticamente, criticamente, polemicamente o in qualsiasi altro modo. Per questo la nostra edizione costituisce l’ennesimo capitolo nella storia della ricezione dei Presocratici. 2) Abbiamo scelto di rompere con la tradizione che fa di Socrate la figura perno per il prima e per il dopo, dedicandogli un capitolo che permetta di ricollocarlo cronologicamente e intellettualmente tra i suoi contemporanei. Tale scelta, che ha delle conseguenze storiografiche importanti, spiega che noi non abbiamo parlato di “filosofi presocratici”, ma degli “inizi della filosofia greca” o, in inglese, di Early Greek Philosophy. 3) Infine, abbiamo fornito al lettore, in mancanza di interpretazioni esaurienti nostre, una doppia griglia di lettura per orientarsi nel dedalo dei testi: da una parte, organizzando in maniera sistematica i testi servendosi di numerosi titoli e sottotitoli, e d’altra parte fornendo un glossario esplicativo dettagliato di una lunga serie di nozioni intorno alle quali si è organizzato il pensiero dei primi filosofi greci. Speriamo così di aver fornito un’edizione che possa rivelarsi utile e durare negli anni.

- André Laks e Glenn W. Most - Pubblicato sul Sole 24 ore del 12 giugno 2017 -