venerdì 30 settembre 2016

Utensili

smart

La società dello smartphone
- di Nicole M. Aschoff -

Sotto molti aspetti, l'automobile è stata la merce che ha caratterizzato il 20° secolo. La sua importanza non proveniva dal suo virtuosismo tecnologico o dalla sofisticatezza della catena di montaggio, bensì dalla sua capacità di riflettere e modellare la società. Il modo secondo cui si producevano, si consumavano, si usavano e si regolamentavano le automobili costituiva una finestra sul capitalismo stesso del 20° secolo - uno sguardo d'insieme su come il sociale, il politico e l'economico si intrecciavano ed entravano in collisione.
Adesso, in un periodo caratterizzato dalla finanziarizzazione e dalla globalizzazione, nel quale la "informazione" è la regina, l'idea che una qualche merce possa definire un'epoca potrebbe apparire antiquata. Ma le merci oggi non sono meno importanti, e le relazioni delle persone con queste merci rimangono centrali ai fini della comprensione della società. Se l'automobile è stata fondamentale per comprende l'ultimo secolo, lo smartphone è la merce che definisce la nostra epoca.
Al giorno d'oggi le persone perdono parecchio tempo con i loro telefoni cellulari. Durante il giorno, lo controllano continuamente e se lo tengono sempre vicino al proprio corpo. Ci dormono accanto, lo portano in bagno, e lo guardano mentre camminano, mangiano, studiano, lavorano, mentre aspettano e mentre guidano. Il 20% dei giovani adulti ammette di controllare il proprio telefono perfino mentre fanno sesso.
Qual è il significato del fatto che le persone sembra che abbiano un cellulare in mano o in tasca dovunque vadano, per tutto il giorno? Per capire la nostra presunta dipendenza collettiva dal cellulare, bisogna seguire il consiglio di Harry Braverman ed esaminare «da un lato la macchina, e dall'altro lato le relazioni sociali, e il modo in cui queste due cose si incontrano nella società».

Macchinari portatili
Le persone che lavorano all'Apple si riferiscono alla città di Shenzen, sede di montaggio della FoxConn, chiamandola "Mordor" - l'inferno della Terra di Mezzo di Tolkien. Com'è stato tragicamente rivelato dall'ondata di suicidi del 2010, l'appellativo appare essere solo una lieve esagerazione per quel che riguarda le fabbriche dove i giovani lavoratori cinesi assemblano Iphones. La catena di rifornimenti dell'Apple collega colonie di ingegneri del software con centinaia di fornitori di componenti in Nord America, Europa ed Asia Orientale - Gorilla Glass dal Kentucky, coprocessori di movimento dall'Olanda, circuiti fotografici da Taiwan, e moduli di trasmissione dal Costarica si incanalano attraverso decine di impianti di montaggio in Cina.
Le tendenze simultanee del capitalismo a creare e distruggere inducono mutazioni costanti nelle reti globali di produzione, e dentro queste reti nuove configurazioni di potere corporativo e statale. Precedentemente erano dominanti le catene di rifornimento orientate dal produttore, esemplificate da industrie come quelle dell'automobile e dell'acciaio. Persone come Lee Iacocca ed il leggendario Boeing Bill Allen decidevano cosa fare, dove farlo, e a quanto venderlo.
Ma con l'intensificarsi delle contraddizioni economiche e politiche del boom del dopoguerra, negli anni 1960 e 1970, sempre più paesi del Sud del mondo hanno adottato strategie orientate all'esportazione, al fine di raggiungere i loro obiettivi di sviluppo. È emersa un nuovo tipo di catena di rifornimento (soprattutto nelle industrie leggere, quali il vestiario, i giocattoli e l'elettronica) nelle quali, al posto dei costruttori, sono i rivenditori a tenere le redini. In questi modelli orientati verso l'acquirente, compagnie come la Nike, Liz Clairborne e Walmart progettano merci, comunicano i loro prezzi ai produttori, e spesso come mezzi di produzione posseggono poco più del loro brand redditizio.
Nella catena degli Smartphone, potere e governance sono localizzati in molteplici punti e la produzione ed il design sono profondamente integrati su scala globale. Ma le nuove configurazioni di potere tendono a rafforzare le esistenti gerarchie di ricchezza: i paesi poveri e quelli a medio reddito tentano disperatamente di muoversi verso posizioni più lucrative attraverso lo sviluppo di infrastrutture e per mezzo di accordi commerciali, ma le opportunità di attualizzazione sono poche e distanti fra loro, e la natura globale della produzione rende estremamente difficile la lotta dei lavoratori per ottenere condizioni e salari migliori.
I minatori congolesi di coltan sono separati dai dirigenti della Nokia assai più che da un oceano - sono divisi dalla storia e dalla politica, dalla relazione dei loro rispettivi paesi con la finanza, e da barriere allo sviluppo vecchie di decenni, molte delle quali affondano le loro radici nel colonialismo.
La catena del valore dello smartphone è una mappa efficace dello sfruttamento globale, delle politiche commerciali, dello sviluppo diseguale, e dell'abilità logistica, ma il significato più profondo di questo dispositivo risiede altrove. Per scoprire i sottili cambiamenti avvenuti nell'accumulazione, illustrate e facilitate dallo smartphone, dobbiamo allontanarci dal processo nel quale le persone usano macchinari per creare cellulari, e focalizzarci sul processo nel quale usiamo il cellulare in sé come una macchina.
Considerare il cellulare una macchina è, per alcuni aspetti, immediatamente intuitivo. Di fatto, la parola cinese per cellulare è "shouji", ovvero "apparecchio portatile". Le persone di solito usano i loro apparecchi portatili come userebbero qualsiasi altro utensile, soprattutto sul luogo di lavoro. La domanda neoliberista per ottenere lavoratori flessibili, mobili e connessi li rende essenziali.
L'estensione della giornata lavorativa attraverso gli smartphone è diventata talmente diffusa e nefasta che ha innescato una lotta da parte di gruppi di lavoratori. In Francia, i sindacati e le imprese tecnologiche hanno firmato un accordo nell'aprile 2014 che riconosce il "diritto alla disconnessione" di  250mila lavoratori del settore alla fine della giornata lavorativa, mentre in Germania si sta valutando una legislazione che proibisca email e chiamate finito il lavoro. Il ministro del lavoro tedesco, Andrea Nahles, ha detto ad un giornale tedesco che «è innegabile che esiste una connessione fra disponibilità permanente e malattie psicologiche».
Lo smratphone ha anche facilitato la creazione di nuovi tipi di lavoro e nuove forme di accesso al mercato del lavoro. Nel "mercato dei lavoretti", compagnie come TaskRabbit e Postmates hanno costruito il loro modello di affrari sfruttando per mezzo degli smartphone la forza "lavoro distribuita".
La TaskRabbit mette in contatto persone che preferiscono evitare la fatica di svolgere le proprie attività domestiche con persone che sono abbastanza disperate da fare lavoretti a pagamento. Quelli che vogliono che vengano svolte attività, come lavare i piatti o pulire la casa dopo la festa di compleanno di un bambino, si connettono con i "taskers", usando l'app di TaskRabbit.
Ci aspetta che i cottimisti monitorino continuamente i loro cellulari in cerva di potenziali servizi (il tempo di risposta decide chi ottiene il lavoro); i consumatori possono sollecitare o cancellare il tasker che sta facendo altre cose; e dopo che ha svolto il suo compito, il cottimista può essere pagato direttamente attraverso il cellulare.
Mentre Postmates - il prediletto dell'economia dello spettacolo - è la nuova promessa del mondo degli affari, soprattutto dopo che quest'anno la Spark Capital gli ha iniettato 16 milioni di dollari. Postmates tiene traccia dei suoi "messaggeri" in città come Boston, San Francisco, New York usando un app del cellulare sui loro Iphone mentre corrono per rifornire case ed uffici di taco artigianali e di latte e vaniglia senza zucchero. Quando appare una nuova consegna, l'app trova il messaggero più vicino, che deve rispondere immediatamente e completare la missione entro un'ora per poter essere pagato.
I messaggeri che non vengono riconosciuti essere impiegati di Postmates, sono meno entusiasti rispetto a Spark. Ricevono 3 dollari e 75 cent per ogni consegna, più la mancia, e dal momento che sono classificati come imprenditori indipendenti, non sono protetti dalle leggi sul salario minimo.
In questo modo, i nostri macchinari portatili si inseriscono senza problemi nel mondo moderno del lavoro. Lo smartphone facilita modelli di occupazione contingente e di auto-sfruttamento collegando lavoratori e capitalisti senza i costi fissi e senza l'investimento emotivo dei tradizionali rapporti di lavoro.
Ma lo smartphone è molto più che un pezzo di tecnologia per il lavoro salariato - diventa parte della nostra identità. Quando usiamo i nostri cellulari per inviare messaggi di testo ad amici ed amanti, postare commenti su Facebook, o vagare per le nostre timeline su Twitter, non stiamo lavorando - ci stiamo rilassando, ci divertiamo, stiamo creando. Eppure, collettivamente, attraverso queste piccole azioni, finiamo per produrre qualcosa di unico e carico di valore: noi stessi.

Il Sé in vendita
Erving Goffman, un influente sociologo statunitense, si è interessato all'Io e al come gli individui producevano ed interpretavano il proprio Io attraverso l'interazione sociale. Lui stesso ammetteva di essere un po' "shakesperiano" - per lui «tutto il mondo è un palcoscenico». Sosteneva che le relazioni sociali possono essere pensate come performance, e che le performance delle persone variano a seconda del loro pubblico.
Noi mettiamo in scena questi spettacoli dal "centro del palcoscenico" per le persone - conoscenti, colleghi di lavoro, parenti cui piace dare un giudizio - che vogliamo impressionare. Questi spettacoli danno l'impressione che le nostre azioni «hanno in sé certi modelli». Convincono il pubblico che siamo davvero quel che siamo: un essere umano morale, intelligente e responsabile.
Ma le performance dal centro del palco posso essere pericolose e sono frequentemente compromesse da errori - le persone dicono qualcosa di imbarazzante, di inappropriato, leggono male i segnali sociali, hanno un pezzettino di spinaci sui denti, o vengono scoperti mentre stanno mentendo. Goffman era affascinato da quanto lavorassimo duramente per perfezionare e migliorare le nostre performance dal centro del palco e quanto frequentemente fallissimo in questo.
Lo smartphone è un dono di Dio per quanto riguarda gli aspetti drammaturgici della vita. Ci permette di gestire con precisione maniacale l'impressione che diamo agli altri. Anziché parlare con questo o con quello, possiamo inviare messaggi di testo, pianificando in anticipo le nostre battute e le nostre strategie di elusione. Possiamo mostrare il nostro gusto impeccabile su Pinterest, le nostre superiori capacità genitoriali su CafeMon, ed il nostro fiorente talento artistico su Instagram, tutto in tempo reale.
Recentemente la rivista "New York" ha pubblicato un articolo sulle quattro persone più desiderabili della città di New York secondo OkCupid. Questi individui hanno creato dei profili di incontro talmente attrattivi che oro sono bombardati da attenzioni e sollecitazioni piccanti - i loro cellulari vibrano continuamente di messaggi di potenziali amanti. Tom, uno dei quattro, aggiusta con regolarità il proprio profilo, mandando nuove foto e riscrivendo la sua auto-descrizione. Ha anche usato il servizio di ottimizazzione del profilo, MyBestFace, di OkCupid.
Tom afferma che nella nostra attuale «cultura dei like» un simile sforzo è necessario. Considera il suo profilo su OkCupid come «una estensione di sé stesso»: «voglio apparire così di bell'aspetto e pulito come se fossi appena uscito dal bagno».
L'incredibile successo dei social media e la loro rapida adozione da parte delle persone al fine di produrre e mettere in scena il loro Io sta dando origine all'emergere di nuovi rituali di interazione mediati tecnologicamente. Ora, gli smartphone sono centrale per il modo in cui «gestiamo, manteniamo, ripariamo e rinnoviamo relazioni, così come... lottiamo o resistiamo».
Prendiamo i rituali del testo, che con tutta la loro complessità e tutte le regole non scritte, ora svolge un ruolo di comando nelle dinamiche di relazionamento della maggioranza dei giovani adulti. Non c'è bisogno di lasciarsi andare alla nostalgia tossica per ammettere che i nuovi rituali, tecnologicamente mediati, stanno dislocando o alterando radicalmente le vecchie convenzioni.
Generare, gestire e mantenere digitalmente delle relazioni attraverso lo smartphone è qualcosa di diverso dall'utilizzare il telefono per portare a termine compiti associati al lavoro salariato. Agli individui non viene pagato un salario per il loro profilo Tinder o per caricare le foto delle loro avventure di fine settimana su Snapchat, ma i sé ed i rituali che producono sono certamente in vendita. Indipendentemente dalle intenzioni, quando una persona usa il proprio smartphone per connettersi con altre persone e con la comunità digitale immaginata, diventa sempre più probabile che il risultato del loro lavoro d'amore venga venduto come una merce.
Aziende come Facebook sono pionieri nel raccogliere e vendere i sé digitali. Nel 2013, Facebook aveva 945 milioni di utenti che accedevano al sito per mezzo dei loro smartphone. In quell'anno ha realizzato l'89% delle sue entrate grazie alla pubblicità, metà della quale proveniva da pubblicità sui cellulari. L'intera sua architettura è progettata al fine di guidare la produzione di profili digitali attraverso una piattaforma che li renda vendibili.
È questo il motivo per cui hanno istituito la loro politica dei "nomi veri": «fingere di è essere qualcos'altro o un'altra persona non è consentito.» Facebook esige che l'utente usi nomi legali di modo che sia facile monitorare la corrispondenza fra l'identità corporea e quella digitale, affinché i dati prodotti da - e collegati a - un essere umano reale siano più redditizi.
Gli utenti del sito di incontri OkCupid acconsentono ad un tale scambio: «dati per un incontro». Sul sito, le aziende terze rimangono in secondo piano, raccogliendo le foto degli utenti, le loro opinioni religiose e politiche, e perfino i romanzi di David Foster Wallace che dicono di amare. I dati poi vendono venduti agli inserzionisti, che creano annunci personalizzati e diretti ad "obiettivi" specifici.
Il gruppo di persone che hanno accesso ai dati di OkCupid è straordinariamente grande - OkCupid, insieme ad altre aziende come Match e Tinder, appartiene alla IAC/InterActiveCorp, il sesto più grande network del mondo. Creare un profilo su OkCupid può o non può produrre un amore, ma sicuramente produce dei profitti aziendali.
Si sta diffondendo l'idea che i nostri Io digitali sono ormai delle merci. Laurel Ptak, professore alla New School, recentemente ha pubblicato un manifesto dal titolo "Salari per Facebook", e nel marzo del 2014 Paul Budnitz e Todd Berger hanno creato ELLO, un'alternativa a Facebook che ha avuto una fugace popolarità.
Ello proclama: «Riteniamo che una rete sociale possa essere uno strumento di autoaffermazione. Non uno strumento per ingannare, costringere e manipolare - ma un luogo per connettere, creare e celebrare la vita. Tu non sei un prodotto.» Ello promette di non vendere i tuoi dati agli inserzionisti, almeno per ora. Si riserva il diritto di poterlo fare in futuro.
Tuttavia, le discussioni sul commercio delle identità digitali da parte di aziende che si muovono nella zona grigia del mercato e le discussioni sui giganti della Silicon Valley, di solito sono separate dal dibattito intorno alle condizioni di lavoro sempre più sfruttate o intorno al fiorente mercato del lavoro precario e degradante. Ma tutti questi non sono fenomeni separati - sono strettamente connessi, sono tutti pezzi nel medesimo puzzle del capitalismo moderno.

iMercifico
Il capitale ha bisogno di riprodursi e di generare nuove fonti di profitto nel tempo e nello spazio. Ha bisogno costantemente di creare e rafforzare la separazione fra lavoratori salariati e proprietari di capitale, di aumentare il valore che estrae dai lavoratori, e di colonizzare nuove sfere di vita sociale per creare merci. Il sistema, e le relazioni che lo compongono, è in continuo movimento.
L'espansione e la riproduzione del capitale nella vita quotidiana e la colonizzazione di nuove sfere di vita sociale da parte del capitale non sempre sono evidenti. Pensare sullo smartphone ci aiuta a mettere insieme i pezzi sul perché il dispositivo in sé faciliti e sottenda a nuovo modelli di accumulazione.
L'evoluzione del lavoro negli ultimi trent'anni si è caratterizzata per un certo numero di tendenze - l'allungamento della giornata e della settimana lavorativa. il declino dei salari reali, la riduzione o l'eliminazione dal mercato delle protezioni non-salariali (le pensioni fisse, le norme sulla salute e la sicurezza), la proliferazione del lavoro part-time ed il declino dei sindacati.
Allo stesso tempo, sono cambiate anche le norme in materia di organizzazione del lavoro. Hanno proliferato modelli di lavoro temporaneo e a progetto. Non è più previsto che gli imprenditori assicurino la garanzia del posto di lavoro o degli orari regolari, e i dipendenti non si aspettano più queste cose. Ma il degrado del lavoro non è un dato di fatto. Lo sfruttamento crescente e la pauperizzazione sono tendenze, non risultati inevitabili fissati dalle regole del capitalismo. Sono il risultato di battaglie perdute dai lavoratori e vinte dai capitalisti.
L'uso generalizzato dello smartphone per estendere la giornata lavorativa e per espandere il mercato dei lavori "di merda" è un risultato dovuto alla debolezza sia dei lavoratori che dei movimenti della classe operaia. La coazione e la buona volontà da parte di un numero crescente di lavoratori ad impegnarsi con gli imprenditori per mezzo dei loro cellulari, normalizza e giustifica l'utilizzo degli smartphone in quanto strumento di sfruttamento, e solidifica la disponibilità continua come requisito per poter ricevere un salario.
A prescindere dalla grande recessione, i tassi di profitto aziendale sono aumentati costantemente a partire dalla fine degli anni 1980, e non solo come effetto della capacità del Capitale (e dello Stato) a fare arretrare le conquiste del movimento operaio. L'estensione dei mercati globali si è ampliata ed approfondita, e lo sviluppo di nuove merci è aumentato a ritmo sostenuto.
L'espansione e la riproduzione del Capitale dipende dallo sviluppo di queste nuove merci, molte delle quali emergono dalla spinta incessante del capitale a cercare nuove sfere di vita sociale per il profitto o, come dice l'economista politico Massimo De Angelis, «mettere al lavoro [queste sfere] per le priorità e le urgenze [del capitale]».
Ai fini di questo processo, lo smartphone è centrale. Fornisce un meccanismo fisico per permettere l'accesso costante ai nostri Io digitali ed apre una nuova frontiera quasi inesplorata alla mercificazione.
Gli individui non ricevono salari per creare e mantenere avatar digitali - sono pagati con la soddisfazione di partecipare a rituali, e con la concessione di controllare le loro interazioni sociali. Sono pagati per mezzo della sensazione di fluttuare nella vasta connettività virtuale, anche se i loro dispositivi portatili misurano i loro legami sociali, aiutando le persone ad immaginarsi unite mentre vengono mantenute separate come entità produttrici distinte. La natura volontaria di questi nuovi rituali non fa sì che siano meno importanti, o meno redditizi per il Capitale.
Braverman ha detto che «il capitalista trova nel carattere infinitamente malleabile del lavoro umano la risorsa essenziale per l'espansione del suo capitale». Gli ultimi trent'anni di innovazioni dimostrano la verità di quest'affermazione, ed il cellulare è emerso come uno dei meccanismi primari per attivare, connettere e canalizzare la malleabilità del lavoro umano.
Lo smartphone assicura che una parte sempre maggiore della nostra vita da svegli sia dedicata alla produzione. Cancella il confine fra lavoro e tempo libero. Ora gli imprenditori hanno accesso quasi illimitato ai loro dipendenti, e in misura sempre maggiore anche conservare un lavoro precario e mal pagato dipende dalla abilità di rimanere sempre disponibili e pronto a lavorare. Allo stesso tempo, gli smartphone offrono alle persone accesso mobile costante ai beni comuni digitali e alla loro nebulosa etica della connettività, ma solo in cambio delle loro identità digitali.
Lo smartphone rende confuso il confine fra produzione e consumo, fra sociale ed economico, fra il pre-capitalista ed il capitalista, garantendo che, a prescindere dal fatto che uno usi il proprio telefono per lavoro o per svago. il risultato sia sempre più lo stesso - il profitto per i capitalisti.
L'arrivo dello smartphone significa il momento Debordiano in cui la merce ha portato a termine la sua «colonizzazione della vita sociale»? È vero che non solo la nostra relazione con le merci è più facile da vedere, ma anche che «le merci sono tutto quel che c'è da vedere?»

Potrebbe sembrare che stia calcando la mano. L'accesso ai social network e la connettività digitale per mezzo dei telefono cellulari ha indubbiamente degli elementi liberatori. Lo smartphone può contribuire alla lotta contro l'anomia e a promuovere un senso di consapevolezza ambientale, mentre allo stesso tempo rende più facile alle persone costruire e mantenere rapporti reali.
Una connessione condivisa attraverso avatar digitali può anche alimentare resistenze nei confronti delle esistenti gerarchie di potere, i cui meccanismi interni isolano e riducono al silenzio gli individui. È impossibile immaginare le proteste scoppiate a Ferguson e la brutalità della polizia senza gli smartphone e i social media. E, in ultima analisi, la maggioranza delle persone non è ancora costretta ad usare lo smartphone per lavorare, e certamente non viene loro richiesto che mettano in scena un loro avatar per mezzo della tecnologia. La maggioranza potrebbe gettare a mare il proprio telefono anche domani, se volesse.
Ma non vogliono. La gente ama i loro dispositivi portatili. Comunicare soprattutto per mezzo degli smartphone sta rapidamente diventando una norma accettata, e sono sempre più i rituali che stanno diventando tecnologicamente mediati. La connessione costante alle reti e le informazioni che traiamo dal cyberspazio, sta diventando centrale ai fini dell'identità. È questo il motivo per il quale è in atto una speculazione labirintica.

Forse, come suggerisce Ken Hills, esperto di tecnologia e media, è solo un'altra maniera di «evitare il Vuoto e la mancanza di senso dell'esistenza?» Oppure, come ha recentemente pensato Roxane Gay, insegnante e scrittrice, la nostra capacità di manipolare i nostri avatar digitali costituisce un balsamo per il nostro profondo senso di impotenza di fronte all'ingiustizia e all'odio?
O ancora - come si chiede Amber Case, guru tecnologico - ci stiamo trasformando tutti in cyborg?

Probabilmente no - ma ciò dipende da come si definisce cyborg. Se un cyborg è un essere umano che usa un pezzo di tecnologia o una macchina per ripristinare funzioni perdute o per aumentare capacità e conoscenza, allora è da tempo che le persone sono cyborg, e usare uno smartphone non è diverso dall'uso di una protesi, dal guidare un'automobile, o dal lavorare ad una catena di montaggio.
Se si definisce cyborg una società come quella in cui le relazioni umane sono mediate e modellate dalla tecnologia, allora la nostra società risponde sicuramente a tali criteri, e i nostri cellulari svolgono un ruolo centrale in tutto questo. Ma il nostro relazionarci e i nostri rituali è da tempo che sono mediati dalla tecnologia. L'affermarsi di centri urbani di massa - centri di connettività e di innovazione - non sarebbe stato possibile senza le ferrovie e le automobili.
Macchinari, tecnologia, reti, e informazioni non dirigono o organizzano la società - le persone, lo fanno. Siamo noi che facciamo cose e le usiamo secondo quella che è la rete esistente di relazioni sociali, economiche, politiche e quello che è l'equilibrio di potere.
Lo smartphone, e la forma in cui modella e riflette le relazioni sociali esistenti, non è più metafisico di quanto lo fosse il Ford Ranger che un tempo veniva sputata fuori dalla catena di montaggio ad Edison, New Jersey. Lo smartphone è tanto una macchina quanto una merce. La sua produzione è una mappa del potere, della logistica, e dello sfruttamento globali. Il suo utilizzo dà forma e riflette lo scontro perenne fra l'azione totalizzante del capitale e la resistenza da parte del resto di tutti noi.
Allo stato attuale, la necessità da parte dei capitalisti di sfruttare e mercificare viene rafforzata dal modo in cui gli smartphone vengono prodotti e consumati, ma i profitti del capitale non sono mai sicuri e inattaccabili. Devono essere rinnovati e difesi ad ogni passo. Noi abbiamo il potere di contestare il profitto del capitale, e dovremmo farlo. Forse, lungo la strada i nostri telefoni ci potranno servire.

Nicole M. AschoffPubblicato sulla rivista Jacobin, nel marzo del 2015 -

fonte: Jacobin - Reason in Revolt

giovedì 29 settembre 2016

L'archiviazione dello spazio

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Se si legge la sterminata saggistica che ha scandagliato da ogni parte la cultura degli Stati Uniti d'America si rischia ai diventare schizofrenici. L'America sembra essere tutto e il contrario di tutto: progressiva e reazionaria, pacifista e imperialista, libertaria e autoritaria, ottimista e paranoica. Come è possibile? La tesi di questo libro è che una simile identità si fonda sullo spazio (non sul tempo, come in Europa) e, soprattutto, su due rappresentazioni opposte di esso: la prima, derivante dalla matrice della frontiera, vive sul a continua necessità di invenzione di nuove dimensioni spaziali allo scopo di risolvere i conflitti; la seconda invece, basata sulla matrice puritana, percepisce lo spazio vuoto come fonte del male e dunque opera ossessivamente per controllarlo, catalogarlo, misurarlo. È dall'incontro-scontro di questi due mondi che si concretizza quell'inconfondibile ed eccezionale immaginario che tutti oggi sappiamo immediatamente riconoscere, solo guardando un film o una serie televisiva, sfogliando le pagine di un fumetto o giocando con un videogame. Esso permea la politica (interna ed estera), le relazioni sociali, lo sviluppo tecnologico, la strategia economica, persino i nuovi media e il mondo del web.
L’immaginario americano si fonda sullo spazio. Niente di nuovo. Sappiamo molto bene che, a differenza dell’Europa, in cui esso sembra essere quasi sempre metafora-laboratorio del tempo, il nuovo continente trasforma continuamente il tempo in spazio producendo identità apparentemente centrate sull’orizzontalità del presente, e ancora di più sulla produzione di futuro, piuttosto che sulla verticalità del passato. Così in America lo spazio dà l’impressione di essere l’unico parametro per leggere un’intera cultura e interpretarne i suoi prodotti, tutti facilmente collocabili in un processo storico che non presenta, almeno in apparenza, ambiguità.
Eppure, a leggere la sterminata saggistica dedicata alla cultura americana a cominciare proprio dal testo fondativo di Tocqueville, La democrazia in America, si rischia di diventare schizofrenici. Essa sembra essere tutto e il contrario di tutto: progressiva e reazionaria, avanguardia e retroguardia, pacifista e imperialista, qualunquista e iperpoliticizzata, libertaria e autoritaria, consumista e puritana, utopica e distopica, giustizialista e garantista, ottimista e paranoica. Il romanziere Bruce Sterling, pioniere della letteratura cyberpunk, quando una ventina di anni fa, riferendosi a Singapore, ha coniato la definizione “parco giochi con pena di morte”, probabilmente stava pensando all’America.
Il problema è che, se è vero che la cultura americana si fonda sullo spazio, in realtà si poggia su due differenti e spesso contraddittorie rappresentazioni di esso: scopo di questo libro è provare a farle interagire e capire questa contraddizione. Spiegare cioè come l’indole chiusa, quella della fondazione puritana dei Padri Pellegrini, si intrecci agli inizi dell’Ottocento, con l’identità aperta, quella degli uomini della frontiera, producendo un immaginario inconfondibile e riconoscibile da chiunque solo guardando un film o sfogliando le pagine di un fumetto. Esso permea la politica (interna ed estera), le relazioni sociali, lo sviluppo dei media, l’urbanistica, l’architettura, l’economia. Persino le nuove tecnologie, il mondo del web, soprattutto dopo la fine della frontiera storica propriamente detta, sembrano rispondere, in America, a due istanze originarie contrapposte: da una parte, la ricerca di nuovi spazi che assicurino una libertà infinita di movimento e la risoluzione di ogni tipo di conflitto; dall’altra, il controllo, la limitazione, la catalogazione ossessiva delle dimensioni spaziali esistenti e dei loro oggetti, attraverso la creazione di mega archivi e database.

(dal risvolto di copertina di "Spazi (s)confinati. Puritanesimo e frontiera nell'immaginario americano", a cura di Fabio Tarzia ed Emiliano Ilardi, manifestolibri)

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Immaginari turbolenti della realtà
- di Antonio Tursi -

Nel volume Spazi (s)confinati (manifestolibri, 2015, pp. 413), i sociologi della cultura Fabio Tarzia ed Emiliano Ilardi sostengono la tesi della centralità dell’immaginario nella storia degli Stati uniti e in tale ottica indagano quel «grande sistema comunicativo che, attraverso una strumentazione metaforica e allegorica, e un utilizzo del più svariato ventaglio di linguaggi, dà forma (attraverso i media) alle strutture culturali profonde e funge da mediazione tra queste ultime, gli individui e le trasformazioni storiche». Lo sconfinamento reaganiano tra il cinema e la realtà, l’attore e il politico dà conto di una forza dell’immaginario altrove storicamente molto più debole ovvero sostanzialmente alternativo rispetto alla realtà (quasi una compensazione rispetto a essa). Ci pare perciò davvero apprezzabile il tentativo compiuto in Spazi (s)confinati di indagare il ruolo del fattore-chiave immaginario. E di farlo sganciandolo da quella critica tipicamente marxista che lo relega a mera sovrastruttura determinata e funzionale alle dinamiche dell’economia capitalista. L’immaginario – pur non essendo l’unico fattore del mutamento sociale così come per McLuhan non lo erano i media – gioca un suo ruolo autonomo e in forza di questa autonomia interagisce con altri fattori, tipo quelli economici, a volte indirizzandoli in determinate direzioni. Inoltre, coraggiosamente, i due autori indagano le dinamiche dell’immaginario americano nel lungo periodo, mostrandone splendori e miserie, momenti di gloria e crepe dall’arrivo dei Padri Pellegrini all’affermazione di Barack Obama.
Le parole e le azioni di Reagan ci mostrano, inoltre, come il sentimento di un «Destino Manifesto» derivato dal puritanesimo, da un lato, e la conquista dello spazio derivato dall’esperienza della frontiera, dall’altro, siano riconoscibili come le grandi matrici di sviluppo dell’immaginario yankee. Ciò dalla sua origine e sino almeno all’esaurimento della spinta propulsiva offerta dalle vittorie nelle due guerre mondiali. Poi qualcosa si è incrinato: il Vietnam ha forse rappresentato il momento in cui l’America è stata chiamata più che in altre occasioni a prendere atto delle crepe del suo edificio. Lo spazio della giungla asiatica non è stato conquistato e dunque neppure riconsacrato. Il nemico, che l’America ha sempre assolutizzato (dalle streghe ai «demoni» rossi, dai gialli vietcong ai terroristi islamici), non è stato punito. E molti figli della nazione eletta non sono più tornati alle loro case, nella loro Città sulla collina, se non dentro body bags. La nazione non è riuscita più a manifestare la sua elezione, la sua predestinazione, il suo Destino. Una crisi che continua anche nella società globale di oggi, nella quale il ruolo degli Stati uniti non è ben definito, oscillando tra interventismo eccessivo e isolazionismo, rappresentazione del grande Satana e faro di democrazia. Dopo l’11 settembre e le guerre permanenti in Afghanistan e Iraq, non siamo più stati tutti americani.
L’America non riesce più ad affermare la sua egemonia culturale prima che politica in un mondo multicentrico e turbolento. Un mondo in cui l’ibridazione con l’alterità è diventata la regola, non si riconosce più nel meccanismo di chiusura e apertura, di distinzione e conquista che l’immaginario americano ha dispiegato nel passato. Può l’America riconquistare un ruolo definito in questo mondo? Spazi (s)confinati non offre una risposta univoca; si limita a richiamare l’attenzione sulla capacità di reinventarsi che l’immaginario americano ha mostrato nel corso del tempo. Nella loro ricostruzione gli autori sostengono, tra l’altro, che in America non è mai emersa una sfera pubblica capace di mediare le diversità. Negli spazi sconfinati della frontiera al massimo si è manifestata una pubblicità senza sfera pubblica. In tal modo, però, non si avvedono di utilizzare un metro tutto «continentale» per interpretare un fenomeno che – come loro stessi mostrano – a quel metro non si può riportare. Non una sfera pubblica di tipo argomentativo o in generale costruita sulle grandi fratture ideologiche ma una sfera pubblica fatta di single issue, agitazioni emotive, filamenti di immaginario, forse effimera ma non meno significativa, ha improntato la politica negli Stati uniti. Su questa base non è escluso che gli States possono ritrovare un ruolo nell’epoca delle sfere pubbliche diasporiche che, come insegna Arjun Appadurai, sono giocate proprio sull’immaginario.

- Antonio Tursi - Pubblicato su Il Manifesto del 24 marzo 2016 -

martedì 27 settembre 2016

Nessuna Pietà!

MICHELANGELO

Del dominio matriarcale
Il potere della Madre nel godimento della Pietà
- di Jean-Luc Debry-

«Non c'è forza ideologica controrivoluzionaria più grande del cristianesimo in tutte le sue forme, compreso l'Islam!»
- Guy Debord, Correspondance, volume 3, 1965-1968, p.40 -

L'impossibile rivolta contro la madre
La rivolta contro il Padre - la denuncia del suo potere - è diventata una sorta di luogo comune volgarizzato dalla psicoanalisi. Infatti, si assume che questa rivolta sia salvifica e necessaria allo sviluppo dell'individuo, e che sul piano storico essa partecipi di un movimento di liberazione che svolge un'evidente funzione di spingere un processo di decostruzione dell'ordine stabilito.
Come si sa, il patriarcato ha dato vita ad una modalità di potere in cui l'esercizio dell'autorità avviene in maniera brutale e violente. Esso giustifica il suo dominio nel nome della legge. La madre, al contrario, fonda il suo dominio sulla bontà materna amorevole e devota, e su un debito di vita che non può essere rimborsato sul piano simbolico. Ora, è curioso che il potere della Madre che opera in seno al potere politico del Padre, sia stato così poco studiato. Gli psicoanalisti lo sanno e lo dicono, questa dimensione non è senza importanza, tutt'altro. Assai spesso l'analizzato inciampa nella questione della madre, a volte per lunghi anni essa diventa il soggetto centrale dell'analisi. La Madre è al centro della nevrosi. È il luogo dove il potere resiste meglio al suo essere messo in discussione. È anche, e soprattutto, il luogo in cui l'intimità carnale fra il potere e la morte è, in maniera estremamente ipocrita, immediata e vivente. Non è perciò stravagante interrogarsi su questa struttura di dominio usando di una griglia in cui vengono messi il potere e la morte [*1] in quanto legati sul piano simbolico e reale. In quanto il potere della madre, mascherato e difficilmente denunciabile (enunciabile), trova la sua giustificazione nell'atto di donare la vita e, di conseguenza, quindi è in parte legato con la morte. Il debito che ogni essere vivente contrae con la madre non può essere rimborsato con una qualche dono che, per così dire, azzeri il conto. Nella simbologia cristiana, messa in scena nella sua propaganda iconografica, offrire alla madre il proprio corpo morto e permetterle di farne uso, dopo tanti sacrifici da lei fatti, è il mezzo per istituire il potere della Madre. Di modo che lei protegga il nuovo-nato, lo nutra, lo curi e lo educhi nel rispetto della sottomissione alla legge del Padre. La madre o l'impossibile potlatch! Così, il desiderio di emancipazione si trasforma in senso di colpa e rinchiude l'impulso alla vita nella sua prigione. Se liberarsi dal proprio padre è relativamente facile e comune, liberarsi dal potere della madre si rivela cosa notevolmente più complessa in quanto viziata da un sentimento colpevolizzante. Il cristianesimo in quanto ideologia della sottomissione ha utilizzato a tal proposito la figura della Vergine.

Da la Madre a La madre
La figura della Vergine, in tutte le sue forme, ha un posto particolare nell'iconografia cristiana. La natura ideologica della sua immagine e del suo culto merita di essere considerata con cura, in quanto, indubbiamente, la sua risonanza nell'inconscio occidentale è notevole. Dalla Vergine col Bambino alla Pietà è stata tessuta, nel quadro di una rappresentazione codificata e normalizzata, la trama di un discorso che parla del potere singolare della bontà come modalità di servitù volontaria, desiderabile e desiderata. Non si può ignorarne la natura simbolica è pertanto sottolinearne l'efficienza. Portare il corpo morto di chi era fuggito, il figlio, il corpo di chi è stato la causa della sua sottomissione ad un ordine di cose che è stato altro che quello del Padre, segna un ultimo passo verso la deificazione della Madre di Dio e rappresenta una sorta di vendetta che riecheggia nei ritratti dolciastri e ambigui delle giovani donne che appena raggiunta la pubertà vengono definitivamente recluse nel loro ruolo di madre. Dalla gravità ieratica della Vergine con il Bambino emerge una sorta di tristezza rassegnata della quale Giovanni Bellini (1430-1516), fra gli altri, ci ha trasmesso l'espressione tragica e delicata. Philippe Borgeaud [*2] sottolinea il fatto che «la Madre degli dei è anche la Madre degli uomini» e che lei sorveglia, protegge e rende permanente la legittimità del potere del Padre. Il suo culto, come spiega l'autore, trova le sue radici e trae la sua vitalità dai miti ancestrali. Ma la specificità della Madre di Dio risiede nella natura profondamente perversa del suo atteggiamento amorevole e protettivo visto insieme alla vendetta realizzata dal corpo del figlio morto, disteso sulle sue ginocchia, come viene rappresentato nelle Pietà. Il potere della Madre si appoggia su un'ideale di bontà che la mette al riparo dagli attacchi che ne potrebbero denunciare l'estrema perversità. Bisogna ricordare che, nel mito cristiano, il padre reale, Giuseppe, era un debole, un poveraccio [*3] sottomesso che lavorava come un matto (homo faber) e non aveva diritto a niente? In alcune rappresentazioni [*4], è buono soltanto a servire da leggio per gli angeli musicanti mentre Maria e Gesù dormono profondamente. Il Padre idealizzato è stato per Maria incestuoso. Non si tratta di una banale tragedia greca della quale Racine ai suoi tempi avrebbe fatto una bella storia di lotta fra il Desiderio ed il Potere. Ma si tratta piuttosto di un struttura ideologica che organizza il sociale da un punto di vista ideologica e, senza dubbio, penetra l'intimità del soggetto sottomesso al potere più banale della Madre nella banalità di una schema nevrotico esplicito. Lo spostamento della maiuscola non è una semplice pedanteria. Non sarà sfuggito al lettore che da la Madre a La madre, il cambiamento di registro sottolinea uno spostamento simbolico che, per riprendere la formula di Freud [*5], estratto «dall'inventario psichico di una civiltà», ci permette di mostrare come l'alienazione sociale avviene per mezzo di una sottomissione psicologica.

La bontà o il potere incontestabile della madre
Hannah Arendt sottolinea che il cristianesimo ha sostituito all'ideale della saggezza, presente nella dottrina di Socrate, un ideale di bontà [*6]. Così, forte di questo spostamento sentimentale, la comunità viene chiamata a regolare i suoi affari in termini di bontà. Questa dottrina ormai rinchiude la sfera pubblica dentro una relazione personale fra uomo e uomo [*7]. La politica viene ad essere basata su un'intimità ristretta, all'interno della quale prospera, sotto la copertura di una cultura dei buoni sentimenti, la cattiva coscienza del soggetto che blocca le relazioni di potere e di dipendenza in maniera stretta e inestricabile. Fumo nevrotico che verrà esplorato dagli psicoanalisti con la pertinenza che conosciamo. Questo ideale rinchiude il soggetto in un progetto politico e sociale che rafforza il principio di dominio basato sulla sottomissione ad un ordine di cose ormai impensabile (nel senso letterario del termine), un ordine dominato dall'emozione e di cui sarà la bontà la chiave di volta. Il potere è buono, protettivo e caritatevole, ed inscrive la sua legittimità in un livello di sentimentalismo che lo mette fuori portata dall'essere messo in discussione, salvo ovviamente dover assumere, per chi si arrischia a farlo in maniera impudente, una cattiva coscienza devastatrice. Il potere della Chiesa, sotto l'impulso dei suoi ideologhi, San Paolo e Sant'Agostino, si costruirà proprio sul principio di cattiva coscienza. Paradigma dalle molteplici declinazioni che essi stabiliranno come dogma. «Così la dottrina religiosa ci dice la verità storica, sebbene sotto una forma trasformata e mascherata» [*8], ci ricorda Sigmund Freud, riprendendo la questione sollevata da Nietschze a proposito dei misfatti del risentimento. Questa struttura della relazione con sé stessi e con il mondo verrà presentata per secoli dalla propaganda cristiana come il solo mezzo possibile per vivere in pace con sé stessi (quindi con l'ordine sociale dominante). Questa visione penetra nelle profondità delle coscienze e rende ogni desiderio di emancipazione un'apostasia, suscettibile di giustificare il rogo. Ma fortunatamente, il suo corollario, il pentimento - il perdono da parte di un potere intriso di un'inalterabile bontà strutturale - poteva sistemare le cose in una sorta di diluvio di lacrime e contrizioni. Lo spettacolo della penitenza individuale o collettiva ritualizza questo necessario ritorno all'ordine. Ognuno viene così rimesso al suo posto e il gioco può continuare, indefinitamente. Come effetto della bontà, il perdono e la redenzione articolano questo macchinario tutto sommato assai semplice, per non dire semplicistico, ma terribilmente efficace. Il potere ecclesiastico che controlla la continuità di un ordine sociale del quale, per bontà d'animo, aveva accettato il controllo, riesce a convivere le sue vittime che in fondo meritano la sorte cui erano state condannate per le loro irragionevoli ambizioni. In altre parole, l'ordine sociale confinato nella struttura ideologica del cristianesimo si fonda sull'impossibilità strutturale di sfuggire al senso di colpa, dal momento che colui che è vittima dei misfatti della bontà è anche quello che non sarà mai abbastanza riconoscente dei suoi benefici. È per il tuo bene figlio mio che ti faccio del male e la tua ribellione, che mi fa tanto male, non ti fa alcun bene, di conseguenza desidera il male che ti faccio, desiderale per te, per i tuoi figli e per i figli di questi figli. Amen! Schema che lo stalinismo, al contrario del nazismo, ha saputo esplorare con una certa abilità. Ed anche il fascismo santificato dal Vaticano!

L'arte della manipolazione dei sentimenti e delle opinioni trova nell'ideologia della bontà materiale una consacrazione attraverso la messinscena della famiglia. Questa immagine della Sacra Famiglia accomunata da un desiderio comune di pace mortifera è diventata una figura della propaganda universale e riunisce in un comune utilizzo politici democratici e dittatori. Edward Bernays [*9] considera che prendere un bambino sule ginocchia, davanti a dei fotografi, e coccolarlo ha senso ed efficacia, in termini di manipolazione, solo a condizione che questo sia il significante di un progetto politico basato sui valori della famiglia e, pertanto, dell'ideologia della bontà soave in quanto che essa rappresenta l'alfa e l'omega di un ordine sociale fondato sulla sottomissione all'immagine di un amore grondante buoni sentimenti. Colui che esercita il suo potere all'interno di una relazione rinchiusa nel sentimentalismo di un'emotività primaria, lo esercita, consensualmente, nel nome dell'amore, della protezione e per il bene di chi e è l'oggetto. Schiacciare il prossimo con la propria bontà è in effetti un buon modo di prendere il potere. Il mito de «l'amore gratuito della madre» giustifica da sé solo il fatto che ci si prosterni davanti alla sua figura emblematica. Per il fatto che viene presentata come l'immagine della fede, è impossibile non ricollegare il suo culto ad un progetto più vasto. Perciò non sorprende che il culto della Madre appaia e si sviluppo ad ogni tappa della ripresa in mano del potere da parte della Chiesa cattolica su una società che malgrado tutto gli resiste. Così, il Concilio Lateranense nel 649 proclama la verginità perpetua di Maria. Ora, in quell'epoca il potere ecclesiastico romano si trovava per l'appunto in piena crisi. Era attraversato da polemiche dogmatiche con ripercussioni geopolitiche che laceravano l'Oriente e l'Occidente e minacciavano direttamente la sua legittimità politica. Per rispondere agli attacchi di Lutero e Calvino, qualche secolo più tardi, l'interminabile Concilio di Trento (1545-1563) organizzerà la Controriforma ed i suoi canoni barocchi. Appare evidente che il culto mariano, nei suoi dogmi e nelle sue rappresentazioni, sia, alla luce della storia, un tema simbolico intorno al quale si cristallizza la realizzazione della sottomissione che i fedeli devono stabilire rispetto ai loro padroni grazie all'intercessione della Vergine, fino a dentro l'intimità della loro vita quotidiana.

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Il culto mariano, o l'esaltazione della sottomissione desiderabile
La dipendenza emotiva della vittima riguardo al suo torturatore come base di un ordine totalitario, ha trovato nella Vergine la sua rappresentazione più pertinente e più efficace. Non è certamente senza importanza sottolineare che tutti i regimi totalitari di destra (alleanza della spada e dell'aspersorio) si sono impadroniti del culto mariano con un'isteria ed un giubilo la cui efficienza è stata confermata in tutto il mondo cristiano (Spagna, Italia, Portogallo, America Latina, ecc.). Nel 1987, il reazionario Giovanni Paolo II pubblica, nel quadro di un'operazione di restaurazione ideologica, la sua enciclica in cui rilancia il culto mariano e sviluppa un attivismo quasi militante in materia. Per cancellare gli effetti nefasti del Concilio Vaticano II, cerca innanzitutto di rimettere, ancora una volta, il potere romano sui binari di una tradizione strutturata ideologicamente da papa Pio IX (1792-1878). D'altra parte è nel 1854, in un contesto storico nel quale dappertutto in Europa avanzano gli ideali laici e rivoluzionari (la data quindi non è senza importanza) che viene proclamato da Pio IX il dogma dell'Immacolata Concezione. A questo seguirà tutta una serie di apparizioni miracolose [*10] a conforto della dottrina in una sorta di delirio mistico che potrebbe essere definito adatto alla circostanza. E, nel 1870, sotto gli auspici della Vergine, viene proclamato il dogma dell'infallibilità papale. In questo modo, in maniera evidente, il papa organizza, sotto il segno della Vergine, la riconquista della Chiesa in un'Europa in cui il movimento operaio si organizza e guadagna ogni giorno sempre più forza. L'arma della riconquista è Maria, che riveste il significato del riarmo morale del cristianesimo, ogni qual volta che i suoi fondamenti politici vengono scossi. Nella Parigi operaia decristianizzata [*11] della fine del Secondo Impero, questa riconquista sarà l'obiettivo prefissato delle congregazioni. L'odio che la Chiesa riserverà alla Comune va compreso anche a partire dalla natura ideologica di un'istituzione che rabbrividisce all'idea che la società possa rinunciare a considerarla come un'organizzazione legittima e necessaria al mantenimento dell'ordine, ordine che poggia sulla gerarchia immutabile degli uomini e delle classi.

Pio IX ha agito in termini di potere, è evidente. Intendeva rilanciare la fede popolare, usando il culto mariano come leva. Questo si inscriveva in una tradizione culturale che era stata già collaudata nel XVI secolo, allorché il protestantesimo era stato sul punto di scuotere il cattolicesimo. Si tratta di sacralizzare la sottomissione della Vergine spingendo i fedeli ad imitare un modello di bontà e rassegnazione. Pio IX è stato un vero e proprio "papa re", il cui regno è durato dal 1846 al 1878. Verrà beatifico da Giovanni Paolo II il 3 settembre del 2000. Era sempre stato un feroce nemico delle idee provenienti dai Lumi, e quindi di tutte le forme di liberalismo politico (l'enciclica del 1864). D'altra parte, passerà ai posteri per l'esecuzione dei patrioti italiani. Il 22 settembre 1870, le truppe francesi si ritiravano dall'ultimo territorio ancora controllato dalle forze militari del papa e, il 2 ottobre, i soldati del giovane Stato italiano entravano a Roma. La città venne proclamata capitale del regno. Finiva definitivamente lo Stato pontificio. Per un papa che aveva innalzato l'infallibilità papale al rango di dogma, il colpo era stato duro. Da allora, si considererà prigioniero nel Vaticano, da dove continuerà ad inveire e ad agire attraverso la sua potente "rete di influenza" contro il vento di riforme che soffiava sull'Europa. Si consideri soltanto, di passaggio, che bisognerà aspettare i Patti Lateranensi, l'11 febbraio 1929, perché sia ristabilito lo Stato della Città del Vaticano. Grazie a Mussolini... Nel 1875, Pio IX lancia anche un movimento di devozione al Sacro Cuore che nello stesso anno darà inizio alla costruzione - per espiare i crimini della Comune - di una basilica monumentale a Montmatre che ne è il simbolo più opprimente, e senza dubbio il più spregevole.

Il culto mariano è quindi un'operazione di mobilitazione popolare semplice ed efficace nella misura in cui gioca unicamente sul registro emozionale ed affettivo che non richiede alcuna esegesi, e dispensa i fedeli da un apprendistato lungo e fastidioso. È un culto da consumare sul posto in mezzo ad una folla di fedeli isterici. Questo culto è indirizzato ai popoli e agli oppressi vittime di un sistema sociale iniquo (servi) o alle vittime del colonialismo. Così nel 1531, a Guadalupe, al culmine dei crimini coloniali spagnoli in Messico, «un piccolo indio, povero e di modeste condizioni», sulla collina di Tepeyac vedrà apparire la Vergine, che gli dirà:«Sono la madre amorevole, tua e dei tuoi simili» [*12]. Del resto, sarà il maresciallo Pétain a istituire la festa della mamma. E un buon figlio va con sua madre alla messa, ad ascoltare le prediche reazionarie di un clero fascisteggiante, antisemita, omofoba, sessista e anticomunista! La madre idealizzata apre le porte dell'intolleranza dogmatica con così tanta dolcezza che le grida dei supplici somigliano al canto degli angeli. È nei sotterranei delle caserme cilene ed uruguayane che il cattolicesimo ha trovato un luogo degno del suo ideale totalitario.

L'icona della madre e la perversità del potere
Torniamo all'icona della Vergine con il Bambino ed al valore simbolico della sua evocazione nella riproduzione della Pietà [*13]. La sconfitta di questa donna molto giovane si consuma nel momento in cui rinuncia al suo desiderio di vivere una vita da donna e si arrende al desiderio del Padre per diventare una Madre. D'ora in poi, dotata di un oggetto dipendente dalle sue cure e dal suo "amore", la sua rivincita sarà strettamente legata al destino dell'oggetto simbolo della perdita (della libertà). Iscritto nel registro della perdita, il debito contratto dal bambino-oggetto verrà riscattato con la sua morte che vedrà il trionfo di sua madre. Non è stato così per Antigone? Ne aveva l'età. Da Sofocle a Henry Bachau [*14]. abbiamo infatti materiale per riflettere su queste donne che conquistando la loro libertà liberano il mondo da un debito d'amore abusivo, e permettono ai loro discendenti di costruire una storia in cui il soggetto diventa attore della sua propria vita. Diventando donne con un destino singolare, diventano umane, vale a dire uguali agli uomini, e danno così una possibilità alla loro discendenza di costituirsi nel quadro di uno scambio possibile, nell'alterità. Non siamo troppo lontani da Georges Bataille, dal momento che Antigone parla anche di un tempo in cui la funzione non si confondeva con l'esistenza. Al contrario, quando la funzione materna diventa il senso dell'esistenza, il culto mortifero della Pietà diventa una giustificazione spettacolare del sacrificio.

Nei testi degli autori tragici, si parla dell'umano e dell'inumano, della libertà conquistata, dello scontro mortale delle coscienze, in breve si parla di un luogo in cui l'altro sarebbe una sorta di parassita assoluto, ma in nessun caso un oggetto, simbolo di un debito d'amore e, pertanto, di un dominio da cui non c'è altra via d'uscita se non la morte del figlio, per ottenere la soddisfazione della madre, come simbolizzato dalla Pietà. Il bambino fra le braccia della madre esprime questo destino esangue per le due figure (la giovane donna e il suo bambino). Parlare della donna, della ragazza, senza celebrare e istituire la madre ed il suo strascico di perversioni è impossibile nel quadro dell'iconografia studiata. Con il cristianesimo istituzionale, il tragico è diventato un'operazione di manipolazione delle coscienze nel quadro di un progetto politico che mira alla totalità nella sua formulazione del soggetto e nel suo rapporto con il potere.

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Il potere manipolatore della madre si fonda sul suo sacrificio così bene illustrato dalle rappresentazioni della Vergine con il Bambino di Giovanni Bellini e, soprattutto, di Piero di Cosimo (1461-1522) nel suo dipinto esposto al Museo del Louvre a Parigi, intitolato Madonna della Colomba. È il simbolo delle giovani donne sacrificate alla maternità. Si trova così ad essere sacralizzata insieme alla sua legittima infelicità, l'infelicità che, in cambio, dispenserà a coloro che ama e che l'amano. L'iconografia della Pietà, in una sorta di soddisfazione che proviene dal ribaltamento della situazione, ce la mostra mentre gode della sua sventura. In questo consiste ciò che c'è di più tragico nella funzione materna; la madre gioisce di tutto ciò che sacrifica, ma in maniera così contorta, così ambigua che questo ne diviene un segno caratteristico, un sintomo: un modo per dominare, e soprattutto un'arte nevrotica di inoculare il suo virus all'oggetto del suo dominio. Con una maestria che deve molto all'isteria, si fa pagare ad alto prezzo, ma in modo insidioso, in attesa del suo momento. Ritrova nelle sue lacrime la posa di mater dolorosa e soprattutto, perfettamente isterica, ritrova nell'adorazione che suscita il mezzo per godere alla fine del suo desiderio sacrificato, schiacciato dalla volontà del Padre. A proposito dell'Estasi di Santa Teresa, del Bernini [*15], Jacques Lacan afferma che «lei gode, su questo non c'è alcun dubbio» [*16]. E aggiunge: «Queste giaculatorie mistiche non sono né chiacchiere né sproloquio, sono fondamentalmente ciò che di meglio si può leggere» [*17]. E come non equiparare, in questo registro, la Pietà di Michelangelo (1498-1499), esposta nella Basilica di San Pietro, in Vaticano? La Vergine eternamente giovane e desiderabile con il suo sguardo equivoco tiene sulle ginocchia il corpo flessibile e abbandonato del bambino morto recentemente.

Le Pietà barocche riecheggiano la Vergine con il Bambino. Sottolineano il trionfo della madre in quanto rappresenta la consacrazione nevrotica delle passioni triste (Spinoza). Il tema iconografico della Pietà appare nella pittura italiana della metà del XVI secolo. È costituita da due figure centrali: quella della Vergine seduta e quella del Cristo morto disteso sulle sue ginocchia. Quest'immagine si è formata nel quadro di un culto mortifero. Prima di questa svolta ideologica, i fedeli adoravano la croce vuota e il Cristo in Gloria. Da allora in poi, quello che contempleranno sarà un corpo sofferente e torturato a morte. Quindi, nell'iconografia cristiana il tema è tardivo. Le rappresentazioni ci mostrano la Vergine sublime nel suo dolore che raccoglie fra le sue braccia il torturato appena sceso dal patibolo. «Ci troviamo in qualche modo di fronte ad un bambino cui la madre si appresta a riservare le sue cure, o che lei si sente in dovere di consolare» [*18]. L'oggetto ridiventa oggetto.

Il potere della madre, simbolo del compimento mortifero di ogni potere
Blaise Cendrars vede nella madre (nell'accezione simbolica del termine) una manifestazione di masochismo eretto a sistema. In Moravagine, scrive: «Più la donna partorisce, più genera la morte! Piuttosto che del generare, la madre è il simbolo della distruzione, e chi è quella che non preferirebbe uccidere e divorare i suoi figli, se potesse essere sicura così facendo di legarsi al maschio, di tenerselo, di compenetrarsene, di assorbirlo dal basso, di digerirlo, di farlo macerare dentro di lei, ridotto allo stato fetale, e di portarlo così per tutta la vita sul suo seno» [*19]. Come la Pietà, alla fine premiata per suo desiderio sacrificato... Se è la rivincita della donna sacrificata, il regno della madre è senza dubbio altrettanto atroce, altrettanto distruttivo e alla fine altrettanto terribile del dominio patriarcale. Con il sovrappiù della perversità. Il dono della vita, per la donna ridotta allo stato funzionale, si accompagna ad una perdita. Il dono della vita restituito è quello del bambino morto fra le sue braccia e, nella posizione di partenza, sulle sue ginocchia. Quando la madre gode, il figlio è morto. Quando la donna accetta di essere solo una madre per la società, il figlio è già morto. Questo potere fondato sulla bontà nasconde così tanto dolore che la Madre, schierandosi dalla parte del potere del Padre, fornisce al fascismo ordinario una garanzia senza uguali. La forza del padre per vincere, l'amore sacrificale della madre per convincere, ovvero l'alleanza delle falangi fasciste e del clero cattolico.

- Jean-Luc Debry - 2008 -

NOTE:

[1] Questo studio è originalmente apparso sul numéro 6-7 (2008) della rivista Mortibus, il cui tema era: « Il potere o la morte! ».– [NDÉ.]

[2] Philippe Borgeaud, La Mère des dieux. De Cybèle à la Vierge Marie, Paris, Éditions du Seuil, 1996, p. 51.

[3] Jean Duvignaud – Rire et après. Essai sur le comique, Paris, Desclée de Brouwer, 1999 – cite, page 87, le cas des mystères allemands (et ailleurs dans les Flandres) joués sur le parvis des cathédrales dans lesquels Saint-Joseph cocu fait rire la foule des fidèles.

[4] Le Repos pendant la fuite en Égypte du Caravage (1596), Rome, Galleria Doria Pamphili.

[5] Sigmund Freud, L’Avenir d’une illusion, Paris, PUF, 1971, p. 19.

[6] Hannah Arendt, La Politique a-t-elle encore un sens ? Paris, L’Herne, 2007, p. 52.

[7] Ibid., p. 54.

[8] Sigmund Freud, L’Avenir d’une illusion, op. cit., p. 60.

[9] Edward Bernays, Propaganda. Comment manipuler l’opinion en démocratie, Paris, Zones, 2007, p. 98.

[10] 1858, Lourdes ; 1871, Pontmain ; 1879, Knock ; 1917, Fatima ; etc.

[11] Jacques-Olivier Boudon, Paris capitale religieuse sous le Second Empire, Paris, Éditions du Cerf, 2001, p. 210.

[12] Lors de son voyage en Amérique en 1970, le fondateur de l’Opus Dei rendra hommage, dans la capitale aztèque, à cette figure de l’acculturation coloniale.

[13] Cosme Tura (1480), Pietà de Villeneuve-lès-Avignon ; Quarton (1455), Paris, Musée du Louvre ; Pietà de Piero di Cosimo (1480), Pérouse, Galleria Nazionale dell’Umbria.

[14] Henry Bauchau, Œdipe sur la route et Antigone, Arles, Actes Sud, 1990 et 1997.

[15] La Chapelle Cornaro, à Rome.

[16] Jacques Lacan, Séminaire, livre XX, Encore, Paris, Éditions du Seuil, 1975, p. 70.

[17] Ibid., p. 71.

[18] Yves-Pascal Castel, « Les Pietà du Finistère », revue Minihy-Levenez, n° 69, juillet-août 2001.

[19] Blaise Cendrars, Moravagine, Paris, Grasset, 1998, p. 62.


fonte: A Contretemps

lunedì 26 settembre 2016

Gioco di maschere

masks

Terrorismo: le maschere tragiche di una guerra impossibile
- di Eugenio Raul Zaffaroni – *

I crociati della guerra contro il terrorismo non sembrano accorgersi che questa guerra è impossibile, dal momento che il terrorismo è un mezzo violento perverso, ma non è un nemico concreto. Il nemico potrebbe essere chi lo utilizza, ma non il mezzo in sé: non ci può essere una guerra contro le mine anti-uomo, per quanto perverso sia il loro utilizzo. Questa guerra impossibile rende il terrorismo un concetto mediatico astratto diffuso, ma se la criminoligia vuol fare qualcosa per prevenirlo, non ha altra scelta che quella di considerare i fatti concreti, dentro i quali identificare la diversità dei fenomeni.

Da un lato abbiamo un gruppo politico, con un pretesto religioso, che fa uso di metori aberranti e criminali, cosa che non ha niente di nuovo, dal momento che ne sono esistiti molti altri nel corso della storia. Dall'altro lato, è chiaro che il concetto astratto viene manipolato, in modo da considerare terroristi tutti coloro che non sono graditi a qualunque potere. Neanche questo è nuovo; un secolo fa, ci sono stati gli anarchici, ecc..

Ma fra tutti i fatti concreti che si possono osservare, ciò che attrae l'attenzione è il fatto che in Europa appaiono dei solitari che commettono delle atrocità nel nome di un movimento cui non sono legati, e nel nome di una religione che non praticano, e che sono nati e cresciuti sullo stesso suolo delle loro vittime e che si esprimono nella medesima lingua. Fenomeni simili si ripetono negli Stati Uniti, e non possono essere spiegati solo a partire da una facile accesso alle armi. A tal proposito, possiamo affermare in tutta sicurezza che si tratta di qualcosa mai visto prima. Ma benché la peculiarità di ciascun fenomeno non sia ripetibile, la base comune che permette un approccio alla sua dinamica criminale non è affatto nuova.

I crociati di questa guerra hanno l'abitudine di ripetere che il terrorista ignora la "condizione di persona" delle sue vittime. Benché questa sia un'evidenza attestata, è il capo del filo a partire dal quale bisogna sbrogliare la matassa che avvolge la comparsa del solitario.
La Dichiarazione Universale del 1948 stabilisce che ogni essere umano è una persona. Tuttavia, nella realtà sociale, questo dev'essere un obiettivo da raggiungere, per cui dobbiamo continuamente lottare, ma che rimane ben lontano dall'essere raggiunto. La parola "persona" evoca la maschera del teatro greco antico.
Questo significa che nella vita reale coloro che vengono considerate delle non-persone sono prive di qualsiasi maschera?
La cosa non è certa, dal momento che a partire dall'interazionismo sappiamo che in questo dramma globale tutti noi portiamo una maschera. Questo si spiega in quanto, per non considerare l'altro come una persona, è necessario mettergli una maschera diversa: quella del nemico, reale o potenziale. La maschera di nemico nasconde il viso dell'essere umano. La maschera di nemico nasconde il viso dell'essere umano demonizzato (possiamo inventare il neologismo "inimicizzato", dal momento che Satana in ebraico significa nemico). La maschera di nemico nasconde il viso dell'essere umano, il che spiega il perché il demonizzatore (inimicizzatore) comincia a vedere nel vicino simpatico e pacifico di ieri, solamente un altro nemico in quanto semplice membro di un collettivo diabolico che dev'essere distrutto o neutralizzato con tutti i mezzi, compresa la morte.

Ma lasciamo il demonizzato e mettiamoci ad osservare il demonizzatore. Che cos'è che lo spinge a distribuire delle maschere di nemico? Non si tratta di altro che della sua debolezza soggettiva: lui ha bisogno di sapere chi è. Dopo aver mascherato l'altro, sente di aver superato la propria fragilità in quanto soggetto, definendosi per esclusione: Io non sono l'altro, il nero, il selvaggio, il gay, l'indiano, ecc.. Io sono ciò che non sono. Ogni discriminazione creatrice di nemici è un seme di genocidio. Se osserviamo il modo in cui opera questo gioco di maschere in Europa, possiamo avvicinarci un po' alla crimino-dinamica del caso che viene  considerato nuovo. L'Europa colonialista ha messo milioni di maschere di pericoloso nemico potenziale a tutti i suoi colonizzati. Ha commesso dei crimini incredibilmente crudeli, in particolare in Africa. E non avrebbe potuto commetterli se non avesse messo preventivamente delle maschere ai suoi colonizzati. Nel corso del tempo, ne ha portato molti sul suo territorio, dacché la sua popolazione non cresceva al ritmo di cui aveva bisogno il suo apparato produttivo. Ma non li ha integrati culturalmente, né gli immigrati né i loro discendenti, dal momento che la maschera di selvaggio colonizzato era stata assimilata dalla sua società. Si è prodotto allora un doppio gioco di maschere: il portatore di una maschera selvaggia acquisisce una soggettività estremamente fragile, sentendo il peso del rifiuto sociale, ma non l'assume poiché non appartiene più alla cultura selvaggia.

Non c'è bisogno di avventurarsi nel campo della patologia per verificare che, in soggetti diversi, la debolezza soggettiva è talmente estrema da provocare un'angoscia insopportabile, alla quale si vuole sfuggire per mezzo di un diffuso travestimento da colonizzatore, contro la società che non smette mai di integrarlo. La fragilità soggettiva estrema lo porta a rispondere al "Chi sono io?» con un «io non sono il nemico colonizzatore». Dall'altra parte, gli orribili crimini di massa commessi da questi soggetti, provocano una reazione xenofoba che rafforza degli stereotipi discriminatori, riaffermando la distribuzione di maschere di non-persone. Non è difficile prevedere che questa reazione acuisce la fragilità soggettiva assai marcata degli altri, causando nuove catastrofi.

In sintesi: il doppio gioco delle maschere di nemico non è innocuo, almeno quando opera sulle persone, che per ragioni individuali arrivano al culmine della fragilità soggettiva vivendola con un'intensità talmente insopportabile da scoppiare in azioni di distruzione di massa e, in fondo, in un suicidio triangolare. Negli Stati Uniti operano delle ragioni in parte differenti che producono soggettività fragili. Il caso europeo appare estremo e più chiaro. Ma ci si può domandare se il mondo globalizzato (prima chiamato occidentale), in questo momento di transizione di paradigmi - secondo le parole di Boaventura de Souza Santos - non indebolisca le culture col risultato di riprodurre delle soggettività fragili.

In ogni caso, diventa necessario prestare una particolare attenzione alla distribuzione delle maschere, dal momento che si tratta di un gioco che finisce in un carnevale eccessivamente tragico, che ha come scenario un mondo che non è riuscito a dotare di una maschera di persona più della metà degli abitanti del pianeta.

- Eugenio Raul Zaffaroni - venerdì 26 agosto 2016 -

* Articolo apparso sul giornale argentino Pagina 12. Eugenio Raul Zaffaroni è un avvocato ed ex giudice della Corte suprema argentina.

fonte: EL Correo

domenica 25 settembre 2016

Santi comunisti

santo

«La foto qui sopra è stata scattata nel settembre del 1936 nei dintorni di Huesca (provincia di Aragona, Spagna).
Quest'uomo all'epoca venne identificato come un prete che, alcuni istanti dopo essere stato fotografato, fu fucilato da alcuni miliziani repubblicani nel villaggio di Sietamo.
Per decenni, a Huesca e dintorni, quest'immagine di un prete martire è stata oggetto di un vero e proprio culto. Se ne sono pubblicate immaginette, calendari. Lo si invocava nelle preghiere. Ma nel 1995, il papa Giovanni Paolo II ha fatto ancora un passo avanti e, nel corso di una delle sue infornate di beatificazione di martiri della guerra civile spagnola, ha santificato questo giovane e bel curato che aveva sfidato la morte recando sulla faccia il sorriso di chi sa di trovarsi dalla parte giusta. Dio sia lodato!

Lo scatto fotografico era stato realizzato da Hans Guttman, membro delle Brigate Internazionali e fotografo professionista [sua fra l'altro la celebre istantanea di Marìa Ginesta], che poi in Spagna aveva cambiato il suo nome in Juan Guzman. Il suo problema era che non capiva per niente lo spagnolo e così non sempre si rendeva conto di quello che gli accadeva intorno. Perciò, quando i combattenti repubblicani si impadroniscono del villaggio di Pompenillo, sulla strada di Huesca, Guttman, o Guzman che fosse, come si vedrà, realizza una serie di fotografie: una guardia civile morta, un abitante fatto prigioniero, il curato del villaggio qualche tempo prima di essere fucilato... e molte altre foto che poi identificherà a modo suo.

Alla fine della guerra civile, Guttman lascia la Spagna diretto verso il Messico dove poi vivrà il resto della sua vita. Senza dubbio non saprà mai che il papa ha santificato il martire che lui si era trovato davanti per alcuni istanti. Era già morto di vecchiaia quando mettendo in ordine, post-mortem, le sue carte e i suoi negativi è saltata fuori la sorpresa: il "prete" fucilato della foto non era poi così tanto prete. Guttman s'era sbagliato riferendosi al suo scatto.
In realtà questo giovane uomo era un brigatista comunista tedesco!
La prova la forniscono altre foto, scattate qualche giorno più tardi, nelle quali questo stesso giovane appare insieme ai suoi compagni con la tipica salopette che indossavano allora i combattenti repubblicani.

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Quindi, i bigotti della regione dell'Alta Aragona hanno adorato per decenni le immaginette consacrate di un presunto martire che, in quanto comunista e probabilmente miscredente, doveva trovarsi indubbiamente all'inferno. E allora? Lo si può far scendere dalle altezze celesti? Si può rimuovere un santo dal suo posto. Il papa non è forse infallibile, e quindi non può essersi sbagliato nel santificarlo? Mio Dio, quante domande senza risposta! »

fonte: Le blog de Floréal

venerdì 23 settembre 2016

La levatrice della storia

Ne "I dannati della Terra", Frantz Fanon avvia una celebre polemica contro Engels e la sua teoria della violenza. Da questo scambio i commentatori hanno tratto un'opposizione irriducibile fra un soggettivismo fanoniano ed un oggettivismo marxista. Contro una simile lettura schematica, Matthieu Renault propone qui di ripercorrere gli itinerari non-occidentali delle teorie delle violenze. Viene così evidenziata la metamorfosi del marxismo rispetto alla guerra rivoluzionaria, sottolineando la centralità di Freud nell'economia fanoniana della violenza.
« La posta, al di là del presente tentativo, è la formazione di un pensiero globale della violenza emancipatrice, il solo che è in grado di rispondere alle sfide poste dalla globalizzazione effettiva delle forme di violenza istituzionale. »

fanon

Frantz Fanon e le geografie marxiste della violenza
- di Matthieu Renault -

L'analisi che segue parte dalla constatazione di una dissociazione quasi completa fra due campi di problematizzazione nell'ambito di quel che abbiamo voluto chiamare gli "studi fanoniani". Da una parte, abbiamo numerose interpretazioni della teoria della violenza di Fanon; tutte tendono a porre l'accento sulla natura strutturale della violenza coloniale e sulle dimensioni esistenziali, soggettive e piscologiche-cliniche della violenza anticoloniale, sul suo potere purificatore-disintossicatore, e sui limiti di tale potere. Abbiamo, dall'altro lato, delle riflessioni sul complesso rapporto di Fanon con il marxismo; girano tutte attorno ai temi dell'alienazione, della corruzione delle borghesie nazionali, delle relazioni fra "razza" e "classe", ecc., mettendo in discussione, e talvolta condannando, l'eurocentrismo della tradizione marxista. Ma, stranamente, a parte qualche riferimento alla critica svolta da Fanon delle posizioni di Engels, su cui torneremo, la questione delle sue relazioni con il pensiero marxista della violenza è stata ampiamente ignorata, come se non esistesse. Cercheremo di dimostrare che non è così.

Al di là di queste considerazioni esegetiche, questa ricerca vuol essere un contributo ad uno studio della geografie della violenza, sia della sua pratica che della sua teorizzazione, della sua circolazione e delle sue trasformazioni rivoluzionarie. A partire da Fanon, si tratterà - nel dibattito con le tesi di Balibar, svolte nel suo saggio « Gewalt. Violence et pouvoir dans la théorie marxiste » [*1] - di rimettere in discussione la divisione (non certo la differenza) sia cronologica che spaziale, fra il «ciclo anticapitalista» (europeo) del pensiero della violenza rivoluzionaria ed il «ciclo antimperialista» (extraeuropeo), al fine di problematizzare gli scambi e le "miscele" fra l'Occidente ed il mondo non-occidentale, le cui frontiere si postano continuamente, che hanno intessuto la storia delle teorizzazioni marxiste della violenza fin dalle sue origini. La posta, ben al di là del presente tentativo, è quella della formazione di un pensiero globale della violenza emancipatrice, il solo che è in grado di rispondere alle sfide poste dalla globalizzazione effettiva delle forme di violenza istituzionale.

Da Engels a Robinson: distendere il marxismo
Quest'indagine deve cominciare con l'esame della lettura fatta da Fanon, in "I dannati della terra" (1961), delle tesi classiche di Engels sulla violenza - primo saggio che sistematizza la posizione marxista sulla questione. Fanon aveva evidentemente conoscenza dell'Anti-Dühring (1875) e dell'opuscolo postumo "Il ruolo della violenza nella storia" (che riproduceva i capitoli "teorici" relativi ad un saggio incompiuto di Engel sulla politica di Bismarck [*2]) grazie a Rehda Malek, allora diretto dell'organo di stampa del Fronte di liberazione nazionale algerino, El Moudjahid [*3]. La sua attenzione a riguardo può essere anche rivelata dalla discussione dell'Anti-Dühring portata avanti da Sartre nella sua "Critica della ragion dialettica" (1906) [*4], benché difficilmente Fanon ne condivida le tesi. Nel primo capitolo de "I Dannati della terra", intitolato "Sulla violenza", Fanon cita questo luno passaggio dell'Anti-Dühring:

«A Robinson era tanto possibile procurarsi una spada quanto è possibile a noi il supporre che un bel giorno Venerdì gli possa apparire con un revolver carico in mano, nel qual caso tutto il rapporto di "violenza" si rovescia: Venerdì comanda e Robinson deve sgobbare. [...] Dunque il revolver ha la meglio sulla spada e questo fatto farà comprendere, malgrado tutto, anche al più puerile assertore di assiomi che la violenza non è un semplice atto di volontà, ma che esige per manifestarsi condizioni preliminari molto reali, soprattutto strumenti, di cui il più perfetto ha la meglio sul meno perfetto; che questi strumenti devono inoltre essere prodotti, il che dice ad un tempo che il produttore di più perfetti strumenti di violenza, vulgo armi, vince il produttore di strumenti meno perfetti e che, in una parola, la vittoria della violenza poggia sulla produzione di armi, e questa poggia a sua volta sulla produzione in generale, quindi sulla "potenza economica", sull'"ordine economico", sui mezzi materiali che stanno a disposizione della violenza.»

Engels si oppone a Dühring e a coloro che, invertendo l'ordine delle determinazioni fra infrastruttura e sovrastruttura, fanno della "violenza politica immediata" "l'elemento storico fondamentale", e quindi fanno delle "situazioni politiche" la causa dei "fenomeni economici". Quindi sostiene la tesi inversa, ossia che "la violenza non è altro che il mezzo, mentre l'interesse economico è il fine" [*6]. L'analisi di Engels è segnata dall'ambiguità, dalla "unità degli opposti" come dice Balibar, che scopre che il termine tedesco "Gewalt", dal momento che può designare sia la violenza, nel senso proprio che le viene assegnato dal francese e da altre lingue, che il potere, ossia «l'antitesi del diritto o della giustizia e la loro realizzazione o la loro presa in carico da parte di un istituzione (generalmente lo Stato)» [*7]. La "violenza" di cui Engels esplicita qui la genesi è innanzitutto la violenza fondatrice e poi conservatrice del potere statale. Parlando del perfezionamento continuo delle navi da guerra, queste "fabbriche galleggianti", evoca "la violenza in sé, vale a dire lo Stato" [*8]. Ma Engels tematizza anche il rovesciarsi della "violenza interna dello Stato" in violenza rivoluzionaria, cosa che avviene inevitabilmente allorché questa violenza statale entra in opposizione "con l'evoluzione economica", rispetto alla quale è destinata a soccombere: «la violenza gioca nella storia anche un altro ruolo, un ruolo rivoluzionario; [...] secondo le parole di Marx, è la levatrice di ogni società che reca in grembo» [*9].
Queste posizioni, elevate al rango di ortodossia nel campo del pensiero marxista, sono, afferma Fanon, più o meno spontaneamente quelle di una maggioranza di "intellettuali colonizzati" e "dirigenti di partiti nazionalisti". Ma nella situazione coloniale, nella quale la maturazione delle forze produttive "indigene" è congelata e dove il "lavoro" è privo di ogni funzione emancipatrice, l'adozione di queste tesi porta soltanto al riconoscimento della totale potenza del potere-violenza coloniale:

«Quando si dice loro: bisogna agire, essi vedono delle bombe rovesciate sulle loro teste, dei blindati che avanzano lungo le strade, le mitragliatrici, la polizia... e rimangono seduti. La loro incapacità a vincere per mezzo della violenza non ha bisogno di essere dimostrata, essi l'assumono nella loro vita quotidiana e nelle loro azioni. Sono rimasti alla posizione puerile adottata da Engels nella sua celebre polemica con quella montagna di puerilità che era mister Dühring» [*10].

Benché gli "strumenti" e la loro "distribuzione" siano "sempre importanti per quel che riguarda il terreno della violenza", scrive Fanon, «troviamo che, in questo campo, la liberazione dei territori coloniali fornisce una nuova chiarezza» [*11]. Ora, ed è qualcosa che è stato appena notato, Fanon suggerisce che questo genere di conflitto armato, che è la lotta anti-coloniale, non designa un fenomeno del tutto nuovo il cui scenario, il campo di battaglia, si limiterebbe al solo mondo non-occidentale. Infatti, l'esempio di cui innanzitutto si serve è quello della guerra d'indipendenza spagnola (1808-1814), questa "autentica guerra coloniale" nel corso della quale l'armata napoleonica fu "costretta a ritirarsi": «Di fronte agli enormi mezzi delle truppe napoleoniche, gli spagnoli che erano animati da un'incrollabile fede nazionale, scoprirono quella famosa guerriglia che, venticinque anni prima, i miliziani americani avevano sperimentato contro le truppe inglesi» [*12]. Engels aveva già sottolineato che nel corso della guerra d'indipendenza degli Stati Uniti - paradossale guerra anti-coloniale, nel senso che aveva opposto i coloni stessi alla "madrepatria" - l'esercito britannico aveva avuto a che fare, in maniera inedita, ed aveva dovuto soccombere a delle "bande di ribelli", a degli "avversari invisibili ed inafferrabili", in una lotta che prefigurava il "sollevamento in massa di tutta la nazione" che aveva caratterizzato la rivoluzione francese [*13]. Fanon, da parte sua, fa delle guerre di indipendenza americana e spagnola le "antenate" delle guerre di guerriglia del XX secolo in un contesto coloniale e semi-coloniale. Queste ultime presentano da tale punto di vista come una "estensione" geografica delle forme di conflitto che hanno avuto luogo, in passato, all'interno dei confini del mondo occidentale e la cui vera natura si è rivelata a posteriori, per mezzo della loro attualizzazione e della loro generalizzazione nella lotta anti-imperialista [*14].

I lettori di Fanon generalmente pensavano che egli avesse ormai detto tutto, riguardo la sua posizione circa la teorizzazione engelsiana-marxista della violenza, negli estratti che abbiamo citato, gli unici esplicitamente da lui dedicati a tale argomento. I rapporti di Fanon con Engels hanno suscitato poca analisi; nel momento stesso in cui è stata sollevata la questione, si è rapidamente chiusa, giustificata dal fatto che tali rapporti sono visibilmente limitati ad un rifiuto franco, illustrato dalla ritorsione contro Engels, da parte di Fanon, di quell'accusa di "puerilità" che lo stesso Engels aveva rivolto a Dühring. In "What Fanon Said", Lewis R. Gordon sostiene che l'autore de I Dannati della Terra, un degno rappresentante del "pensiero radicale nero", è ansioso di prendere in contropiede l'eccessiva "razionalizzazione" della violenza effettuata da un Engels che impone una "scienza chiusa" a dei fenomeni sempre "pieni di contingenze", ad un mondo umano fondamentalmente "disordinato" [*15]. Fanon, scrive anche Alice Cherki, "mostra di avere delle riserve" riguardo gli argomenti di Engels, in quanto «trova questi testi troppo lontani dall'esperienza qualitativa che un individuo fa della violenza» [*16]. In maniera più critica, ma in fondo simile, Balibar evoca il "soggettivismo estremo" del discorso di Fanon sulla violenza. [*17] Ora, un simile soggettivismo, in virtù del quale una "incrollabile fede nazionale" può imporsi sulla più potente delle artiglierie, si opporrebbe punto per punto alle tesi di Engels, e all'oggettivismo ("economicista") che caratterizza, se non la totalità del suo saggio sulla violenza, quanto meno i suoi argomenti più salienti e l'interpretazione standard che ne è stata fatta. In conclusione, pensare il rapporto Fanon-Engels rimanderebbe necessariamente a pensare "o Fanon o Engels", e ancor di più "Fanon contro Engels" e viceversa. Il dibattito sarebbe chiuso, benché non smette di sorprendere che non ci si domandi affatto se eventualmente Fanon, nonostante il sarcasmo che riserva a Dühring non meno di quanto faccia con Engels, non ritrovi malgrado tutto una concezione della "violenza politica immediata" in quanto costitutiva del potere (economico) coloniale, ipotesi che molti passaggi de "I dannati della terra" potrebbero sostenere.

Se tuttavia ci sembrava che quest'ipotesi dovesse essere scartata, questo era dovuto proprio al fatto che la tesi del soggettivismo di Fanon (forse si dovrebbe parlare piuttosto del suo anti-oggettivismo) non esaurisce la questione dei suoi rapporti con la teoria engelsiana della violenza. Va notato che Fanon non nega l'importanza della questione "strumentale" della distribuzione delle armi, e soprattutto si noti che egli parla di lotte anticoloniali come portatrici di una "nuova chiarezza". Dire ciò è cosa del tutto diversa dal sostenere che teorizzazione marxista della violenza sia obsoleta e che debba essere respinta per poter arrivare a pensare la specificità della violenza coloniale ed anti-coloniale. Per comprendere ciò che intende qui Fanon, bisogna riferirsi ad un passaggio di "Sulla violenza" che si situa a monte del riferimento ad Engels. Parlando delle relazioni fra dominio di classe e dominio razziale, Fanon afferma: «le analisi marxiste devono essere sempre leggermente distese ogni volta che si affronta il problema coloniale» [*18]. «Distendere», qui va inteso letteralmente, come uno sforzo per estendere la superficie di un corpo distendendo i legami che uniscono le sue parti. Distendere il marxismo, è portarlo al di là dei confini dell'Europa, suo luogo di nascita, ed operare le dislocazioni teoriche che tale decentramento esige. Vuol dire, all'occorrenza, prendere atto del fatto che la lotta di classe nelle metropoli ha come corollario la riproduzione della guerra di razza nelle colonie. Scrive Fanon: «Nelle colonie, l'infrastruttura è anche una sovrastruttura. La causa è conseguenza: si è ricchi perché bianchi, bianchi perché ricchi» [*19]. Fanon si iscrive nella linea dei teorici marxisti-socialisti non europei che, nel XX secolo, e con legami più o meno stretti con le rivendicazioni di "nazionalizzazione del marxismo", si sono sforzati di strappare quest'ultimo alla sua matrice europea per operare la sua "indigenizzazione" (José Carlos Mariátegui), la sua "traduzione" (C.L.R. James) oppure, ancora, la sua "distillazione"  (Jacques Roumain ad Haiti).

Diventa allora legittimo pensare che l'imperativo di distensione di Fanon va bene anche per il pensiero marxista della violenza, nelle variazioni geopolitiche (dalle metropoli alle colonie) delle pratiche di violenza che devono esse stesse rispondere alle variazioni sulle teorie della violenza. Più in particolare, si può pensare che anche in questo campo si applica la legge coloniale della reversibilità-circolarità delle "cause" infrastrutturali e delle "conseguenze" sovrastrutturali, di modo che avrebbe potuto senz'altro scrivere: «Nelle colonie, si è ricchi perché si è violenti, violenti perché si è ricchi» - la differenza con la questione razziale tuttavia risiede nel fatto che mentre il colonizzato può desiderare di "cambiar pelle" solo mettendo in atto un'identificazione alienante con il colono (diventare bianco), può però rovesciare benissimo la violenza del potere coloniale, senza giocare al suo gioco, opponendogli la contro-violenza rivoluzionaria dei dannati. È questo il motivo per cui la critica svolta da Fanon delle tesi di Engels non lo porta affatto ad eliminare il fattore economico (i "fini alimentari" perseguiti attraverso la violenza) e a ritornare alla violenza politica fondamentale di Dühring. In maniera del tutto coerente, si riferisce ai due autori vedendo nella puerilità dell'uno il riflesso della puerilità dell'altro; in quanto, se collocato nel contesto coloniale, e proprio in tale contesto specifico, il conflitto che li oppone diventa improvvisamente privo di senso.

Infine, la tesi di "soggettivismo estremo" di Fanon esige di essere enunciata e dimostrata a partire dal fatto che subito dopo aver posto l'accento sul ruolo della "fede nazionale" nell'esito della guerra coloniale, afferma: «Ma la guerriglia del colonizzato non sarebbe niente come strumento di violenza opposto ad altri strumenti di violenza, se non ci fosse un elemento nuovo nel processo globale della concorrenza fra trust e monopoli», vale a dire in quel che è un processo economico "oggettivo" per eccellenza. E Fanon sottolinea che «l'accumulazione del capitale» e l'estrema violenza che l'ha accompagnato nella prima fase della colonizzazione-conquista a poco a poco ha ceduto il posto ad una logica di trasformazione delle colonie in "mercati", il che esigeva di annullare per quanto possibile, se non la violenza, la "soluzione militare", nella misura in cui «per la borghesia non è più economicamente vantaggioso un dominio di tipo schiavista»: «La frazione monopolista della borghesia metropolitana non sostiene un governo la cui politica è unicamente quella della spada», una politica alla Robinson. È all'interno di un tale contesto mondiale di "guerra spietata fra gruppi finanziari" che si inscrivono le lotte di liberazione mondiale, e portano Fanon al punto di affermare che esiste «una complicità oggettiva del capitalismo con le forze violente che irrompono nel territorio coloniale» [*20].

Non basta pertanto sostenere che il pensiero fanoniano della violenza sarebbe il prodotto di una dislocazione nelle colonie, di una trasformazione a posteriori, di una teoria "originale", pretesa come universale, forgiata in Occidente a partire dall'esempio offerto dalla storia del capitalismo europeo. È vero che lo stesso Engels aveva l'ambizione di sviluppare una teoria generale della violenza fondata sui principi del materialismo storico ed applicabile, al prezzo di piccoli adattamenti, ad ogni episodio della storia; così la seconda parte dell'opuscolo "Il ruolo della violenza nella storia". iniziava con queste parole: «Ora applicheremo la nostra teoria alla storia contemporanea della Germania ed alla sua pratica di violenza di sangue e di ferro» [*21].

Nondimeno, bisogna sottolineare che è dopo Dühring che Engels, ed al suo seguito la tradizione marxista, assume come simbolo stesso della violenza, come suo stadio primordiale, l'asservimento di Venerdì, da parte di Robinson, nel romanzo di Daniel Defoe, Robinson Crusoé (1719). Poco importa che nel Robinson Crusoé, "l'incontro" fra Robinson e colui che ben presto chiamerà Venerdì non comporta la violenza brutale dipinta da Dühring ed Engels; se Robinson esercita violenza, lo fa piuttosto contro i selvaggi che minacciano la vita di Venerdì e che egli abbatte freddamente, gesto che gli vale la "riconoscenza" eterna del suo servitore - cosa che non impedisce che Robinson nutra inizialmente dei sospetti nei suoi confronti e lo tenga perciò sotto controllo. [*22] Ciò che qui importa è che questa scena sia per eccellenza una scena coloniale, aggettivo che può caratterizzare il romanzo nella sua interezza e che gioca su una serie di opposizioni binarie fra Robinson, il civilizzato, ed il mondo selvaggio (uomini-cannibali e bestie feroci mescolati insieme) in cui viene a trovarsi. Prima di naufragare sulla «sua» isola deserta, Robinson dopo varie "robinsonate". era diventato proprietario di una piantagione in Brasile; ed era per procurarsi degli schiavi in Africa (un traffico di cui aveva appreso i vantaggi nel corso dei viaggi precedenti) che, insieme ad altri coloni, si era lanciato nella sfortunata spedizione che aveva portato al suo naufragio. Dopo aver superato l'afflizione a causa della sua estrema solitudine, aveva cominciato a pensare «con una sorta di segreto piacere» che «tutto ciò era mia proprietà, e che ero re e signore assoluto di questa terra, sulla quale aveva diritto di possesso, e che potevo trasmetterla come se l'avessi avuta in eredità, altrettanto incontestabilmente di quanto avveniva per un Lord d'Inghilterra con il suo maniero» [*23]. Successivamente, avendo scoperto che l'isola veniva visitata regolarmente da dei selvaggi cannibali, era riuscito a vincere la terribile angoscia che questi gli ispiravano, convincendosi dei vantaggi che gli sarebbero provenuti dal fare di uno di loro il suo «schiavo», «un servitore, forse un compagno o un amico» [*24]. Dopo essersi assicurato i servizi di Venerdì, Robinson si fa carico di allontanarlo dalla pratica del cannibalismo; gli insegna l'inglese e, come ogni buon missionario, opera la sua conversione al cristianesimo.

Tuttavia, Robinson Crusoé non è un romanzo di conquista coloniale e di accumulazione primitiva del capitale, con la sua quota di violenza estrema. Come fa giustamente notare Deleuze nel suo articolo di gioventù. "Cause e ragioni delle isole deserte", il romanzo di Defoe fa «dipendere la ricomposizione della vita borghese a partire da un capitale» già acquisito, il capitale contenuto nella nave naufragata da cui Robinson trae i mezzi fondamentali della sua sussistenza sull'isola, ivi compresi gli strumenti della violenza (quotidiana, conservatrice e non instauratrice di potere) che gli permettono non solo di cacciare gli animali selvatici, ma anche di difendersi contro gli uomini-selvaggi. Dice Deleuze: «Tutto proviene dalla nave, non viene inventato niente, tutto viene applicato faticosamente sull'isola»; Robinson non è altro che un «proprietario moralizzatore» e Venerdì è un essere «docile al lavoro, felice di essere schiavo» che «ogni lettore sano di mente sogna di [...] vedere che alla fine si mangia Robinson» [*25]. A questo si può aggiungere che le peripezie che precedono l'installazione forzata di Robinson sull'isola mostrano bene come il gusto per l'avventura e lo «spirito del capitalismo» (che gli è stato insegnato da suo padre, all'inizio del romanzo) in lui confliggono in maniera da arrivare meglio ad identificarsi. Robinson Crusoé è sotto molti aspetti il romanzo della riproduzione dell'esistenza borghese in seno ad uno stato di natura. Si sa che Rousseau, in "Emile, o dell'educazione", fa del Robinson Crusoé il viatico del suo giovane allievo. Ora, l'interpretazione che a sua volta svolge Dühring del Robinson Crusoé è segnata, come nota Balibar, da «tonalità rousseauiane» [*26]. Ma d'ora in poi, a causa di un singolare rovesciamento che Engels eredita, la relazione che unisce i due protagonisti è stabilita in origine, per quanto mitica, da rapporti sociali in quanto rapporti di violenza, giudicati costitutivi o costituiti da una precedente superiorità economica.

In una conferenza sul concetto di "volontà generale", pronunciato a Montréal negli anni 1960. C.L.R. James, menzionando l'Emile di un Rousseau ansioso di stabilire dei «principi educativi in armonia con le sue idee sul libero sviluppo dell'individuo», afferma senza precisarlo ulteriormente: «Qui, Rousseau mi ricorda molto Fanon» [*27]; affermazione enigmatica, ma rispetto alla quale possiamo rischiare di proporre un'interpretazione. Ne I Dannati della Terra, Fanon aveva voluto porre le basi di una pedagogia dell'emancipazione decoloniale a partire da uno stato di natura. Ma questo stato (coloniale) di natura non ha più niente a che vedere con uno stato di innocente armonia. Somiglia piuttosto allo stato hobbesiano di «guerra di tutti contro tutti» in cui regna la nuda violenza; con la differenza - importante - che non si tratta di uno stato pre-sociale cui l'istituzione dello Stato è chiamata a porre fine (cosa alla quale, in effetti, non si limita ad Hobbes, ma che rimane tuttavia la sua forma primordiale); si tratta, al contrario, di un puro prodotto dello Stato-potere coloniale in quanto questo viene incessantemente ricreato dallo stato di natura: «Il colonialismo non è una macchina pensante, non è un corpo dotato di ragione. È la violenza allo stato di natura e può piegarsi solto davanti ad una violenza più grande» [*28]. In definitiva, la rilocalizzazione da parte di Fanon delle teorie della violenza forgiate in Europa può essere vista come ritorno alle origini (coloniali) che, attraverso le figure di Robinson e di Venerdì, ne avevano implicitamente alimentato la loro genesi.

Della guerra: Fanon con Mao
Se, dal punto di vista di una geografia delle teorie della violenza, il rapporto di Fanon con il marxismo non si limita ad una trasposizione diretta dell'Occidente nel mondo coloniale, Algeria in particolare, ciò dipende anche da una serie di mediazioni che vanno a comporre un itinerario complesso. La rivoluzione del 1917 costituisce una tappa fondamentale di tale processo di «circolazione internazionale». È necessario misurare accuratamente gli effetti indotti da questa dislocazione del pensiero della violenza verso l'Est, ai margini dell'Occidente capitalista, in una Russia che alcuni consideravano come una semi-colonia dell'Europa dell'Ovest; si legga a tal riguardo il primo capitolo della Storia della Rivoluzione Russa di Trotsky che, discutendo della questione dei neri negli Stati Uniti, afferma a proposito della Russia pre-rivoluzionaria: «Noi eravamo i Neri dell'Europa» [*29].

Inoltre, ceteris paribus, si possono sentire in Fanon echi di ciò che Balibar designa come la politica della violenza messa in atto da Lenin, che, attraverso il celebre slogan di "trasformare la guerra imperialista in guerra civile" cercava di «definire una pratica politica in delle condizioni di violenza, che in qualche modo si ritorcevano contro sé stesse» [*30]. In quanto ciò che Fanon problematizza ne I Dannati della Terra è lungi dall'essere soltanto la conversione alla violenza del colonizzato, ma è anche, in un secondo tempo, la necessità della conversione di tale violenza, la sua incorporazione (non la sua negazione) in una lotta politica che deve portare al suo proprio "deperimento", e senza la quale non ci può essere la vera decolonizzazione dei corpi e degli spiriti. Cambiate i termini, e le parole che seguono scritte da Lenin in Stato e Rivoluzione potrebbero essere quelle di Fanon: «Lo Stato è un'organizzazione particolare della forza, è l'organizzazione della violenza destinata a reprimere una certa classe. Qual è, dunque, la classe che il proletariato deve reprimere? Evidentemente una sola: la classe degli sfruttatori, vale a dire la borghesia» [*31].

L'impeto rivoluzionario non avrebbe tardato a dislocarsi un po' di più verso "oriente", soprattutto in Cina, in una contesto questa volta oggettivamente semi-coloniale. Ora, il pensiero di Mao costituisce una forma archetipica della traslazione-nazionalizzazione del marxismo. Come ha sottolineato Arif Dirlik, «una delle grandi forze di Mao come dirigente era la sua capacità di tradurre il marxismo in un idioma cinese». Erede di un marxismo che, trapiantato nelle condizioni della Russia rivoluzionaria, era già stato «"deterritorializzato" rispetto a la suo ruolo nella storia europea», Mao si sforza di «rendere cinese il marxismo», vale a dire, sia «di trasformare la Cina per mezzo dei principi del marxismo» che di «trasformare il marxismo per rispondere alle esigenze legate alle specifiche circostanze storiche della Cina». Il comunismo cinese è stata la prima grande incarnazione del movimento di "globalizzazione", e pertanto di "dispersione", del marxismo; e Mao aveva capito che non riproducendo i meccanismi egemoni propri al sistema capitalista-imperialista, si doveva premunire rispetto ad ogni «universalismo astratto», ed aprire ad una volgarizzazione del marxismo [*32]. Analogamente, Žižek concepisce il pensiero di Mao come il frutto di un gesto capitale di "dislocazione", come una «appropriazione della teoria [marxista] in un universo differente», una «trasposizione che influenza la sostanza della teoria stessa» [*33]. Lo stesso Mao, nel suo saggio del 1940 su La Nuova Democrazia, ha cercato di spiegare questa operazione di "cinesizzazione" del marxismo facendo uso di una metafora che sarebbe stata invocata a oltranza nel corso della rivoluzione culturale:
«La Cina deve assimilare in larga misura la cultura progressista dei paesi stranieri, farne il materiale del suo nutrimento culturale, dacché questo lavoro, in passo, è stato assai insufficiente. [...] Tuttavia, tutte le cose che provengono dall'estero devono essere trattate come il nostro cibo; essere masticate nella bocca ed elaborate nello stomaco e nell'intestino, e, sotto l'azione della saliva e dei succhi gastrici, gli alimenti vengono separati in due parti: il chilo che viene assorbito e i residui che vengono eliminati - solo così, ne trarremo profitto; non dobbiamo mai ingoiarlo tutto in una volta o assimilarlo senza discernimento. [...] Allo stesso modo, nell'applicazione del marxismo in Cina, i comunisti devono unire appieno ed in maniera appropriata la verità universale del marxismo e la pratica concreta della rivoluzione cinese» [*34].
Secondo Dirlik, la centralità del concetto di «contraddizione» in Mao è un prodotto della sua riformulazione del marxismo fatta alla luce dell'esperienza storica della Cina, la sua concezione della dialettica eredita non solo Hegel e Marx, ma anche il buddismo [*35]. Ma è nel campo della teoria della guerra rivoluzionaria che si esprime più profondamente in Mao e in altri comunisti cinesi questa esigenza di dislocazione. Continua Dirlik: «Non sorprende che i primi appelli a tradurre il marxismo nel linguaggio delle masse abbiano coinciso con la comparsa di una strategia rivoluzionaria di guerriglia» [*36].

A tal riguardo ci si può riferire al saggio del 1936 "Problemi della guerra rivoluzionaria in Cina", in cui Mao fin dall'inizio afferma: «Stiamo facendo la guerra; la nostra guerra è una guerra rivoluzionaria e viene condotta in Cina, vale a dire in un paese semi-coloniale e feudale. È per questo che dobbiamo studiare non solo le leggi della guerra in generale, ma anche le leggi specifiche particolari della guerra rivoluzionaria in Cina» [*37]. Applicare ciecamente le leggi generali della guerra, e anche quelle della guerra rivoluzionaria rivelatesi nella guerra civile in Russia, equivarrebbe a «tagliare il piede per adattarlo alla scarpa», mentre il compito è quello di trovare, fabbricare, la calzatura per il suo piede. Bisogna proibirsi di «trasporre meccanicamente» le leggi di guerra dal momento che queste «variano in funzione delle condizioni della guerra, secondo i tempi, i luoghi ed il carattere della guerra». Queste "particolarità" storiche, geografiche e nazionali, sono irriducibili [*38]. Mao mostra che le trasformazioni dei metodi di guerra non dipendono soltanto dall'evoluzione tecnico-economica dell'industria di produzione di armi, come sosteneva quel grande amante della strategia militare che era Engels, ma anche dalle differenze crono-topologiche fra i territori dove si svolgevano le guerre. In Mao, il modello della guerra di movimento, alimentando la strategia della guerriglia, arriva fino a dare forma all'idea della dislocazione delle conoscenze della guerra stessa.

Dirlik, che ha svolto delle severe critiche degli studi postcoloniali [*39], non è certamente d'accordo con il testo che segue, ma, fermo restando questo, si può identificare nello sforzo di "digestione" del marxismo di Mao una prefigurazione dell'imperativo postcoloniale di decentramento delle teorie nate sul continente europeo, di "provincializzazione" in un senso che non si riduce affatto al relativismo. In più, si può arrivare a suggerire che una genealogia del pensiero postcoloniale dovrebbe cominciare con l'esempio paradigmatico della circolazione e della trasformazione, seguendo una lunga catena di successive trasposizioni, della teoria e della pratica "viaggiativa" della guerra rivoluzionaria nel contesto delle lotte antimperialiste del XX secolo, dalla Russia rivoluzionaria alla Guinea (Cabral) ed al Ghana (Nkrumah), passando per la Cina (Mao) ed il Vietnam (Giap), senza dimenticare ovviamente l'America Latina (Che Guevara, Castro).

È a questa storia che appartiene anche la lotta di liberazione nazionale algerina, cui l'esercito francese oppose quel che esso stesso definiva una "guerra controrivoluzionaria". Si potrebbe pensare che Fanon fosse assai lontano da simili preoccupazioni militari, ma, oltre al fatto che la sua biblioteca contiene una copia della raccolta dei testi di Mao su La Guerra Rivoluzionaria (1956), incluso il saggio cui ci siamo riferiti [*40], era anche assai bene informato sui progressi dell'Esercito di liberazione nazionale algerino (ALN) i cui membri frequenterà da vicino nel corso della loro ritirata forzata lungo la frontiera algerino-tunisina - dove terrà delle conferenze, soprattutto sulla Critica della ragion dialettica di Sartre. Inoltre, nell'estate del 1960, in occasione di un soggiorno in Ghana come ambasciatore del Governo Provvisorio della Repubblica algerina (GPRA), Fanon svolse una missione esplorativa alla frontiera fra l'Algeria ed il Mali nella prospettiva di aprire un fronte trans-sahariano che permettesse di assicurare il rifornimento alle province in armi - circa cui nel suo diario vengono date una serie di "indicazioni tecniche" [*41]. L'anno precedente «nel quadro della solidarietà africana, Fanon aveva avanzato una proposta concreta: accogliere nei campi dell'ALN undici quadri angolani, per formarli alla lotta sovversiva ed armata» [*42], progetto che alla fine abortirà. Tutto questo indica che nonostante i suoi accenti spontaneisti, il pensiero di Fanon sulla violenza è indissociabile da un pensiero della guerra, vale a dire della lotta armata organizzata. Che questa cosa sia stata largamente passata sotto silenzio nelle interpretazioni contemporanee dei suoi scritti è indubbiamente il sintomo di un desiderio, ignorato da lui come da molti altri pensatori anticoloniali, di concepire la violenza insurrezionale al di fuori di ogni riferimento al fenomeno militare.

In questa prospettiva, la tesi "anti-gandhiana" di Fanon secondo la quale la controviolenza del colonizzato il solo ed unico mezzo per abolire la violenza strutturale del mondo coloniale, può essere letta come una ripresa della frase di Mao: «La guerra, questo mostro che fa uccidere gli uomini fra di loro, finirà per essere eliminato [...] Ma per sopprimere la guerra, c'è solamente un mezzo: opporre la guerra alla guerra, opporre la guerra rivoluzionaria alla guerra controrivoluzionaria» [*43]; o, per dirlo in altre parole: «Se vuoi che non ci siano più fucili, allora prendi il tuo fucile» [*44]. Inoltre, come abbiamo visto ne I Dannati della Terra, Fanon non ha esitato ad invocare l'esempio della forma guerriglia. Così, dopo aver ricordato l'Esercito di Liberazione nazionale dell'Angola, scrive:
« Nella guerriglia infatti la lotta non avviene dove si è ma dove si va [...] Le tribù si mettono in marcia, i gruppi si spostano, cambiando terreno [...] Nessuna posizione strategica viene privilegiata. Il nemico crede di starci inseguendo ma noi troviamo sempre il modo di trovarci alle sue spalle, colpendolo proprio nel momento stesso in cui ritiene di averci annientato. Oramai, siamo noi che lo stiamo inseguendo. Con tutta la sua tecnologia e la sua potenza di fuoco, il nemico dà l'impressione di annaspare ed impantanarsi. Noi cantiamo, cantiamo » [*45].

Se in Fanon lo schema dinamico-spaziale della guerriglia gioca un ruolo chiave, ciò avviene nella misura in cui si nutre di una concezione più ampia della violenza che può essere definita topologica. Ne I Dannati della Terra, Fanon, come è ben noto ai suoi lettori, mostra che la violenza dell'occupante si incarna, diventa chiara direttamente sulla superficie dello spazio coloniale. Il mondo coloniale, dice pensando soprattutto alla città di Algeri e all'apartheid in Sud Africa, è un "mondo a compartimenti stagni", un "mondo tagliato in due": «se noi penetriamo l'intimità di questa compartimentazione, avremo quanto meno il beneficio di mettere in evidenza alcune delle linee di forza in essa contenute. Questo approccio al mondo coloniale, alla sua disposizione, alla sua conformazione geografica, ci permette di delimitarne i bordi, a partire dai quali si riorganizzerà la società decolonizzata» [*46].

Il mondo coloniale è governato da una logica binaria: da un lato, la proprietà, la sazietà, la salute e la vita; dall'altro, la sporcizia, la promiscuità, la fame, la malattia e la morte. Una "linea di demarcazione" separa questi due spazi che si escludono a vicenda, e che sono retti da una "logica aristotelica". Si tratta di una frontiera spessa, che costituisce in sé un luogo, occupata da "le caserme ed i posti di polizia": è il luogo di una violenza senza orpelli. Se «nei paesi capitalisti, fra lo sfruttato ed il potere s'interpone una moltitudine di professori della morale, di consiglieri, di "disorientatori"», che lavorano per distendere i conflitti creando «intorno allo sfruttato un'atmosfera di sottomissione e d'inibizione che facilita considerevolmente il compito delle forze dell'ordine», se, in altre parole, le formazioni ideologiche servono a temperare la violenza assicurando il dominio, nelle colonie, il solo contatto possibile fra le due zone, la zona dell'opulenza e quella della miseria, è di natura repressiva: si basa sull'uso della forza bruta, o quanto meno sulla sua minaccia permanente [*47]. È anche per questo, per il suo materializzarsi sia spazialmente, che visibilmente ed immediatamente, che nelle colonie le infrastrutture economiche e le sovrastrutture "violente" tendono a confondersi.

Ma si può parlare anche in un altro senso di topologia della violenza in Fanon. La dislocazione della teoria marxista della violenza operata da questi è anche una dislocazione (non una sostituzione) dal dominio dell'economia "materiale" verso quello di un'economia fisica di ispirazione freudiana e reichiana. La teoria fanoniana della violenza si basa su una topica della circolazione e della distribuzione delle energie psico-corporali in seno al campo (di forze) coloniale. Il colonizzato, ripete Fanon [attingendo evidentemente a "L'analisi caratteriale"di Reich e alla sua concezione di "corazza muscolare"] [*48]. accumula nel suo corpo l'onnipresente violenza coloniale: «questa violenza del regime coloniale non viene vissuta soltanto sul piano dell'anima, ma anche su quello dei muscoli, del sangue» [*49]. Fanon non smette mai di convocare un tale linguaggio muscolare: «nei suoi muscoli, il colonizzato rimane in attesa»; «mantiene continuamente un tono muscolare, in ogni istante»; e possiede «un'aggressività sedimentata nei suoi muscoli», bloccata nel suo corpo, e continuamente ricaricata [*50].
Ma al di là di una certa soglia, queste energie violente devono necessariamente essere scaricate. La sua aggressività, il colonizzato "in primo luogo la dirige contro i suoi», la dirige verso i suoi simili; la criminalità endogena regna in seno alla società colonizzata; una criminalità che il colono, armato della sua conoscenza scientifica e dei suoi dispositivi giuridici, concepisce come la manifestazione di una tara razziale, quando, assicura Fanon, non è altro che un effetto della violenza coloniale. Da parte dei colonizzati vengono utilizzate modi di derivazione, di "canalizzazione", di "trasformazione", di "escamotage" della violenza: ritorno della religione, riattivazione dei miti o anche rituali di danza e di possessione nei quali «l'aggressività più acuta, la violenza più immediata, viene deviata» [*51]. Ma questo inevitabile scaricare la violenza lascia intatta la fonte stessa di questa violenza, e di conseguenza garantisce la conservazione di quella quantità di violenza che circoli nel campo coloniale. È solo a partire dal momento in cui il colonizzato si impegna nella lotta di liberazione nazionale, a partire dal momento in cui ritorce, riorienta la violenza contro sé stessa, contro la sua origine, cioè contro il colono, che si apre l'orizzonte, per quanto lontano, di una fine della violenza.

Analizzando l'economia psico-politica della violenza, le leggi di distribuzione, di circolazione e di stasi, di carica e di scarica delle energie violente in una situazione coloniale, Fanon di dà come oggetto ciò che Hardt e Negri, in Commonwealth, designano correttamente come un "sistema termodinamico" della violenza [*52]. Affondando le sue radici nel pensiero psicoanalitico e psichiatrico, echeggiando la meccanica hobbesiana dei corpi e la concezione della violenza nello stato di natura che ne deriva, questa teoria energetico-politica può anche, a titolo euristico, essere interpretata come il prodotto di una singolare riscrittura delle tesi di Mao sulla guerra rivoluzionaria, concepita, scrive Balibar, «secondo un modello strategico nel quale intervengono solo delle distribuzioni di "forze" e di "masse" che evolvono nello spazio e nel tempo» [*53]. In ogni caso, l'opposizione tracciata dallo stesso Balibar fra "l'oggettivismo", e si potrebbe anche dire "oggettivismo estremo", di Mao, da una parte, ed il "soggettivismo estremo" di Fanon, dall'altra (separazione senza mediazione che avrebbe caratterizzato il "ciclo anti-imperialista" delle teorizzazioni marxiste della violenza), esige di essere rimessa in discussione. In Fanon avviene una coincidenza degli opposti: da un lato, una concezione della violenza anticoloniale che mette in primo piano l'esperienza vissuta, soggettiva, della violenza ed i suoi effetti catartici, senza mai ignorare le sue inevitabili conseguenze traumatiche; dall'altro lato, un discorso che fa della violenza una forza (nel senso letterale) autonoma, senza autore, di cui si tratta di analizzare le variazioni di intensità, le circolazioni, i dislocamenti di un corpo verso e contro un altro corpo e, infine, le loro correlazioni con la circolazione del capitale (economico) nel contesto di uno scontro fra potenze imperialiste.

Diventa pertanto meno sorprendente il fatto che gli scritti di Fanon abbiano potuto esercitare una significativa influenza su un rivoluzionario che Balibar definisce come un altro grande pensatore "oggettivista" della violenza anti-imperialista, Che Guevara. Quest'ultimo aveva meditato I Dannati della Terra, ed è lui ad aver chiesto che questo libro, già tradotto in spagnolo, venisse distribuito a Cuba. Se dobbiamo credere a Michael Löwy, Guevara prende da Fanon la sua critica radicale della corruzione delle borghesie nazionali, e la lettura de I Dannati della Terra gli consente di rafforzare le sue proprie tesi sull'unità anti-imperialista del Terzo Mondo, sul ruolo rivoluzionario dei contadini e sul valore emancipatore della lotta armata e della violenza degli oppressi [*54]. Löwy fa un'altra ipotesi, secondo la quale la lettura di Fanon sia stata decisiva nel progetto di Guevara di impegnarsi nella lotta armata in Africa, un continente che considerava come il centro della battaglia contro tutte le forme di sfruttamento ("imperialismo, colonialismo e neo-colonialismo"), come confidò in un'intervista per la rivista Rivoluzione africana, concessa alla fine del 1964, durante un soggiorno ad Algeri, alla vedova di Fanon, Josie [*55]. Questo progetto faceva parte di una strategia di esportazione della rivoluzione cubana, che era stata prima sperimentata "localmente", nella Repubblica Dominicaba, in Nicaragua e a Panama. Ma si capisce che nel caso dell'Africa, questa strategia rivelasse ben altro che un semplice "transfert", nella misura in cui tale esportazione si basava in parte sulla precendente importazione a Cuba delle tesi di Fanon sulla liberazione dell'Africa.

Conclusione: Itinerario del fanonismo
Nel suo saggio del 1970, Sulla violenza, Hannah Arendt si riferisce in maniera critica alle tesi di Fanon, e dichiara che l'autore de I Dannati della Terra si iscrive nella linea di coloro che «pensano la violenza come l'elemento essenziale della forza vitale» e che a partire da questo fatto si lasciano andare a delle pericolose «giustificazioni biologiche della violenza» [*56]. Fanon, in particolare, sarebbe stato «fortemente influenzato da Sorel» le cui Riflessioni sulla Violenza procedevano da un «amalgama fra il marxismo e la filosofia della vita di Bergson» [*57]. Successivamente, questa tesi di un'influenza soreliana ha suscitato una vera e propria levata di scudi in seno agli Studi Fanoniani, tanto più che Sartre, nella sua prefazione a I Dannati della Terra, si era impegnato a precludere in anticipo qualsiasi dibattito: «se togliamo le chiacchiere fasciste di Sorel, vi accorgerete che Fanon è il primo dopo Engels a mettere sotto i riflettori la levatrice della storia» [*58].

Benché non ci sia alcuna prova che Fanon abbia letto Sorel (se ne può perfino fortemente dubitare) e che Arendt non vede che per lui l'ottenimento del processo di decolonizzazione esige la conversione della contro-violenza spontanea in lotta politica organizzata, bisogna riconoscere che mette il dito su ciò che designa come vitalismo fanoniano, che affonda le sue radici in una certa letteratura psichiatrica che si nutre della filosofia bergsoniana [*59]. Per Fanon, la contro-violenza anticoloniale è innanzitutto una reazione vitale ad una situazione nella quale la vita del colonizzato, governata dal solo bisogno, si identifica con la sopravvivenza, non è altro che una "morte incompleta" [*60], una morte in vita. In tal senso, la lotta anticoloniale non può avere inizio se non come lotta per l'esistenza nel senso più letterale. Inoltre, se facciamo fatica a trovare in Fanon una concezione d'ispirazione soreliana del "mito" della violenza, tuttavia i due autori condividono un medesimo assioma politico-guerriero della scissione. La divisione delle classi, afferma Sorel, «è alla base di ogni socialismo». La violenza proletaria ha il potere di accusare «la divisione della società in due eserciti nemici». Lo sciopero generale, forma archetipica della violenza, risveglia le "passioni guerriere"; grazie ad esso, «la società viene ad essere divisa in due campi, e solamente in due, su un terreno di battaglia» [*61]. È vero che per Fanon, la divisione binaria colonizzatore/colonizzato è innanzitutto una realtà prodotta dal colonialismo stesso. Resta il fatto che la sua concezione del manicheismo razziale-coloniale è parte integrante di una strategia di lotta, una strategia guerriera; ed essa è chiamata a rompere ogni commercio col nemico, a rifiutare ogni compromesso, in altre parole a spingere gli antagonismi fino all'estremo per dimostrare che non esiste altro modo per mettere fine alla violenza se non la violenza stessa.

Tuttavia, la critica dell'Arendt a Fanon, e a Sartre che ne ha scritto la prefazione, esige di essere ricollocata storicamente e geograficamente. In apertura al suo saggio, la stessa Arendt afferma: «All'origine di queste riflessioni ci sono gli avvenimenti e le discussioni di tutti questi ultimi anni, così come sono emersi nella prospettiva d'insieme del XX secolo, diventate in realtà, come aveva previsto Lenin, un secolo costituito da quella violenza che si considera abitualmente come il loro denominatore comune» [*62]. Ma il saggio di Arendt, che a quel tempo insegnava alla New School for Social Research di New York, si inscrive in maniera ancora più decisiva in un contesto immediato segnato dall'emergenza della New Left e del Black Power e da una significativa dislocazione delle forme di radicalità politica sui campus universitari nord americani. Le parole di Arendt, le valgono l'accusa di razzismo:
«In America, il movimento studentesco si è fortemente radicalizzato ogni volta che la polizia è intervenuta con brutalità nel corso di manifestazioni essenzialmente non-violente [...]. In realtà, abbiamo visto verificarsi delle vere e proprie scene di violenza solo dopo la comparsa nei campus del movimento del Black Power. Gli studenti neri, la cui grande maggioranza veniva ammessa senza possedere il livello di qualificazione normale ed era interessata innanzitutto alla difesa degli interessi del gruppo, si sono organizzati e si sono considerati i rappresentanti qualificati degli interessi di un gruppo, la comunità nera. [...] Si sono mostrati meno temerari dei rivoltosi bianchi, ma fin dall'inizio si è reso evidente [...] che per loro la violenza non era semplicemente una questione di pura retorica e teoria» [*63].

La lettura che Arendt fa di Fanon si rivela in tal modo mediatizzata dalla sua comprensione, o se si preferisce della sua incomprensione, della scelta della violenza fatta da una frangia dei movimenti neri americani dell'epoca; si pensa qui naturalmente alle Black Panthers (e alla loro disciplina militare) che sul comodino avevano due libri di cui ora si capisce meglio la complementarità: il Libretto rosso di Mao e I Dannati della Terra di Fanon, dai quali l'organizzazione traeva, oltre al suo pensiero della violenza, la sua concezione del potenziale rivoluzionario del sottoproletariato: «Fanon ha chiaramente mostrato che se non lo organizzate, se l'organizzazione non si basa su di lui, se essa non prende come sua base il magnaccia, il malvivente, il disoccupato e l'oppresso, il fratello che assalta le banche e che non ha alcuna coscienza politica - il sottoproletariato - se voi vi disinteressante di questi tipi, sarà il potere ad usarli, contro di voi» [*64]. Il Fanon di Arendt è in altre parole un Fanon le cui tesi sulla violenza sono state già oggetto di un processo di trasposizione (afro-americana).

Alle soglie degli anni 1960, il pensiero di Fanon, in particolare la sua teoria della violenza, in seguito a complesse circolazioni rivoluzionarie che abbiamo cercato di mostrare, aveva iniziato a sua volta un "viaggio transcontinentale", nel corso del quale era stata oggetto di numerose appropriazioni teoriche e pratiche, che non si erano affatto limitate alle sedi universitarie. Tracciare questo itinerario richiederebbe uno studio a parte, ma non c'è dubbio che sia passato, durante la prima fase, non solo per l'America Latina con Che Guevara e per gli Stati Uniti con le Black Panthers, ma anche per il Sud Africa con Steve Biko, per l'Iran con Ali Shariati [*65], per il Giappone e per molti altri paesi ancora. Bisognerebbe poi anche prestare molta attenzione alle modalità dell'appropriazione progressiva delle tesi di Fanon sulla violenza in seno ai movimenti palestinesi e pro-palestinesi, così come in seno al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), esempio che ci consentirebbe di esaminare sotto una nuova luce i rapporti fra marxismo e "fanonismo" e le loro mutazioni contemporanee. Quest'indagine potrebbe essere completata, provvisoriamente, per mezzo del recente "ritorno" di Fanon in Francia, dove i suoi scritti esercitano un'influenza sempre più crescente in seno ai cosiddetti movimenti degli immigrati. La domanda che andrebbe posta attiene allora all'attualità o all'inattualità del pensiero di Fanon in un contesto, quello delle mobilitazioni della prima metà del 2016 contro la "loi travail", in cui si sono moltiplicate le repressioni poliziesche "indiscriminate", rispetto alle quali dimentichiamo troppo spesso che sono state collaudate da molto tempo, e che hanno corso quasi quotidianamente nei quartieri popolari... in maniera del tutto discriminata.

- Matthieu Renault - Pubblicato su Période il 5 settembre 2016 -

NOTE:

[*1] - Étienne Balibar, « Gewalt. Violence et pouvoir dans la théorie marxiste », in Violence et civilité. Wellek Library Lectures et autres essais de philosophie politique, Paris, Galilée, 2010, p. 251-304.
[*2] - Sur l’histoire de la brochure Le Rôle de la violence dans l’histoire, voir Ibid., p. 255-256.
[*3] - Alice Cherki, Frantz Fanon. Portrait, Paris, Le Seuil, 2000, p. 155.
[*4] - Jean-Paul Sartre, Critique de la raison dialectique, tome 1, Théorie des ensembles pratiques, 1960, p. 221
[*5] - Friedrich Engels, Le Rôle de la violence dans l’histoire, Paris, Éditions sociales, 1969, p. 16-17, cité in Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, Paris, Gallimard, 1991, p. 94-95.
[*6] - Friedrich Engels, Le Rôle de la violence dans l’histoire, op. cit., p. 7-9
[*7] - Étienne Balibar, « Gewalt. Violence et pouvoir dans la théorie marxiste », op. cit., p. 256.
[*8] - Ibid., p. 25.
[*9] - Friedrich Engels, Le Rôle de la violence dans l’histoire, op. cit.,p. 37-38.
[*10] - Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, op. cit., p. 94.
[*11] - Ibid., p. 95. C'è un'altra ragione, più marginale, per lo scetticismo mostrato da Fanon verso le tesi di Engels. La critica che gli rivolge non è estranea alla sua "fedeltà" ad una certa concezione hegeliana del rapporto fra padrone e servi, secondo cui dar conto della genesi della relazione ineguale di sfruttamento implica supporre una situazione originaria di uguaglianza fra i suoi protagonisti - laddove Engels afferma che «prima che sia possibile la schiavitù, occorre che sia stato raggiunto un certo livello nella produzione e che sia intervenuto un certo grado di ineguaglianza nella distribuzione» (Friedrich Engels, Le Rôle de la violence dans l’histoire, op. cit., p. 10). Ciò non implica affatto che Fanon segua Engels quando questi ne deduce che l'individuo divenuto schiavo è necessariamente per una parte responsabile della sua propria schiavitù.
[*12] - Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, op. cit., p. 95-96.
[*13] - Friedrich Engels, Le Rôle de la violence dans l’histoire, op. cit., p. 10.
[*14] - Può sorprendere che Fanon non faccia menzione, né qui né altrove, ad un'altra guerra che fa parte alla stessa sequenza storica e che era stata una lotta anticoloniale nel senso più proprio del termine, ossia la rivoluzione haitiana (1791-1804). La cosa è ancora più sorprendente se si legge la sottosezione del settimo capitolo, "Il negro ed Hegel", di "Pelle nera, maschere bianche" (1952). Fanon sostiene che lo schiavo nero (francese) non si è mai impegnato in una "lotta aperta", una "lotta a morte" contro il suo padrone bianco e che la libertà di cui attualmente gode è una falsa libertà, una libertà alienante, in quanto è una libertà concessa dall'altro (in virtù dei decreti di abolizione della schiavitù) e non conquistata da sé; è un puro dono: «Il Bianco è un padrone che ha permesso ai suoi schiavi di mangiare alla sua tavola» (Frantz Fanon, Peau noire, masques blancs, Paris, Le Seuil, 1971, p. 175-180). Ed è ancora più sorprendente per il fatto che Fanon possedeva una copia della traduzione francese, pubblicata nel 1949, dell'opera di C.L.R. James, "Les Jacobins noirs. Toussaint-Louverture et la Révolution de Saint-Domingue" (vedi Frantz Fanon, Écrits sur l’aliénation et la liberté, Oeuvres II (dir. Jean Khalfa et Robert J.C. Young, Paris, La Découverte, 2015, « La bibliothèque de Frantz Fanon », p. 608). Il fatto è, più in generale, che Fanon, rispetto a quella "vittima consenziente" di una storiografia bianco-coloniale, non aveva prestato attenzione alla lunga storia delle lotte nere-panafricane nel contesto schiavista e post-schiavista.
[*15] - Lewis R. Gordon, What Fanon Said. An Introduction to his Life and Thought, New York, Fordham University Press, 2015, p. 116.
[*16] - Alice Cherki, Frantz Fanon. Portrait, op. cit., p. 155.
[*17] - Étienne Balibar, « Gewalt. Violence et pouvoir dans la théorie marxiste », op. cit., p. 299.
[*18] - Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, op. cit., p. 70.
[*19] - Ibid.
[*20] - Ibid., p. 96-97. Nous soulignons.
[*21] - Friedrich Engels, Le Rôle de la violence dans l’histoire, op. cit., p. 41.
[*22] - Daniel Defoe, Robinson Crusoé, Paris, Le Livre de Poche, 2003, p. 256.
[*23] - Ibid., p. 146.
[*24] - Ibid., p. 255.
[*25] - Gilles Deleuze, « Causes et raisons des îles désertes », in L’Île déserte. Textes et entretiens, 1953-1974, Paris, Les Éditions de minuit, 2002, p. 15.
[*26] - Étienne Balibar, « Gewalt. Violence et pouvoir dans la théorie marxiste », op. cit., p. 262.
[*27] - C.L.R. James, « Rousseau and the Idea of General Will », in You Don’t Play with Revolution. The Montreal Lectures of C. L. R. James (dir. David Austin), Édimbourg, AK Press, 2009, p. 110, 116.
[*28] - Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, op. cit., p. 92.
[*29] - Léon Trotski, Question juive, Question noire, Paris, Syllepse, 2011, p. 160. Generalmente, si suppone che Fanon sia rimasto largamente estraneo alla tradizione marxista-leninista, e "pre-leninista", ma ora sappiamo che la sua biblioteca era riccamente fornita in materia di letteratura marxista. È vero che, come nota Jean Khalfa, «è assai probabile che Fanon, in quanto giornalista  [per El Moudjahid] e Josie [sua moglie], anche lei giornalista ad Algeri, ricevessero automaticamente un gran numero [di opuscoli di propaganda o di edizioni dei classici del marxismo], come avveniva per l'intellighenzia in Europa ed in Africa fino agli anni 1970». Benché «per la più parte non sembra che siano stati letti», alcuni tuttavia sono stati letti «con cura» e, lo abbiamo constatato, recano numerose note scritte a margine; è il caso, in particolare, delle "Questioni fondamentali del marxismo" di Plekhanov e de "Il fallimento della Seconda Internazionale" di Lenin, rispetto al quale Fanon sembra essersi particolarmente interessato alla virulenta critica dello sciovinismo (Frantz Fanon », Écrits sur l’aliénation et la liberté, op. cit., Présentation de « La bibliothèque de Frantz Fanon » par Jean Khalfa, p. 587-588). Possiamo contestare la scelta di Khalfa di relegare tutto l'insieme di questa letteratura, ivi comprese le opere di Marx ed Engels, in una parte "annessa" della lista dei libri che componevano la biblioteca di Fanon, essendo il rischio quello di suggerire che non ci fosse stata appropriazione personale, quindi significativa, del pensiero marxista da parte di Fanon.
[*30] - Étienne Balibar, « Gewalt. Violence et pouvoir dans la théorie marxiste », op. cit., p. 290.
[*31] - Vladimir I. Lénine, L’État et la révolution, Paris, La Fabrique, 2012, p. 77. Voir aussi Rustam Singh, « Violence in the Leninist Revolution », Economic and Political Weekly, vol. 25, n° 52, p. 2843-2856.
[*32] - Arif Dirlik, « Mao Zedong and “Chinese Marxism” » in Companion Encyclopedia of Asian Philosophy (dir. Brian Carr et Indira Mahalingam), Londres et New York, Routledge, 1997, p. 593, 596-597, 613.
[*33] - Slavoj Žižek, Introduction à Mao Zedong, De la pratique et de la contradiction, Paris : La Fabrique, 2007, p. 11.
[*34] - Mao Tsé-Toung, La Démocratie nouvelle, Pékin, Éditions en langues étrangères, 1965 : http://communisme-bolchevisme.net/download/Mao_Tsetoung_La_democratie_nouvelle.pdf
[*35] - Arif Dirlik, « Mao Zedong and “Chinese Marxism” », op. cit., p. 603, 611.
[*36] - Ibid., p. 612.
[*37] - Mao Tsé-Toung, « Problèmes stratégiques de la guerre révolutionnaire en Chine (décembre 1936) », in Écrits militaires de Mao Tse-Toung, Pékin, Éditions en langues étrangères, 1968, p. 83-84
[*38] - Ibid., p. 85-86.
[*39] - Vedi Arif Dirlik, The Postcolonial Aura. Third World Criticism in the Age of Global Capitalism, Boulder, Westview Press, 1997.
[*40] - La biblioteca di Fanon contiene numerosi altri opuscoli di Mao, ma la loro data di pubblicazione, uguale o posteriore al 1960 (Fanon è morto nel 1961) fa pensare che appartenessero a sua moglie, Josie [vedi Frantz Fanon, Écrits sur l’aliénation et la liberté, op. cit., « La bibliothèque de Frantz Fanon », p. 637-639]
[*41] - Frantz Fanon, « Cette Afrique à venir », in Pour la révolution africaine. Écrits politiques, Paris, La Découverte et Syros, 2001, p.203-216. [*42] - Alice Cherki, Frantz Fanon. Portrait, op. cit., p. 210, n. 12.
[*43] - Mao Tsé-Toung, « Problèmes stratégiques de la guerre révolutionnaire en Chine », op. cit., p. 87.
[*44] - Mao Zedong cité in Gérard Bensussan, Georges Labica, G. (dir.) Dictionnaire critique du marxisme, Paris, PUF, 1999, « Violence », p. 1206.
[*45] - Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, op. cit., p. 173.
[*46] - Ibid., p. 68.
[*47] - Ibid.
[*48] - Wilhelm Reich, L’Analyse caractérielle, Paris, Payot, 1971.
[*49] - Frantz Fanon, L’An V de la Révolution algérienne, Paris, La Découverte & Syros, 2001, Annexe : « Pourquoi nous employons la violence (discours prononcé à la Conférence d’Accra, avril 1960) », p. 176.
[*50] - Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, op. cit., p. 83-84.
[*51] - Ibid., p. 85-88.
[*52] - Michael Hardt et Antonio Negri, Commonwealth, Cambridge, Belkknap Press of Harvard University Press, 2009, p. 29.
[*53] - Étienne Balibar, « Gewalt. Violence et pouvoir dans la théorie marxiste », op. cit., p. 299.
[*54] - Michael Löwy, The Marxism of Che Guevara. Philosophy, Economics, Revolutionary Warfare, Lanham et Plymouth, Rowman & Littlefield Publishers, 2ème édition, cop. 1973, p. 73.
[*55] - Daniel James, Che Guevara. A Biography, New York, Cooper Square Press, 2001, p. 156
[*56] - Hannah Arendt, « Sur la violence » in Du mensonge à la violence, Paris, Pocket, 1994, p. 173-174.
[*57] - Ibid., p. 170.
[*58] - Jean-Paul Sartre, Préface à Les Damnés de la terre, op. cit., p. 44.
[*59] - Vedi soprattutto Constantin von Monakow et Raoul Mourgue, Introduction biologique à l’étude de la neurologie et de la psychopathologie, Intégration et désintégration de la fonction, Paris, F. Alcan, 1928.
[*60] - Frantz Fanon, L’an V de la Révolution algérienne, op. cit., p. 115.
[*61] - Georges Sorel, Réflexions sur la violence, Paris, M. Rivière et Cie, 1972, p. 161, 197, 237.
[*62] - Hannah Arendt, « Sur la violence », op. cit., p. 105.
[*63] - Ibid., p. 123-124. Traduzione modifixata : la traduzione di Guy Durand indica « panthères noires » laddove Arendt scrive « Black Power ».
[*64] - Bobby Seale, À l’affût. Histoire du Parti des Panthères noires et de Huey Newton, Paris, Gallimard, 1972, p. 37.
[*65] - Notiamo a questo proposito che la figura di Shariati potrebbe servire da mezzo per la "ricostituzione" del dialogo, che non è mai avvenuto, fra Fanon e Foucault. Fanon ha avuto una corrispondenza con Shariati che ha tradotto in persiano un'antologia dei suoi scritti ed ha largamente contribuito a far conoscere il suo pensiero negli ambienti intellettuali e rivoluzionari iraniani nell'emigrazione. Quanto a Foucault, la sua comprensione e la sua attrazione per la rivoluzione iraniana sono state in gran parte frutto della sua scoperta e della sua riflessione circa il pensiero di Shariati (vedi Janet Afary et Kevin B. Anderson, Foucault and the Iranian Revolution. Gender and the Seductions of Islamism, Chicago, University of Chicago Press, 2005).

fonte: Période