venerdì 22 luglio 2016

“Sarete sempre di meno!”

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Questo estratto, è l'introduzione (pp. 253-259) di Robert Kurz ad una serie di passaggi relativi al Marx esoterico del V capitolo del libro "Lire Marx. Les textes les plus importants de Karl Marx pour le XXIe  siècle.  Choisis  et  commentés  par  Robert  Kurz",  La  balustrade,  2002. Le numerose riflessioni sulla società del lavoro, sulla produzione capitalista come fine in sé irrazionale, sulla teoria del capitalismo come barbarie, ecc., si riferiscono ai capitoli precedenti che possono essere tutti consultati sul sito "Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme"  

La vera barriera della produzione capitalista è il capitale stesso:
il meccanismo e la tendenza storica delle crisi
- di Robert Kurz -

Non c'è quasi niente nell'opera di Marx che sia così attuale e così nuovo quanto la sua teoria della crisi. Non c'è niente di così lontanto dal pensiero degli accademici nel campo delle scienze economiche e sociali, o dal pensiero degli ultimi marxisti, quanto l'idea di riprendere o addirittura di definire la teoria della crisi di Marx. Vi sono sicuramente delle ragioni per questo. Nel mondo universitario, oggi Marx viene considerato  come il grande sconfitto. Non si riesce più ad ottenere una laurea né a fare carriera lavorando su Marx, come avveniva durante gli anni 70, quando i nuovi movimenti sociali dell'epoca lo avevano fatto diventare di moda - passeggera e superficiale - nella ricerca. Marx è passato di moda anche come oggetto di critica. Forte della sua vittoria sedicente definitiva, il capitalismo ritiene la teoria marxista in generale e la sua teoria della crisi in particolare ormai immeritevoli persino di critica; i difensori accademici del capitalismo e la loro claque, divenuti inutili, sono rimasti disoccupati. Oppure troveranno, dopo Marx, un avversario con cui misurarsi che giustifichi la loro ragion d'essere?
Tuttavia, la loro pretenziosa arroganza di vincitori ha fatto sì che rinunciassero ad una non trascurabile chance di mercato. Storditi dal consenso economico mondiale, per il pubblico non ci sarebbe niente di più eccitante di salire a bordo del treno fantasma di un grande romanzo di crisi, e lasciarsi sopraffare ancora una volta dal delizioso brivido suscitato dallo spettro sconcertante di Marx, per poter naturalmente in seguito, nell'inevitabile lieto fine, schiacciarsi contro il petto - diventato di nuovo rassicurante - del capitalismo gloriosamente uscito dalla crisi.
La piccola banda degli ultimi marxisti ancora leali verso il movimento operaio, non riesce davvero a dare l'impressione di voler riprendere la nuova offensiva per mezzo di una riformulata teoria marxista della crisi. In effetti, contrariamente alle varie voci che corrono, la teoria della crisi non ha mai giocato un grande ruolo nella ricezione di Marx da parte del vecchio movimento operaio. Infatti, nella prospettiva del Marx essoterico, la crisi è solo un epifenomeno, un fattore esterno alla lotta di classe, quando non è - come appare qui e là nei trattari di Marx - la sua sola funzione; la crisi, nel suo senso stretto, sarebbe alla fine determinata dall'azione di classe, non oggettivamente, ma soggettivamente, come semplice atto di volontà. In tal caso, la crisi significherebbe soltanto che il capitalismo non può più fare ciò che vuole, poiché i lavoratori salariati non vogliono più fare ciò che devono.
In maniera generale, qui constatiamo di nuovo come il marxismo rimanga nei limiti del pensiero borghese moderno: più le categorie del capitalismo si fissano in "condizione muta" nella loro oggettivazione sociale, tanto più devono essere invocati i soggetti provenienti ed impregnati da questa oggettività muta, come se essi potessero ancora (e contrariamente al loro stato) essere padroni di una qualunque azione.

Così come l'argomentazione del Marx essoterico in definitiva non serviva altro che a legittimare una lotta del movimento operaio al fine di essere riconosciuto nel capitalismo e dal capitalismo, si può facilmente comprendere come in fondo questo marxismo non sapesse che farsene di una teoria "forte" ed oggettiva della crisi, e che al contrario doveva anzi temerla. In effetti, il concetto di oggettività della crisi indica l'obsolescenza di queste forme di categorie sociali, in cui noi stessi contiamo di continuare a vivere in un lontano avvenire; per lo stesso motivo - peggio ancora - essa indica l'obsolescenza della sua stessa forma soggettiva. Così non si è trattato né di un miracolo né di un tradimento se la socialdemocrazia occidentale si è trasformata in un "medico al capezzale del capitalismo", mentre si trovava ancora sotto la bandiera della sua legittimazione marxista, e se perciò cerca di rifiutare e di bandire l'oggettività della crisi non solo sul piano ideologico, ma anche su quello pratico.
Di contro, i regimi provenienti dalla modernizzazione in ritardo della periferia capitalista avevano interesse a sottolineare la crisi del capitalismo. Ma siccome questo interesse serviva unicamente a legittimare i ritardatari della storia, bisognava fare risultare questa crisi in maniera particolarmente soggettiva (nel senso di un orientamento strategico del marxismo mondiale conforme alle loro proprie esigenze); l'oggettività del processo di crisi in quanto meccanismo interno del capitale è stata respinta ed occultata, allo stesso modo in cui ciò è avvenuto per il marxismo occidentale. Così la crisi non poteva essere essenzialmente altro che una crisi di legittimità, una crisi morale, culturale, ecc.; si trattava soprattutto della crisi del capitalismo dovuta all'azione ed all'alleanza del movimento operaio occidentale con i regimi dei paesi dell'Est e del Sud.
Appare quindi evidente che si deve attribuire la teoria marxista della crisi più propriamente al Marx esoterico, piuttosto che al Marx essoterico. Ciò diventa particolarmente evidente, quando si comprende che la teoria della crisi di Marx basa la sua argomentazione sulla scomparsa dello stesso "lavoro". Come veniamo a dimostrare, è proprio su questo punto che i due Marx confliggono in maniera del tutto particolare: mentre il Marx essoterico vede il "lavoro" come una necessità naturale sovra-storica, antropologica ed ontologica, per il Marx esoterico, il lavoro costituisce la forma astratta specificamente capitalista di attività - ed è allo stesso tempo la sostanza del capitale.

Detto questo, una crisi non è altro che la perdita della sostanza oggettiva del capitale, perdita provocata dal meccanismo interno proprio di questo stesso capitale: il lavoro scivola via come scivola la sabbia da un sacco, attraverso un buco, o come scivola via l'acqua attraverso una perdita nel serbatoio. Il capitale si svuota e si indebolisce e la sua vita alimentata dal lavoro si ferma. Quando uno dei componenti del soggetto automatico, vale a dire il lavoro, smette di scorrere, l'altro, il denaro, è obbligato a decrescere - perde la sua sostanza, quindi il suo valore, e diventa esso stesso obsoleto. Avviene l'interruzione del rapporto o della forma di circolazione sociale generale del triplo elemento: lavoro astratto, reddito monetario e consumo delle merci. Tutto il modo di vita apparentemente naturale che si basa su queste relazioni feticiste cade a pezzi e diventa praticamente impossibile. Ci si ritrova allora davanti alla seguente assurdità: tutti i mezzi e tutte le capacità di una ricca riproduzione abbondano, ma gli uomini paralizzati dalla "mano invisibile" del capitale non possono più realizzare le loro possibilità, in quanto esse non soddisfano più all'irrazionale fine in sé del soggetto automatico. Questa inquietante immobilizzazione dell'insieme dei meccanismi è causata non dal "braccio possente" della classe operaia, ma da una sorta di grippaggio della macchina capitale. Lo stato sociale che ne risulta somiglia al supplizio di Tantalo; vale a dire che benché abbiano ai loro piedi tutta la ricchezza del mondo, gli uomini affamati ed assetati la vedono arretrare davanti a loro.
Allorché, nel quadro della sua critica del lavoro, Marx aveva esposto in maniera chiara e senza ambiguità questa fine logica della crisi, nella sua teoria della crisi sviluppa il meccanismo interno e contraddittorio del capitale, mostrando l'effetto concreto di questa contraddizione che all'inizio formula solo in generale. Partendo dai concetti di plusvalore assoluto e relativo, Marx elabora pezzo per pezzo la logica ed il meccanismo della crisi capitalista; mostra come, dalla trasformazione della composizione organica del capitale, spinta dalla modalità della concorrenza, si arrivi alla caduta (relativa) del tasso di profitto e infine, quanto meno come possibilità astratta, alla caduta (assoluta) della massa del profitto; conseguentemente, mostra come la riproduzione e l'accumulazione capitalista arrivino al blocco totale.

Mentre, nella sua prima redazione di una critica del lavoro, Marx designa chiaramente questo stadio finale assoluto, cioè a dire la barriera intrinseca assoluta del processo di produzione capitalista, nella sua analisi successiva del meccanismo della crisi, lascia questo problema piuttosto in sospeso. Il carattere periodico delle crisi poteva effettivamente farle sembrare come se fossero un pesante fardello del capitalismo, ma allo stesso tempo anche solo come un'interruzione semplicemente temporanea dell'accumulazione, e quindi come una barriera interna solo relativa del capitale. Ben oltre la morte di Marx, le crisi si sarebbero ancora presentate come una sorta di "crisi di messa in atto" del capitalismo, punteggianti il lungo cammino del suo sviluppo. Esse avevano certamente il carattere di una recessione più o meno disastrosa, di rotture strutturali e di violente eruzioni economiche, ma tuttavia non costituivano ancora una barriera intrinseca assoluta.
Tuttavia, anche nella sua descrizione del meccanismo della crisi, per Marx non c'è alcun dubbio che la crisi non si sviluppi in maniera lineare bensì progressivamente, in quanto essa presenta una tendenza storica ad amplificarsi. Perciò non ritiene che la crisi sia un mezzo per ristabilire una situazione precedente, per consentire all'accumulazione di ripartire dallo stesso livello. Questo vale necessariamente tanto per la crisi del capitalismo quanto per il capitalismo stesso: non si tratta assolutamente di un semplice condizione né di una semplice struttura, ma di un processo storico dinamico che si sviluppa su una scala sempre ascendente. Se la causa ultima della crisi risiede nel fatto che lo sviluppo delle forze produttive, forzato dalla concorrenza, rende superfluo il lavoro ed attacca in questo modo la sostanza del capitale, allora è chiaro che il livello incessantemente sempre più elevato delle forze produttive porta la crisi a delle dimensioni sempre più considerevoli. È quindi anche ipotizzabile che il capitale raggiunga un limite interno assoluto, un livello di evoluzione in cui non sarà più possibile riassorbire sufficientemente forza lavoro umana, per poi ridare slancio all'accumulazione del capitale in quanto fine in sé. Se il capitale ha la tendenza immanente a consumare il più possibile forza lavoro mondiale, oggettivamente può farlo solo a livello della produttività che esso stesso ha fissato. Parallelamente al supplizio di Tantalo degli uomini che non possono più mobilitare le loro stesse risorse materiali e tecniche, si assiste, in tempi di crisi, al supplizio di Tantalo del "sogggetto automatico" [del capitale] che non è più in grado di assorbire la massa di forza lavoro inutilizzata.
Se la descrizione del meccanismo interno oggettivo della crisi tratta la questione del limite assoluto del capitale senza dare però una risposta, questo si spiega in gran parte per il fatto che, ancora una volta, il Marx essoterico e quello esoterico invadono ciascuno il territorio dell'altro. Per il marxismo del movimento operaio, la frase di Marx che afferma che il vero ostacolo al capitalismo è il capitale stesso, doveva sembrare un anatema e doveva suonare altrettanto insensato del soggetto automatico. E questo soprattutto in quanto metteva in discussione la classe operaia, preteso braccio oggettivo e soggettivo dello sconvolgimento.
Quando il vecchio movimento operaio poteva ancora esultare con il Marx essoterico del "Noi siamo sempre di più", avrebbe dovuto sentire il Marx esoterico che diceva: "Voi sarete sempre di meno".

Queste contraddizioni, Marx non è mai riuscito a sbrogliarle. Ma il suo sviluppo della teoria della crisi, svolto in maniera altrettanto chiara della sua critica del capitalismo in quanto "società del lavoro", è un modello di superamento del marxismo della modernizzazione immanente. Non si tratta del fatto che la rigorosa obiettività della crisi debba implicare qualcosa come un automatismo oggettivo dell'emancipazione sociale. La crisi innesca l'obsolescenza del capitalismo, ma senza instaurare un altro ordine sociale. Questo, gli uomini devono farlo loro. Il marxismo non ama la teoria della crisi radicale del Marx esoterico proprio perché voleva rimanere, con l'attore soggettivo rappresentato dalla classe operaia, sul terreno dell'oggettività capitalista e quindi sul terreno delle forme del sistema di produzione della merce. Da parte sua, la crisi oggettiva di questa "falsa" oggettività negativa non suggerisce una qualche tranquilla attesa della salvezza (come potrebbe sembrare dal punto di vista del marxismo operaio), ma suggerisce al contrario una critica ben più fondamentale ed una contestazione, che, inoltre, non può reclamare lavoro, dal momento che si tratta di attività capitalista, piuttosto che di diritto dell'uomo, che è forse ancora possibile rivendicare. In altri termini: più la crisi, in quanto barriera assoluta intrinseca del capitale, si avvicina, più la critica del capitalismo diventa una questione categoriale e cessa di essere, proprio per questo, una semplice questione di classe. Diventa una questione che si pone in maniera ineluttabile, quale che sia il punto di vista sociale da cui ci si pone.

Su questo punto, se si osa ragionare al contrario, la "fine della lotta di classe" potrebbe rimandare non alla vittoria finale e alla perpetuazione del capitalismo, così come viene generalmente inteso oggi, ma al contrario al culmine della sua crisi oggettiva. Forse ci troviamo nel centro dell'occhio del ciclone e potrebbe darsi che i difensori della democrazia e dell'economia di mercato siano pazzi a rallegrarsi per la pace sociale.
Terminata la critica del capitalismo rimasta seduta sui suoi vecchi modelli immanenti. "La vera barriera del capitale è il capitale stesso": la frase di Marx sembra riassumere con crudele ironia l'attuale situazione mondiale. Il capitalismo occidentale ha saputo sconfiggere le società rovinate dalla modernizzazione di recupero mancata, ma non riuscirà a trionfare sulla sua stessa intrinseca logica. Può adattarsi a tutto, tranne che a sé stesso.
Il paradosso di questa situazione si esprime così nel fatto per cui più la critica tace a livello mondiale, più si evidenzia la durezza delle manifestazioni della crisi su scala mondiale. Che beffa: proprio adesso che, dopo un secolo di terribili lotte immanenti, infine l'umanità era arrivata ad amare più di qualsiasi cosa il farsi sfruttare illimitatamente dal capitale, ecco che questo dio secolarizzato ha perso la sua capacità di sfruttare.

Non si può fare altro che restare singolarmente colpiti dal sapere, o solo intuire, che questa situazione attualmente non sembra impedire la fede nel capitale e nella capacità di auto-perpetuazione del capitalismo, per la sola ragione che questi non ha più alcun avversario esterno.
Quel che è certo è che è necessario verificare più in dettaglio se la terza rivoluzione industriale della microelettronica abbia effettivamente portato a raggiungere il limite interno assoluto del capitale. Ma è esattamente questo esame che il corpo scientifico accademico rifiuta di fare, insieme ai resti malandati della sinistra politica. La crisi viene meno analizzata di quanto sia rimossa e negata. Il paradosso sussite in quanto la teoria economica perde validità tanto più velocemente quando la crisi delle categorie economiche si manifesta in maniera più chiara. Più il mondo diventa economico, più è soggetto alle crisi; e più tende alle crisi, più la coscienza diviene economica, ma in una forma del tutto a-teorica ed acritica. Ai tempi ormai lontani della prosperità, la critica dell'economia era molto popolare. Nel corso della crisi nascente del 21° secolo, la critica dell'economia politica si è spenta. La sinistra come la destra, i liberali come i conservatori, si sono tutti rifugiati nel culturalismo postmoderno. C'è la crisi, ma tutti parlano solo del meteo.
È arrivato perciò il tempo di dotarsi nuovamente di una cultura teorica della critica dell'economia politica, andando contro la corrente culturalista superficiale che sembra stia per trasformarsi in isteria. Non c'è affatto bisogno di essere chiaroveggenti per poter prevedere che la teoria marxista della crisi sarà al centro di un'inevitabile riformulazione di tale critica, non più di quanto serva essere indovini per predire che la realtà della crisi capitalista accompagnerà e segnerà questo secolo appena nato.

- Robert Kurz -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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