giovedì 8 dicembre 2016

Identici

proteo

Identità e globalizzazione [*]
- di Zygmunt Bauman -

Che cos'è l'identità? Facendo riferimento a Rimbaud, possiamo dire che è la ricerca di una verità (una verità di sé), sia dell'anima che del corpo. La verità: una cosa dura, onesta, degna di fiducia... Oggi, ci troviamo tutti impegnati in questo tipo di ricerca.

Nel 1996, Stuart Hall osservava: «Stiamo assistendo, in questi ultimi anni, ad una vera e propria esplosione discorsiva del concetto di identità» [*1]. E, in effetti, nessun altro aspetto della vita contemporanea attrae così tanto l'attenzione di filosofi, specialisti in scienze umane e psicologi. Si può arrivare a dire che la «identità» è diventata un prisma attraverso il quale vengono ad essere identificati, esaminati e compresi  altri aspetti della vita quotidiana. È questo il caso, ad esempio, del dibattito sulla giustizia e sull'uguaglianza che tende ad essere condotto in termini di «riconoscimento» di identità unica: si parla di culture in termini di identità differenti, di ibridismo, di creolizzazione - mentre i processi politici vengono più spesso ancora teorizzati intorno ai problemi dei diritti dell'uomo (vale a dire, il diritto ad un'identità separata) ed ai problemi della «politica di vita» (vale a dire, costruzione, negoziazione ed affermazione di identità).

Faccio l'ipotesi che la carriera spettacolare del «discorso intorno all'identità» ci parla assai più dello stato attuale della società umana che dei suoi risultati concettuali ed analitici. Cosa possiamo imparare da una tale carriera?

Sappiamo, grazie a Hegel, che è al calare dell'oscurità che la civetta di Minerva, la dea della saggezza, dispiega prudentemente le sue ali: la saggezza, ovvero tutto ciò che questa parola ingloba, emerge alla fine del giorno, quando il sole va a dormire e le cose hanno smesso di essere facilmente visibili o evidenti. Heidegger, nella sua discussione sulla priorità dello "Zuhandenheit" sul "Vorhandenheit" [ovvero semplice presenza (Vorhandenheit) e manipolabilità (Zuhandenheit)], e sull'origine catastrofica della seconda, ga dato una nuova svolta all'aforisma di Hegel: una buona luce è una luce accecante. Non si riesce a vedere quel che è troppo visibile, si prende solo nota di tutto quello che è «sempre stato già lì». Si presta attenzione alle cose solo una volta che sono scomparse. Secondo la sintesi che ne fa Arland Ussher, «il mondo in quanto tale mi si rivela solo quando le cose cominciano ad andar male» [*2]. Nell'interpretazione che ne dà Vincent Vycinas [*3], tutto  ciò di cui il mio mondo è costituito, viene portato alla mia attenzione solo scomparendo, ovvero cessando di comportarsi in maniera monotona e prevedibile, come è sempre avvenuto precedentemente, oppure perdendo la sua utilità. Quello che si impone alla visione, all'attenzione e al pensiero, è tutto ciò che è difficile da maneggiare, che è oscuro, inaffidabile, resistente e piuttosto deprimente.

Va notato, tuttavia, che la scoperta che le cose non conservano indefinitamente la loro forma e un giorno potranno essere differenti da come erano state fino ad allora costituisce un'esperienza ambigua. L'imprevedibilità comporta l'ansietà e la paura: un mondo pieno di accidenti e di sorprese obbliga ad essere sempre vigili e a non cedere mai le armi. Ma il carattere instabile, morbido e flessibile delle cose può altresì risvegliare ambizione e determinazione: dal momento che nessun verdetto della natura è permanente ed irrevocabile, è lecito sognare una vita differente, più soddisfacente, più piacevole. Se poi, per di più, si confida nel potere del proprio pensiero e nella forza dei propri muscoli, allora si può agire a partire dai propri sogni e costringerli a realizzarsi. Alan Peyrefitte [*4] ha suggerito che la notevole dinamicità, inedita ed unica, della moderna società capitalista, così come tutti i progressi spettacolari realizzati dalla civiltà occidentale negli ultimi due o tre secoli, sarebbe impensabile senza una tale fiducia: la triplice fiducia, in sé stessi, negli altri e nelle istituzioni sociali durevoli in cui iscrivere progetti ed azioni a lungo termine.

L'ansietà e l'audacia, la paura e il coraggio, la disperazione e la speranza sono nati insieme. Ma la loro proporzione dipende dai dispositivi in nostro possesso. L'universo dell'esperienza moderna si polarizza nel fascino e nell'angoscia, nel desiderio e nell'avversione. Le paure e le gioie che derivano dall'instabilità delle cose sono distribuite in maniera assai diseguale.

Nel mettere il mondo in marcia, la modernità ha posto in evidenza la fragilità e l'instabilità delle cose, allo stesso tempo in cui ha aperto grandemente la possibilità ed il bisogno di riformarle. Marx ed Engels hanno fatto l'elogio dei capitalisti e della loro capacità di «fondere i corpi solidi e profanare le reliquie» - questi contesti pietrificati che hanno ostacolato per secoli il potere creativo dell'uomo. Alexis de Tocqueville pensava invece che i corpi solidi che sono stati fusi nel calore della rivoluzione moderna si trovavano in uno stato di decomposizione avanzata ben prima che cominciasse la riprogettazione della natura e della società. Comunque sia: la natura umana è stata gettata nel «melting pot» insieme a tutto il resto della creazione divina. Non è stata più vista, né poteva esserlo, come data. Al contrario, è diventata un compito che ogni uomo ed ogni donna non poteva che svolgere da solo e meglio. La «predestinazione» era stata rimpiazzata dal progetto di vita, il destino dalla vocazione.

I filosofi del Rinascimento hanno celebrato le nuove prospettive aperte davanti agli uomini ingegnosi e intrepidi dal carattere "incompiuto" della natura umana. «Gli uomini possono fare tutto ciò che vogliono», dichiara Leon Battista Alberti con gioia e serietà; «Possiamo diventare tutto quello che vogliamo», dichiara con evidente piacere Pico della Mirandola. Il Proteus di Ovidio, che poteva trasformarsi a proprio piacimento da giovane uomo a leone, da orso selvaggio a serpente, da pietra ad ombra, così come il camaleonte, grande maestro della reincarnazione istantanea, sono entrambi divenuti dei modelli della scoperta della capacità degli uomini di auto-costituirsi e mostrare fiducia in sé stessi [*5]. Un po' più tardi, Jean-Jacques Rousseau designerà col nome di «perfettibilità» l'unico attributo universale di cui la natura ha dotato l'uomo, insistendo sul fatto che l'attitudine ad auto-trasformarsi costituisce la sola «essenza umana» e l'unico tratto comune a tutti [*6].

Questo non vuole necessariamente dire che gli umani siano condannati a fluttuare e ad andare alla deriva. Proteo rappresenta indubbiamente il simbolo dell'attitudine all'auto-creazione, ma l'esistenza proteica non costituisce necessariamente l'unica scelta offerta agli esseri umani liberi. I vecchi corpi solidi possono essere fusi, ma questo avviene al fine di modellare dei nuovi solidi che avranno una forma migliore e che saranno meglio attrezzati di quelli vecchi che hanno sostituito - per poter meglio rispondere alla felicità dell'uomo. Allo stesso tempo saranno più solidi, e quindi più affidabili. La fusione dei solidi non deve essere altro che la tappa preliminare dell'impresa moderna: vale a dire un'impresa destinata a rendere il mondo più propizio, più appropriato ad ospitare l'uomo. La seconda tappa consiste nell'elaborare un nuovo contesto, resistente, durevole e sicuro. Bisogna che venga smantellato un ordine perché lo si possa sostituire con un altro ordine, progettato per questo utilizzo secondo le norme della ragione e della logica.

L'incompletezza dell'identità e, in particolare, la responsabilità che ciascuno deve assumersi per completarla, intrattengono di fatto un rapporto intimo con tutti gli altri aspetti della condizione moderna. Essendo una questione privata, un problema privato, l'identità è anche il risultato di una produzione sociale. La forma della nostra socialità, così come la società cui partecipiamo, dipende in gran parte dalle concezione e dalle risposte date alla sfida formidabile costituita dalla «individualizzazione».

Ciò che ci insegna l'idea di individualizzazione, è l'emancipazione dell'individuo rispetto alla determinazione assegnatagli, ereditata, innata della sua persona sociale: un orientamento considerato a giusto titolo come il tratto più evidente e più originale della condizione moderna. In una parola, l'individualizzazione consiste nel far passare l'identità umana dallo status di "dato" a quello di "compito"  - assegnando agli attori la responsabilità di svolgere questo compito e di rivendicarne le conseguenze (così come gli effetti secondari). Il posto dell'individuo nella società, la sua definizione sociale, ha smesso di essere "zuhanden" per diventare "vorhanden" - un compito incompleto ed incompiuto (come ha detto Sarte, non basta essere nato borghese, bisogna anche vivere una vita da borghese, cosa che non era né possibile né necessario dire dei principi, dei cavalieri, dei servi o dei cittadini dell'epoca premoderna). La necessità di divenire ciò che si è, è la caratteristica stessa della vita moderna. La modernità sostituisce la determinazione del rango sociale per mezzo di un'autodeterminazione coercitiva e obbligatoria.

Tutto autorizza a pensare che questo è valido per la totalità dell'epoca moderna: per tutti i periodi e per tutti i settori della società. Se è così, la questione è: perché la vera e propria esplosione delle preoccupazioni riguardo l'identità è comparsa solo in questi ultimi anni? Cos'è accaduto di nuovo rispetto a questo problema che è vecchio quanto la modernità stessa?

Si può negare il fatto che sia effettivamente successo qualcosa di nuovo, e che sia questo che spieghi l'inquietudine da poco apparsa che investe i compiti che le generazioni passate sembravano svolgere come una routine? In una situazione simile, ci sono in effetti delle importanti variazioni che distinguono degli stadi successivi della storia moderna.

La società premoderna era una società di status. Ma quando i rigidi contesti delle società di status vennero infranti, all'inizio del periodo moderno, il compito di auto-identificazione assegnato agli uomini e alle donne si riduceva alla sfida di conformarsi, senza deviare dalla norma, ai tipi sociali ed ai modelli di condotta stabiliti. L'appartenenza ad una classe era in una qualche misura un traguardo. Doveva essere riconfermata ed attestata attraverso la condotta quotidiana di ciascuno dei suoi membri. Una volta «de-fissati», gli individui dovevano dispiegare il loro nuovo potere di scegliere ponendosi alla ricerca spasmodica di una «ri-fissazione».

La divisione della società in classi, formate piuttosto che ereditate, aveva la tendenza a diventare altrettanto solida, inalterabile e resistente alla manipolazione individuale, di quanto lo era la vecchia attribuzione degli status premoderni. La classe ed il sesso erano le cornici che racchiudevano le scelte individuali: sfuggire alla loro costrizione non era molto più facile del rimettere in discussione il posto che ciascuno aveva nella «catena divina degli esseri». Pur non essendo così nella teoria, la classe e il sesso somigliavano in maniera sorprendente a dei «fatti naturali», ed il compito assegnato alla più parte degli individui rimaneva quello di prendere il proprio posto nella nicchia loro destinata, comportandosi come dei residenti stabili.

È proprio su questo punto che l'individualizzazione precedente differisce dalla forma che ha assunto nella nostra epoca di «modernità liquida», epoca in cui, non solo la collocazione degli individui nella società, ma gli stessi posti ai quali possono avere accesso e nei quali desiderano stabilirsi, si confondono incessantemente e non bastano più a formare degli obiettivi per dei «progetti di tutta una vita». Questa nuova agitazione, questa fragilità, che influenzano questi obiettivi, incidono anche su noi stessi, su tutti noi, altamente qualificati o meno, con una grande cultura o senza, con ancora un posto di lavoro o già licenziati. Ci sono ben poche cose, se non niente, che possiamo fare per «fissare» il futuro secondo le norme vigenti.

Daniel Cohen l'ha detto, chi ha cominciato la sua carriera nella Microsoft non sa in anticipo dove finirà, mentre chi l'aveva cominciata alla Ford o alla Renault disponeva della quasi certezza di terminarla nello stesso posto [*7]. Non sono solo gli individui che si muovono, ma anche i punti di arrivo e le strade che vi conducono. La «de-fissazione» è un'esperienza che nel corso di una vita professionale dev'essere fatta un più riprese (almeno 11 volte, secondo Richard Sennet, nel caso di un giovane americano). Gli uomini e le donne sono costretti incessantemente a correre, senza promessa di riposo né la garanzia che arrivino ad una qualche destinazione, quale che sia, ad una qualche «ri-fissazione» ultima che possa assicurare loro la fine dei loro tormenti. «Essere in movimento» è diventato il modo di vita permanente degli individui cronicamente «de-fissati».

All'inizio del 20° secolo, Max weber suggeriva che nell'epoca della modernità la razionalità strumentale è il fattore principale che controlla il comportamento umano. Per lui, la questione dei fini sembra quindi risolta, e rimaneva agli uomini e alle donne moderne scegliere i mezzi migliori per ottenere questi fini. In tale prospettiva, l'incertezza sull'efficacia relativa ai mezzi e sulla loro disponibilità sarebbe la fonte principale di insicurezza e di ansietà caratteristica della vita moderna. Se il punto di vista di Weber era giusto all'inizio del 20° secolo, la sua verità è andata progressivamente evaporando verso la fine del secolo.

Ai nostri giorni, non sono i mezzi la principale fonte di insicurezza e di angoscia.

Il 20° secolo si è distinto nella sovrapproduzione di mezzi. Questi sono stati prodotti ad un ritmo sempre più rapido ed hanno superato i bisogni già conosciuti e riconosciuti come necessari. Prima vengono i mezzi, i bisogni compaiono dopo! Sta ai mezzi ricercare i bisogni che potrebbero soddisfare! I fini, invece, vengono mantenuti più dispersi, più incerti: sono diventati la più grande fonte d'ansia, la vera grande incognita dell'esistenza. Voglio illustrare questa nuova precarietà che è la condizione dei lavoratori della nostra epoca per mezzo di questo piccolo annuncio recentemente pubblicato nella rubrica «Ricerca di lavoro» di un quotidiano britannico: «Ho un automobile, posso viaggiare. Attendo proposte».

Così il problema dell'identità, che dall'avvento dei Tempi moderni tormenta gli individui, è cambiato nella sua forma e nel suo contenuto. In precedenza, era quel genere di problema cui dovevano far fronte i pellegrini, e risolverlo: il problema di sapere «come arrivarci». Adesso, il problema assomiglia piuttosto a ciò con cui si devono quotidianamente misurare i vagabondi, le persone senza fissa dimora oppure i clandestini: «Dove vado? e dove mi porterà questa strada che ho preso?» Si tratta di scegliere la curva meno rischiosa, il bivio più vicino, si tratta di cambiare direzione prima che la strada che hai di fronte diventi impraticabile, o prima che la strada non cambi direzione, o anche prima che la destinazione prevista non si sposti o non perda il suo fascino.

In altri termini, il dilemma che tormenta gli uomini e le donne al volgere di questo secolo non è tanto quello di imparare come fare ad ottenere l'identità di loro scelta, né quello di fare riconoscere tale identità a coloro che gli stanno intorno, ma quale identità scegliere e che cosa fare per restare attenti e vigili una volta che l'identità scelta è stata ritirata dal mercato o ha perduto il suo potere di seduzione. Il problema principale, quello più angoscioso, non è sapere come stabilirsi in un posto, all'interno di un quadro solidamente stabilito - classe, sesso o categoria sociale - e, una volta installati, sapere come mantenerlo ed evitare di esserne cacciati o espulsi. In un mondo caleidoscopico di valori riformulati, di piste mobili e di contesti che cambiano, la libertà di manovra è stata elevata al rango di valore supremo, di «meta-valore», di condizione per poter accedere a tutti gli altri valori: passati, presenti, ma soprattutto futuri.

Erik H. Erikson, in un'analisi vecchia di quarant'anni, ha diagnosticato che gli adolescenti di quest'epoca avrebbero sofferto di una «confusione di identità», confusione che sarebbe diventata patologica negli adulti e che avrebbe richiesto un intervento medico. Secondo lui, questa confusione costituirebbe, nello sviluppo personale, una tappa passeggera e del tutto normale, che finirebbe naturalmente con il passaggio dall'adolescenza alla maturità. Alla domanda circa il sapere a cosa dovrebbe assomigliare l'identità di una persona sana, Erikson ha risposto: «alla sensazione soggettiva di una similarità e di una continuità» [*8].

Le possibilità sono due, o l'opinione di Erikson è invecchiata, o la crisi d'identità oggi è diventata tutt'altro che una malattia rara per quanto riguarda gli adulti e assai più che una circostanza passeggera legata all'adolescenza. La «similarità» e la «continuità» sono oggi dei sentimenti che sia i giovani che gli adulti provano raramente. E sono sentimenti che non vengono più nemmeno ricercati. Il sogno è influenzato da delle sinistre premonizioni.

In un mondo così caleidoscopico, la condotta razionale richiede che le opzioni, il maggior numero possibile di opzioni, venga lasciato aperto; ed il fatto di avere un'identità fissata una volta per tutte ha come risultato la chiusura o la perdita delle opzioni. Come ha osservato Christopher Lasch, le identità ricercare dei nostri giorni sono quelle che si possono adottare e delle quali ci si può sbarazzare «come fosse un cambiamento di costume». Se vengono «liberamente scelte», la scelta «non implica l'assunzione di un impegno con eventuali conseguenze», di modo che «la libertà di scegliere equivale in pratica al rifiuto di scegliere» [*9].

Nel dicembre del 1987, Pierre Bourdieu parlava della precarietà che «oggi è dappertutto» e che «ossessiona le coscienze e l'inconscio». La fragilità di ogni punto di riferimento concepibile e l'incertezza endemica riguardo al futuro influenzano coloro che i capricci della sorte hanno già toccato che coloro che non possono esser certi che verranno risparmiati. «Rendendo incerto ogni avvenire», afferma Bourdieu, «la precarietà impedisce ogni aspettativa razionale e, in particolare, quel minimo di fede e di speranza nel futuro che è necessario per rivoltarsi, soprattutto collettivamente, contro il presente, persino il più intollerabile». «Vale a dire, per concepire un progetto rivoluzionario, un'ambizione ragionata di trasformare il presente facendo riferimento ad un futuro proiettato, bisogna avere un minimo di controllo sul presente» [*10]. La fiducia nella possibilità di controllare il presente è evidentemente quel che più manca in una società composta da individui solitari. La speranza da parte loro di cambiare le regole del gioco, anche unendo le forze e marciando insieme, è sempre meno. Le catastrofi che li spaventano hanno sicuramente origini sociali e collettive, ma è su ciascuno di loro ed in maniera casuale che esse si abbattono, come catastrofi individuali alle quali si dovrebbe rimediare individualmente.

È di scarso interesse indicare altri modi di vita in comune, rappresentare una società che servirebbe meglio la causa della libertà e della sicurezza, elaborare dei progetti che garantiscano la giustizia, fintanto che rimane impossibile agire organizzare collettivamente la possibilità di passare dalla parola all'azione. Oggi i vincoli sono planetari, globalizzati, mentre l'azione rimane locale, parcellizzata. I poteri responsabili di tale situazione sono fuori dalla portata di tutte le modalità inventate dalla democrazia ormai da due secoli. Come sostiene Manuel Castells, il potere globale, o extraterritoriale «scorre» e «si espande» in tutta libertà, mentre la politica, rinchiusa oggi come ieri all'interno degli Stati-nazione, rimane inchiodata al suolo.

Si tratta in effetti di un circolo vizioso. La globalizzazione delle reti del potere sembrano contribuire, forse addirittura cospirare, alla privatizzazione della vita politica. Da un lato, la globalizzazione mina la capacità delle istituzioni politiche stabilite di agire in maniera efficace; dall'altro, il ritrarsi da parte della vita politica verso delle preoccupazioni di identità personale impedisce che si cristallizzi un'azione collettiva allo stesso livello di globalità. Tutto sembra congiurare per realizzare sia la globalizzazione delle condizioni di vita che l'atomizzazione o la privatizzazione delle lotte per la vita. È sullo sfondo di un'impostazione simile che le preoccupazioni identitarie vanno esaminate per essere comprese.

Come notato da Ulrich Beck, non esistono soluzioni biografiche alle contraddizioni sistemiche, benché sia a partire da tali soluzioni che siamo spinti ad immaginare o a costruire. Non ci potrà essere alcuna risposta razionale alla precarizzazione galoppante fintanto che una tale risposta rimane confinata all'azione individuale; in ogni caso, il carattere irrazionale di simili risposte è ineluttabile. Come ha detto Christopher Lasch, «non avendo alcuna speranza di migliorare la loro vita nei domini che gli competono, le persone si sono lasciate convincere che ciò che conta sarebbe il loro perfezionamento fisico e psichico: avvicinarsi alle proprie sensazioni, mangiare cibi sani, prendere lezioni di ballo o di danza del ventre, immergersi nella saggezza dell'Oriente, praticare jogging, imparare a "comunicare", vincere la "paura del piacere". Sebbene offensive in quanto tale, queste pratiche, elevate al rango di programma e drappeggiate con la retorica dell'autenticità e della presa di coscienza, segnano un distacco dal mondo della politica» [*11].

Esiste una gamma crescente di «passatempo» che sono altrettanti succedanei delle cose che contano, ma che non si possono più controllare. La pratica, che divora tempo ed energia, che consiste nel montare, smontare e riorganizzare l'auto-identità, è uno di questi formidabili sostituti. Quest'attività viene condotta in delle condizioni particolarmente poco sicure: gli obiettivi dell'azione sono tanto precari quanto incerti sono i loro oggetti, gli sforzi assai spesso portano ad un sentimento di frustrazione poiché la paura del fallimento finale avvelena la gioia dei successi temporanei. Non sorprende affatto che la dissoluzione delle paure personali nel «potere del numero», vero o presunto, che permette di renderle impercettibili nel frastuono della folla, sia una tentazione costante nei confronti della quale un gran numero di «costruttori di identità» trova difficile resistere. È la tentazione di fare come se la similarità delle paure vissute individualmente costituisse una comunità.

Come ha osservato Eric Hobsbawm, «la parola "comunità" non è mai stata utilizzata in maniera così indifferente e vuota come è avvenuto nel periodo delle comunità, nel senso sociologico del termine» [*12]. «Gli uomini e le donne», spiega, «cercano dei gruppi cui poter appartenere, sicuramente e per sempre, in un mondo in cui tutto si muove e cambia, in cui tutto il resto è incerto» [*13]. Jack Young ribadisce succintamente questo punto di vista: «Anche se la comunità crolla, l'identità viene inventata», dice. L'attenzione che le si rivolge, così come le passioni che genera, l'identità lo deve al fatto che essa è un succedaneo della comunità, di questa sedicente «casa naturale» che non esiste più in un contesto di globalizzazione talmente onnipresente e sfrenato. Pertanto, il paradosso è che, per svolgere il suo ruolo guaritore, l'identità è tenuta a negare il fatto che essa non sarebbe altro che un succedaneo e, soprattutto, è tenuta ad evocare il fantasma di questa stessa comunità il cui decesso rende la sua sostituzione tanto desiderabile quanto possibile. L'identità spinge verso il cimitero delle comunità, ma fiorisce grazie alla sua promessa di risuscitare i morti.

L'«epoca dell'identità» è piena di rumore e di furore. La ricerca di identità divide e separa. La precarietà della creazione solitaria incoraggia i creatori a sia a ricercare dei ganci cui possano appendere le loro paure e le loro angosce individuali che compiere dei riti di esorcismo in compagnia di individui spaventati ed ansiosi quanto lo sono loro. Non è affatto certo che simili «comunità-ganci» forniscano di fatto la garanzia collettiva che ci si aspetta da esse contro i rischi individuali; ma erigere una barricata in compagnia di altri individui permette una breve tregua alla solitudine. Efficace o meno, una qualche scelta è stata compiuta, e alla fine ci si può consolare con l'idea che si è combattuto. Come ha detto a giusto titolo Jonathan Friedman, nella nostra epoca di globalizzazione «le frontiere non spariscono affatto; al contrario, sembrano comparire ad ogni angolo di strada di ogni quartiere degradato del nostro mondo» [*15].

Queste frontiere non hanno la funzione di separare e proteggere le identità già stabilite. Come ha spiegato il famoso antropologo norvegese Frederik Barth, è esattamente il contrario quel che avviene: le identità «comunitarie» derivano dalle tracce febbrili delle frontiere. Possiamo dire, dopo Ernest Renan, che la comunità, come la nazione, vive sulla modalità del plebiscito quotidiano. Ma una volta che i posti di frontiera sono stati piantati, la data troppo recente della loro origine viene accuratamente nascosta. Questo stratagemma ha come fine quello di nascondere (per citare ancora una volta Stuart Hall [*16]) ciò che l'idea di identità non segnala, «una base stabile di noi stessi, che si dispiega dall'inizio alla fine attraverso tutte le vicissitudini della Storia senza cambiamenti».

Piuttosto che parlare di identità ereditate o acquisite, sarebbe forse più appropriato, per essere onesti nei confronti della realtà della globalizzazione, parlare di identificazione: un'attività interminabile, sempre incompleta, non finita ed aperta, nella quale siamo tutti impegnati, giorno dopo giorno, tanto per necessità quanto per scelta. Ci sono poche possibilità che le tensioni, gli scontri ed i conflitti che tale attività produce, cessino. La ricerca spasmodica di identità non è una reliquia dell'epoca della pre-globalizzazione, questa ricerca è, al contrario, un effetto secondario e derivato della combinazione di globalizzazione e di pressioni individuali, e di tensioni che questa combinazione produce. Le guerre di identificazione non sono in controtendenza rispetto alla globalizzazione: ne sono il frutto legittimo e la compagnia naturale. Lungi dal fermarla, ne oliano gli ingranaggi.

Note

[*] - « Identité et mondialisation » est le texte de la conférence prononcée par Z. Bauman le 7 mai 2000, dans le cadre de l’Université de tous les savoirs. Une partie en a été publiée par Le Monde le 23 mai 2000.

[*1] - S. Hall, « Who needs “identity” ? », in S. Hall, P. du Gay (éd.), Questions of Cultural Identity, London, Sage, 1996, p. 1.

[*2] - A. Husher, Journey through Dread, Devin-Adair, 1955, p. 80.

[*3] - V. Vycinas, Earth and Gods, The Hague, Martinus Nijhoff, 1969, p. 36-37.

[*4] - A. Peyrefitte, La Société de confiance : essai sur les origines du développement, Paris, Odile Jacob, 1998, p. 514-516.

[*5] - S. Davies, Renaissance View of Man, Manchester UP, 1978, p. 62.

[*6] - J.-J. Rousseau, Premier et Second Discours.

[*7] - D. Cohen, Richesse du monde, pauvreté des nations, Paris, Flammarion, 1997, p. 84.

[*8] - E.H. Erikson, Identity : Youth and Crisis, London, Faber and Faber, 1974, p. 17-19.

[*9] - C. Lasch, The Minimal Self : Psychic Survival in Troubled Times, London, PAN Books, 1984, p. 38.

[*10] - P. Bourdieu, « La précarité est aujourd’hui partout », in Contre-feux, Paris, Liber-Raisons d’agir, 1998, p. 96-97.

[*11] - C. Lasch, Culture of Narcissism, New York, Warner Books, 1979, p. 29-30.

[*12] - E. Hobsbawm, The Age of Extremes, London, Michael Joseph, 1994, p. 428.

[*13] - E. Hobsbawn, « The Cult of Identity Politics », in New Left Review, n° 217, 1996, p. 40.

[*14] - J. Young, The Exclusive Society, London, Sage, 1999, p. 164.

[*15] - J. Friedman, « The Hybridization of Roots and the Abhorrence of the Bush », in M. Feartherstone, S. Lash (eds.), Spaces of Culture, London, Sage, 1999, p. 241.

[*16] - S. Hall, « Who needs “identity” ? », art. cit., p. 3.

- Bauman Zygmunt, « Identité et mondialisation », pubblicato su Lignes, 3/2001 (n° 6), p. 10-27 -

fonte: Lignes

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