martedì 22 novembre 2016

La Repubblica della Sofferenza

jones

« Nel mondo in cui è nato Newton Knight, l'onore di un uomo si misura sul numero di schiavi di sua proprietà. Suo nonno Jackie è uno degli uomini più onorevoli del Mississippi, a metà dell'Ottocento. Nel mondo di Newton Knight, i neri devono stare al loro posto e non alzare mai la testa. Non sono permessi matrimoni misti, ma nulla vieta al padrone bianco di approfittare delle sue schiave.
Ci vuole uno spirito molto ribelle per non adeguarsi a quello che è considerato l'ordine naturale delle cose. E prima di diventare un fuorilegge a capo di una banda di disertori, Newton Knight è stato un ribelle. Non ha simpatia per la schiavitù, né per le ingiustizie. E ha capito che le barriere tra bianchi e neri non sono così rigide. E si possono spezzare. Amando Rachel, per esempio, una delle schiave del nonno.
Allo scoppio della guerra di Secessione, Newton decide di ribellarsi alle violenze dell'esercito confederato, a cui appartiene, e di disertare. Altri uomini si uniscono a lui e, con il sostegno di schiavi e di bianchi antischiavisti, Newton dichiara la contea di Jones indipendente e dà inizio alla prima comunità mista del Mississippi.
Nel momento di maggiore divisione dell'America, mentre intorno infuria una sanguinosa guerra civile, nella contea di Jones uomini e donne, bianchi e neri, combatteranno insieme per la libertà e la giustizia. »

(dal risvolto di copertina di: "Free State of Jones", di Victoria Bynum, Piemme, euro 18,50)


La secessione della secessione
- I «negri bianchi» contro il Sud -
- di Tiziano Bonazzi -

Nel 1913 a Gettysburg, per il cinquantesimo della battaglia, all’incontro pacificatore fra ex combattenti unionisti e confederati, il presidente Woodrow Wilson nel suo intervento ufficiale neppure menzionò la schiavitù, né il famoso discorso del 1863 in cui Abraham Lincoln, proprio a Gettysburg, aveva parlato della guerra contro il Sud come di una necessità intesa a evitare che una nazione nata nel nome del diritto naturale all’uguaglianza scomparisse dalla Terra.
Wilson, invece, fece della battaglia il simbolo del valore militare che aveva unito le parti in un comune americanismo: il sangue di Gettysburg come patto nazionale.
Wilson è uno dei grandi presidenti progressisti; ma la sua interpretazione di Gettysburg è tutta interna alla lettura che si dava allora della Guerra civile: una frattura che era servita da levatrice a una vera unità nazionale—bianca. A riprova, nessun ex combattente afroamericano assistette alla cerimonia, anche se in 200 mila si erano arruolati nelle file unioniste. La «patriottica» interpretazione wilsoniana della Guerra civile si accompagnava al mito sudista della Lost Cause, la «causa perduta», secondo il quale la guerra aveva portato alla tragica distruzione di una civiltà superiore, romantica, cavalleresca, cristiana, travolta dall’inferiore, utilitaristica, materialista cultura del Nord. Quanto alla schiavitù, essa era il frutto del benevolo paternalismo bianco verso una «razza bambina», che la accettava mostrando amore filiale per i padroni. Tuttavia fu il Nord a dar forma agli Stati Uniti postbellici e a portarli alla loro ascesa mondiale; ma anche il Nord non credeva all’uguaglianza razziale e a fine Ottocento accettò la segregazione nel Sud.

Da allora, in America e non solo, la Guerra civile è diventata soprattutto un epos, una moderna Iliade in cui nordisti e sudisti si batterono da eroi come greci e troiani, davanti alla quale è facile sentirsi troiani e piangere la morte di Ettore. Si può anche piangere Ettore e vedere nella sconfitta del Sud il passaggio obbligato verso la modernità e il progresso. È il messaggio che Hollywood ci ha trasmesso in innumerevoli film e che serve all’idea di una storia americana in cui ogni tragedia è un passo in avanti: la storia unilineare di un popolo unito anche quando diviso, di una molteplicità che si ritrova sempre in un progetto eterno.
Da alcuni decenni, tuttavia, non è più questa l’interpretazione degli storici che stanno rileggendo la Guerra civile, al pari di tutta la storia statunitense, in chiave di razza, genere e classe. Corretto — quando le basi di ricerca sono solide e in questo caso lo sono —, in quanto la storia, non diciamo niente di nuovo, appartiene al presente e sulla Guerra civile si lotta perché vi si intravvede il senso dell’America.
Oggi la storiografia lo cerca scavando nella storia delle donne, degli afroamericani liberi e schiavi, dei soldati e nelle tante distruzioni materiali e  psicologiche. Ne risulta una «repubblica della sofferenza», per citare il titolo di un libro recente. Una storia di patimenti orribili dei soldati — due terzi dei militari periti morirono di malattie e privazioni, solo un terzo in battaglia —, di diserzioni, molte, di proteste violente di donne affamate e insicure a Sud, di operai sottopagati a Nord, di faide fra famiglie di idee opposte. Non è l’epos dell’eroico popolo wilsoniano, pur se vi furono molto eroismo e dedizione alla causa, perché né greci, né troiani erano compatti dietro alle loro bandiere.
Troia, il Sud, non era la felice repubblica che lottava unita per la libertà. Il localismo, almeno quanto il nazionalismo sudista, animava i soldati, per molti era il timore della fine delle loro comunità a farli combattere e con esso quello del tramonto di un modo di vita il cui collante erano il dominio patriarcale e la schiavitù — anche per la maggioranza che non aveva schiavi, ma che nell’essere bianco, capofamiglia e cittadino vedeva il nocciolo duro dell’uguaglianza e della libertà. Là dove gli schiavi erano pochi questa identità era più debole e la Confederazione poco amata, tanto che la parte occidentale della Virginia fece una secessione nella secessione e diede vita allo Stato del West Virginia, che rimase nordista. Nelle parti montagnose della Georgia e del Mississippi occorsero le truppe per schiacciare o almeno limitare l’opposizione, anche armata, alla Confederazione. Il Sud non era compatto e così il Nord, nel quale rimasero quattro Stati schiavisti (!), in due dei quali i tanti favorevoli alla Confederazione, diedero vita a sanguinose guerriglie e faide. La Guerra civile non avvenne fra nitide schiere di greci e troiani; ma fu ovunque, confusa e anche ambigua.

Nel profondo Sud, fra le paludi e i pini della contea di Jones in Mississippi, un gruppo di disertori dell’esercito confederato diede vita nel 1863 a una sorta di territorio libero, a volte chiamato «Stato libero di Jones», e combatté un’aspra guerriglia contro la cavalleria confederata che lo braccava.
Arruolati quasi a forza, questi ribelli non volevano combattere una guerra che ritenevano voluta dai ricchi e dai potenti.
Il loro leader, Newt Knight, violò anche il primo tabù sudista, sposando in seconde nozze una ex schiava nera, Rachel, da cui ebbe figli. Lo stesso fecero altri suoi figli bianchi. Nacque così una comunità di «negri bianchi», biracial dalle fattezze europee, che proseguì fino al New Deal.
Ne racconta l’intricata storia Victoria E. Bynum in Free State of Jones, un libro del 2001, ora tradotto in Italia da Piemme, in parte servito per la sceneggiatura del film Free State of Jones che esce nelle sale italiane il 1° dicembre. Un libro significativo, ma molto faticoso, intricato e minuzioso com’è, che traccia la vicenda dei ribelli fin dai loro antenati che si batterono contro i piantatori nelle rivolte settecentesche in Carolina del Nord. Microstorie di pionieri, sempre nemici del potere, nelle quali al successo di alcuni che, stabilitisi in Mississippi, riuscirono a diventare proprietari di qualche schiavo, si contrappone l’insuccesso e la povertà di altri, ma anche il rifiuto di altri ancora, cristiani battisti radicali, di possedere schiavi.
Un angolo del Sud in cui l’ancestrale avversione ai potenti e al governo si intreccia a fortune e visioni del mondo contrapposte delle quali furono partecipi donne che uscirono dai ruoli femminili, che senza uomini ressero con tenacia le loro fattorie e crearono e mantennero il supporto necessario alla sopravvivenza dello «Stato libero». Nonostante battaglie, impiccagioni, fattorie incendiate, l’esercito non piegò i ribelli, cresciuti fino a circa 600, che anche dopo la guerra continuarono a dominare la contea di Jones, bianchi, «negri bianchi» e neri liberi. Un episodio marginale, ma rappresentativo di un conflitto perturbante al punto da essere oggetto necessario della continua ricerca del senso dell’America attraverso la sua storia, che è contraddittoria ed erratica, non composta e univoca come la si vorrebbe, una freccia verso l’avvenire. Ettore non è morto, perché non è mai esistito.

- Tiziano Bonazzi - Pubblicato sul Il Corriere/La lettura del 20 Novembre 2016 -

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