lunedì 10 ottobre 2016

Il lavoro della fine

brasile

Quest'articolo di Maurilio Lima Botelho cerca di affrontare il tema della crisi del lavoro, discutendone le sue tre dimensioni: il ruolo dello sviluppo tecnologico nell'eliminazione di posti di lavoro; la costante trasformazione nei processi produttivi, che crea instabilità nell'occupazione; e l'improduttività progressiva della forza lavoro globale. Queste riflessioni sono la base per una più ampia discussione sulla crisi della società del lavoro, vale a dire, la contraddizione strutturale, con cui oggi ci confrontiamo, di una società in cui il lavoro è il meccanismo alla base della socializzazione, ma che allo stesso tempo mobilità tutti i mezzi per eliminarlo.

La crisi del lavoro oggi: sviluppo tecnologico, instabilità dell'occupazione e crisi del capitalismo
- di Maurilio Lima Botelho -

    È da più di un decennio che, in Brasile, la discussione a proposito della "crisi della società del lavoro" è stata relegata nello sgabuzzino della teoria sociale. La profonda critica rivolta al ruolo centrale occupato dal lavoro, sia nella filosofia e nella scienza borghese (liberalismo, protestantesimo ed economia politica) che nella teoria socialista (marxismo), è stata scartata come errore di interpretazione. L'idea della crisi del lavoro sarebbe un'impossibilità oggettiva, dal momento che il lavoro sarebbe la relazione eterna dell'uomo con la natura. L'ontologia è servita da base inconfutabile per la rinuncia ad una critica radicale della società borghese. Ma tale rifiuto non si limita al piano teorico, poiché le difficoltà di un mercato del lavoro sempre più ristretto e selettivo vengono tacciate di essere solamente una falsa percezione: l'instabilità del mercato del lavoro sarebbe una costante nella storia capitalista. In questo modo, le singolarità stesse della nostra epoca hanno cominciato ad essere ignorate.
Si arriva adesso alla base storica di questo rifiuto: gli anni dello "spettacolo della crescita" sono serviti da illusione per coloro che ancora confidano nel "paese del futuro" e nello "sviluppo nazionale" - perfino intellettuali critici dell'economia di mercato si sono arresi alle fantasie del breve ciclo di ascesa fittizia, credendo che gli indici manipolati del mercato del lavoro abbiano liquidato questo dibattito. Nel resto del mondo, la linea interpretativa non appare essere diversa: i cicli sempre più accelerati di ricchezza romanzata rendono secondaria la discussione sulla crisi del lavoro. Relazioni annuali delle organizzazioni internazionali, rapporti dei sindacati e degli istituti di ricerca continuano a presentare spaventosi indici di distruzione di posti di lavoro, ma l'euforia speculativa fa sì che queste informazioni siano offuscate dai guadagni immediati sui mercati e dalle possibilità aperte dalla gestione finanziaria del bilancio pubblico.
La crisi dell'economia mondiale, recuperata con forza dopo lo scoppio della bolla immobiliare americana e seguita da una svalorizzazione accelerata delle materie prime, ci ha riportato indietro alla realtà incontestabile della crisi del lavoro. Gli indici di disoccupazione sono di nuovo saltati in tutto il mondo e i posti di lavoro temporanei gonfiati dalle finanze sono stati eliminati. In Brasile, ora assistiamo all'esaurimento del modello di direzione finanziarizzata di un preteso sviluppo nazionale: in un solo anno, la disoccupazione è cresciuta del 41,5%, arrivando al 10,9% ed interessa più di 11 milioni di individui che cercano lavoro. Nemmeno i cambiamenti attuati nella metodologia delle analisi comparative della disoccupazione o la riduzione del tasso di partecipazione al mercato del lavoro stimolato dalle politiche governative non sono stati in grado di assicurare a lungo ridotti indici di disoccupazione. Come nel quadro di Dorian Gray, allegria e giovinezza sono sparite ed il vecchio problema sociale dell'esclusione è tornato all'ordine del giorno.
È evidente che il rapido smantellamento dell'economia brasiliana con la fine del progetto petista [N.d.T.: del Partido dos Trabalhadores] a livello di governo centrale non va visto come la vittoria della società di mercato. Il fallimento di questo ciclo è la dimostrazione che i limiti dello sviluppo capitalista non possono essere mobilitati in maniera volontaria da governi benintenzionati e, cosa più importante ancora, che la struttura sociale stessa, rimasta intatta in questi anni, dev'essere vista in maniera critica. Questa è un'esigenza di qualsiasi teoria che non si arrenda alla positività del mondo, ma anche in questo momento in cui la prigione categoriale nell'orizzonte ristretto dell'amministrazione di crisi ha lasciato un quadro di devastazione nella teoria sociale. Il rifiuto di una radicale critica della società del lavoro è stato portato avanti anche da coloro che, limitati ad un comprensione superficiale della società borghese, si sono sistemati dentro i suoi limiti.
L'insistenza su una normalità della "società del lavoro" a fronte del quadro di decomposizione accelerata, può essere visto solamente come il sintomo di questo autismo teorico che ci ha rinchiuso in una scatola dove le polarizzazioni ideologiche si annullano. La necessità di superare un simile riduzionismo teorico deve cominciare dalla critica dell'ideologia di base della nostra società, l'ideologia del lavoro. Solo a partire da una ricostruzione critica della storia dell'affermazione del lavoro come valore e presupposto di vita sociale -  e come elemento "ontologico" della nostra società, come prescrive una certa linea marxista - i fondamenti di questa società possono essere messi in discussione. Purtroppo non possiamo farlo a causa dei limiti della nostra riflessione.
Perciò ci limiteremo qui a tre aspetti che consideriamo importanti al fine di mostrare le radici della "crisi del lavoro": la progressiva sostituzione della forza lavoro umana con meccanismi automatici di produzione; la riorganizzazione dei processi produttivi che impone una dinamica incessante di estinzione di posti di lavoro e l'improduttività crescente della rimanente forza lavoro. Pur avendo un focus storico-empirico, le discussioni saranno mediate concettualmente dalla teoria del valore, di modo che più profondi vengano evidenziati i suoi significati sociali.

La progressiva inutilità della forza lavoro
È da qualche tempo che le informazioni circa la sostituzione della forza lavoro umana per mezzo di macchine sempre più sofisticate e robot ottengono sempre più visibilità nei notiziari economici. Tuttavia, c'è ancora molta resistenza all'idea che questo abbia un impatto significativo sulla disponibilità di occupazione, visto che l'argomento più usato riguarda solo la sostituzione di mansioni attraversi l'incorporazione di macchine e robot nel processo produttivo. Il trasferimento di forza lavoro dal processo produttivo alla manutenzione degli operatori automatici o verso altri settori creati da questa stessa tecnologia sarebbe la strada più comune, che passa per il mero spostamento dei lavoratori, e non per la loro eliminazione.
Il problema è che l'utilizzo di macchine sempre più avanzate riduce anno dopo anno le esigenze della loro manutenzione: ad esempio, le case automobilistiche giapponesi utilizzano già nelle loro catene di montaggio dei robot che trascorrono 30 giorni interi senza alcun bisogno di manutenzione umana, lavorando a pieno ritmo e con un'intensa capacità produttiva. Quest'esempio, sebbene possa essere considerato come uno dei più avanzati dal punto di vista dell'economia capitalista, è significativo in quanto sono decenni che l'industria automobilistica continua ad essere la più importante attività economica della nostra società - e in un momento di crisi mondiale,in cui la maggior parte delle case automobilistiche incontrano difficoltà economiche gigantesche, salta agli occhi che le case automobilistiche giapponesi continuano ad essere le uniche ad operare con profitto. Da questo si può presumere, conformemente alla teoria del valore così come è stata sviluppata da Marx, che imprese che utilizzano meno forza lavoro umana, e che quindi aggiungono meno valore alla riproduzione generale del capitale, sono quelle che più catturano il plusvalore socialmente prodotto da altri.
Quest'esempio estremo non implica in alcun modo l'impossibilità della sua universalizzazione. Al contrario, la tecnologia avanzata ha generalizzato la robotica come mezzo di produzione: robot industriali avanzati, che fino a pochi anni fa costavano milioni di dollari, oggi vengono venduti a 150 mila dollari e vengono utilizzati da diversi tipi di industrie. Grazie alla loro economicità, il volume annuo dei robot industriali venduti è schizzato: nel 2013 sono state vendute 179 mila unità in tutto il mondo, e nel 2014 c'è stata la vendita di 225 mila robot.
Il risultato di questa generalizzazione, raramente viene valutato da un punto di vista teorico e concettuale, tanto meno inserito in una teoria della riproduzione economica capitalista: un robot venduto sul mercato mondiale a poco più di 100 mila dollari rappresenta un impatto gigantesco sull'economia del lavoro. Si stima che per la creazione di ciascun posto di lavoro nell'industria, in termini competitivi internazionali, sia necessario un investimento di più di mezzo milione di dollari. Pertanto, la riduzione dei costi di produzione degli avanzati meccanismi automatizzati di produzione indicano non solo una realtà già data - la configurazione di intere fabbriche con un minimo uso di forza lavoro umana - ma indicano una tendenza in espansione.
Naturalmente, questi dati si riferiscono solo ai robot, e non considerano i computer avanzati, le stampanti 3D e le attrezzature sempre più sofisticate. E soprattutto non considerano le cosiddette "macchine utensili a controllo numerico", cioè, macchine industriali dotati di cervelli elettronici. Questi nuovi mezzi di produzione, sviluppati grazie alla microelettronica, non sono altro che le vecchie macchine industriali cui ora viene aggiunto un computer e che possono essere programmate secondo le immediate necessità di produzione, di modo che le loro braccia-meccaniche possono essere modificate o rimosse secondo i nuovi obiettivi produttivi (Palloix, 1982).
Questo insieme di elementi mostra la complessità della struttura produttiva contemporanea - e si potrebbero usare centinaia di esempio per tutte quelle fabbriche che hanno un minimo di dipendenti - ma va sottolineato che questo processo supera i confini dell'industria e avanza verso altri settori economici.
L'agricoltura industrializzata fa uso di seminatrici e raccoglitori automatici, e perfino la guida di questi veicoli viene diretta via satellite, senza la necessità di operatori umani. Da un altro lato, negli uffici commerciali vengono ampiamente utilizzare macchine automatiche per il prelievo o il pagamento. Macchine da caffè, chioschi elettronici per la vendita di alimenti, libri e gadget, servizi automatici di riscossione per mezzo di carte bancarie... l'elenco degli esempi potrebbe continuare indefinitamente in riferimento a tutte le attività commerciali. Tuttavia, questo processo è ben lungi dall'essere completato e, a causa della stessa natura interna della rivoluzione tecnologica nel capitalismo - dove la rivoluzione dei mezzi di produzione diventa una coercizione inevitabile dovuta alla "coercizione della concorrenza" (Marx) - la tendenza futura è quella di un aggravamento spaventoso a causa dell'espansione delle applicazioni della robotica.
La Cina, considerata come territorio mondiale di fabbriche e paese di concentrazione della forza lavoro industriale, ha compiuto uno sforzo monumentale di investimento in tecnologia automatica e robotica. Già è il più importante mercato mondiale di robot industriali e probabilmente nel 2017 avrà superato tutti gli altri paesi del mondo per quanto riguarda il loro utilizzo assoluto nel processo produttivo. Ma l'utilizzo relativo appare ancora limitato: oggi in Cina, ci sono solamente 30 robot per ogni 10 mila lavoratori, un basso livello se paragonato alla Corea del Sud, con 437 robot, oppure il Giappone e la Germania, che hanno rispettivamente circa 323 e 282 robot ogni 10 mila dipendenti.
Con l'ampliamento dell'utilizzo dei robot e la svalorizzazione sistematica delle sue unità - robot di servizio personale come i Baxter vengono già venduti negli Stati Uniti a meno di 25 mila dollari e robot per la pulizia della casa vengono comunemente commercializzati in Cina e in Giappone a pochi centinaia di dollari - l'impatto sull'occupazione sarà enorme. Si stima che, al ritmo attuale di licenziamento degli operai nelle unità industriali, i robot devono eliminare 60 milioni di posti di lavoro entro il 2025, rendendo ancora più rara la figura dell'operaio di fabbrica.

La trasformazione permanente dei posti di lavoro
La visione che il mondo ha della Cina è ancora quello basato sulle industrie che utilizzano un'enorme forza lavoro a bassissimo costo e lunghe giornate lavorative. È evidente che quest'immagine rivela ancora una realtà incontestabile di quella che è la struttura produttiva cinese, responsabile (insieme all'automazione della produzione), in parte, della de-industrializzazione delle diverse economie occidentali e dell'inondazione del mondo per mezzo di merci di ogni tipo e a basso costo. Tuttavia, quest'immagine è parziale e, in quanto fotografia di un processo, fissa una realtà in trasformazione senza rendere conto del movimento. La Cina non solo si trova al limite massimo di utilizzo della sua forza lavoro - arrivando ad un probabile picco del 72% della popolazione totale in età lavorativa - dal momento che la maggior parte viene impiegata in attività terziarie, cioè, servizi, commercio, amministrazione, ecc.. Allo stesso modo in cui il cambiamento nella struttura produttiva nei paesi centrali ha portato al trasferimento della maggior parte della forza lavoro dall'industria al cosiddetto settore terziario dell'economia, anche lo sviluppo cinese segue tale traiettoria. Ma in Cina, la velocità è molto superiore di quella raggiunta da parte dei paesi della prima rivoluzione industriale (Inghilterra, Francia) o anche da quelli della seconda rivoluzione industriale (Germania). Questa è una dinamica comune a tutti i paesi che nella loro economia sono passati attraverso il processo di industrializzazione, sebbene non abbiano seguito sempre la stessa strada - i paesi dell'industrializzazione periferica, come il Brasile e il Messico, hanno fatto un salto da una struttura di forza lavoro basata sull'agricoltura ad una maggioranza impiegata nel settore dei servizi, senza che l'industria avesse occupato la maggior parte dei lavoratori. Ciò ha configurato una "ipertrofia del settore terziario" che è culminata nella disoccupazione mascherata e nella diffusa informalità dell'economia periferica.
Tuttavia, da quando la microelettronica si è sviluppata e generalizzata, il settore dei servizi ha sofferto gli effetti del risparmio della forza lavoro come tutti gli altri settori.
A differenza dei grandi macchinari o dalle attrezzature industriali tradizionali, i microcomputer sono diventati una realtà in ogni attività sociale, inserendosi non solo nelle varie fasi della finanza (banche, amministrazione e contabilità) servendo direttamente gli utenti-consumatori e riducendo così la necessaria mediazione personale. In questo modo, abbiamo la contabilità elettronica le cui fatture, rettifiche contabili e registrazioni vengono realizzate automaticamente negli atti di compravendita, prestiti o pagamenti. Assistiamo anche all'utilizzo di computer domestici per mezzo dei quali si possono gestire i conti personali e le operazioni finanziarie. Ma in quest'area vediamo, in maniera più significativa, l'estinzione del lavoro per mezzo della sostituzione dei bancari da parte delle casse automatiche. Nel 2014, il settore bancario in Brasile ha licenziato circa 5 mila funzionari. Nel successivo 2015, sono stati quasi 10 mila o posti di lavoro tagliati - e questo in una situazione in cui le banche stabiliscono un record nei loro profitti, in quanto non avvertono, come le altre imprese, gli effetti della crisi economica. Inoltre: perfino i mercati finanziari, fino ad allora considerati vincitori davanti alle industrie, oggi soffrono gli effetti economizzanti della microelettronica, al punto che i traders della Borsa vengono rimpiazzati da "operatori ad alta frequenza", computer che eseguono automaticamente operazioni finanziarie e che controllano già più della metà di tutte le negoziazioni di Wall Street.
Anche nelle attività commerciali, come negli altri spettri del terziario, un'infinità di applicazioni di microelettronica, informatiche e di lettura ottica hanno sostituito i lavoratori: si verifica nell'estinzione delle casse nei supermercati e nelle reti di vendita al dettaglio, nell'utilizzo di apparecchiature automatiche che stimolano il self service, e, sempre più, l'ampliamento del commercio elettronico. Già nel 1999 - quindi prima dell'era in cui Internet divenisse popolare in Brasile - il DIEESE [Departamento Intersindical de Estatística e Estudos Socioeconomici, brasiliano] allertava circa l'impatto che avrebbe avuto il commercio elettronico sul lavoro nel settore commerciale:
«Le nuove tecnologie e le nuove forme di organizzazione e di gestione introdotte nel commercio sono distruttive dei posti di lavoro e di impiego, in varie sezioni e dipartimenti di impresa. E, in una dimensione più ampia, anche nel settore all'ingrosso, nonostante sia escluso dall'integrazione vendita al dettaglio/fornitori, la creazione di occupazione è stata minore a fronte dell'intensificazione del commercio elettronico, in particolare dello scambio elettronico di dati» (DIEESE, 1999).

L'ampliamento dell'occupazione informatica in diverse attività non deriva solamente dalla flessibilità inerente alla microelettronica, in grado di essere inserita in qualsiasi ambiente di produzione o di commercio, ma anche dalla riorganizzazione ampia del processo produttivo e burocratico che la stessa microelettronica implica. Ciò di cui si tratta, pertanto, non è solo il cambiamento nei mezzi di produzione (hardware) che porta all'eliminazione definitiva di molti posti di lavoro, ma anche la continua trasformazione nell'organizzazione del processo stesso di produzione (software), cioè, la ristrutturazione permanente delle relazioni lavorative. Non è un caso che tutta la discussione sulla crisi del lavoro e l'automazione sia accompagnata da riflessioni sul superamento della logica di produzione fordista, la rottura con l'organizzazione taylorista del lavoro e l'inclusione di nuovi modelli di gestione della produzione (Toyotismo, Ohnismo, Volvoismo, ecc.).
La flessibilità inerente alla nuova tecnologia microelettronica - estendendosi alle nuove applicazioni, quali la stampa tridimensionale, la nanotecnologia e la tecnologia della conoscenza - provoca la riorganizzazione del processo produttivo a seguito di frequenti innovazioni nel ciclo dei prodotti. Gruppi di controllo della qualità, dipartimenti di automazione e associazioni di tecnologia ed innovazione sono stati responsabili della progressiva riduzione dei tempi morti nell'attività produttiva o nei processi commerciali e finanziari. L'uso generalizzato dei microcomputer in ogni fase, e incorporando sempre più funzioni, si trasforma in elemento di costante innovazione organizzativa. Per quel che riguarda il processo di produzione propriamente detto, questa auto-riflessione organizzativa porta ad una realtà del tutto nuova nella storia dell'economia capitalista. Grazie alle nuove tecniche e ai nuovi modelli organizzativi in costante trasformazione, l'innovazione dei processi produttivi supera l'innovazione delle merci prodotte. Portando all'estremo la logica, sottolineata da Marx, della "produzione per la produzione", cioè, il feticismo in cui lo sviluppo della produzione è l'obiettivo primario e determinate dell'organizzazione sociale, il capitalismo supersviluppato microelettronico ha creato una dinamica inarrestabile di rivoluzione organizzativa e tecnologica.
Le CPU dei computer duplicano la loro capacità di elaborazione ogni due anni; la capacità di memorizzazione, nel medesimo spazio fisico, viene duplicata ogni 40 mesi; oggi, un semplice tablet ha la stessa capacità di elaborazione del computer più moderno esistente 30 anni fa, con un costo infinitamente minore. Questo significa che, nel suo desiderio di ampliare al massimo le capacità produttive, massimizzare i profitti e ridurre i costi e gli svantaggi dei mezzi, il processo di produzione è cambiato più rapidamente di quanto siano cambiati le stessi merci finali che da questi mezzi vengono create. Salvo alcune eccezioni, le merci utilizzate quotidianamente da un consumatore medio sono le stesse di venti o trent'anni fa, ma il modo di produrle in questo periodo è cambiato diverse volte. Infine, le maniere in cui si producono le merci è radicalmente cambiato, provocando impatti giganteschi nell'economia nel suo insieme, ma i beni consumati sono più o meno gli stessi.
Le implicazioni ecologiche di questa costante trasformazione sono evidenti. Una merce prodotta ad ogni ciclo in maniera diversa ha bisogno di vedere la sua vita utile ridotta, o quanto meno dev'essere falsamente presentata come diversa dalle precedenti affinché la catena produttiva non si confronti con una crisi dovuta alla sovrapproduzione. Ma quest'aspetto ambientalmente distruttivo non è qui il nostro tema - anche se la discussione ecologica non può essere isolata da una riflessione sulla crisi del lavoro. Quello che ci interessa particolarmente è che gli effetti di questa dinamica sono distruttivi anche da un punto di vista economicamente globali: in termini macroeconomici, il ritmo della razionalizzazione della produzione supera il ritmo dell'ampliamento dei mercati.
A partire dalla fine del ciclo espansivo del dopoguerra, questa condizione è stata sottolineata da una certo numero di importanti intellettuali: gli elevati livelli di produttività conseguiti per mezzo della trasformazione produttiva ed organizzativa della microelettronica sono di gran lunga superiori agli indici della stessa crescita economica, che si trascina sempre più - tranne che negli anni del boom basato sulla narrazione degli attivi finanziari. Il risultato di questa collisione fra produttività e crescita è la distruzione dei posti di lavoro senza che avvenga la dovuta ricomposizione in virtù dell'espansione economica:
«In diretto contrasto con lo sviluppo degli anni 50 protrattosi fino agli anni 60, negli anni 70 il tasso di crescita della produttività del lavoro era superiore a quello della produzione - con la conseguenza che la forza lavoro liberata dal progresso tecnico non può più essere assorbita dall'espansione della produzione» (OFFE, 1989: 92).
Negli anni 1980 e 1990, assistiamo ad un approfondimento di questo processo in cui la razionalizzazione della produzione non verrebbe compensata nemmeno quando la crescita economica fosse visibile all'orizzonte. Designata dagli economisti come "jobless growth" [crescita senza lavoro], questa situazione si è aggravata a causa del potere della microelettronica di inserirsi in tutti i possibili settori economici, superando la tradizionale tecnologia industriale ed eliminando il carattere assorbente del terziario:
«Costituendo un paradigma intensamente malleabile, la microelettronica permetterà l'automazione di un'ampia gamma di servizi di natura burocratico-amministrativa. Per mezzo di sistemi informatici integrati, pesanti strutture amministrative perdono del tutto ogni ragion d'essere, ed attraverso dei processi di re-ingegnerizzazione vengono del tutto estinte. In questo modo, quello che prima era un intenso e confuso flusso di persone e ruoli diventa un semplice flusso di elettroni e quanti di luce, monitorato da pochi dirigenti ed analisti di sistema. I guadagni di produttività dovuti a questa mutazione ovviamente sono elevati e fanno sì che il settore terziario-burocratico ormai non contribuisca più ad abbassare il tasso medio di crescita della produttività dell'economia» (ALBAN, 1999: 209).
Sebbene il primo decennio del 21° secolo, in buona parte del mondo occidentale, abbia presentato una riduzione degli indici di disoccupazione, la fragilità di tale riduzione è stata ben presto dimostrata dall'improvvisa elevazione di questi stessi indici con lo scoppio delle bolle finanziarie responsabili dell'espansione economica di quel periodo - crisi immobiliare e caduta dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale. Sebbene da parte dei governi europei e nordamericano vengano presentati piccoli segnali di recupero, gli economisti ufficiali continuano a segnalare la recrudescenza del fenomeno della crescita senza occupazione, ora ridesignata come "jobless recovery" [recupero senza occupazione]: la «disoccupazione persistente e insolitamente alta suggerisce che questo recupero senza occupazione può essere più doloroso dei due precedenti»(KOLESNIKOVA e LIU, 2011).
Quel che queste analisi indicano è che, per esprimere la crisi mondiale dell'occupazione, con conta soltanto l'eliminazione definitiva dei posti di lavoro, ma anche l'agilità con cui i posti di lavoro vengono creati e distrutti in cicli sempre più brevi. La relazione della Organizzazione Internazionale del Lavoro, "Tendenze Mondiali dell'Occupazione - 2014", indica che, nel 2013, il numero di disoccupati in tutto il mondo è arrivato a 202 milioni di persone. Proiettata nel futuro, la tendenza è quella di un ampliamento a 215 milioni di disoccupati nel 2018, anche con la creazione, in questo periodo, di 40 milioni di posti di lavoro. La creazione di nuovi posti di lavoro non sarà in grado di tener conto né della distruzione dei posti di lavoro né dell'ingresso di nuovi lavoratori sul mercato - il che implica un saldo netto negativo.
Ciò crea una situazione di estrema instabilità nella forza lavoro globale: crisi del lavoro non significa solo aumento progressivo del numero di disoccupati in tutto il mondo, ma anche un'instabilità crescente per coloro che rimangono attivi sul mercato. E questo è dovuto non solo all'ampliamento di quest'esercito di riserva - che fa pressione sugli occupati sia attraverso la concorrenza che con la riduzione dei salari a fronte dell'offerta crescente di manodopera - ma soprattutto a causa dei cicli di ristrutturazione, sempre più accelerati, dei processi di produzione.
La precarizzazione della forza lavoro non deriva solo dall'elevato turnover cui buona parte dei lavoratori è sottomessa - oggi in Brasile il 45% dei lavoratori registrati vengono licenziati ogni anno. Quello che abbiamo visto è che, al di là della crescita della disoccupazione, i posti di lavoro che rimangono sono soggetti ad un'elevata trasformazione, vengono distrutti e ne vengono creati di nuovi più conformi alla dinamica della ristrutturazione produttiva. Da qui l'insistenza degli specialisti nel sottolineare che dalle informazioni, la grave crisi che stiamo vivendo non può essere valutata solo per mezzo dei tassi ufficiali di disoccupazione, in quanto la necessità crea pressioni sociali che portano alla più diverse strategie di sopravvivenza.
Come ha notato l'economista indiano Prabhat Patnaik (2016), utilizzando dei dati provenienti dalla stessa Organizzazione Internazionale del Lavoro, il 63% della forza lavoro globale attuale si trova in una situazione di disoccupazione, è scoraggiata (ha rinunciato a cercare lavoro), oppure si tratta di "lavoratori vulnerabili", cioè, lavoratori in proprio, lavoratori senza reddito, membri di cooperative di produttori, ecc..

L'improduttività crescente della forza lavoro
Come riportato in precedenza, negli ultimi vent'anni la struttura della forza lavoro cinese ha subito una trasformazione esplosiva - da una maggioranza di lavoratori occupati in agricoltura, rapidamente i cambiamenti in questo paese asiatico hanno portato ad un'occupazione predominante nel settore terziario. Sebbene sia arrivata ad occupare quasi il 30% della sua forza lavoro totale, l'industria non si è trasformata nel principale datore di lavoro della società cinese: i servizi hanno superato l'agricoltura come principale settore di occupazione della forza lavoro - nel 2012, il 35,7% dei posti di lavori si trovavano già nel settore terziario dell'economia.
Questa informazione ci rivela che anche la più importante struttura produttiva mondiale non è più in grado di impiegare gran parte della sua forza lavoro: a causa della trasformazione produttiva, i posti di lavoro si dislocano verso le aree commerciali, finanziarie, verso l'amministrazione pubblica e privata e verso le altre attività di servizio.
Da principio questo indicava soltanto la vitalità stessa di un'economia che si adatta costantemente alle trasformazione oppure - come ritengono gli apologeti di una presunta "società post-industriale" - indicava lo spostamento dell'asse produttivo verso un'economia creativa basata sulla conoscenza, e non più sulla produzione materiale. Tali interpretazioni sono superficiali e ignorano le tracce più profonde della trasformazione nella nostra epoca.

In primo luogo, questo dislocamento è ben lungi dall'essere un mero "aggiustamento" del mercato del lavoro o una compensazione di posti di lavoro persi - anche se con indici ufficiali del 5% di disoccupati, la colossale economia cinese si presenta anche con spaventose forme di disoccupazione che non vengono rappresentate nelle statistiche governative - è probabile che un indice più ampio, che valutasse la disoccupazione nelle aeree rurali, arriverebbe ad essere 3 o 4 volte il tasso ufficiale. Nei momenti di difficoltà economica, quando il tasso di occupazione diminuisce, le autorità cinesi costringono milioni di lavoratori urbani a tornare alle loro province di origine e ridurre in tal modo l'impatto sul mercato del lavoro - questo è avvenuto dopo la crisi del 2009, quando più di 20 milioni sono tornati alle comunità rurali.
La forte espansione del settore dei servizi, pertanto, non è dovuto a nessuna riformulazione delle attività economica, ma in gran parte al mero aggiustamento spontaneo dei disoccupati alla situazione di espulsione dei posti di lavoro tradizionali: la tradizione periferica di formazione di un'economia sotterranea come strategia di sopravvivenza è diventata una realtà globale. In Cina questo è altrettanto significativo che in qualsiasi altra parte del mondo: uno studio pubblicato dalla Banca Mondiale rivela che nelle grandi città cinesi l'informalità dei lavoratori può arrivare al 37%, a seconda di come viene definita statisticamente l'informalità. Ma i dati sono ancora più espressivi per quanto riguarda i migranti, la cui informalità può arrivare fino al 65% di quelli che non hanno residenza ufficiale né città in cui lavorano (Park; Wu e Du, 2012). La maggior economia industriale del mondo segue un destino già previsto da alcuni anni dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro:
«Alla fine del 20° secolo, la manifattura ha smesso di essere un settore importante di sviluppo dell'occupazione, tranne che nell'Est e nel Sudest Asiatico. Nelle economie in via di sviluppo, la caduta della percentuale di occupazione agricola ha coinciso, di fatto, con un aumento dell'occupazione nel settore dei servizi, che è passato dal 28% al 32,6% nel periodo compreso fra il 1995 e il 2005. Tra le diverse categorie di servizi, il settore in cui l'occupazione sta aumentando più rapidamente è il commercio, che include le attività informali del commercio ambulante che così tanto predomina fra i popoli e nelle città dei paesi in via di sviluppo» (OIL, 2006).
Infatti, l'economista Patnaik (2016) suggerisce che buona parte della forza lavoro dislocata nell'agricoltura, dove realizzava attività precarie e in piccole unità di produzione, «è entrata un'altra volta nel segmento degli occupati vulnerabili nelle città». L'economia dei servizi può essere correlata all'avanzato sviluppo tecnologico, ma ciò non significa in alcun modo un elevata qualità della vita. I teorici che si focalizzano sulla realtà delle grandi economie urbane integrate nel mercato globale sicono che, dal lato della struttura avanzata dei servizi sofisticati e delle attività finanziarie, prolifera la moltitudine dei lavoratori non qualificati del commercio, delle imprese di pulizie, dei servizi personali, ecc.. Unitamente all'elevato turnover di una parte crescente della forza lavoro globale e al suo trasferimento verso i servizi, abbiamo un'evidente precarizzazione delle condizioni in cui si sviluppano queste nuove forme di occupazione.
Dal punto di vista di una comprensione dei meccanismi più profondi della riproduzione capitalista, bisogna evidenziare ancora un'altra caratteristica di questa progressiva terziarizzazione del lavoro globale: la crescente improduttività a questo connessa.

Nel trattare l'improduttività del lavoro non intendiamo in alcun modo giudicarne l'importanza, la natura o la finalità. Qui, produttività si riferisce unicamente alla capacità di una determinata attività di aumentare la grandezza del valore presente nel circuito economico-capitalista. Ciò di cui si tratta, pertanto, è il contenuto formale dell'attività lavorativa e non il risultato materiale in sé di tale attività. La capacità di ampliamento sostanziale del circuito globale capitalista è ciò che definisce il contributo formale di un'attività - lavoro produttivo è quello capace di costituire valorizzazione del valore. Senza entrare nel complesso universo concettuale che riguarda la natura produttiva o improduttiva del lavoro, è possibile definire, per derivazione ed esclusione, se un lavoro produttivo viene realizzato nell'ambito di un capitale produttivo e, pertanto, contribuisce alla produzione e all'ampliamento della massa globale di circolazione capitalista. Tutto il lavoro circoscritto al capital monetario (attività finanziarie e di mediazione del denaro in generale) o al capitale del commercio di merci (attività commerciali) è improduttivo in quanto non aggiunge alcun valore al circuito globale capitalista. Ovviamente, lavoro produttivo è unicamente quello relazionato al capital produttivo, capitale produttore di plusvalore, mentre le altre forme di lavoro realizzano la mera circolazione delle merci e del denaro, non addizionando nulla in termini sostanziale alla struttura produttiva del capitale.
La vertiginosa espansione delle attività terziarie nel mondo contemporaneo può esser vista come il risultato di una informalizzazione crescente della forza lavoro, che sopravvive nel mezzo di un'economia di miseria e ad un livello assai vicino alla sussistenza. La già citata relazione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, sulle tendenze dell'occupazione, informa che, nel 2013, un totale di 839 milioni di lavoratori sopravvivono insieme allo loro famiglie con meno di due dollari al giorno. L'automazione dei settori produttivi e il trasferimento di parte della forza lavoro verso attività commerciali, amministrative o finanziarie (quando non caduti invece nell'esclusione sociale) costituisce un processo crescente di improduttività del lavoro. Questo significa che, anche con l'aumento della popolazione globale economicamente attiva, una parte considerevole di questo universo, se non è stato escluso integralmente dalla società del lavoro grazie agli effetti della trasformazione tecnologica, non contribuisce più alla riproduzione allargata del capitale, sebbene esegua compiti assai necessari all'economia di mercato.
L'Unione Europea ha già circa il 72% del totale della sua forza lavoro nel settore terziario dell'economia. Gli Stati Uniti ed il Canada ne hanno il 79% in questo settore. In Brasile, il 71% dei lavoratori si trovano già occupati in attività terziarie. Col trasferire gran parte della forza lavoro verso attività improduttive del terziario, il capitalismo si scava una fossa sempre più profonda per quanto riguarda la sua capacità di riproduzione allargata - è come se il dispendio di energia necessaria a collocare un generatore in movimento, aumentasse progressivamente fino a superare l'energia risultante da quello stesso dispositivo. Come attestato da Marx: «gli agenti della circolazione devono essere pagati dagli agenti della produzione (...). In molti aziende, acquirenti e venditori vengono pagati per mezzo di una percentuale del profitto». Infine, i costi di manutenzione dell'economia capitalista, della sua amministrazione, delle sue operazioni finanziarie e commerciali, crescono proporzionalmente ai profitti ottenuti nelle sue unità di produzione - qualsiasi impresa individuale capitalista che seguisse una simile traiettoria sarebbe destinata al fallimento.
La dinamica economica attuale ci racconta questo - non è un caso che, da quarant'anni, i notiziari economici di tutto il mondo indicano una traiettoria decrescente dei tassi di crescita mondiale. "Crescita stagnante", "recessione cronica", "stagnazione secolare" e "crisi strutturale" sono termini distinti, di estrazione teorica differente, che tento di dar contro di questo evidente raffreddamento dell'economia mondiale.
La crisi della società del lavoro non è in alcun modo l'orizzonte felice della "società dell'ozio", della "società post-industriale" o della "era della conoscenza". La crisi della società del lavoro è il risultato dell'auto-contraddizione interna del capitalismo che ha fatto diventare il lavoro l'unica attività in grado di realizzare la mediazione sociale e, tuttavia, si muovo giorno dopo giorno per eliminare il massimo possibile di lavoro disponibile. La società del lavoro ha reso quest'attività l'unico modello di riferimento per la vita sociale, ma lo rende progressivamente improduttivo per la sua logica economica. La crisi del lavoro è la faccia auto-distruttiva della società capitalista nella sua manifestazione più avanzata. L'unico modo di sfuggire a questa dinamica di distruzione è fondare una nuova società su un'altra logica.

- Maurílio Lima Botelho - Pubblicato il 4 luglio 2016 su Ensaios e textos libertários.
 

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fonte: Ensaios e textos libertários

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