martedì 20 settembre 2016

Il frate e le pulci

2007-16

Quei rimedi per la peste logici, coerenti, sbagliati
- di Carlo M. Cipolla -

Quando nel 1557-1558 una grave epidemia di influenza colpì la Sicilia, il dottor Giovanni Filippo Ingrassia, nel rivolgersi all’amministrazione di Palermo, ammoniva le autorità a non chiedere ai medici informazioni specifiche sulle terapie, «perché quelli havemo da provedere noi, et si potrà disputare altra volta; ma quanto a quello, che le Signorie V. ricercano da noi, cioè che possano essi provvedere all’universale».

In termini più chiari, la terapia doveva essere affare soltanto del medico, che era direttamente responsabile verso il paziente. Gli uffici della Sanità dovevano «provvedere all’universale», vale a dire alla collettività, in termini di prevenzione.

Le sfere di competenza, tuttavia, non erano e non potevano essere separate in modo così netto. I dottori si occupavano non soltanto della terapia ma anche della prevenzione, ed erano tenuti a fornire consulenza tecnica agli uffici della Sanità su tutti e due gli aspetti. Inoltre, poiché molto spesso le terapie correnti dimostravano di non aver alcuna efficacia contro la peste, gli stessi dottori erano propensi a dare maggiore importanza alla prevenzione che alla terapia. Durante l’epidemia del 1576 il medico genovese Giovan Agostino Contardo scrisse un breve trattato su Il modo di preservarsi e curarsi dalla peste, nel quale rimarcava che in medicina «la parte preservativa è più nobile assai, e più necessaria che la curativa».

Sono concetti, questi, che danno una bella impressione di modernità. Purtroppo la loro applicazione risultava mal indirizzata e approssimativa, perché sull’eziologia del morbo infettivo prevalevano idee inadeguate. La convinzione predominante riguardo alla peste era che essa fosse originata da atomi velenosi. Che fossero generati da materia in putrefazione o emanati da individui infetti (persone, animali, oggetti), gli atomi velenosi infettavano l’aria salubre e la rendevano «miasmatica», vale a dire velenosa. Era proprio l’aria «corrotta» a costituire, secondo i dottori del Rinascimento, la condizione di base indispensabile perché scoppi un’epidemia di peste.

Oltre che mortalmente velenosi, gli atomi cattivi erano anche estremamente «viscosi»: si attaccavano agli oggetti, agli animali e agli esseri umani allo stesso modo che i profumi e i cattivi odori impregnano i tessuti e gli altri materiali. Se inalati o assorbiti da una persona o da un animale attraverso i pori della pelle, gli atomi pestiferi avvelenavano il corpo, causavano infermità e, in virtù della loro estrema malignità, nella massima parte dei casi portavano alla morte. Per contatto diretto o per inalazione, gli atomi potevano persino passare da oggetto a oggetto, da persona a persona, da un oggetto o un animale a una persona e viceversa. Ne conseguiva logicamente che il solo modo per evitare la diffusione della malattia era interrompere ogni contatto con persone, animali e oggetti provenienti da aree colpite dalla peste.

Nonostante la vaghezza del linguaggio, la teoria di base era semplice, logica e dotata di coerenza interna. Ma semplicità, logicità e coerenza non erano allora né sono mai garanzia di validità. In realtà il sistema teorico in questione non era molto più che ignoranza dogmatica. Dovremmo però badare a non ridere dei dottori del Rinascimento: ancora oggi, trecento anni dopo la rivoluzione scientifica, un’allarmante quantità di sedicenti scienziati sociali sembra credere che, se i propri modelli sono logici e coerenti, devono essere anche esatti. Com’è ovvio, le cose non stanno così. Il vero test di esattezza è l’osservazione, e questo è un fatto incontestabile, con alcune importanti condizioni.

L’uomo non è in grado di comprendere i fatti nuovi senza fare riferimento a un certo numero di concetti esistenti, e tali concetti inevitabilmente modificano il tipo di fatti che egli vede e il suo modo di vederli. Quando un ricercatore osserva la realtà, non opera nel vuoto, perché appartiene al proprio tempo e alla propria società. Persino le parole e i concetti che adopera hanno connotazioni specifiche che sono determinate dai suoi pensieri e dalla sua argomentazione, e non è mai immune da un sistema concettuale di riferimento presupposto in modo più o meno consapevole. Nemmeno il ricercatore più incline all’induzione parte mai da una tabula rasa .

In realtà, se il paradigma dominante è del tutto estraneo alla realtà sotto esame, è possibile che il ricercatore non si accorga nemmeno di quel che gli passa sotto gli occhi (come attesta la storia del microscopio nei primi secoli della sua esistenza); se poi nota il fenomeno, può essere indotto a scartarlo considerandolo irrilevante. Il fatto è che ciò che uno osserva è soltanto una particella infinitesimale della realtà, e quella particella acquista un significato soltanto se si adatta bene al mosaico cui appartiene. Se il mosaico giusto non c’è, se non c’è nulla a cui quella tessera minuta possa collegarsi, essa sembra insignificante e non veicola alcun messaggio. Solo il genio d’eccezione può concepire l’intero universo da uno sguardo a una minuscola particella. Se tutto ciò suona ridicolmente astratto, mi sia consentito di citare un episodio significativo che riguarda l’oggetto del libro.

All’inizio del secolo decimosettimo in Francia i medici che visitavano i malati di peste cominciarono a indossare una palandrana di toile-cirée, vale a dire di una sottile tela di lino rivestita di una pasta fatta di cera mescolata a sostanze aromatiche. Questo sinistro vestito divenne molto popolare, soprattutto in Italia, e durante l’epidemia del 1630-1631 venne spesso impiegato non solo in città come Bologna, Lucca e Firenze, ma anche in piccoli paesi della Toscana come Montecarlo, Pescia e Poppi. Allorché una nuova epidemia di peste devastò parte dell’Italia nel 1656-1657, il costume tornò a essere di uso comune a Roma e a Genova. L’idea che stava dietro alla confezione e all’utilizzo dell’abito cerato era che gli atomi velenosi dei miasmi non si «attaccavano» alla sua superficie liscia e scivolosa. E dal momento che il suo impiego sembrava funzionare e rispondere allo scopo, i medici del tempo trovarono in ciò una conferma alle loro teorie sul contagio e sul ruolo dei miasmi.

Padre Antero Maria di San Bonaventura (al secolo Filippo Micone) era un frate sveglio ed energico, che durante l’epidemia del 1657 venne incaricato della gestione del principale lazzaretto di Genova. L’esperienza gli insegnava che coloro che andavano a prestare servizio nei lazzaretti senza essersi mai infettati di peste in precedenza raramente mancavano di contrarre il morbo. Non aveva alcuna fiducia nelle precauzioni correnti, e circa l’abito di tela cerata, ecco cosa aveva da dire: «la tonica incerata in un Lazaretto, non ha altro buon effetto, solo che le pulici non si facilmente vi s’annidano».

L’osservazione del frate sull’abito cerato era corretta e coglieva il punto: quel costume non proteggeva la gente dai miasmi, la proteggeva dalle pulci. Con il suo commento il frate era giunto incredibilmente vicino a una scoperta straordinaria. Ma non la fece. Nel sistema di pensiero dominante le pulci erano animali fastidiosi ma innocui. Ne seguiva che, se l’abito serviva soltanto a proteggere dalle pulci, contro la peste era inutile. Come avrebbe potuto mai pensare, il frate, di sfidare l’intero sistema sulla base di una casuale osservazione riguardo alle pulci? Il sistema di conoscenze era universale e autorevole. L’osservazione sulle pulci era, al contrario, occasionale, quasi una battuta, e sembrò irrilevante anche a lui che l’aveva fatta. Accadde così che il sistema prevalse e l’osservazione andò perduta.

- Carlo M. Cipolla - Pubblicato su La Stampa/Cultura del 15/6/2012 -

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