giovedì 20 ottobre 2016

Polacchi e non

potocki

Una stanza d'albergo. Sebald cade nel sonno nella poltrona di velluto verde che ha trascinato davanti al televisore. Ha cercato di guardare un documentario della BBC su Roger Casement; si è addormentato. Ci troviamo nella quinta sezione de "Gli anelli di Saturno" e Sebald, facendo uso di "fonti" che non ha mai rivelato, cerca di ricostruire quello che immagina sia stato il contenuto del documentario. Invece di Casement, però, Sebald parla di Conrad; Conrad, il polacco, che all'età di 12 anni, segue il corteo funebre per il padre morto, «come la figura principale colpita dal lutto». È stato in quest'occasione, scrive Sebald, che Conrad decide di diventare "capitano". Quattro anni più tardi alla stazione di Cracovia, nel 1874, si separa dal nonno e dallo zio e dice loro addio, «passeranno sei anni prima che torni a visitare la sua terra natale, ancora sotto il giogo straniero«, scrive Sebald.

I polacchi e le loro partenze, i loro dislocamenti (uno dei libri da comodino di Montaigne era la "Storia dei re e dei principi della Polonia", di Herburt de Fulstin). Roger Caillois, nella prefazione dell'edizione francese del 1958 del "Manoscritto trovato a Saragozza" (rivista e ampliata nel 1966) commenta la vita e l'opera dell'autore, Jean/Jan Potocki (1761-1815), e la sua «singolare reputazione di essere un eccentrico e un erudito». Il Manoscritto venne scritto in francese, ci informa Caillois, così come tutto quello che ha scritto Potoki, membro di una «illustre famiglia polacca». Nel luglio del 1788, Potocki vola in mongolfiera con l'areonauta francese Blanchard. «L'intera Europa pullula di questi primi tentativi di conquistare il cielo», scrive Caillois, e continua: «Blanchard aveva aggiunto al cesto del suo aerostato una vela mobile ed un'elica verticale. Potocki ci salì insieme ad un domestico turco che lo accompagnava e ad un barboncino. Il pallone rimase in aria all'incirca per un'ora, dopo di che atterrò a Wola, non lontano da Varsavia. Un gruppo di persone arrivarono per accogliere gli aeronauti ed accompagnarli in trionfo nella capitale. Il re fece coniare dalla Zecca una medaglia commemorativa. Potocki era l'eroe del giorno».
Per scrivere il Manoscritto, Potocki parte da Boccaccio (la divisione della storia in giornate), facendo uso di elementi tratti dal romanzo gotico, dall'orientalismo di William Beckford e dalla «magia di Cazotte».
Caillois sostiene che «sotto la maschera della finzione, Potocki delinea in realtà un corso di storia comparata delle religioni» (ricordiamo che Caillois pubblica "L'uomo e il sacro" nel 1939), e conclude: «Potocki non ha rinnegato i suoi maestri. Egli è senz'altro un enciclopedista, ma è soprattutto enciclopedico».

Konrad

Esiste un'espressione comune al Sebald che scrive di Conrad e al Sebald che scrive su Potocki: i due personaggi sono stati «nelle regioni più remote del mondo» (Caillois precisa: «dal Marocco fino ai confini della Mongolia»). Caillois data al 1812 il ritiro finale di Potocki: «nevrastenico», «soggetto a frequenti esaurimenti nervosi». «In questi accessi di malinconia», scrive Caillois, «trascorre il suo tempo limando una sfera d'argento che si trova sul coperchio della sua teiera». Tre anni di questa attività, finché il 20 novembre 1815 la sfera d'argento raggiunge la dimensione desiderata e Potocki «la infila nella canna della sua pistola e si fa saltare le cervella».
Sebald commenta una relazione di Conrad/Konrad/Korzeniowski, una «storia d'amore» che «sotto alcuni aspetti sfiora il fantastico», che raggiunge il suo "culmine" nel febbraio del 1877, «quando Korzeniowski si spara al petto oppure riceve un colpo al petto sparato da un rivale». Fino ad oggi non è chiaro, continua Sebakd, «se il ferimento è il risultato di un duello, come ha affermato più tardi Korzeniowski, o se, come sospettava suo zio Tadeusz, si trattava di un tentativo di suicidio».
Sebald commenta che tale «gesto drammatico» coincide con l'immagine di un giovane che si dichiara "stendhaliano", il che ci permette di ricordare che Potocki ha commesso suicidio poco più di cinque dopo la decisiva battaglia di Waterloo (18 giugno 1815), che aveva sancito la prigionia di Napoleone da parte degli inglesi (come Roger Casement; o, per citare Borges, nella sua autobiografia: «penso sempre a Waterloo come ad una vittoria»). Il ricordo è decisivo giacché nella sua relazione, poche pagine più avanti, il narratore di Sebald va in Belgio e visita il memoriale di Waterloo - «l'apice della bruttezza belga, per me lo raggiunge il Monumento del Leone e tutto il cosiddetto memoriale storico della battaglia di Waterloo».
Poco più avanti, scrive: «Vicino a Brighton, così mi hanno raccontato, accanto alla costa, ci sono due boschetti che sono stati piantati dopo la battaglia di Waterloo, in ricordo di quella memorabile vittoria. Uno di essi ha la forma del tricorno napoleonico, l'altro la forma dello stivale di Wellington. I contorni, ovviamente, non possono essere riconosciuti dal suolo. Vale a dire, le immagini sono state concepite per i futuri aeronauti».
Come non farsi tornare alla mente il volo fatto da Potocki sul pallone di Blanchard nei dintorni di Varsavia, accompagnato dal suo domestico e dal suo barboncino, nel 1788? (oppure del volo in pallone di Robert Walser, o del volo pioneristico di Nadar, e cosi via).

Waterloo_Lion

«Conrad vuole mostrarci come la grande avventura di saccheggio di Kurtz, il viaggio di Marlow che risale il fiume, e la narrazione stessa, condividono il medesimo tema: l'europeo che svolge un'azione di dominio e di volontà imperiale in (e sulla) Africa. Quello che differenzia Conrad dagli altri scrittori coloniali contemporanei è che - per ragioni in parte legate al colonialismo che lo ha fatto diventare, lui, un espatriato polacco, un funzionario del sistema imperiale - aveva grande coscienza di ciò che faceva. Così, come la maggioranza delle sue altre storie, Cuore di Tenebra non si limita ad essere una relazione delle avventure di Marlow: è anche una drammatizzazione del narratore stesso, vecchio vagabondo delle regioni coloniali, che racconta le sue esperienze ad un pubblico di inglesi in un dato momento e in un luogo specifico.
Quel che Conrad percepisce è che il suo imperialismo, come narrazione, ha monopolizzato l'intero sistema di rappresentazione - il che, nel caso di Cuore di Tenebra, gli ha permesso di parlare non solo a nome di Kurtz ma anche per gli altri avventurieri, incluso Marlow e il suo pubblico, ma anche per gli africani. L'autocoscienza del forestiero gli può permettere di comprendere attivamente come funziona la macchina, visto che lui e la macchina non si trovano, in termini fondamentali, in perfetta sincronia, o corrispondenza. Non essendo mai stato un inglese totalmente incorporato o acculturato, Conrad in tutte le sue opere ha preservato una distanza ironica.
»
(Edward Said, Cultura e imperialismo) 

Una delle costanti che si nota è l'utilizzo della lingua francese: Caillois sottolinea che non solo il Manoscritto, ma tutta l'opera di Potocki è stata scritta in francese; Sebald cita estratti dalle lettere di Conrad alla famiglia scritti in francese; la lettura da parte di Montaigne della "Storia dei re e principi della Polonia" è nella traduzione francese. In maniera coerente con questa serie, il Corso di Filosofia in 6 ore e 15 minuti viene dettato in francese, da Witold Gombrowicz (il corso si svolse dal 27 aprile al 25 maggio del 1969 ed era rivolto ad un pubblico composto dalla moglie, Marie Rita Labrosse, che annotò le lezioni, e dal suo collaboratore degli ultimi anni, Dominique de Roux).
Nella penultima sessione, dedicata a Nietzsche, Gombrowicz scrive al primo rigo: «Nietzsche, come Kant e Schopenhauer, era polacco!», e in una nota a piè di pagina sviluppa il contenuto della sua esclamazione: «La città natale di Kant, Königsberg (oggi Caliningrado ou Kaliningrad, in Russia), era rivendicata dai polacchi, che la chiamavano Królewiec. Schopenhauer era di Danzica, anch'essa rivendicata dai polacchi col nome di Gdánsk. Nietzsche, pur essendo nato a Röcken, nella Sassonia prussiana, coltivava l'idea, che appare essere infondata, secondo cui i suoi antenati fossero nobili polacchi («Sono un gentiluomo polacco purosangue», "Ecce Homo, 1888").
Nella sua prefazione al Corso di filosofia di Gombrowicz, Francesco Cataluccio - autore di un libro dal titolo "Immaturità", in cui insegue un tema gombrowicziano (quello di Ferdydurke): «da Peter Pan a Lolita, da Musil e Bruno Schulz a Saba e Pasolini», come recita la presentazione editoriale - sottolinea che la filosofia è stata per Gombrowicz un interesse continuo, dall'infanzia fino alla morte (aveva letto la Critica della Ragion Pura quando aveva 15 anni e dettò il Corso poche settimane prima di morire).

filosofia

Ancora sul tema della relazione fra il polacco ed il francese - o fra i polacchi ed i francesi - c'è una delle storie di Bakakai (un libro di Gombrowicz che riunisce i primi racconti scritti da Gombrowicz), "Memorie di Stefan Czarniecki", del 1926, in cui il narratore protagonista racconta un tipico giorno di scuola: «Mi ricordo dei versi: Chi sei tu? Un piccolo polacco. Qual è il tuo simbolo? L'aquila bianca. Infine, mi ricordo del mio caro professore di Storia e Letteratura Nazionale, un tranquillo vecchio, inoffensivo, che non alzava mai la voce. «Signori» - diceva, tossendo da dentro una grande sciarpa di seta o pulendosi meticolosamente le orecchie. «Qual è il popolo che è stato il Messia dei popoli? Il baluardo della cristianità? Quale altro popolo ha avuto nella sua storia un Príncipe Joseph Poniatowski? Se volessimo contare i geni, soprattutto i precursori, solo in Polonia ne abbiamo avuti tanti quanti ne ha avuti l'Europa intera.» Poi, nella sua enumerazione dei "geni" polacchi che sembra riecheggiare quella fatta da Gombrowicz nel suo Corso (Nietzsche, Schopenhauer, Kant), il professore cita gli europei e gli studenti rispondono in polacco:
- Dante?
- Lo so, lo so, professore! - esclamavo immediatamente.
- Krasinski!
- Molière?
- Fredro!
- Newton?
- Copernico!
- Beethoven?
- Chopin!
- Bach?
- Moniuzsko!
- Lo potete vedere da voi stessi... - concludeva.
- La nostra lingua è mille volte più ricca della lingua francese, che tuttavia ha fama di essere la più bella.
- Cosa dice il francese? "Piccolo", "piccolino", molto piccolo", tutto qui.
- Mentre noi, che ricchezza! "Maly", "malutki", "maluchny", "malusi", "maleñki", "malenieckzi", "malusienki", e così via.

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In "Forme brevi", Riccardo Piglia presenta un saggio dal titolo "Il romanzo polacco", in origine una conferenza del 1986 nel corso di un evento su "Il romanzo argentino". Piglia parla, naturalmente, di Gombrowicz, della tensione creata da Gombrowicz fra lo spagnolo, il polacco ed il francese - la prima, lo spagnolo, una lingua che conosceva a malapena, la seconda, il polacco, una sorta di lingua pura, separata, utilizzata per la scrittura, e la terza, il francese, che funzionava come elemento che conduceva dall'una all'altra delle prime due lingue. «Il Ferdydurke "argentino" di Gombrowicz», scrive Piglia, «è uno dei testi più singolari della nostra letteratura», scritto «sulla terrazza del caffè Rex di rua Corrientes, nella Buenos Aires della metà degli anni 40», in cui Gombrowicz passa dal polacco allo spagnolo, «uno spagnolo inaspettato e quasi onirico», che veniva corretto e ampliato da Virgilio Piñera, «rappresentante letterario della remota Cuba»,  e da altri frequentatori del caffè; «questa equipe non conosceva il polacco», dice Piglia, «e le discussioni venivano per lo più tradotte dal francese, lingua alla quale Gombrowicz e Piñera ricorrevano quando lo spagnolo non ammetteva ulteriori stravolgimenti».
Piglia intende dimostrare che categorie come "romanzo argentino" e "romanzo polacco" hanno ben poco valore, sono essenzialismi vuoti che non reggono allo studio dettagliato delle situazioni (come direbbe Edward Said a proposito di "orientalismo"). Il romanzo è una «miscela verbale, una materia vivente», e nel caso del Ferdydurke argentino - una «brutta traduzione», afferma Piglia, «nel senso in cui Borges si riferiva alla lingua di Cervantes», vale a dire, lo spagnolo di Cervantes come una brutta traduzione dell'inglese - questa "materia vivente" comporta uno spagnolo che è quasi forzato fino alla rottura, rigido e artificiale, come se fosse una "lingua futura". Si tratta, sostiene Piglia, di un incrocio fra gli stili di Roberto Arlt e quello di Macedonio Fernández. «Arlt, Macedonio, Gombrowicz. Il romanzo argentino è stato costruito su questi incroci (ma anche con altri intrighi). Il romanzo argentino sarebbe un romanzo polacco: insomma, un romanzo polacco tradotto in uno spagnolo futuro, in un caffè di Buenos Aires, da una banda di cospiratori guidata da un conte apocrifo. Ogni vera tradizione è clandestina, si costruisce retrospettivamente e assume la forma di una cospirazione».

Negli scritti di Piglia, "il romanzo polacco" e il "romanzo argentino" si attraversano a partire dal contatto di figure diverse - Borges e Gombrowicz, cui è occorso di trovarsi contemporaneamente nella stessa città - che condividevano un'idea di tradizione: la "brutta traduzione", frutto di una "tradizione clandestina", ossia, una traduzione spudorata, creativa, svuotata dalla rigidità delle appartenenze (o, come dice Borges nel commento al Vathek di William Beckford: la mera possibilità di attestare che è l'originale ad essere infedele alla traduzione).
Anche in questo suo breve saggio, nel privilegiare la traduzione, Piglia sta deliberatamente privilegiando una riflessione sul linguaggio, una fenomenologia dell'atto traduttivo (Piglia enfatizza l'incontro di Gombrowicz con i traduttori, il senso di uno spagnolo "rigido e artificiale"), l'ambiente del caffè Rex sulla Corrientes, «una banda di cospiratori guidati da un conte apocrifo»).
A contrasto, Piglia parla dello spagnolo di Borges - «preciso e chiaro, quasi perfetto». Non è rigido. «Uno stile la cui genealogia veniva rimandata, dallo stesso Borges, a Paul Groussac» - scrive Piglia. «Il nostro Conrad è Groussac» (aggiunge Piglia, fra parentesi). Vale a dire, Groussac è quello straniero che assorbe la "lingua locale" e ne reinventa le possibilità, ristruttura il suo uso letterario.
Groussac, esiliato come Gombrowicz, manipolando però lo spagnolo come ha fatto Conrad con l'inglese (non ne fa un uso rigido, bensì classico, contenuto). Le origini "argentine" dello stile di Borges si trovano in Groussac, afferma Piglia. L'origine dislocata, l'origine come una truffa. Lo stile di Borges, costruito a partire dallo spagnolo attraversato dal francese di Groussac, nasce da «una relazione dislocata con la lingua materna». Quel che Borges assorbe da Groussac non ha nessuna relazione con l'idioma francese, ma semmai con il procedimento di ignorare l'origine in quanto punto fisso (l'idioma di partenza, per Borges è l'inglese, l'inglese della nonna paterna, Fanny Haslam. L'idioma nel quale legge il Chisciotte per la prima volta; l'originale spagnolo letto dopo gli sembrava una brutta traduzione - l'originale, pertanto, infedele alla traduzione, come nel Vathek di Beckford).

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La relazione presentata da Piglia, a proposito della possibile relazione fra Borges e Gombrowicz - entrambi coinvolti, secondo Piglia, in dei progetti analoghi di reinvenzione della lingua - non trova molto sostegno in quanto lo stesso Gombrowicz scrive nel suo Diario argentino. In primo luogo, il passaggio del Diario in cui Gombrowicz parla della traduzione in spagnolo del Ferdydurke:
« Nella seconda metà del 1946, trovandomi, come spesso accade, con le tasche del tutto vuote e senza sapere dove trovare un po' di soldi, ho avuto un'ispirazione: ho chiesto a Cecilia Debenedetti di finanziare la traduzione in spagnolo del Ferdydurke, prendendomi sei mesi di tempo per portarla a termine. Cecilia ha acconsentito di buon grado. Mi sono quindi messo immediatamente al lavoro, nel seguente modo: per prima cosa traducevo come potevo dal polacco allo spagnolo, e dopo portavo il testo al caffè Rex dove i miei amici argentino ripassavano insieme a me frase per frase, in cerca delle parole appropriate, lottando contro le deformazioni, le follie, le eccentricità del mio linguaggio.»
Poco prima, Gombrowicz riferisce del suo primo incontro con Borges, durante una cena a casa di Bioy Casares e Silvina Ocampo: a quella cena era presente anche Borges, forse lo scrittore argentino di maggior talento, dotato di un'intelligenza acuita dalla sofferenza personale. Quali erano le possibilità di comprensione fra me ed una simile Argentina intellettuale, estetizzante e filosofeggiante? - si chiedeva Gombrowicz. Quello che affascinava me di quel paese, era il basso, per loro era l'alto. Quel che interessa dell'Argentina a Gombrowicz è il suo carattere "immaturo", che è il grande tema dei suoi romanzi. Gombrowicz ha visto in Borges e nella sua cerchia un desiderio di maturità: Ah, non essere la gioventù! Ah, avere una letteratura matura! Ah, eguagliare la Francia, l'Inghilterra! Ah crescere in fretta!
Gombrowicz vede Borges come un uomo maturo, un intellettuale, un artista, membro della "Internazionale dello spirito", senza una relazione "definita o intensa con il suo sé". Quello che gli rimprovero, continua Gombrowicz, è:
«non aver sviluppato una relazione con la cultura mondiale, più in linea con la sua realtà, la realtà argentina. L'arte è innanzitutto un problema d'amore; se vogliamo conoscere la vera posizione dell'artista dobbiamo domandare: di chi è innamorato? Per me è evidente che loro non sono innamorati di niente o di nessuno e se lo sono di qualcosa, si tratta di Londra, di Parigi, di New York, o alla fine, di un folklore piuttosto schematico e innocuo.»
Il racconto di Gombrowicz dice assai più su sé stesso che su Borges ed il suo gruppo - parla del suo ideale di immaturità, del suo risentimento a causa dell'esilio, della sua difficoltà con la lingua e, soprattutto, del suo quasi inesistente rapporto con i testi di Borges (le lettere sui tanghi e  le milonghe, l'Evaristo Carriego, il lunfardo, la rivista Martin Fierro, ecc.). Ne "Lo scrittore argentino e la tradizione", conferenza pronunciata nel 1953, Borges propone una relazione con la tradizione fino ad un certo punto simile a quella di Gombrowicz (quando menziona la "irriverenza"):
«Qual è la tradizione argentina? Credo che possiamo facilmente rispondere che questa domanda non è problematica. Credo che la nostra tradizione sia tutta la cultura occidentale, e credo anche che abbiamo diritto a questa tradizione, un diritto maggiore di quello che possono avere gli abitanti di qualsiasi nazione occidentale. Ricordo qui un saggio di Thorstein Veblen, sociologo nordamericano, sulla preminenza degli ebrei nella cultura occidentale. Si chiede se tale preminenza ci consente di poter supporre una superiorità innata degli ebrei, e risponde di no; dice che gli ebrei eccellono nella cultura occidentale, in quanto agiscono all'interno di questa cultura e allo stesso tempo non si sentono vincolati ad essa da nessuna devozione speciale; "per questo - dice - per un ebreo sarà sempre più facile che ad un occidentale non ebreo innovare la cultura occidentale"; e la stessa cosa possiamo dire degli irlandesi rispetto alla cultura dell'Inghilterra. Nel caso degli irlandesi, non abbiamo motivo di supporre che la profusione di nomi irlandesi nella letteratura e nella filosofia britannica si debba ad una preminenza razziale, dal momento che molti di questi irlandesi illustri (Shaw, Berkeley, Swift) sono stati discendenti di inglesi, sono state persone che non avevano sangue celtico; tuttavia, bastò loro il fatto di sentirsi irlandesi, diversi, per innovare la cultura inglese. Credo che gli argentini, i sudamericani in generale, si trovano in una situazione analoga; possiamo maneggiare tutti i temi europei, possiamo maneggiarli senza superstizioni, con un'irriverenza che può avere, ed ha già, conseguenze fortunate.»

fonte: Um túnel no fim da luz

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