domenica 13 novembre 2016

Lo spettacolo di “quelli che si alzano presto”…

spettacolo

La critica radicale del lavoro, e la sua incompatibilità strutturale con il principio spettacolare
- di Benoit Bohy-Bunel -

I. La legittimità teorica e pratica della critica radicale del lavoro

   Nella filosofia di Hegel (dialettica del padrone e del servo), nella filosofia kantiana (Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolita), e più tardi nella filosofia arendtiana (La crisi della cultura, Condizione dell'uomo moderno), per citare soltanto i tre contributi più importanti nella filosofia moderna del lavoro, il concetto di "lavoro" viene confuso con un puro e semplice "metabolismo con la natura", vale a dire: con l'atto di trasformare il materiale grezzo presente nella natura al fine di sopravvivere.
   Ora, questa essenzializzazione della categoria del lavoro, definita pertanto come categoria "trans-storica", si ritrova innanzitutto nei discorsi ideologici degli economisti "borghesi", che hanno tutto l'interesse a naturalizzare le forme strutturanti il sistema capitalistico, per mantenere il pregiudizio secondo cui tale sistema sarebbe insuperabile. Infatti, nel contesto "teorico", presentare il lavoro come una dimensione "arcaica" o "originale" della vita umana "in generale", come una "attività" propria all'essere umano "in generale", come una componente originale di qualsiasi sopravvivenza umana "in generale", è un modo insidioso di presentare la  moderna società delle merci, che ha fatto di questo "lavoro" il suo principio di sintesi totalizzante, come se fosse la realizzazione logica del "destino" dell'uomo.
   Certamente, la loro illusione ha dei precedenti: oltre alle filosofie kantiane ed hegeliani, troviamo dalla loro parte, sullo sfondo, l'etica protestante del lavoro, una grande impresa teologico-politica di ontologizzazione del lavoro, ma anche e soprattutto, più a monte, il mito biblico del peccato originale che condanna l'uomo a "lavorare"; possiamo parlare anche del "lavoro" [N.d.T.: travaglio] del parto, dal punto di vista di Eva.
   Tuttavia, questa "eminente" tradizione non deve spaventarci: infatti, il lavoro, o piuttosto, l'idea astratta del "lavoro in generale", che condiziona con effetti concreti nella realtà della produzione capitalista, è storicamente determinata, e non può rivendicare lo statuto di struttura universale ed astorica. La categoria di lavoro "tout court", di lavoro "sans phrase", è: contingente, relativa, propria ad una modernità corrente, e dev'essere superata, e abolita, quanto meno nella misura in cui induce sistematicamente un'alienazione che reifica e mutila la vita e la coscienza umana qualitativa.
   Mostriamo questo brevemente.
Attraverso la critica marxiana del valore (I sezione del Capitale, Libro I), diviene evidente che la merce, il bene o il servizio merce, si disaccoppia in due dimensioni che sono associate alla medesima realtà (l'accumulazione capitalista), ma che è possibile separare per mezzo dell'astrazione: la merce è, da una parte, valore d'uso, concreto, e possiede, in quanto cosa materiale, un'utilità concreta nella vita quotidiana, ed è, dall'altra parte, valore, astratto, e contiene, idealmente, in maniera non materiale, la sostanza comune alle merci che le rende commensurabili, e a partire da questo, scambiabili fra di loro. Una tale dualità nel modo di vedere i prodotti del lavoro implica un'altra dualità, che concerne il lavoro stesso: la merce come valore d'uso viene prodotta dal lavoro concreto, dal lavoro particolare ed individuale, che si riferisce ad un'attività qualitativa determinata, con i suoi gesti ed i suoi compiti specifici, e il fatto che la merce possegga un "valore", in senso economico, dipende dalla capacità del lavoro di essere reso astratto, di diventare una mera durata quantitativamente determinata, deprivata di ogni qualità e specificità; si parla di "tempo di lavoro socialmente necessario", o di standard medio di produttività, che si trova quindi, come norma ideale, ad essere la fonte del "valore" della merce dei beni e dei servizi. Abbiamo quindi un'opposizione interna allo stesso lavoro produttore di merci, in quanto esso si disaccoppia in lavoro concreto ed in lavoro astratto, un'opposizione che deriva da un'altra opposizione primordiale: l'opposizione fra valore d'uso e "valore" (economico) delle merci.
   Nella società di mercato, la finalità della cosiddetta "produzione", verrà imposta dai capitalisti, che mirano innanzitutto a dei "profitti", mirano innanzitutto alla conservazione del "valore" nella circolazione, attraverso il suo aumento (D-M-D'): il salario perciò non sarà ciò che determina le finalità produttive, in quanto si tratta di un "male necessario", di un "puro mezzo", in seno a questo processo di valorizzazione, ed il consumatore sarà solo l'ultimo anello, totalmente passivo, della catena di questo processo e che si accontenta solamente di quello che gli viene "reso disponibile". Questa finalità astratta e feticizzata, quindi, questo spettacolo del valore, "che non tramonta mai, sull'impero della passività moderna", non è la creazione cosciente e controllata di beni d'uso che posseggono una qualità o una "virtù" sociale relae, ma piuttosto, l'accumulazione di un tempo di lavoro quantitativamente determinato, di un "lavoro astratto", la cui manifestazione materiale, tangibile e mondana, è: il denaro.
   Una tale accumulazione è resa possibile dal fatto che esiste un "fattore di produzione", una "merce", "eminente", che rende possibile l'aumento del "valore" economico nel processo stesso della circolazione: precisamente, la forza lavoro. Infatti, il plusvalore, o survalore, esiste solo nella misura in cui il lavoro vivente, che attualizza questa forza lavoro, viene sfruttato: l'individuo che lavora riceve una quantità di valori (un salario) che gli permetta di "riprodurre" la sua forza lavoro, di sopravvivere per lavorare, ma egli stesso produce, per il capitalista, più "valore" di quanto ne riceve.
   Quindi il profitto significa il furto, in senso stretto, o la gratuità imposta, di una determinata porzione del tempo di lavoro salariato.

   Riassumendo, il sistema capitalista inventa, costruisce, appoggiandosi ad un'antropologia teologico-politica moderna (protestantesimo), la categoria di un lavoro "in generale", del lavoro "tout court", nella misura in cui ha bisogno di una determinazione astratta del lavoro, non solo per rendere scambiabile fra di loro le merci prodotte (mezzo della valorizzazione), ma anche e soprattutto perché ciò che viene accumulato, nel suo aumento costante, che dà un senso allo sfruttamento in quanto tale, è il lavoro astratto (fine ultimo della produzione).
   Di fatto, senza lavoro astratto "in generale", senza lavoro "tout court", non si dà nessun "valore" economico, lo si capisce facilmente: in quanto è il lavoro, come norma ideale che si materializza, a rendere pensabile e possibile l'accumulazione del valore, del capitale, e la determinazione del "profitto".
   Esaminiamo brevemente i sistemi precapitalisti, schiavisti o feudali, per mostrare, in maniera ancora più precisa, in che cosa il lavoro "tout court" è propriamente una categoria capitalista, storicamente determinata, che non esiste in quanto tale negli altri tipi di società. Nelle società precapitaliste, come mostra Marx nel capitolo I del Capitale, l'attività produttiva e riproduttiva è sociale, essa materializza degli oggetti che vengono scambiati, che posseggono un'utilità sociale, ma nella misura in cui quest'utilità è concreta e determinata, e nella misura in cui esistono dei rapporti personalizzati, concreti, fra gli agenti che dirigono la produzione e quelli che la realizzano, rapporti che perciò non confondono la specificità e la qualità particolare del compito svolto. Certo, lo scambio non è egualitario: si dirà, ovviamente, che il signore domina e sottomette, perfino "sfrutta", il servo, oppure che il padrone sottomette lo schiavo, cosa che fa sì, strutturalmente, che questi sistemi non abbiano niente di "positivo" che debba oggi essere "riabilitato". Ma la finalità delle attività produttive, nondimeno, in tali contesti, non esclude affatto le qualità ed il carattere determinato, concreto, di ciò che viene prodotto. La mediazione monetaria, ancora marginale, non strutturale, funziona come un mero mezzo, un mezzo per scambiare le merci e per fissare i loro prezzi (M-D-M), e mai come un fine in sé, dal momento che il denaro come fine in sé è proprio del capitalismo (D-M-D'), denaro teleologico appunto, per mezzo del quale il capitalismo dispiega, secondo una specificità impersonale che fondamentalmente gli appartiene, le sue categorie astratte totalizzanti e totalitarie (merce, valore, lavoro astratto).
   Nelle società precapitaliste, mai l'idea di pensare socialmente la "sintesi" di due attività così differenti - ad esempio di pensare che il fatto di fabbricare pane, da una parte, ed il fatto di comporre un brano musicale, dall'altra, per sussumerle alla fine sotto un unico e medesimo concetto, il lavoro "in generale" - mai quest'idea avrebbe potuto germogliare nella mente, né quindi produrre degli effetti reali nella produzione e nella circolazione dei beni. Per queste società, ci sono solo delle attività specifiche, concrete, utili, non commensurabili a priori fra di loro.
   Queste società precapitaliste saranno essenzialmente sintetizzate, non per mezzo della "economia", del "settore produttivo", o del "lavoro astratto, ma per mezzo di forme religiose e patriarcali arcaiche, che definiscono una complessità che oggi necessariamente ci sfugge. Retroproiettare le nostre categorie moderne su queste società premoderne, in ogni caso, si rivelerà sempre un anacronismo illegittimo, soprattutto epistemologicamente. Politicamente, coloro che operano questa retroproiezione, tendono a diffondere l'illusione secondo cui le strutture specifiche moderne del dominio sarebbero insuperabili, in quanto trans-storiche: è quindi per motivi politici che bisogna denunciare una perniciosa distorsione epistemologica che oggi prolifera un po' dappertutto (anche e soprattutto presso certi "marxisti" ortodossi che, a partire da un certo Marx "essoterico", non mettono più in discussione la loro antropologia protestante, né quindi la loro sottomissione alle valutazioni trascendentali del capitalismo in quanto tale).

   Dopo queste spiegazioni, si può maggiormente ammettere il fatto che il lavoro "in generale" non è affatto "proprio dell'uomo". In altre parole, Hegel, Kant, Arendt, il protestantesimo, il mito del peccato originale, e perfino un certo Marx "essoterico", "engelsiano" (Manifesto Comunista), o ancora giovane-hegeliano (I manoscritti del 1844), che tendono ad essenzializzare "il" lavoro, in effetti non fanno riferimento al lavoro propriamente detto, che emerge specificamente in seno alla modernità capitalista, ma si riferiscono piuttosto alla creazione umana di condizioni della vita umana, che a priori rimane plurale, specifica, concreta, eterogenea, e qualitativa, e che può essere ridotta ad unità intellegibile concettuale ed astratta solamente in maniera mutilante, riduttrice, menzognera, e alla fine alienante.
   Si intende comunque, già, formulare una certa "obiezione": il concetto di "lavoro" e la sua realtà stessa, si potrebbe dire, si iscriverebbe ib una tradizione millenaria; sarebbe in effetti associato, etimologicamente, al tripalium latino, strumento romano di tortura costituito da tre pali. Ma questo modo cosiddetto "originale" di prendere in considerazione il suddetto "lavoro" non assume ancora il concetto di "lavoro in generale", di "lavoro tout court", definito come progetto sintetico e totale, materiale ed astratto, di società, ed è questo concetto di cui si è detto che è storicamente determinato, propriamente moderno, contingente, e quindi superabile, di fatto come di diritto.
   In altre parole, il capitalismo conferisce al tripalium romano la sua consacrazione a posteriori, lo assume nella sua potenzialità più propria: quella di rappresentare un puro dispendio di energia indifferenziata, la cui sola caratteristica concreta è il dolore, l'umiliazione, la disumanizzazione, e la sottomissione continua a dei feticci non umani, o ai loro gestori inconsapevoli ed incoerenti.

II. Il carattere inaudibile della critica radicale del lavoro in seno allo spettacolo.

   A priori, la critica radicale del lavoro non è formula da dei "terroristi" assetati di sangue, né da degli utopisti del tutto incoerenti. Si tratta di una critica fondata teoricamente (I sezione del Capitale) ed eticamente (critica della miseria, dell'alienazione e dello sfruttamento, a livello globale, che si impegna in forme di resistenza non letali, come il sabotaggio, l'occupazione, il blocco, lo sciopero generale a tempo indeterminato o la smobilitazione sul posto di lavoro).
   Ma il suo sviluppo, complesso, richiede forse troppo tempo ed ascolto attivo, troppa riflessione e la messa in discussione di un'ortodossia politicamente ammessa, per inserirsi in degli organi di diffusione mediatica di massa.
   Alcuni cosiddetti "marxisti", o critici del "neoliberismo", a sinistra o all'estrema sinistra, dell'NPA, di Lutte ouvrière, del PCF, o del Front de gauche, di Podemos o di Syriza, keynesiani, trotzkisti, maoisti, leninisti, o stalinisti, se accedono alla diffusione mediatica di massa (e questo non mai troppo difficile per loro), non mettono mai in discussione l'idea secondo cui il "lavoro" in quanto tale è un dato insuperabile: vorrebbero riformare radicalmente le condizioni lavorative, oppure collettivizzare i mezzi di lavoro (chiamano questo "rivoluzione", o "Grande Serata"), ma non mettono mai in discussione il loro debito inconsapevole nei confronti dell'ontologia protestante o borghese (il "lavorismo", il "biologismo", o il "produttivismo"). Il Marx della "Critica del programma di Gotha" confuterà radicalmente la loro concezione formale-borghese di "retribuzione" "egualitaria", ma loro non se ne preoccupano: il nome di Marx è solo uno "scudo" per loro, un "significante" ricondotto alla semplicità fàtica, e non la fedeltà ad un testo complesso che è d'altronde, a margine della storia, assai più che un unico testo isolato. "Gli oziosi se ne andranno altrove", potranno affermare, eventualmente lusingando, in maniera paternalista, quella "Francia che si alza presto» (un populismo che non si nega neanche Sarkozy).
   Questo lavorismo, o quest'idea di lavoro "da difendere" (e soprattutto da non abolire), è evidentemente l'ideologia dominante, allo stesso modo, nelle sfere neoliberiste, o social-liberali, "repubblicani" o fascisti, dal PS al FN, passando per i "Repubblicani".
   Un consenso non tematizzato, che attraversa tutto il campo politico, dall'estrema destra fino all'estrema sinistra, si afferma quindi in questo spettacolo della politica che fa politica, che detiene il monopolio della "critica" e dell'analisi "economica" e "sociale". Questo consenso è quindi questo "lavorismo, nel senso categoriale del termine, ossia l'idea che il capitalismo in quanto tale, fondamentalmente compreso, non dovrà mai essere messo in discussione nella sua essenza, dal momento che sarebbe eterno, e quindi insuperabile.
   Oggi, chiunque critichi radicalmente il lavoro "tout court" passa spesso per un puro e semplice idiota, che non tiene affatto conto delle necessità elementari legate alla sopravvivenza umana o alla condizione umana. E sarebbe un discorso assurdo in senso stretto. Ma non è lui ad aver torto, tuttavia, anche se dovrà essere il più chiaro possibile. Si tratta piuttosto del successo di un progetto di società totale, che ha saputo ridurre tutte le attività "sociali" in generale ad un'unica determinazione astratta ("il" "lavoro"), nella quale la critica "anti-lavoro" è screditata a priori, non solo dai suoi avversari "liberali", ma anche da certi altri "anti-capitalisti" che dovrebbero essere "alleati" ("marxisti", "collettivisti", "anarchici" che promuovono l'autogestione delle "merci" da parte dei "lavoratori", ecc.).
  
Contro queste semplificazioni abusive, bisogna ricordare le basi:

1) La critica del lavoro non sostiene, seguendo Lafargue, in maniera semplicistica ed ingenua, un "diritto alla pigrizia" generalizzato. Al contrario, considera che la vera pigrizia, sofferta e riduttiva, sta nella specializzazione sempre più spinta indotta dalla categoria del lavoro "tout court", poiché l'individuo "al lavoro", parcellizzato e dislocato, oggettivamente e soggettivamente, svilupperà, ossessivamente, solo una della sue potenzialità soggettive, a detrimento di tutte le altre (creative, teoriche, pragmatiche, ecc.) Una società non più regolata dall'astrazione del "lavoro tout court" permetterà a ciascun individuo un pieno sviluppo nella sua attività che sarà socialmente virtuosa, un'attività che non creerà più una "rottura" qualitativa in rapporto agli altri tempi della vita (studio, creazione, amicizia, ecc.), e che non escluderà più uno sviluppo delle molteplici potenzialità, una completa realizzazione di sé.

2) La critica del lavoro non mira ad un mondo post-capitalista che sarebbe "governato" da delle tecnologie che farebbero "tutto al posto nostro". L'abolizione rigorosa del diritto formale che garantisce una proprietà privata che renderebbe possibile lo sfruttamento, e che quindi suppone la determinazione di un lavoro astratto in quanto "valore" economico, induce un rapporto radicalmente modificato con gli strumenti tecnici, che non è più passivo o contemplativo, ma attivo e partecipe. Questo coinvolgimento determina un'attenzione nuova per quanto riguarda la creazione materiale, e perfino tecnica, delle condizioni di vita, che non abolisce l'operare in quanto tale, ma che ne abolisce il carattere costrittivo e reificante, spossessante, in quanto tale.

3) La critica del lavoro non abolisce gli sforzi umani qualitativamente determinati, ma abolisce "lo sforzo in sé", come "valore" negativo e astratto, come zona di non-vita, di miseria, e di soppressione della vita all'interno della vita.

4) La critica del lavoro mira ad un mondo dove non c'è più la dimensione indifferenziata, astratta, non specifica, delle attività umane, che vengono socialmente valorizzate, ma dove è la loro dimensione qualitativa e concreta quella che conta, che importa. Per un capitalista, che vuole semplicemente una quantità astratta di "tempo di lavoro", la distinzione per esempio fra una bomba ed un libro non ha senso se non secondo questo punto di vista quantitativo e disincarnato; questo capitalista non considera per un solo secondo il fatto che la prima, come valore d'uso, distrugge concretamente il mondo e gli esseri viventi, laddove la seconda arricchisce potenzialmente, in quanto bene reale, le soggettività. Criticare il lavoro come astrazione, significa criticare, in senso stretto, una cecità radicale, dentro le nostre società di mercato, nei confronti della dimensione concreta e reale delle ricchezze sociali.

5) La critica del lavoro mira ad un'uguaglianza reale e ad un'emancipazione reale. Gli strumenti tecnici, anche trasformati, non permettono mai agli individui di liberarsi dalla miseria, e non permetteranno mai di abolire le ineguaglianze reali riguardo all'accesso alle risorse di base, in quanto il valore "economico", che regola e rende possibile la produzione in senso capitalista, ha come sostanza il valore astratto. In quanto è per mezzo di questa sostanza, o norma ideale materializzata, che lo sfruttamento diventa assolutamente necessario, e che la precarietà che l'accompagna si sviluppi. L'abolizione del lavoro astratto, che significa anche l'abolizione di un principio giuridico-formale totalitario, potrebbe permettere agli esseri umani di beneficiare di una trasformazione radicale degli strumenti tecnici, di modo che questi non dominino più gli individui al fine di dislocarli e dividerli, ma in modo che possano maggiormente emanciparsi nei confronti di un'attività impegnativa, quale che sia.

Questi argomenti non sono, di per sé, completamente astrusi o del tutto "eccessivi": non è affatto "eccessivo" voler far cessare, ad esempio, il fatto che si mettano sullo stesso piano degli strumenti di distruzione e dei potenziali strumenti di emancipazione, per abolire i primi. Ma sviluppare questi argomenti in un sistema spettacolare in cui la politica politicante vanifica ogni critica alla radice del "progetto" che essa sostiene, è del tutto impensabile.
La legittimità teorica e pratica di una critica radicale del capitalismo, ed il carattere inaudibile di questa critica nello spettacolo, nel quale spettacolo tuttavia sembra che debba manifestarsi ogni "messaggio" che si vuole diffondere in maniera "efficiente", appare annunciare una tensione.
Ma tale tensione è solamente apparente. In realtà, non è mai auspicabile inscrivere questi procedimenti radicali nello spettacolare integrante ed integrato, che lo volge a suo vantaggio. E questo isolamento può essere anche un modo strategico di avanzare "mascherato". Nei margini, nelle pieghe dello spettacolo (media di lotta su Internet, squats, assemblee generale popolari, ecc.), si annunciano forse altre forze critiche. Affinché non diventino delle forme avanguardistiche, questa pratiche di resistenza, forse devono saper dispiegare delle azioni sociali molto differenziate, per insinuarsi gradualmente (accoglienza dei migranti, femminismo materialista, sindacalismo rivoluzionario, consialirismo, situazionismo, sabotaggio puntuale e discreto, ecc.).
In un contesto in cui la categoria del "lavoro", come progetto materiale, produce dei suicidi sempre più frequenti, crolli nervosi, disuguaglianze sempre più oltraggiose, leggi sempre più scandalose  (legge El Khomri in Francia, legge Hartz tedesca, Jobs act italiano, legge Peeters belga, ecc.), disoccupazione di massa, miseria sempre più evidente, forme di esclusione, razzismo, discriminazioni patriarcali sempre più abiette, disastri ecologici irreversibili, non dovrebbe essere troppo difficile radicalizzare l'orizzonte della critica. Ma questa radicalizzazione, purtroppo, rimane difficile, nei fatti, in quanto i discorsi conservatori ed ideologici, cortine fumogene, sono quello che rimane più massicciamente "visibile".
   La questione della diffusione rimane quindi una questione etica e strategica elementare, nel contesto della lotta anticapitalista che si confronta sistematicamente con la realtà dello spettacolare in quanto tale.

- Benoit Bohy-Bunel - Pubblicato il 21 ottobre 2016  su benoitbohybunel

fonte:  Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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