sabato 20 maggio 2017

Servi e padroni

servo

Seneca, Hegel, Marx La dialettica del padrone che si tramuta in servo
- di Umberto Curi -

In quello straordinario «romanzo filosofico» che è la Fenomenologia dello Spirito (1807) di G.W.F. Hegel, le figure del signore e del servo vengono introdotte quali esemplificazioni della «lotta per il riconoscimento», intesa come lotta per la vita e per la morte. L’esito dello scontro è descritto in un passaggio dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche: «Poiché la vita è essenziale quanto la libertà, la lotta termina innanzitutto, come negazione unilaterale, con la seguente disuguaglianza. Uno dei due combattenti preferisce la vita, si conserva come autocoscienza singolare, ma rinuncia al suo essere-riconosciuto; l’Altro, invece, si mantiene saldo alla sua autorelazione, e viene riconosciuto dal primo come da un assoggettato. Si ha così il rapporto tra signoria e servitù».
Ne risulta un riconoscimento asimmetrico: io riconosco l’altro senza che l’altro mi riconosca. Così facendo, io divento il suo servo e lui il mio signore. D’altra parte, quello del signore non è un riconoscimento totale, perché egli non riconosce a sua volta la realtà e dignità umana del servo. Ciò conduce al rovesciamento del rapporto tra signoria e servitù, perché, nel servizio, la co- scienza, si sostituisce la lotta di classe. Dall’altro lato, al binomio signore-servo subentra il dualismo borghesiaproletariato ovvero, negli scritti maturi di critica dell’economia politica, l’antitesi capitalista-operaio. Con un tratto di significativa continuità, rispetto all’impostazione hegeliana, perché al termine del processo il vero «vincitore» della lotta non sarà il signore (capitalista), ma il servo (operaio). Se si rimette «sui piedi» quella dialettica che Hegel aveva indebitamente messo sulla «testa» — come Marx auspica nella Sacra Famiglia (1845) — e non ci si affida a un «metodo mistico», ma si assume il «metodo trasformativo», si potrà giungere a individuare in coloro che attualmente sono servi il soggetto concreto della storia.
D’altra parte, la logica del rovesciamento, ben prima di Hegel e Marx, si ritrova già nel monito che Seneca rivolge nelle Lettere al giovane Lucilio: «Comportati con il tuo inferiore come vorresti che il tuo superiore agisse con te. Tutte le volte che ti verrà in mente quanto potere hai sul tuo schiavo, pensa che il tuo padrone ha su di te altrettanto potere». E poi, riassumendo: «Mostrami chi non è schiavo: c’è chi è schiavo della lussuria, chi dell’avidità, chi dell’ambizione, tutti sono schiavi della speranza, tutti della paura». Dove compare già l’assunto riguardante l’intercambiabilità, e dunque la potenziale reversibilità, dei ruoli fra il servo e il padrone.

Ma forse il testo che meglio esprime questa relazione è il racconto Il padrone e il servo, che Lev Tolstoj scrive nel 1895. Vasilij è il padrone burbero, avaro e avido, di un piccolo emporio di paese. Il suo servo Nikita lo assiste con slancio e dedizione, per un salario che è pari alla metà di quanto sarebbe prescritto. Durante un viaggio con la slitta trainata da un cavallo, i due vengono sorpresi da una bufera di neve. Vasilij abbandona il servo al suo destino, cercando di salvarsi in groppa al cavallo che ha sciolto dalla slitta. Ma al termine di un lungo giro, il cavallo lo riporta dove era stato lasciato Nikita. È a questo punto che si compie la svolta. Non è possibile che i due uomini si salvino insieme. Allora il padrone fa sdraiare il servo sulla pancia e si distende su di lui, riscaldandolo col calore del suo corpo.
Al mattino seguente, i soccorritori trovano Nikita ancora vivo sotto il corpo del padrone assiderato. Così Tolstoj narra gli ultimi pensieri di Vasilij prima della morte: «E si rammenta che Nikita è lì disteso sotto di lui e che si è scaldato ed è vivo, e gli sembra di esser lui Nikita e che Nikita sia lui, e che la sua vita non sia in lui stesso ma in Nikita. Si mette in ascolto, e sente il respiro, e persino il leggero russare di Nikita. “È vivo, Nikita, e dunque anch’io sono vivo” dice a se stesso con aria di trionfo. E si ricorda dei soldi, della bottega, della casa, degli acquisti, delle vendite e dei milioni dei Mironov; fa fatica a capire perché quest’uomo che chiamavano Vasilij Brechunòv si occupasse di tutte le cose di cui si occupava. “Be’, è perché non sapeva qual era il punto” pensa di Vasilij Brechunòv. “Non lo sapeva così come io lo so adesso. E adesso non mi sbaglio. Adesso so”. E sente di essere libero, e non c’è più nulla che lo trattiene. E null’altro vide e udì e sentì in questo mondo Vasilij Andreevic. Intorno tutto era ancora avvolto dal nevischio».

- Umberto Curi - Pubblicato su Corriere/La Lettura del 5 febbraio 2017 -

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