venerdì 17 febbraio 2017

Avvocati e tribunali

manguel

- Letteratura, legge, giustizia -
di Alberto Manguel

- Per il tribunale degli scrittori il colpevole è sempre l’avvocato -
Nulla di ciò che facciamo o diciamo è innocente. Tutto ha un significato, o crediamo che abbia un significato, o gli attribuiamo un significato. I nomi, i luoghi, gli oggetti sono quello che sono, ma anche ciò che immaginiamo che simbolizzino. Il pane ci sembra buono, il fiele ci sembra cattivo; associamo le isole dei mari del Sud al paradiso, i vulcani dell’Italia meridionale all’inferno. Lo stesso vale per le professioni. Ci sono professioni che hanno una carica simbolica positiva, e altre negativa. Fare il muratore, l’insegnante o il medico è visto come una cosa buona. Fare il dentista, il banchiere o l’avvocato non tanto. Non so bene perché, ma ci basta leggere in un romanzo che il Dottor Zivago è un medico o che Jane Eyre fa la maestra per affezionarci al personaggio prima di conoscerlo veramente. Ma quando si scopre, per esempio, che il cattivo in diversi romanzi di Graham Greene è un dentista, non ne siamo sorpresi, e quando Balzac ci presenta uno dei suoi personaggi come appartenente al mondo della finanza, subito ne diffidiamo. Chesterton inizia uno dei suoi racconti con questa frase: «L’assassinio di un milionario, evento che chissà per quale ragione viene considerato una calamità... ». Sono molte le professioni di cui potremmo dire altrettanto.
Purtroppo, gli avvocati occupano un posto privilegiato nel mondo dei personaggi odiosi. Naturalmente, ce ne sono di ammirevoli, come Atticus Finch ne
Il buio oltre la siepe o Perry Mason nei romanzi di Earle Stanley Gardner (e nella serie televisiva). Ma, di solito, la figura dell’avvocato si presta a battute pesanti e alla derisione, certamente ingiustificata. Quando veniamo a sapere che il fratello di Horacio Oliveira, il protagonista de Il gioco del mondo ( Rayuela) di Cortázar, è un «soddisfatto avvocato di Rosario che allegava quattro fogli di carta aerea sui doveri filiali e civili dissipati da Oliveira», istintivamente ne diffidiamo, senza altro motivo che la sua professione. Questa diffidenza nei confronti degli avvocati è molto antica. Nella letteratura spagnola, la possiamo trovare già nel Medioevo, come ad esempio nel Libro de buen amor del XIV secolo, dove l’Arciprete di Hita descrive così un legale: «Dava muchos juïzios, mucha mala sentençia:/ con muchos abogados era su mantenençia, / en tener pleitos malos e fazer mala abenençia;/ en cabo, por dineros avía penitençia» (Dava molti giudizi, molte male sentenze / Con molti avvocati si manteneva / Nel sostenere cattive cause e fare un cattivo lavoro; /alla fine, per la tasca era una penitenza).
Nella seconda parte dell’Enrico VI di Shakespeare, scoppia una piccola rivolta e Dick il Macellaio, seguace del ribelle Jack Cade che vuole essere re, incita i suoi compagni con un grido divenuto famoso: «Per prima cosa, uccidiamo tutti gli avvocati! ». Con queste parole, Dick si fa eco di un pregiudizio popolare fortemente radicato nei secoli: gli avvocati sono dei truffatori che rubano alle povere parti in causa. Una nuova società (in questo caso, quella che Jack Cade intende governare) deve cominciare a definirsi eliminando quelli che sono visti come i suoi sfruttatori, personaggi che invece di aiutarli rallentano i procedimenti legali e incassano tassi usurai.
Nel XIX secolo, Dickens immortalò questo pregiudizio nel romanzo Casa desolata. Qui si descrivono le manovre senza fine dello studio legale Jarndyce & Jarndyce di Londra che finisce col rovinare i propri clienti. Una delle varie trame di questo romanzo di Dickens (come sempre in Dickens, ce ne sono molte) parla di un’importante eredità che ha atteso nei tribunali per diverse generazioni, finché nell’anno in cui il romanzo si svolge l’intera eredità si rivela consumata dalle spese legali. Qui Dickens cerca di criticare la Court of Chancery d’Inghilterra, le cui attività considerava così nefaste che uno dei personaggi raccomanda a un convenuto in giudizio: «Subisci qualsiasi torto ma non venire qui». Per Dickens, i tribunali sono l’ultimo posto a cui si debba fare appello se si desidera ottenere giustizia.
La dea della giustizia, che i greci chiamavano Dike e i romani Iustitia, fu immaginata come una combinazione di altre divinità. Fortuna, la dea romana della sorte, le presta la sua benda per gli occhi; Nemesis, la dea greca della vendetta, la sua spada. Tuttavia, nell’immaginario popolare medievale, la Giustizia prese la figura di una prostituta, venduta da avvocati e giudici come un qualsiasi prodotto commerciale. C’è una lunga tradizione letteraria che descrive questi giureconsulti come corrotti e avidi, uomini perfidi che allungano i giudizi ed ostacolano gli accordi tra le parti per guadagnare di più. Quevedo, ne Il sogno della morte, va oltre e attribuisce a giureconsulti e avvocati tutti i mali della società: «Volete vedere quanto sono perturbatori gli avvocati? Se non ci fossero avvocati non ci sarebbero liti; e se non ci fossero liti, non ci sarebbero cause; e se non ci fossero cause, non ci sarebbero procuratori, e se non ci fossero procuratori, non ci sarebbero inganni; e se non ci fossero inganni, non ci sarebbero delitti; e se non ci fossero delitti, non ci sarebbero sbirri; e se non ci fossero sbirri, non ci sarebbero prigioni; e se non ci fossero prigioni, non ci sarebbero giudici; e se non ci fossero giudici, non ci sarebbero passione; e se non ci fosse passione, non ci sarebbe corruzione. Guarda la litania di rettili infernali prodotta da un avvocatuccio, che cosa nasconde una barbetta e a che cosa autorizza un berretto»

- La solitudine degli uomini di fronte alla Legge -
La durata interminabile dei processi giudiziari, le incomprensibili trame ordite dagli avvocati, il percorso labirintico che un querelante è obbligato a seguire per avere giustizia sono, naturalmente, caratteristiche di una geografia letteraria ancora riconoscibile ai nostri giorni. Nel ventesimo secolo, due sono i loro cartografi per eccellenza: Friedrich Dürrenmatt e Franz Kafka. Dürrenmatt, brillante drammaturgo e romanziere, si è interessato per tutta la vita allo studio del rapporto tra le nostre azioni e le leggi che abbiamo inventato per regolarle.
Per la fede protestante di Dürrenmatt (anche se ateo, era svizzero) l’essere umano ha come unica risorsa, per riscattare il peccato di Adamo, la grazia divina. Da questo punto di vista la realtà della grazia di Dio sfugge alla realtà dei fatti percepiti dall’occhio umano, e senza lasciarci guidare dalla ragione, incapace di cogliere i dettami divini, possiamo costruire strutture logiche e legali che possono sembrarci impossibili o assurde.
Uno degli ultimi romanzi di Dürrenmatt è Giustizia (1985). Si svolge a Zurigo. Il consulente cantonale Kohler entra in un ristorante frequentato da avvocati, giudici e capi della polizia, e uccide a revolverate il malinconico professor Winter. Commesso l’omicidio, Kohler lascia il ristorante. Quella notte stessa viene arrestato in una sala da concerto e poi condannato a venti anni di reclusione. Kohler, un uomo molto colto e molto ricco, decide allora di affidare il riesame del suo caso a un giovane avvocato perché dimostri la sua innocenza davanti al Tribunale, nonostante i numerosi testimoni del suo crimine. L’avvocato dubita che una tale impresa sia possibile, ma alla fine accetta la sfida e riesce a dimostrare alla corte di Zurigo che il suo cliente non è colpevole. In questo romanzo, Dürrenmatt suggerisce che la nostra idea di giustizia è una finzione che riflette o racconta un archetipo inerente alla condizione umana.
Per Kafka, la condizione umana è soggetta a una logica simile, ma divina e insensata, nella quale l’essere umano può stabilire un dialogo con il suo Creatore per chiedere la modifica di un decreto o di una legge. Come per i commentatori talmudici e i maestri chassidici, per Kafka Dio non è indifferente alle nostre argomentazioni. Anzi, l’essere umano può sottoporre a Dio le sue ragioni perché l’Onnisciente e Onnipotente Jehovah possa conoscere i suoi misteri tramite una delle sue creature. Si comprende così la convinzione di Kafka che la grazia divina esiste, anche se non giunge sino a noi. Un giorno, discutendo con il suo amico Max Brod, questi si spazientì per la negatività di Kafka ed esclamò: «Ma se dici questo, non c’è speranza! ». E Kafka, con un sorriso, guardò Brod e gli rispose. «Sì, c’è speranza. Ma non per noi».
La tradizionale disonestà degli avvocati nella letteratura non è per Kafka se non un’ulteriore prova dell’inefficacia delle nostre azioni, oneste o disoneste, ragionevoli o meno. Per Kafka, l’agire bene o male ha il suo castigo o la sua ricompensa segreta, perché non sappiamo che cosa significa nessuno dei nostri atti nella grande narrazione universale.
Il racconto emblematico di Kafka, in cui si riassume la sua nozione della giustizia, si intitola Davanti alla legge e Kafka lo incluse in Il processo. Si legge: «Davanti alla Legge c’è un guardiano. Gli si presenta un uomo di campagna che lo prega di farlo entrare nella Legge. Ma il guardiano risponde che ora non gli può concedere di entrare. L’uomo riflette e poi chiede se almeno potrà entrare più tardi. “Può darsi”, risponde il guardiano, “ma per ora no”. Le Porte della Legge sono aperte come sempre e l’uomo si china per dare un’occhiata dentro. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere: “Se ti interessa tanto, prova pure a entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono forte, e sono solo l’ultimo dei guardiani. (...)”.
L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; dopotutto, la Legge dovrebbe essere accessibile a tutti e in qualsiasi momento, pensa. (...) Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Molte volte prova ad entrare e importuna il guardiano con le sue richieste. (...) L’uomo, che per il viaggio si è provveduto di molte cose, dà fondo a tutto, anche a ciò che ha di più prezioso, per tentare di corrompere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osservando ogni volta: “Lo accetto soltanto perché tu non creda di aver omesso qualche tentativo”.
Durante tutti quegli anni, l’uomo osserva senza posa il guardiano. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra l’unico ostacolo che gli impedisce di accedere alla Legge. Nei primi anni maledice ad alta voce la sua sorte senza curarsi di nulla, poi quando invecchia si limita a brontolare tra sé. (...) Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente faccia più buio intorno a lui o se i suoi occhi lo ingannino. Ma in quella penombra scopre uno splendore che erompe inestinguibile dalle Porte della Legge. Ormai non gli rimane più tanto da vivere. Prima di morire, riassume tutte le esperienze di quegli anni in una domanda che non ha mai rivolto al guardiano. (...) “Che cosa vuoi sapere ancora?”, chiede il guardiano. L’uomo risponde: “Tutti cercano la Legge. Come mai, dunque, in tutti questi anni che ho trascorso qui, nessuno, a parte me, ha chiesto di entrare?”. Il guardiano si rende conto che l’uomo sta per morire e per farsi intendere da quelle orecchie indebolite, grida: “Nessun altro poteva entrare qui, perché queste porte erano destinate soltanto a te. Ora vado a chiuderle”».
Negli esempi che ho fatto, credo di distinguere una dicotomia o un paradosso che per i professionisti del diritto sarà una banalità. È questa: da una parte, sappiamo che esiste (o dovrebbe esistere) qualcosa che chiamiamo “i diritti”, qualcosa che appartiene endemicamente ad ogni individuo. Dall’altra, sappiamo che esiste (o dovrebbe esistere) qualcosa che chiamiamo “le leggi”, che appartengono endemicamente ad ogni società e la identificano. Hobbes ha definito questi due elementi dell’apparato legale come, nel primo caso, diritto di agire (in inglese right, nella nostra lingua diritto con la minuscola e Diritto con la maiuscola si prestano a confusione). E nel secondo, come obbligo di agire. Ogni società esiste nella tensione tra questi due ordini. Da un lato, ci sono i diritti della persona, enunciati in diversi manifesti come i Diritti dell’Uomo della Rivoluzione francese (a cui Olympe de Gouges aggiunse i Diritti della Donna e fu ghigliottinata per la sua audacia). E dall’altro, vi sono le leggi di una società che limitano o condizionano tali diritti. Entrambi sono essenzialmente necessari perché una società esista in un modo sano. In Un uomo per tutte le stagioni, di Robert Bolt, c’è una scena in cui compaiono Tommaso Moro e suo genero. Il genero vuole ignorare il processo legale per raggiungere ciò che lui definisce giustizia. Tommaso Moro gli dice che anche per giudicare il diavolo farebbe appello alle leggi del paese. Il genero replica che lui, invece, pur di condannare il diavolo abbatterebbe tutte le leggi. Risponde Tommaso Moro: «E credi veramente di poter restare in piedi nel vento impetuoso che allora soffierebbe?».

- Shakespeare in law:  L’ambigua morale nel processo di Shylock -
La città antica, la “polis” fisicamente definita da un muro che escludeva i barbari, si identificava con quelle leggi che tutelavano i cittadini da quel vento impetuoso. E il cittadino aveva il diritto di entrare in dialogo con quelle leggi per modificarle e migliorarle. In genere, lo faceva per mezzo di un avvocato, parola (ricordiamolo ora) che deriva dall’espressione latina «ad auxilium vocatus», «colui che è chiamato ad aiutare». La salute di una società si può quindi giudicare dalla facilità con cui si realizza questo dialogo tra i diritti del cittadino e i suoi obblighi,
dialogo che le dittature cercano di reprimere, le plutocrazie di ignorare, mentre le demagogie cercano di appropriarsene o di pervertirlo. E in tutti questi casi (e non solo) si suppone che gli avvocati fungano da ponte tra i diritti individuali e i loro doveri civici, entrambi stabiliti dalla legge. Purtroppo, il compito di un avvocato si confonde a volte con quello di un doganiere che pretende prima di attraversare il ponte una tassa per il suo servizio. Ed è questa la visione del personaggio che sembra prevalere nella letteratura.
Ma esaminiamo più attentamente questa affermazione, con la quale ho iniziato il mio discorso. La letteratura — la buona letteratura — non è mai unilaterale. Insiste sull’ambiguità, esige altre testimonianze, si impegna a non affermare ma a costruire con delle domande una strada per il lettore accanito. Perché nella letteratura non ci sono definizioni categoriche, i lettori possono continuare a leggere le grandi opere senza esaurirle mai, senza mai raggiungere l’ultimo l’orizzonte di un’opera. Dopo l’ultima lettura dell’Iliade o di Finzioni ce ne sarà sempre un’altra, diversa, che rivelerà un aspetto dell’opera che era lì, ma non avevamo visto.
Faccio un esempio. Il Mercante di Venezia è stato rappresentato e letto innumerevoli volte da quando esordì in scena nel 1605, curato dallo stesso Shakespeare. Ricordiamo che Shylock, l’usuraio ebreo, ha prestato del denaro a Bassanio, che gli ha dato come garante il suo amico Antonio. Shylock, che odia Antonio perché è antisemita, accorda il prestito, ma esige, in caso di mancato pagamento, una libbra di carne di Antonio. Le navi di Antonio sono disperse in mare e Shylock porta Antonio di fronte alla corte del Doge per far valere i suoi diritti. Bassanio offre il doppio del denaro dovuto, ma Shylock rifiuta la sua offerta. Entra a quel punto in scena un giovane avvocato, che in realtà è Porzia, la moglie di Bassanio, travestita da uomo. Aperto il processo, Porzia cerca di convincere Shylock, per clemenza, a desistere dalla sua pretesa. Shylock rifiuta. Porzia lo invita quindi a tagliare la libbra di carne dal petto di Antonio, ma se nel tagliarla versasse anche una sola goccia del suo sangue sarà condannato a morte e gli saranno confiscate terre ed averi. Sconfitto, Shylock è disposto ad accettare l’offerta in denaro fattagli da Bassanio, ma Porzia si oppone: Shylock l’ha già respinta in tribunale e, pertanto, non può accettarla ora. Porzia cita una legge veneziana che punisce lo straniero colpevole di tentato omicidio nei confronti di un veneziano (in quanto ebreo, Shylock sarebbe considerato uno “straniero” a Venezia), costringendolo a cedere i suoi beni per metà allo Stato e per metà ad Antonio, e a mettere la sua vita a disposizione del Doge. Il Doge lo grazia, a patto che Shylock si converta al cristianesimo.
Nel corso dei secoli, i critici non sono riusciti a mettersi d’accordo nel giudicare se l’opera di Shakespeare sia antisemita o no. Alcuni hanno sostenuto che Shakespeare esprime i suoi pregiudizi razzisti attraverso le argomentazioni giuridiche di Porzia e che la conversione finale imposta a Shylock è presentata come una risoluzione benefica e giusta. Wolf Mankowitz, il romanziere inglese, ha definito Porzia «una figlia di puttana, gelida e snob» e Harold Bloom, eminente critico americano, ha detto che con quest’opera teatrale Shakespeare «ha fatto molto male agli ebrei». Durante il Terzo Reich, l’opera fu messa in scena più di cinquanta volte. Altri, soprattutto nella seconda metà del XX secolo, hanno sostenuto che Porzia, come avvocato, ha solo trovato dei motivi legali per invalidare le pretese di Shylock, e che era motivata non da un pregiudizio razziale, ma dall’amore per la giustizia e per i diritti del cittadino. Le domande che pone Shylock nel difendersi come essere umano si possono applicare a tutti, e quando Shylock dice a un cristiano: «La perfidia che voi mi insegnate saprò metterla in pratica», non fa altro che esprimere una verità sociale innegabile: che la corruzione dello Stato autorizza gli individui ad essere corrotti. Per il drammaturgo Aaron Posner, Porzia rappresenta l’archetipo dell’avvocato, la cui funzione non è quella di presentare dei punti di vista più giusti o più tolleranti, ma di evidenziare che cosa dicono le leggi sul caso presentato alla corte. Porzia cerca di convincere Shylock ad abbandonare le sue pretese crudeli e prova a trattare con lui usando degli argomenti morali. Quando il suo tentativo fallisce, però, Porzia tesse gli argomenti giuridici che demoliscono le pretese illegali di Shylock e costruiscono un ponte giuridicamente valido tra il querelante e la corte, così come vuole la sua professione. Per questi motivi, la School of Law del New England è stata ribattezzata Portia School of Law.
Ebbene. Nel gennaio del 2016, in occasione del quinto centenario del ghetto di Venezia e del quarto della morte di Shakespeare, l’Università Ca‘ Foscari ha messo in scena il Mercante di Venezia nello stesso luogo in cui l’azione si svolge. L’opera di Shakespeare non era mai stata rappresentata nel ghetto.
Ma l’avventura non finiva lì. Gli organizzatori dell’evento hanno avuto la brillante idea di invitare a Venezia un giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, l’avvocato Ruth Bader Ginsburg, a presiedere un nuovo processo del caso di Shylock con altri tre giudici. Bader Ginsburg ha accettato e, dopo circa due ore e mezza di camera di consiglio, i giudici hanno raggiunto un accordo unanime. Annullare la clausola della libbra di carne, che nessun tribunale accetterebbe, rendere a Shylock i suoi beni, pagargli i 3000 ducati prestati ad Antonio, e annullare la richiesta di conversione. «Questa conversione», ha sentenziato Bader Ginsburg, «è stata richiesta da Antonio e il ricorrente non può trasformarsi in giudice». E poi ha aggiunto: «Dopo quattro secoli, il lasso di tempo durante il quale Shylock potrebbe pretendere degli interessi è scaduto». La corte non è stata unanime per ciò che riguarda Porzia. Tuttavia, hanno stabilito che, essendo un’impostora e un’imbrogliona, Porzia sia condannata a studiare Giurisprudenza all’Università di Padova, dove insegna uno dei giudici a latere di Bader Ginsburg, e anche all’Università di Wake Forest, dove un altro giudice è preside.
Alla caricatura dell’avvocato che un’opera di Shakespeare immortala nel grido di un macellaio rivoluzionario, un’altra commedia di Shakespeare oppone un personaggio più ambiguo, più complesso, meno facilmente definito: quello di Porzia, donna travestita da uomo, apparente difenditrice dei diritti di Shylock ma al tempo stesso esigente difenditrice della lettera della legge veneziana, una che espone di fronte alla corte una richiesta disumana ma apparentemente legale, per poi dimostrare l’illegalità di tale richiesta, una fedele servitrice della giustizia statale, ma anche dei diritti individuali.
Forse queste considerazioni indicano un nuovo senso del ruolo dell’avvocato, almeno in campo letterario. Tanto gli avvocati di professione come i dilettanti — l’avvocato Paul Biegler di Anatomia di un omicidio o Maitre Derville de Il colonnello Chabert, ma anche Tiresia in Edipo Re e diversi animali come la scimmia e la volpe nelle Favole di Esopo, per esempio — cercano di leggere nelle leggi i significati nascosti, quel che si cela tra le righe, il respiro umano nella fredda lettera dei codici.
E questo Shakespeare, ovviamente, lo sapeva. In Misura per misura, fa dire a uno dei suoi personaggi: «Non dobbiamo fare della legge uno spauracchio, / posto lì a spaventare gli uccelli predatori, / e lasciarla poi là, immutabile, finché l’abitudine / da spauracchio la riduce a posatoio».

- Alberto Manguel - pubblicato su Repubblica dal 28 al 30 dicembre 2016 -

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