martedì 28 giugno 2016

Convergenze e rotture

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INTERVISTA AD ANSELM JAPPE DELLA RIVISTA "CULT", maggio 2016

CULT: Nel suo saggio, "Guy Debord", del 1993, lei ha tentato di capire le fonti del pensiero dell'autore de "La società dello spettacolo", mettendo in luce l'importanza di Marx e della tradizione marxista ai fini dell'elaborazione della teoria dello spettacolo, e sottolineando, allo stesso tempo, il carattere eterodosso del pensiero di Debord. In cosa consiste la particolarità di questo pensiero e qual è la sua posizione in rapporto alla tradizione marxista?

Anselm Jappe: All'inizio, negli anni 1950, Debord si collocava, per via del lettrismo, su una linea di continuità rispetto al surrealismo originale ed al suo progetto di reinventare la vita, unendo la rivolta e la poesia. Ma ben presto è arrivato alla conclusione che era necessario cercare un'unione con quelle forze in grado di scuotere la società capitalista, ed è stato con un tale proposito che ha fondato l'Internazionale Situazionista. Quindi operò una profonda rilettura della teoria di Marx, il cui prodotto principale è stata "La società dello spettacolo" (1967). In quell'epoca, l'interpretazione leninista di Marx stava perdendo terreno, e gruppi come "Socialisme ou Barbarie" avevano messo in evidenza il ruolo nefasto della burocrazie sia nelle società capitaliste che in quelle che si pretendevano "comuniste". A partire da questo, se ne trasse come conclusione che i "Consigli operai" avrebbero dovuto sostituire i partiti ed i sindacati affinché si potesse arrivare ad una vera rivoluzione contro lo Stato e contro il capitalismo. Debord sottoscrive quest'idea. Ma riprende anche la critica marxiana della merce ed afferma che lo spettacolo è la forma contemporanea della merce. Cominciando il suo libro con la medesima frase con cui inizia "Il Capitale" di Marx, ma sostituendo la parola "merce" con la parola "spettacolo", Debord fa capire che pretende di presentare una versione contemporanea della critica di Marx. Mentre mantiene l'importanza conferita alla "lotta di classe", Debord dà grande peso alla "alienazione", ampliando questo concetto a settori come la vita quotidiana, l'urbanistica e la cultura. In questo modo, il proletariato non è più solamente l'operaio sfruttato, ma sono tutti quelli che hanno perso il controllo delle proprie vite e che ne hanno consapevolezza. Nell'ottica di Debord, ciò permette di vedere la rivoluzione sotto una nuova angolazione, e considera la rivolta del maggio 68 in Francia come la conferma della sua teoria. Ma quel che oggi appare essere più innovativo nella teoria di Debord consiste nel fatto di aver posto il feticismo della merce al centro della critica del capitalismo, mostrando che questo comporta sempre una passività generalizzata ed un esilio delle potenzialità umane in un al di là - che non è più religioso, ma che ha preso la forma di un'economia autonomizzata rispetto agli uomini che l'hanno creata.

CULT: In tale contesto, difficilmente la teoria dello spettacolo potrebbe essere confusa con una semplice teoria dei media. Che senso possiamo attribuire, allora, ai concetti di immagine e di spettacolo?

Jappe: Come nota Debord, i media, ed in particolare la televisione, sono soltanto la manifestazione più visibile - e "più travolgente" - del meccanismo spettacolare, ma non ne costituiscono il suo centro. Nello spettacolo, in quanto fase recente dello sviluppo della società capitalista, la contemplazione passiva della vita possibile sostituisce la vita reale. Gli individui "assistono" a quello che loro manca nella vita quotidiana. Sotto forma di immagini in senso stretto - per esempio, la vita brillante che vediamo al cinema consola gli spettatori della povertà della loro esistenza, sottomessa alle esigenze del lavoro e della vita borghese - ma anche in senso ampio - ogni merce, che si tratti di un'automobile, di un viaggio o di una visita al museo, promette una vita felice e sostituisce l'esperienza diretta della realtà. È per questo che viene consumata, e non per il suo valore d'uso. I paesi cosiddetti "socialisti" non sono meno spettacolari: ma lì è la contemplazione dell'ideologia e delle azioni del capo a sostituire il consumo delle merci. Si tratta, quindi, di "spettacolare concentrato", che Debord oppone allo "spettacolare diffuso" che domina nelle società "democratiche" occidentali. Anni dopo, Debord ha affermato che questi due tipi di spettacolo si trovavano sul punto di fondersi nello "spettacolare integrato" mondiale. Perfino i movimenti di contestazione cadono nella logica spettacolare quando i semplici adepti si limitano a sostenere l'azione di alcuni protagonisti, ed ancor più quando si installano delle burocrazie all'interno di queste organizzazioni. Per Debord anche l'arte è uno spettacolo: in essa la "rappresentazione" delle passioni sostituisce la vita diretta. L'esistenza dello spettacolo, però, non è una fatalità o una semplice conseguenza della "modernità". Lo spettacolo è una tecnica di dominio che permette di mantenere in uno stadio di passività la maggioranza della popolazione. Si basa sulla distinzione strutturale fra spettatori ed attori, impedendo agli individui di esercitare un controllo sulle proprie vite che, tuttavia, potrebbe essere possibile grazie allo sviluppo delle forze produttive. Pur avendo radici antiche, lo spettacolo si è sviluppato, soprattutto, dopo la prima guerra mondiale. È l'espressione dell'economia autonomizzata ed i suoi agenti non sono tanto i proprietari giuridici del capitale quanto i nuovi strati di burocrati, tecnocrati e manager.

CULT: Studiando gli archivi di Guy Debord, si può constatare che, prima di scrivere "La società dello spettacolo", egli quasi non avesse conoscenza degli autori della Scuola di Francoforte, poco tradotti in Francia, ad eccezione di Herbert Marcuse, il cui "Eros e civiltà" era apprezzato da Debord. Ciò nonostante, in più di uno scritto, lei ha messo in rilievo punti di contatto fra le riflessioni di Debord e quelle di Theodor Adorno, soprattutto circa l'industria culturale. Che rapporti possiamo stabilire fra questi due teorici?

Jappe: I filosofi tedeschi Theodor W. Adorno e Max Horkheimer hanno elaborato il concetto di "industria culturale" durante il loro esilio in California all'inizio degli anni 1940, rendendolo pubblico nel libo "Dialettica dell'illuminismo" (1947). Essi hanno denunciato, soprattutto, la riduzione della cultura ad una merce e la perdita del suo potenziale critico ed utopico, cosa che va di pari passo con un impoverimento generale della vita e della sensibilità. Questa critica ha incontrato un pubblico pià ampio solo vent'anni più tardi, e probabilmente era sconosciuta a Debord quando ha redatto il suo libro. Ci troviamo pertanto davanti ad una convergenza "oggettiva" di idee. Nonostante le evidenti differenze fra Debord, che si riteneva un sovversivo ed un rivoluzionario, e gli accademici della Scuola di Francoforte, nella loro maggioranza abbastanza tranquilli, vediamo che si ponevano gli stessi problemi: la fine della miseria del proletariato significa davvero che il capitalismo occidentale, chiamato d'ora in poi "società del consumo", abbia creato una società armoniosa? Oppure esistono nuove forme di alienazione che rendono l'individuo altrettanto impotente di prima, anche quando le forze produttive permetterebbero agli uomini di dominare le proprie condizioni di vita? La risposta è sempre una critica radicale della società del "miracolo economico", con termini che utilizzano la teoria di Marx mentre allo stesso tempo si distinguono dal marxismo tradizionale. Quelle che differiscono sono le conseguenze: Adorno non sembra più credere nella possibilità di una trasformazione radicale, se non una specie di cambiamento della mentalità che passi, soprattutto, per l'arte. Marcuse, al contrario, ammette la possibilità di una rottura nelle condizioni dominanti e scommette sugli studenti. Debord ed i situazionisti vedono comparire, in quest'epoca, una contestazione totale della "vita permessa" da parte di un "proletariato" che viene, in parte, identificato con il vecchio proletariato delle fabbriche e, in parte, con la massa di tutti coloro che sentono il vuoto causato dall'abbondanza di merci. Ma, a differenza di Adorno e di Marcuse, Debord sostiene che il potenziale critico dell'arte - che in passato è stato molto reale - si sarebbe esaurito e che la realizzazione dell'arte - che è allo stesso tempo il suo superamento in quanto realizzazione di quello che l'arte ai limiterebbe solo a promettere - sarebbe parte essenziale delle nuove forme di contestazione.

CULT: Più volte, lei ha cercato di mostrare che esistono punti di contatto anche fra il pensiero di Debord e quello di autori estranei alla tradizione marxista. È il caso, ad esempio, di Hanna Arendt, in particolare per "La condizione umana" (1958), il cui concetto dell'agire ed il cui concetto di tempo storico lei giudica vicini alle concezioni di Debord. Potrebbe commentare brevemente tale questione?

Jappe: Il pensiero di Hanna Arendt, discepola di Martin Heidegger, appare estraneo al marxismo e alla tradizione rivoluzionaria in generale. Tuttavia, a distanza di tempo, emergono alcuni parallelismo, come frequentemente avviene nella storia delle idee. "La società dello spettacolo" contiene una parte meno nota, nella quale Debord analizza il "tempo storico". Nel corso della storia, gruppi umani hanno cominciato a liberarsi dal tempo ciclico e a dare una direzione ed un senso alle loro azioni, rendendole uniche e degne di essere trasmesse - cosa che, per Debord, assomiglia ad un "gioco". L'esistenza di un materiale eccedente - che si trasforma in un'eccedenza temporale - e la sua appropriazione da parte di una classe sociale, sono state le sue condizioni. L'antica Grecia ha conosciuto così una "democrazia di signori della società". L'economia mercantile, con la sua correlata espansione delle forze produttive, avrebbe, da principio, reso possibile per tutta la popolazione un'estensione di questa libertà ed il gioco con il tempo. Ma la società di classe, soprattutto nella sua forma spettacolare, ha bloccato tale possibilità, sottomettendo la maggioranza degli uomini a nuove forme di ripetizione - soprattutto con l'obbligo a lavorare. Sotto questa forma, il "tempo spettacolare" è il contrario della storia realmente vissuta sotto forma di "situazioni costruite". Arendt, da parte sua, ne "La condizione umana" analizza la vita nell'antica Grecia come uno spazio dove ciascuno piò svolgere il proprio ruolo storico attraverso atti e parole. Inoltre, descrive il lavoro come una forma di alienazione volta alla semplice perpetuazione della vita biologica, in opposizione alla "opera". Per quanto differente sia la sua concezione rispetto a quella di Debord, ci troviamo un'aspirazione comune ad indicare una temporalità autentica - il che dovrebbe permettere agli individui di giocare fino in fondo il gioco del loro passaggio sulla Terra, se ne sono capaci. Da tutto questo emerge una certa concezione eroica della vita che viene spesso sottostimata dai commentatori.

CULT: Dopo aver studiato l'opera di Debord, lei ha collaborato alle riviste "Krisis" ed "Exit!", lavorando a fianco di Robert Kurz. Da allora è una delle principali voci (se non la principale) della critica del valore in Europa. Questo ci autorizza a ritenere che esista un filo di continuità fra la teoria di Debord e la Wertkritik. Ciò nonostante, è anche facile percepire che esistono punti di divergenza fra le due teorie, ad esempio, in relazione alla questione della lotta di classe. Quali sono i punti di convergenza e quali quelli di rottura fra il pensiero di Debord e la teoria della critica del valore?

Jappe: La principale voce della critica del valore è stata, senza dubbio, quella di Robert Kurz, fino alla sua morte improvvisa [a causa di un errore medico] nel 2012. In effetti, sono entrato in contatto con i teorici della critica del valore, elaborata inizialmente in Germania, dopo la pubblicazione del mio libro su Guy Debord, nel 1993. Loro praticamente non conoscevano le idee situazioniste. Non esiste, pertanto, filiazione diretta, né influenza di Debord sulla critica del valore al suo inizio. Ma ho trovato nella Wertkritik un pensiero con lo stesso grado di radicalismo, al di là degli altri diversi punti comuni: la centralità di concetti quali "alienazione", "feticismo della merce" o "reificazione"; la critica dell'esistenza stessa della merce e del lavoro, e non solo della sua gestione e distribuzione; la mancanza di fiducia nei confronti di gran parte del marxismo a favore di un ritorno alle categorie centrali di Marx; l'attenzione alla dimensione del quotidiano. E la Wertkritik, così come i situazionisti, si poneva fuori dal campo universitario e mediatico, evitando ogni forma di istituzionalizzazione ed imponendosi grazie al discorso - un discorso che sapeva, talvolta, essere abbastanza polemico, senza temere il conflitto con la sinistra radicale esistente. Allo stesso tempo non mancavano le differenze. In un certo qual modo, i situazionisti si fermarono a metà strada, nel loro mettere in discussione il marxismo classico, conservando in particolare la centralità della "lotta di classe" e della "soggettività rivoluzionaria" in generale. La Wertkritik ha molto insistito sul carattere ineluttabile della crisi del capitalismo e sul suo carattere oggettivo. Come si è visto vent'anni più tardi, la critica del valore ha saputo trarre profitto dalla critica del soggetto, ed in particolare dalla dimensione di genere, elaborate nel frattempo. D'altra parte, i situazionisti, e Debord in particolare, hanno avuto uno stile, un'attitudine che nessuno ha saputo riprendere e che proveniva, soprattutto, dalla tradizione artistica e letteraria francese alla quale si riferivano. La loro capacità di combattere lo spettacolo senza scendere nell'arena dello spettacolo è rimasta unica.

- Pubblicata sulla rivista "Cult" 212 del maggio 2016 -

fonte:  Critica Radical

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