lunedì 21 novembre 2016

Diritto di polizia

polizia

Polizia Sovrana
- di Giorgio Agamben -

Una delle lezioni meno equivoche della guerra del Golfo è il definitivo ingresso della sovranità nella figura della polizia. La disinvoltura, con cui l’esercizio di uno ius belli particolarmente devastante ha assunto qui la veste, in apparenza dimessa, di un’«operazione di polizia», non va presa (com’è stato fatto da critici giustamente indignati) come una cinica finzione. La caratteristica forse più spettacolare di questa guerra è che le ragioni che sono state avanzate per giustificarla non possono essere accantonate come sovrastrutture ideologiche destinate a coprire un disegno nascosto: al contrario, l’ideologia è, nel frattempo, così profondamente penetrata nella realtà, che le ragioni dichiarate (in particolare quelle che concernono l’idea di un nuovo ordine mondiale) sono da prendere rigorosamente alla lettera. Ciò non significa, però, come giuristi improvvisati e apologeti in mala fede hanno cercato di far valere, che la guerra del Golfo abbia significato una salutare limitazione delle sovranità statuali, piegate a servire da poliziotto in favore di un organismo sovranazionale.

Il fatto è che la polizia, contrariamente all’opinione comune che vede in essa una funzione meramente amministrativa di esecuzione del diritto, è forse il luogo in cui si mostra a nudo con maggior chiarezza la prossimità e quasi lo scambio costitutivo fra violenza e diritto che caratterizza la figura del sovrano. Secondo l’antico costume romano, nessuno, per nessuna ragione, poteva interporsi fra il console dotato di imperium e il littore più vicino che portava l’ascia sacrificale (con cui si eseguivano le sentenze di pena capitale). Questa contiguità non è casuale. Se il sovrano è, infatti, colui che, proclamando lo stato di eccezione e sospendendo la validità della legge, segna il punto di indistinzione fra violenza e diritto, la polizia si muove sempre, per cosi dire, in un simile «stato di eccezione». Le ragioni di «ordine pubblico» e di «sicurezza», di cui essa si trova in ogni singolo caso a dover decidere, configurano una zona di indistinzione fra violenza e diritto esattamente simmetrica a quella della sovranità. A ragione Benjamin osservava che l’affermazione che gli scopi del potere di polizia siano sempre identici o anche solo connessi a quelli del rimanente diritto, è profondamente falsa. Anzi il «diritto» di polizia segna proprio il punto in cui lo Stato, vuoi per impotenza, vuoi per le connessioni immanenti di ogni ordinamento giuridico, non è più in grado di garantirsi, attraverso l'ordinamento giuridico, gli scopi empirici che intende raggiungere a ogni costo.

Di qui l’esibizione delle armi che caratterizza in ogni tempo la polizia. Decisiva non è tanto qui la minaccia a chi trasgredisce il diritto (l’esibizione avviene, infatti, nei più pacifici luoghi pubblici e, in particolare, durante le cerimonie ufficiali), quanto l’esposizione di quella violenza sovrana di cui era testimonianza la prossimità fisica fra console e littore.

Questa imbarazzante contiguità fra sovranità e funzione di polizia si esprime nel carattere di intangibile sacralità che, negli antichi ordinamenti, accomuna la figura del sovrano e quella del boia. Ed essa non si è forse mai mostrata con tanta evidenza quanto grazie al caso fortuito (di cui ci riferisce un cronista) che il 14 luglio del 1418 fa incontrare in una via di Parigi il Duca di Borgogna, appena entrato come conquistatore in città alla testa delle sue truppe, e il boia Coqueluche, che in quei giorni ha instancabilmente lavorato per lui: il boia coperto di sangue si avvicina al sovrano e gli prende la mano gridando «Fratello caro! » (Mon beau frère!).

L’ingresso della sovranità nella figura della polizia non ha quindi nulla di rassicurante. Ne è prova il fatto, che non cessa di sorprendere gli storici del Terzo Reich, che lo    sterminio degli ebrei fu concepito dall’inizio alla fine esclusivamente come un’operazione di polizia. E' noto che non si è mai potuto trovare un solo documento in cui il genocidio fosse attestato come decisione di un organo sovrano: l’unico documento che possediamo in proposito è il verbale della conferenza che il 20 gennaio 1942 riunì sul Grösser Wannsee un gruppo di funzionari di polizia di medio e basso rango, fra i quali spicca per noi soltanto il nome di Adolf Eichmann, capo della divisione B-4 della Quarta sezione della Gestapo. Solo perché fu concepito e attuato come un’operazione di polizia lo sterminio degli ebrei ha potuto essere così metodico e micidiale; ma, per converso, è proprio in quanto «operazione di polizia» che esso appare oggi, agli occhi dell’umanità civile, tanto più barbaro e ignominioso.

Ma l’investitura del sovrano come questurino ha un altro corollario: essa rende necessaria la criminalizzazione dell’avversario. Schmitt ha mostrato come, nel diritto pubblico europeo, il principio secondo cui par in parem non habet iurìsdictionem escludeva che i sovrani di uno Stato nemico potessero essere giudicati come criminali. La dichiarazione dello stato di guerra non implicava la sospensione di questo principio né delle convenzioni che garantivano che la guerra con un nemico cui si riconosceva pari dignità si svolgesse nel rispetto di regole precise (una delle quali era la netta distinzione fra popolazione civile ed esercito). Noi abbiamo invece visto con i nostri occhi come, seguendo un processo iniziato alla fine della prima guerra mondiale, il nemico venga prima escluso dall’umanità civile e bollato come criminale; soltanto successivamente diventa lecito annientarlo con una «operazione di polizia» che non è obbligata al rispetto di alcuna regola giuridica e può pertanto confondere, con un ritorno alle condizioni più arcaiche della belligeranza, popolazione civile e soldati, il popolo e il suo sovrano-criminale. Questo progressivo slittamento della sovranità verso le zone più oscure del diritto di polizia ha, però, almeno un aspetto positivo, che conviene qui segnalare. Ciò di cui i capi di Stato, che si sono slanciati con tanta solerzia nella criminalizzazione del nemico, non si rendono conto, è che questa criminalizzazione può ritorcersi in qualsiasi momento contro di essi. Oggi non c’è sulla terra un capo di Stato che non sia in questo senso virtualmente un criminale. Chiunque oggi vesta la triste redingote della sovranità sa di poter essere un giorno trattato come criminale dai suoi colleghi. E certamente non saremo noi a compiangerlo. Perché il sovrano, che ha acconsentito di buon grado a presentarsi in veste di sbirro e di carnefice, mostra ora alla fine la sua originaria prossimità col criminale.

- Giorgio Agamben - Polizia Sovrana. In: Mezzi senza fine. Torino: Bollati Boringhieri, 1996. pp. 83-86. -

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