mercoledì 30 marzo 2016

La fine dell’Eternità

quanti

Nel suo libro, "Dall'Eternità a qui" (edizioni Adelphi), Sean M. Carroll discute sulla peculiare natura dell'universo così come viene vista secondo la prospettiva della Scuola di Copenaghen. Tale peculiare natura, può esere descritta per mezzo di quattro caratteristiche della materia, su scala quantica:

1 - La materia si comporta sia come una particella discreta che come un'onda meno discreta.
2 - La materia, ogni volta che si cerca di osservarla, vale a dire quando si interagisce con essa, cambia improvvisamente dal comportamento di onda a quello di particella
3 - Il passaggio istantaneo dal comportamento di onda a quello di particella è:
    a) irriducibilmente casuale: vale a dire, possiamo prevedere il suo risultato finale, in anticipo, solo  approssimativamente
    b) irreversibile: vale a dire, non possiamo conoscere lo stato precedente della particella; la nostra interazione con una particella distrugge in maniera irrimediabile le informazioni relative al suo stato precedente.
4 - Nel momento in cui proviamo a misurare il processo, c'è un livello irriducibile di incertezza

Nella fisica classica, lo sviluppo di un processo può essere spiegato per mezzo di un insieme di regole basate sulle leggi fisiche di Newton; ma nel mondo naturale descritto dalla meccanica quantistica lo sviluppo di un processo appare essere governato da due insiemi di leggi fisiche del tutto differenti, che Carroll spiega così:

" 1. Quando non la guardiamo, una funzione di onda evolve in maniera uniforme e prevedibile. Il ruolo giocata dalla legge di Newton nella meccanica classica, nella meccanica quantistica viene rimpiazzato dall'equazione di Schrödinger, che opera in maniera del tutto analoga. Dato lo stato del sistema in un dato momento, noi possiamo usare l'equazione di Schrödinger per svilupparlo gradualmente in maniera affidabile nel futuro e nel passato. L'evoluzione conserva informazioni ed è completamente reversibile.

2. Quando la osserviamo, una funzione di onda collassa. Il collasso non è uniforme, o perfettamente prevedibile, e le informazioni non vengono conservate. L'ampiezza (al quadrato) associata ad ogni particolare risultato ci dice la probabilità secondo cui la funzione di onda collasserà nello stato che è interamente concentrato su quel risultato. Due diverse funzioni di onda, dopo un'osservazione,  possono molto facilmente collassare esattamente nello stesso stato; tuttavia, il collasso della funzione di onda non è reversibile."

La "interpretazione di Copenaghen" della fisica quantistica ha proposto che una serie di regole si applica ad un processo solo fino al punto in cui noi lo osserviamo effettivamente, a quel punto il processo viene istantaneamente determinato da un altro insieme di regole. La transizione fra i due "stati" non è uniforme e comporta una significativa perdita di informazione critica di modo che così lo stato del processo precedente al collasso non può essere conosciuto. Inoltre, secondo Carroll, due processi completamente differenti (funzioni di onda), una volta osservati, possono collassare allo stesso stato.
A quale "stato" collasserà il processo è del tutto casuale, cosicché noi possiamo solo assegnare delle probabilità al risultato. Tuttavia, una volta che il processo cade in questo stato, tutte le osservazioni successive produrranno lo stesso risultato, finché non verranno toccate da altre forze.

Un'economia, due insiemi di regole
Abbastanza stranamente, nella teoria neoclassica, come nella meccanica quantistica, ci sono due insiemi completamente distinti e separati di regole che operano fianco a fianco: la teoria microeconomica e la teoria macroeconomica. Più o meno allo stesso modo in cui la meccanica quantistica assume l'esistenza di due insieme di regole che governano il mondo naturale, la teoria economica assume che due differenti insiemi di regole governino il comportamento dell'economia.
Tuttavia, c'è anche un'altra caratteristica ancora più interessante condivisa da meccanica quantistica e microeconomia: sia nell'equazione di Schrödinger che nella teoria microeconomica, il sistema si svolge in maniera costante e prevedibile. Singolarmente, attualmente l'equazione di Schrödinger non predice un collasso della forma onda. In maniera simile, la teoria microeconomica non predice le crisi capitalistiche di sovrapproduzione.

Secondo Wikipedia:
"Un processo fisico di misurazione può essere descritto in due modi distinti. Nel primo modo può essere descritto come un processo che avviene in un sistema isolato, per mezzo di un singolo stato quantico che rimane coerente ed obbedisce all'equazione di Schrödinger per tutto il processo. In tale descrizione non vi è alcuna riduzione della funzione di onda. Non espone un risultato definitivo, in quanto l'equazione di Schrödinger descrive solo l'ininterrotta e reversibile evoluzione delle probabilità."

Similmente, chiunque abbia familiarità con la teoria microeconomica saprà anche che essa non prevede alcun collasso o interruzione periodica dell'attività economica a causa della sovrapproduzione del capitale. Perciò, quando la Grande Depressione colpì, Keynes dovette avanzare una teoria del tutto diversa che accettava l'idea per cui l'economia avrebbe potuto cadere in uno stato permanente di stagnazione - era nata la teoria macroeconomica.

L'emergere dell'interpretazione di Copenaghen e della teoria macroeconomica è stata una coincidenza?
La questione sollevata dalla comparsa nella Fisica dell'interpretazione di Copenaghen, e la divisione dell'economia politica borghese in regole macro e micro, ed il fatto che le due cose siano emerse fianco a fianco nei loro rispetti campi, è solo una coincidenza? L'evidenza storica suggerisce di no.
Secondo E. Roy Weintraub, nel suo libro, "How Economics Became a Mathematical Science (Come l'economia divenne una scienza matematica)", alla fine del 19° secolo, in risposta alla teoria del valore-lavoro, ebbe corso una battaglia circa il modo di affrontare l'Economia, la cui risoluzione, afferma Weintraub, prese la forma dei conflitti simili che avevano luogo nel campo della matematica e della fisica:
"Gli economisti credevano che gli ultimi trent'anni del 19° secolo avessero svolto un ruolo fondamentale nell'evoluzione della loro moderna disciplina, 'La Rivoluzione Marginalista', che aveva introdotto l'homo oeconomicus e le sue decisioni di consumo a margine, aveva rimodellato l'economia come una scienza moderna. Le controversie sullo stato scientifico dell'economia erano abbastanza vive alla fine del 19° secolo, dal momento che la Scuola Storica Tedesca, gli Istituzionalisti Americani, la Scuola Austriaca, ed altri contestavano la natura ed i limiti della scienza economica. Il modo migliore di affrontare l'Economia nel 1900 era nei fatti una questione aperta... questo contesto gettava un'ombra sui contesti simili della matematica e della fisica, e la sua soluzione doveva conformarsi alla soluzione che avrebbe eventualmente stabilizzato quegli altri campi di indagine."
Questo suggerisce più che una coincidenza fra la nascita della Scuola di Copenaghen e l'emergere della divisione macro/micro nella teoria economica neoclassica. In definitiva, "l'introduzione dell'homo oeconomicus che prende decisioni di consumo a margine", richiedeva la creazione di sue insiemi di regole in economia per poter spiegare il comportamento dell'economia: C'è la teoria microeconomica per descrivere il comportamento degli agenti economici a livello degli affari e la teoria macroeconomica per descrivere il comportamento dell'economia nel suo complesso.

Ignorare le implicazioni di due insiemi di regole
In Fisica, una simile introduzione di due insiemi di regole per descrivere il comportamento macro e micro della materia, ha portato nella pratica ad una situazione piuttosto stridente. Secondo Carroll, la maggior parte dei fisici che accettano l'interpretazione di Copenaghen procedono nella loro ricerca ignorando per lo più le implicazioni dell'interpretazione standard:
"La maggior parte dei fisici, anche quelli che usano la meccanica quantistica ogni giorno nella loro ricerca, conciliano perfettamente il fatto di parlare il linguaggio dell'interpretazione di Copenaghen con la scelta di non preoccuparsi del rompicapo che essa rappresenta. Altri, soprattutto quelli che pensano attentamente ai fondamenti della meccanica quantistica, sono convinti che c'è bisogno di fare meglio. Purtroppo attualmente non esiste un forte consenso circa che cosa potrebbe essere questo meglio."

In modo simile, oggi gli economisti accettano la divisione micro e macro economica come se questa divisione non avesse evidenti implicazioni per l'economia stessa. Come se, in altre parole, la teoria micro e macro economica non evidenziasse il carattere fondamentalmente incompleto della teoria economica. L'economia appare governata da un insieme di regole fino ad un certo punto, ma da un altro punto in poi è governata da un altro insieme di regole del tutto diverso.
Einstein si è battuto per tutta la sua vita contro l'interpretazione di Copenaghen basandosi, non sull'asserzione che fosse sbagliata a causa delle sue predizioni, ma per il fatto che la teoria stessa era incompleta, dal momento che non poteva spiegare i suoi risultati.
Per fortuna, a differenza dei fisici, che non sono stati ancora in grado di identificare una legga che unisca sia il comportamento macroscopico che quello macroscopico della materia, noi sappiamo cosa manca nella divisione in economia fra teoria macro e micro economica. Nel suo desiderio di rovesciare l'assunto classico secondo cui il lavoro è l'unica fonte di valore (e quindi di profitto), la teoria neoclassica si occupa soltanto di "decisioni di consumo a margine", senza mai realizzare che il consumo sia esso stesso essenziale per la produzione.

- by Jehu -

fonte: The Real Movement

martedì 29 marzo 2016

Burocrazia

graeber


"Qualcuno una volta ha calcolato che l’americano medio passa sei mesi della propria vita ad aspettare che scatti il semaforo. Non so se ci sono dati simili su quanto tempo passa a riempire moduli, ma sono sicuro che non ci siamo lontani. Se non altro, credo di poter dire che mai nella storia del nostro pianeta un popolo ha passato tanto tempo a occuparsi di scartoffie. Il problema è che tutto ciò è successo dopo la caduta dell’orribile e antiquato socialismo burocratico e il trionfo della liberta e del mercato. Di certo questo è uno dei grandi paradossi della vita contemporanea."
"[...]credo che dovremmo ripensare radicalmente alcuni dei nostri assunti di base sul capitalismo. Uno è che il capitalismo si identifica con il mercato e che quindi entrambi sono nemici della burocrazia, la quale invece è una creatura dello stato. Un altro è che il capitalismo è per sua natura favorevole al progresso tecnologico. […] I sostenitori del capitalismo in genere insistono su tre considerazioni di carattere storico: primo, che il capitalismo ha favorito un rapido sviluppo scientifico e tecnologico; secondo, che, pur avendo messo un’enorme ricchezza nelle mani di una piccola minoranza, ha avuto l’effetto complessivo di migliorare la prosperità di tutti; terzo, che ha creato un mondo più sicuro e democratico. È abbastanza chiaro, però, che nel XXI secolo il capitalismo non sta facendo nessuna di queste cose. Ormai anche i suoi sostenitori cominciano ad ammettere che non è un sistema particolarmente valido, e si accontentano di dire che è l’unico possibile – o, almeno, l’unico sistema possibile per una società complessa e tecnologicamente avanzata come la nostra."

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La legge ferrea del liberalismo e l’età della burocratizzazione totale
- di David Graeber -

Oggi nessuno parla più di burocrazia. Ma a metà del secolo scorso, specialmente alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta, sembrava non si parlasse d’altro. […] Uscivano romanzi kafkiani e film satirici. A tutti sembrava che le manie e le assurdità della vita burocratica fossero uno dei tratti caratterizzanti del mondo moderno, e che quindi fosse particolarmente importante parlarne. A partire dagli anni Settanta, però, c’è stato uno strano riflusso. […] L’argomento suscita un interesse moderato fino al dopoguerra, poi cresce d’importanza negli anni Cinquanta, raggiunge l’apice nel 1973 e da lì comincia un lento ma inesorabile declino.
Come mai? Una spiegazione ovvia è che, banalmente, ci abbiamo fatto l’abitudine. La burocrazia è diventata come l’aria che respiriamo. […] Verso la fine del XX secolo i cittadini della classe media hanno perso sempre più tempo a combattere con reti di telefonate e interfacce web, e […] i meno fortunati hanno passato diverse ore della giornata a districarsi tra complicatissime pratiche per accedere a quel poco che è rimasto dei servizi sociali. […]
Tutti i saggi raccolti in questo volume, in un modo o nell’altro, trattano di questa discrepanza. Anche se non ci piace occuparcene, la burocrazia influenza ogni aspetto della nostra esistenza. È come se la nostra civiltà, in tutto il mondo, avesse deciso di tapparsi le orecchie e di canticchiare ogni volta che si tira fuori l’argomento. E quelle rare volte in cui se ne parla, i termini della discussione sono gli stessi degli anni Sessanta e Settanta. I movimenti sociali degli anni Sessanta erano generalmente d’ispirazione progressista e di sinistra, ma erano anche contro la burocrazia o, per essere più precisi, contro la mentalità burocratica, contro il conformismo opprimente dello stato sociale postbellico. Di fronte ai grigi funzionari di entrambi i regimi, quello del capitalismo di stato e quello del socialismo di stato, quei contestatori si battevano per l’espressione individuale e per una convivialità spontanea, contro qualsiasi forma di controllo sociale (il motto era: «Norme e regole, a che servono?»).

Con il crollo del vecchio stato sociale, tutto ciò appare decisamente superato. Mentre il linguaggio dell’individualismo antiburocratico è stato, con crescente ferocia, adottato dalla destra, che propone «soluzioni di mercato» per qualsiasi problema sociale, la sinistra moderata ormai si è ridotta a combattere una patetica battaglia di retroguardia, provando a salvare quel che resta del welfare state: ha accettato passivamente – e spesso addirittura incoraggiato – il tentativo di rendere lo stato più «efficiente» attraverso la privatizzazione parziale dei servizi e la sempre maggiore integrazione dei «principi di mercato», degli «incentivi di mercato» e delle procedure di mercato basate su «trasparenza e responsabilità» nell’organizzazione burocratica stessa.
Politicamente, il risultato è stato disastroso. Non c’è altro modo per dirlo. Ogni soluzione di sinistra «moderata» a qualsivoglia problema sociale (e oggi, quasi ovunque, le soluzioni di sinistra radicale vengono escluse tout court) si è invariabilmente rivelata una commistione da incubo tra i peggiori elementi della burocrazia e del capitalismo. È come se si fosse deciso scientemente di creare la posizione politica meno allettante possibile. Il fatto che qualcuno pensi ancora di votare per partiti che fanno scelte di questo tipo è il segno della forza intramontabile degli ideali di sinistra: se la gente continua a votare per i partiti di sinistra non è certo perché crede nelle loro politiche, ma perché queste sono le uniche che chi si definisce di sinistra è autorizzato a sostenere.
Come stupirsi, quindi, se ogni volta che c’è una crisi sociale è la destra, e non la sinistra, a fare da valvola di sfogo dell’indignazione popolare?
La destra, almeno, ha una posizione critica sulla burocrazia. Non è molto solida, ma almeno esiste. La sinistra non ce l’ha. Di conseguenza, quando chi si dice di sinistra vuole parlare male della burocrazia, il più delle volte è costretto a riciclare una versione annacquata delle critiche della destra.
Tale critica ha origine nel pensiero liberale ottocentesco e può essere respinta molto facilmente. […] La crescita della burocrazia è l’esempio supremo della degenerazione delle buone intenzioni. Questo concetto è stato espresso nel modo forse più immediato ed efficace dalla celebre massima di Ronald Reagan: «Le nove parole più spaventose della nostra lingua sono “Mi manda lo stato e sono qui per aiutarvi”».

Il problema è che tutto ciò ha scarsissima attinenza con la realtà dei fatti. […] Abbiamo scoperto che per mandare avanti un’economia di mercato servono mille volte più scartoffie che nella monarchia assoluta di Luigi XIV.
Questo apparente paradosso – in base al quale una serie di misure volte a ridurre l’intervento dello stato nell’economia finisce per produrre più regole, più burocrati e più polizia – si ripete con tale regolarità che potremmo considerarlo alla stregua di una legge generale della sociologia. Propongo di chiamarla «Legge ferrea del liberalismo»: ««La Legge ferrea del liberalismo stabilisce che qualsiasi riforma del mercato e qualsiasi iniziativa di governo volta a ridurre la burocrazia e a favorire le forze di mercato avrà l’effetto ultimo di incrementare il numero complessivo delle norme, la quantità complessiva delle pratiche cartacee e il numero complessivo dei burocrati al servizio dello stato». Il sociologo francese Émile Durkheim osservò questo fenomeno già alla fine del XIX secolo poi diventò impossibile ignorarlo. Alla metà del Novecento, perfino i critici di destra come von Mises ammettevano – almeno nei loro scritti accademici – che i mercati in realtà non si regolano da soli e che per mandare avanti qualsiasi sistema di mercato serve un esercito di amministrativi […]. Tuttavia, il populismo di destra capì subito che, a prescindere dalla realtà dei fatti, prendere di mira i burocrati funzionava quasi sempre. […]
E così «democrazia» è diventata sinonimo di «mercato», mentre «burocrazia» intrusione dello stato nel mercato. Questo è più o meno il significato che la parola ha conservato fino a oggi.

Non sempre è stato così. Il modello aziendale moderno che si è affermato alla fine del XIX secolo all’epoca era visto come un modo di applicare le moderne tecniche burocratiche al settore privato. Si dava per assodato che queste tecniche fossero necessarie, quando si operava su larga scala, perché erano più efficienti rispetto alla rete di rapporti personali o informali che caratterizzavano il mondo delle piccole imprese a conduzione familiare. I pio­nieri di queste nuove burocrazie private furono gli Stati Uniti e la Germania […].
Questo processo – la graduale fusione di potere pubblico e privato in un’u­nica entità portatrice di norme e regole che hanno il fine ultimo di estrar­re ricchezza sotto forma di profitti – ancora non ha un nome. Il fatto di per sé è significativo. Cose del genere succedono anche perché non esiste una terminologia per discuterne. Ma gli effetti si vedono in ogni singolo aspet­to della nostra vita. Passiamo le giornate tra scartoffie e moduli sempre più lunghi e complicati. Semplici bollette, multe e richieste di adesione ad associazioni sportive o culturali sono ormai regolarmente accompagnate da pagine e pagine di documentazione in legalese.
Voglio inventarmi un nome. La chiamerò l’età della «burocratizzazione totale» […]. È cominciata timidamente alla fine degli anni Settanta, quando ormai non si parlava più di burocrazia, e si è consolidata negli anni Ottanta. Ma è negli anni Novanta che ha preso veramente il volo. […]
Nel frattempo si è affermato un nuovo credo: tutti dovevano guardare il mondo con gli occhi di un investitore. […] La narrazione ufficiale era che attraverso la partecipazione ai fondi pensione o a qualche tipo di fondo di investimento tutti avrebbero avuto un pezzo di capitalismo. In realtà, il cerchio magico è stato allargato soltanto ai professionisti meglio pagati e ai burocrati delle aziende private.
Questo allargamento, tuttavia, è stato estremamente importante. Nessuna rivoluzione politica è possibile senza alleati, e cooptare un certo segmento della classe media (e soprattutto convincerne gran parte di essere in qualche modo partecipe del capitalismo finanziario) è stato fondamentale. Alla fine, la componente più liberal e progressista di questa élite professional-manageriale è diventata la base sociale di quelli che vengono spacciati per i partiti «di sinistra», mentre le organizzazioni dei lavoratori come i sindacati sono state abbandonate a se stesse (basti pensare al Democratic Party negli Stati Uniti e al New Labour in Gran Bretagna, con i rispettivi leader che hanno ripudiato in pubblico quegli stessi sindacati che storicamente hanno formato il cuore del loro elettorato). Si trattava, naturalmente, di soggetti che già lavoravano in ambienti molto burocratizzati come scuole, ospedali o studi legali di diritto societario. La classe operaia vera e propria, che tradizionalmente detestava questi personaggi, o si è ritirata completamente dalla politica o si è rifugiata nel voto di protesta per la destra radicale.

Non è stato solo un riallineamento politico; è stata una trasformazio­ne culturale, che ha preparato il terreno per un processo grazie al quale gli strumenti burocratici (valutazione delle prestazioni, focus group, survey sull’allocazione del tempo…) sviluppati nei circoli finanziari e aziendali hanno invaso il resto della società – la scuola, la scienza, il governo – arrivando a permeare praticamente ogni aspetto della vita quotidiana. Il modo migliore di ricostruire tale processo è partire dal linguaggio. C’è tutto un gergo che si è sviluppato inizialmente all’interno di questi circoli, fatto di parole altisonanti e vuote come visione, qualità, stakeholder, leadership, eccellenza, innovazione, obiettivi strategici e best practice […].
Come dovrebbe configurarsi una critica di sinistra di questa burocratiz­zazione totale o predatoria?
Uno spunto ci arriva dalla storia del Movimento per la giustizia globale, il primo movimento ad accorgersi (non senza sorpresa) della natura del problema. Me lo ricordo bene perché all’epoca ero coinvolto in prima persona. Negli anni Novanta, la «globalizzazione», nella vulgata di giornalisti come Thomas Friedman (ma in realtà di tutto l’establishment giornalistico degli Stati Uniti e di quasi tutti i paesi ricchi), veniva dipinta quasi come una forza della natura. I progressi tecnologici – in particolare Internet – avevano unificato il mondo come non era mai successo prima, la crescita delle comunicazioni aveva portato all’espansione del commercio e i confini nazionali erano diventati sempre più irrilevanti grazie ai trattati di libero scambio, che avevano creato un unico mercato mondiale. Nei dibattiti politici dell’epoca, soprattutto sui mezzi di informazione dominanti, tutto questo veniva preso come un dato di fatto, e chiunque avesse qualcosa da eccepire veniva trattato come se avesse messo in discussione le leggi fondamentali della natura. Negare la globalizzazione era come sostenere che la terra fosse piatta: chi lo diceva veniva considerato un buffone, l’equivalente di sinistra dei fondamentalisti cristiani che negavano l’evoluzione.

E così, quando è nato il Movimento per la giustizia globale, i mezzi di informazione lo hanno dipinto come una retroguardia di sinistroidi grigi e malsani che volevano tornare al protezionismo, alla sovranità nazionale, alle barriere al commercio e alle comunicazioni e opporsi vanamente all’inevitabile marea della Storia. Il problema è che ovviamente non era vero. Tanto per cominciare, l’età media dei manifestanti, soprattutto nei paesi più ricchi, era di circa diciannove anni. Ma, soprattutto, c’era il fatto che il movimento era una forma di globalizzazione in sé: un’alleanza caleidoscopica di persone provenienti da ogni angolo del mondo, dalle associazioni dei contadini indiani al sindacato dei lavoratori postali del Canada, dai gruppi indigeni di Panama ai collettivi anarchici di Detroit. In più, i suoi esponenti spiegavano fino allo sfinimento che, nonostante si dicesse il contrario, quella che i mezzi di informazione chiamavano «globalizzazione» non c’entrava niente con l’abbattimento delle frontiere e il libero movimento di persone, prodotti e idee. Non era altro che un modo per intrappolare una fascia sempre più ampia della popolazione mondiale entro confini fortemente militarizzati all’interno dei quali le forme di protezione sociale venivano sistematicamente negate, creando un bacino di lavoratori talmente disperati da essere disposti a lavorare quasi per niente. Contro questo scenario, proponevano un mondo davvero senza frontiere. […]

Per chi è stato un rifugiato, o magari ha solo dovuto compilare un modulo di quaranta pagine per richiedere l’ammissione di sua figlia a una scuola di musica londinese, l’idea che la burocrazia possa avere qualcosa a che fare con la razionalità o l’efficienza suona strana. Ma vista dall’alto sembra proprio così. Da dentro il sistema, infatti, le formule matematiche e gli algoritmi attraverso i quali viene valutato il mondo diventano non solo misure del valore, ma la sua stessa origine. L’attività principale dei burocrati è valutare. Sono continuamente impegnati a misurare, controllare, confrontare e soppesare i meriti di piani, proposte, domande, linee d’azione e candidati alla promozione diversi. Le riforme di mercato rafforzano questa tendenza. Succede a tutti i livelli. Quelli che ne subiscono di più gli effetti sono i poveri, tenuti costantemente sotto osservazione da un esercito di burocrati moralisti e invadenti che, spuntando delle caselle, valutano le loro capacità genitoriali, sbirciano nella credenza per controllare se abitano davvero con il partner, tentano di capire se hanno provato a cercarsi un lavoro o se le loro condizioni di salute sono realmente così gravi da impedire loro di svolgere un lavoro manuale. In tutti i paesi ricchi ci sono ormai schiere di funzionari la cui mansione primaria è far sentire in colpa i poveri. Ma la cultura della valutazione è, se possibile, ancora più dilagante nel mondo ipercredenzializzato delle classi professionali, in cui domina il controllo contabile e nulla vale se non può essere quantificato, incasellato o inserito in qualche tipo di interfaccia o di relazione trimestrale. Questo mondo non è un mero prodotto della finanziarizzazione, ne è il prolungamento naturale. Che cos’è infatti il mondo dei derivati cartolarizzati, delle Cdo e di altri strumenti finanziari esotici se non l’apoteosi del principio che il valore è un prodotto della carta, la vetta estrema di una montagna di documenti di valutazione? […]

Quella che manca […] è una critica di sinistra della burocrazia. Questo libro non è un primo abbozzo di tale critica. E non è nemmeno, a nessun livello, il tentativo di elaborare una teoria generale della burocrazia o una storia della burocrazia, o anche solo dell’età della burocratizzazione totale in cui viviamo. È una raccolta di saggi, ognuno dei quali indica alcune possibili direzioni per una critica di sinistra della burocrazia. Il primo parla di violenza, il secondo di tecnologia e il terzo di razionalità e valore.
I capitoli non formano una tesi unica. Potremmo dire che ruotano attorno a una tesi, ma sono soprattutto il tentativo di far partire una discussione. Sarebbe ora.
È un problema che ci riguarda tutti. Siamo strangolati dalle pratiche, dalle abitudini e dai valori burocratici. L’organizzazione della nostra vita si basa ormai sulla compilazione di moduli. Eppure, il linguaggio che utilizziamo per descrivere questo fenomeno non solo è tremendamente inadeguato, ma forse è stato addirittura studiato per aggravare il problema. Dobbiamo trovare il modo di spiegare che cosa non ci sta bene di questo processo e parlare con franchezza della violenza che lo circonda, ma allo stesso tempo dobbiamo capire che cosa lo rende attraente, che cosa lo sostiene, quali elementi varrebbe la pena di mantenere in una società davvero libera, quali possono essere considerati i prezzi inevitabili da pagare per vivere in una società complessa e quali invece possono e devono essere eliminati del tutto. Se questo libro riuscirà anche solo ad accendere la scintilla di questa discussione, avrà dato il suo contributo alla vita politica contemporanea.

1 - Sotto molti aspetti, gli Stati Uniti sono un paese tedesco che, per via di quella rivalità che risale al primo Novecento, rifiuta di riconoscersi come tale. Nonostante l’uso della lingua inglese, ci sono molti più americani di origine tedesca che inglese (basti pensare ai due piatti più caratteristici della cucina americana, l’hamburger è l’hot dog o frankfurter). […]

2 - Una formula molto popolare dagli anni Ottanta in poi è «liberal nello stile di vita, conservatore in materia fiscale». Si riferisce a tutte quelle persone che hanno interiorizzato i valori sociali della controcultura degli anni sessanta ma hanno imparato a vedere l’economia con gli occhi degli investitori.

3 - La logica è analoga alla concezione marxiana del feticismo, in base alla quale le creazioni dell’uomo sembrano prendere vita e controllare i loro creatori anziché il contrario. Probabilmente va considerata una sottospecie dello stesso fenomeno.

- David Graeber - dall'introduzione al suo libro "Burocrazia", Il Saggiatore, 2016 -

sabato 26 marzo 2016

O il mondo o niente!

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La paura di perdere le comodità acquisite, lo status sociale ed uno stile di vita elitario, anima gli abitanti della City nella nuova serie tv francese Trepalium. Mentre tra i grattacieli si scavalca letteralmente un cadavere, rallegrandosene perché ora si può aspirare ad occuparne il posto di lavoro, nella Zona un professore insegna ai suoi alunni che il termine francese per dire «lavoro», travail, deriva dal latino tripaliare che significa «tormentare, torturare».
Eppure nel mondo in cui loro vivono è il lavoro che dà valore alle loro vite, se lavori, se sei un ‘attivo’, sei una persona degna e vivi in centro. Se sei un ‘inattivo’ allora sei un debole, un fallito e vivi nella Zona. Una divisione fisica sottolineata da un muro invalicabile, da una parte i grattacieli, dall’altra le baracche. Il sogno? Vivere al di là del muro oppure andare a sud, perché a sud c’è lavoro.
Nel futuro dipinto dalla serie tv francese la disoccupazione ha raggiunto l’80% e la presenza o l’assenza di un impiego identifica le persone e ne influenza le vite. Ma è giusto così? Il professore non è d’accordo. Noi non siamo il nostro lavoro o almeno non dovremmo esserlo. Anche perché chi un posto fisso ce l’ha vive solamente per il Dio Lavoro con il terrore di perderlo e di finire nella Zona e diventare così immondizia, spazzatura che non potendo annientare si nasconde sotto un tappeto e si chiude dietro un muro di cemento armato.

La serie tv racconta il momento in cui le tensioni fra i due territori si sono accentuate, fra i disoccupati cova la ribellione, gli atti di sabotaggio e di pressione si moltiplicano, l'equilibrio fra la città e la Zona diventa sempre più fragile. Il governo, per calmare la situazione, decide allora di mettere in atto una misura, gli "impieghi solidali": diecimila abitanti della Zona verranno selezionati per lavorare nella città.

venerdì 25 marzo 2016

ecfrasi

pacioni

Oggetto di discorsi, narrazioni, pratiche rituali e rappresentazioni, il corpo della vittima emerge dalle pieghe della storia e si manifesta come presenza irriducibile, come ciò che si afferma nell'atto dell'uccidere e che si nega nella coscienza collettiva. Il vertiginoso vuoto di senso in cui sprofonda la vittima è il campo di indagine sospeso fra invisibile e indicibile nel quale Celani esercita una scrittura multiforme e rapsodica, in forma di appunti, ricostruzioni, scatti fotografici. Muovendosi fra simulacri e reliquie, fra urgente attualità, episodi storici e visioni del cinema e dell'arte contemporanea, l'autore tenta di recuperare, al di là di un discorso che apparterrebbe di diritto all'ambito dell'etica, un filo che nel corso dei secoli continuamente si spezza per riannodarsi senza sosta. Poiché il destino della vittima è davvero la misura dell'umano.

(dal risvolto di copertina di Alessandro Celani: Victima. Discorso e forma dell’uccidere, Aguaplano, pp. 78, 16 foto, euro 11)

pacioni libro

La mattanza è riproducibile in una forma contagiosa
- di Marco Pacioni -

La magia delle immagini, nella nostra pur cosiddetta «società dell’immagine», è in genere intesa come patinatura secolarizzata che non ha a che fare con il sacro, il quale invece investirebbe culture ancora primitive, inciviltà di barbari e assassini inumani, come vengono definiti talvolta gli odierni terroristi. Eppure i loro video e fotografie delle esecuzioni sono rivolti principalmente a noi, pubblico che non dovrebbe sentirsene contagiato, per le ragioni dette prima. Ma l’infezione mimetica si diffonde, come mostrano anche le reazioni seguite all’attentato alla redazione di Charlie Hebdo lo scorso anno.
La punizione per il sacrilegio che avrebbero compiuto le vignette satiriche ci ha fatto ripiombare improvvisamente in un parossismo immaginale che sembrava non appartenere più alla nostra cultura. La mattanza, la trasmissione a ciclo continuo dei video della fuga degli assalitori, il loro grido al dio, il colpo di grazia all’agente di polizia per strada, per qualche giorno queste scene forse hanno fatto cadere la patina dell’arte e il filtro museale alle tante immagini di vittime e carnefici che affollano chiese, musei e spazi pubblici delle nostre città. Le immagini sulle quali i nostri sguardi prima passavano con l’indifferenza di uno scanner, dopo quell’attentato forse ci hanno trattenuto e interrogato per un po’, prima di smagarsi nuovamente nei simulacri familiari dell’ovvietà.
Nella situazione estrema dell’uccisione documentata, le immagini riacquisiscono – e soprattutto ci spingono a far loro acquisire – una sacralità che era ed è latentemente anche nostra. Di essa ci sentiamo nuovamente vittime perché in precedenza ne siamo stati anche noi carnefici. Vedere le vittime e gli assassini delle esecuzioni filmate, ascoltare alcuni di questi ultimi parlare perfino in un inglese che ha l’accento delle nostre contrade, ci mostra come il boomerang al quale molti di noi non vogliono sottrarsi continui a raggiungerci tutti, spingendoci a rilanciare la posta in gioco invece che a disinnescare tutto.
A questo ritorno del rimosso immaginale della violenza e dell’uccisione, alla loro forza ambivalente e tale da rendere persino difficile distinguere la vittima dal victimarius, è dedicato il libro di Alessandro Celani, Victima. Discorso e forma dell’uccidere (Aguaplano, pp. 78, 16 foto, euro 11). Quello di Celani è un itinerario che si muove tra riflessioni note di studiosi come Belting, Bredekamp, De Martino, Fanon, Girard, Vernant e riflessioni più inaspettate e sorprendentemente penetranti su questa materia come quelle di Cusano e Giordano Bruno, di Herzog e Kieslowski, di Darwin e Coarelli.
Dal rituale antico romano della devotio a Guernica di Picasso fino a Charlie Hebdo, il percorso di Victima si snoda appoggiandosi a una scrittura volutamente non neutrale, che anzi spinge l’afflato dell’ecfrasi come a tentare di liberare l’uccidere e le vittime dalla loro stessa immagine, per mostrare come quest’ultima si possa studiare anche sugli oggetti culturali nei quali essa ha preso forma senza essere atto e senza ricorrere alla parola: dipinti, sculture, ex-voto. A queste opere è dedicata la seconda sezione iconografica del libro, con le fotografie dell’autore appositamente pensate e scelte per fornire il saggio non di illustrazioni, ma di un equivalente negativo della scrittura, per rimanere al linguaggio fotografico.
Il modo stesso nel quale il libro di Celani si articola, tra testo e visualità, già suggerisce il tema antropologico e politico più notevole svolto in Victima. Quello per cui la nostra civiltà più si ritiene capace di separare nettamente l’immagine dall’atto, il sacro dal sacrilego, la santificazione dal sacrificio, più invece riannoda gli uni agli altri. Diversamente, ci mostra il saggio di Celani, gli attentati, le esecuzioni e, soprattutto, il tentativo di moltiplicarne l’effetto attraverso la riproducibilità delle immagini svelano l’incapacità e la fragilità della nostra società, abituata così tanto a guardarsi per rappresentarsi come vorrebbe essere, da non vedere quello che latentemente in essa c’è di mimetico, animistico, rituale.

- Marco Pacioni - Pubblicato sul Manifesto del 5 marzo 2016 -

giovedì 24 marzo 2016

Quando la guerra non c’era

preistoria

La questione si potrebbe riassumere nei seguenti termini: l'uomo sarebbe un lupo, per l'uomo, e lo stato di natura corrisponderebbe ad uno stato di guerra permanente. La guerra di tutti contro tutti, insomma. In questo si può riconoscere l'antropologia pessimista di Hobbes e la sua opera principale, il Leviatano. In contrapposizione a questo pregiudizio troviamo la visione irenica di un Rousseau, per il quale, al contrario, l'uomo è naturalmente buono ma viene corrotto dalla società.
Sembra quasi che si debba scegliere, in una linea che parte da Hobbes ed arriva a Rousseau, dove piazzare il cursore. Ma, davvero, la violenza e lo stato di guerra sono sempre esistiti? Cosa ne pensano gli archeologi e gli studiosi di preistoria, come ad esempio Marylène Patou-Mathis, la quale sull'argomento ha scritto un libro, « Préhistoire de la violence et de la guerre » (Odile Jacob 2013).

Cominciamo dal concetto di guerra, e diciamo da subito che la guerra, definita come uno stato di conflitto armato fra più gruppi politici costituiti, all'epoca dei cosiddetti "cacciatori-raccoglitori" semplicemente non esisteva! Se la definizione di "guerra" può variare a seconda dell'autore, lo spirito rimane il medesimo: è un atto di violenza che ha come sua caratteristica essenziale quella di essere metodica ed organizzata, ed è volta a costringere l'avversario ad eseguire la nostra volontà. Nel caso delle guerre cosiddette "tribali" si tratta allora di un "modo di risolvere una crisi intervenuta durante la conduzione di transazioni pacifiche, ossia come sostituto", e vanno distinte le "guerre sia difensive degli agricoltori che quelle offensive dei pastori - e quelle punitive nel nome del sovranno contro i vassalli refrattari".
Sappiamo dalle ricerche archeologiche che "nel corso del paleolitico, fra molte centinaia di ossa umane esaminate, solamente due attestano atti di violenza volontari". E sono stati perpetrati dall'uomo moderno (homo sapiens)".
La cosa ci porta a dedurre che "dalla rarità di lesioni sulle ossa umane e dall'assenza di rappresentazione di scene di combattimento nell'arte parietale o mobiliare, si può ragionevolmente pensare che la guerra non esisteva, tanto più che la bassa densità delle popolazioni e la loro ripartizione su un territorio vasto rendevano quasi nulla la probabilità che si siano verificati degli scontri".
"Il numero di siti preistorici nei quali sono stati osservati atti di violenza è basso in rapporto all'estensione geografica ed in rapporto alla durata del periodo considerato e, d'altra parte, se la violenza verso gli altri risale quanto meno a 120mila anni, questo vuol dire che la guerra non è sempre esistita."

Infatti, le prime tracce di violenza collettiva che sono state scoperte [N.d.T.: la prima traccia risale ad un periodo fra 13.140 e 14.340 anni fa: è in Europa, nel corso del neolitico, che le tracce di conflitti fra comunità diventano più frequenti], fanno coincidere l'inizio degli scontri intercomunitari con la sedentarizzazione avvenuta durante il neolitico antico. Intervengono, da una parte una crescita localizzata della popolazione che porta ad una crisi demografica e, dall'altra parte, lo "sviluppo dell'economia produttiva che ben presto genera un cambiamento radicale delle strutture sociali e delle credenze. Lo sviluppo dell'agricoltura e dell'allevamento si trovano probabilmente all'origine della divisione sociale del lavoro e dell'emergere di un'élite con propri interessi e rivalità". Va aggiunto che "presso i nomadi, la ricchezza ha necessariamente un carattere limitato, i sedentari, invece, possono accumulare beni materiali".
Per quanto riguarda la violenza, non bisogna confonderla con l'aggressività. Marylène Patou-Mathis insiste su questo punto: "L'aggressività è un comportamento innato che permette di salvaguardare un individuo o la specie dalla sua scomparsa. Biologicamente, di fronte ad una situazione pericolosa, il nostro cervello è programmato per mettere in atto immediatamente una reazione emotiva di sopravvivenza. (...) La violenza ed il suo sviluppo nel corso della storia derivano dalle strutture economiche, sociali, politiche e religiose della società. Talvolta patologica, la violenza proibita, imposta o autorizzata a seconda delle culture, è policausale e multiforme. (...) La violenza è soprattutto un comportamento indotto dalla società nella quale essa si inscrive."
Patou-Mathis è categorica: "Questa supposta violenza 'primordiale', così cara a René Girard è un mito". Va ricordato, per inciso che, secondo la teoria di Girard del "capro espiatorio’, la violenza è intrinseca all'essere umano ed è conseguenza della rivalità mimetica generata dal desiderio degli individui per degli stessi oggetti non condivisibili. Tuttavia, aggiunge l'autrice, "il meccanismo vittimario e la violenza mimetica, non spiegano in alcun modo i sacrifici rituali praticati in numerose società".

Quanto a Freud ed alla sua "orda primitiva", tesi barocca [N.d.T.: il termine è impiegato da Lévi-Strauss: per Lévi-Strauss, Freud è un esploratore dell'inconscio ed il suo pensiero è mitico come quello dei primitivi] che presuppone che i figli gelosi delle prerogative del padre si ribellino, lo uccidano e lo mangino nel corso di un pasto totemico, l'autrice sottolinea, non senza umorismo: "possiamo anche interrogarci sulla validità della tesi freudiana secondo la quale nei tempi antichi non esisteva una sola 'orda primitiva', ma molteplici. (...) Inoltre, secondo Freud, ciascun bambino conserva nel suo inconscio la traccia del peccato originale - la 'morte del padre' - colpa che non ha commesso, ma di cui porta la colpevolezza, in quanto trasmessa di generazione in generazione. Sapendo che i caratteri acquisiti non si trasmettono geneticamente, ci si può interrogare sulla validità della tesi di una trasmissione orale avvenuta nel corso di millenni."
Va anche notato che "contrariamente a quanto afferma la tesi di Freud, il tabù del cannibalismo non è affatto universale". Marylène Patou-Mathis tratta questo argomento nel suo saggio ed esplora i differenti tipi di cannibalismo che si possono trovare nelle epoche preistoriche, e distingue: il cannibalismo guerriero, il cannibalismo di vendetta ed il cannibalismo di terrore (eso ed endo-cannibalismo); ricordando che "talvolta di sussistenza, il cannibalismo è stato principalmente associato ai riti funebri".

Va detto innanzitutto che durante l'epoca preistorica dei cacciatori-raccoglitori, la premessa che di solito viene fatta - quella di un'economia di sopravvivenza - non si basa su alcuna realtà, né archeologica né etnologica. Moltissimi studi attestano il contrario, al punto che possono essere viste come società autosufficienti, dell'abbondanza, perfino del piacere. Questo punto è molto importante, in quanto altre ricostruzioni senza alcun fondamento reale vogliono modellare l'immagine che ci facciamo dell'uomo preistorico. Così, ad esempio, il postulato di Nietschze, che come Freud vede un periodo di diversità selvaggia precedente al periodo civilizzato, definito come apollineo, "l'era del dionisiaco immorale, dalla sessualità sfrenata, ancora una cosa sola con la natura, e simbolizzata dal coro di satiri per metà bestiali della tragedia greca".
La costruzione di una preistoria violenta, spiega Marylène Patou-Mathis, risale alla fine del 19° secolo: "Nel 1877, l'antropologo  Abel Hovelacque vi consacra un'intera opera in cui descrive l'uomo primitivo, senza alcuna prova archeologica, come un essere quasi animalesco ricoperto di peli. Questa convinzione dell'esistenza di un "anello mancante" fra la scimmia e l'uomo verrà rafforzata dalla scoperta, nel 1891, sull'isola di Java, del Pithecantropus [N.d.T.: E' Haeckel che ritiene che sia dovuto esistere, fra l'uomo e le grandi scimmie, un essere intermedio cui dà, nel 1868, il nome di Pitecantropo]. (...) Da qui, si rappresentano o si descrivono, come dei bruti pelosi, degli 'uomini-scimmia'". Bisogna dire che a quell'epoca "le culture preistoriche, definite a partire dalla loro produzione industriale, vengono percepite come una sorta di livelli successivi di progressi tecnici, dando in questo modo una visione inferiorizzante della preistoria". Ora - e l'assenza di prove archeologiche che attesti una simile visione dei nostri lontani antenati, lo dimostra abbastanza - "la pretesa 'selvaggezza' dei preistorici è solamente un mito forgiato nel corso della seconda metà del 19° secolo e all'inizio del 20°, per rafforzare il discorso relativo al progresso compiuto dalle origini ed il concetto di "civiltà".

A questo punto della dimostrazione si potrebbe pensare, come sembrano dimostrare i dati archeologici e come lo pensavano, fra gli altri, i Cinici dell'Antichità, che la guerra e la violenza siano il prodotto delle società nelle quali si inscrivono. Ma, l'uomo come sarebbe? Naturalmente buono, o naturalmente cattivo?
A proposito dell'altruismo, l'autrice sostiene che "contrariamente alle teorie naturaliste, sono le emozioni, vecchie di milioni d'anni, all'origine delle qualità morali. Basate su delle fondamenta naturali, sono il prodotto dell'evoluzione, quindi molto precedenti ad ogni religione". Ed aggiunge che se "per Darwin, le qualità morali nascono dall'istinto sociale, da numerose ricerche nel campo delle neuroscienze, della primatologia o dell'archeologia, si dimostra che lo spazio umano è fatto naturalmente per la cooperazione, l'aiuto reciproco o la solidarietà, come atto risultanti da emozioni quali l'empatia, la compassione, oppure il rimorso".

Su questo argomento, Patrick Tort, nel suo "L'effetto Darwin", evoca l'effetto reversibile dell'evoluzione, così definendolo: "l'effetto reversivo dell'evoluzione è ciò che permette a Darwin di pensare il passaggio fra quello che si chiamerà per comodità ed approssimazione 'la sfera della natura', retta dalla rigida legge della selezione, e lo stato di una società civilizzata, all'interno della quale si generalizzano e si istituzionalizzano dei comportamenti diffusi che si oppongono al libero gioco di questa legge." Detto in altri termini, la "selezione naturale, principio direttivo dell'evoluzione che implica l'eliminazione dei meno adatti nel corso della lotta per la vita, seleziona nell'umanità una forma di vita sociale la cui marcia verso la civilizzazione tende ad escludere sempre più, attraverso il gioco collegato dell'etica e delle istituzioni, i comportamenti eliminatori".
Le scoperte archeologiche sembrano confermarlo: "I disabili dalla nascita non venivano più eliminati (come attestano i resti di un bambino di circa 400mila anni fa). Lo stesso avveniva preso i Neanderthal."

Quindi, se "secondo i dati archeologici, gli uomini preistorici del paleolitico vivevano senza violenza istituzionalizzata", e se "la guerra non è affatto indissociabile dalla condizione umana, ma è bensì il prodotto di società e di culture che la generano", nondimeno l'assenza di prove significa "la prova dell'assenza". C'è da dire che "40mila anni fa, la densità della popolazione era stimata in circa 10 abitanti per km2, forse ancora meno in certe regioni - la popolazione europea avrebbe raggiunto i 5milioni di abitanti circa 12mila anni fa".
Con una popolazione così scarsa si può pensare come fosse relativamente facile evitare i conflitti fra tribù. Inoltre se "per la più parte dei biologhi evoluzionisti, la cooperazione sarebbe un comportamento trasmesso di generazione in generazione", si può anche interpretarla come una necessità di sopravvivenza in un ambiente ostile nel corso del paleolitico. Ecco che qui l'altruismo o la cooperazione non sarebbero consustanziali all'essere umano, ma relativi ad un adattamento, sia ad un modo di esistenza che ad uno spazio dato.
Si può anche arguire che l'aggressività legata alla necessità di preservarsi avrebbe anche potuto far emergere nell'uomo una propensione alla violenza, una volta soddisfatte le condizioni societarie, e che se l'effetto reversibile dell'evoluzione ha potuto portare alla protezione dei più deboli, ha anche contribuito a produrre civiltà conflittuali e perfino estremamente violente. Perciò, né buono né cattivo, ma estremamente adattabile.

E' merito di Marylène Patou-Mathis dimostrare, prove archeologiche alla mano, che il mito ancora ben radicato del selvaggio intrinsecamente violento è per l'appunto solo e nient'altro che un mito. Contribuendo così a dare una visione più sfumata e più corretta dell'essere umano durante quelle epoche, permette che siano messe in discussione i preconcetti ideologici. Con bruciante attualità.

fonte: Sous un ciel brouillé

mercoledì 23 marzo 2016

Madama la Bombarda

cannoni

L'esplosione della modernità con Quattrini & Cannoni
- L'innovazione fatta con le armi da fuoco, l'espansione per mezzo della guerra: Uno sguardo alla preistoria del lavoro astratto -
di Robert Kurz

Continua ad imperversare con una tenacia irriducibile la bufala illuminista, secondo cui il sistema produttore di merci della modernità avrebbe la sua origine in un "processo civilizzatore" (Norbert Elias), che, contrariamente alla cultura del ferro e fuoco del Medioevo, sarebbe invece il prodotto del commercio e degli scambi pacifici, della diligenza borghese e civica, della curiosità scientifica, delle audaci scoperte e delle invenzioni foriere di benessere. Ed il portatore di tutte queste belle cose dovrebbe essere considerato il moderno "soggetto autonomo", il quale si sarebbe emancipato dai condizionamenti corporativi ed agrari per arrivare così alla "libertà dell'individuo". E sarebbe soltanto una sfortunata coincidenza, quella per cui un modo di produzione nato da un ammasso talmente concentrato di virtù e di progresso si caratterizzi a partire dalla povertà di massa e dall'immiserimento globale, dalle guerre e dalle crisi mondiali, così come dalla distruzione di questo mondo stesso.
I reali risultati, distruttivi ed assassini, della modernizzazione parlano di una genesi diversa da quella ufficiale, così come viene recitata nell'infantile manuale ideologico. Da quando Max Weber ha richiamato l'attenzione sul nesso mentale fra protestantesimo e capitalismo, la preistoria della modernità viene ancora classificata solo in maniera assai grossolana e per niente critica.
Facendo uso di una certa dose di "furbizia borghese" si è riuscito ad eclissare in gran parte le motivazioni e gli sviluppi che si trovavano all'origine del mondo moderno, al fine di far risplendere di una brutale bellezza l'aurora della libertà civile e borghese e dell'attivazione del sistema produttore di merci.
Tuttavia, esiste un approccio storico in contrasto con l'immagine ufficiale della Storia che ci permette di arrivare alla conclusione secondo cui le vere origini del capitalismo nei primordi della modernità non consistono, in alcun modo, in un'espansione pacifica dei mercati, ma ci rimandano essenzialmente ad un contesto di economia di guerra. E' un fatto che il denaro e le relazioni basate sulla merce, il mercato a grandi distanze ed i mercati, sono esistiti fin dall'antichità in un ambito ora più ora meno ristretto, ma senza che questo abbia mai portato ad un sistema totalitario improntato all'economia di mercato ed al denaro simile a quello della modernità. Come è stato constatato da Marx, questa era sempre rimasta una "forma (economica) di nicchia" a margine delle economie di scambio diretto di carattere agrario. Il fatto che l'avvio in senso proprio di un sistema nel quale il denaro in quanto "soggetto automatico" (Marx) rimanda a sé stesso, potrebbe non essere dovuto esclusivamente alla rivoluzione delle idee innescata dal protestantesimo, ma anche all'innovazione delle armi da fuoco, avvenuta ai primordi della modernità, e questo appare anche, come fatto e come pensiero, ad un certo punto degli studi di Max Weber.
Max Weber, nella sua riconosciuta qualità di ideologo del vecchio imperialismo germanico, evidentemente non aveva alcun interesse nell'approfondire e sistematizzare questo pensiero. Già nel 1913, nella sua opera "Guerra e Capitalismo", Werner Sombart, esperto di storia sociale ed economica, aveva richiamato l'attenzione sul fatto che la Modernità risaliva all'economia di guerra. Ma anche lui rinunciò a sviluppare quest'approccio, dal momento che già poco tempo dopo sarebbe diventato egli stesso uno dei principali ideologhi della guerra, per poi finire, da antisemita categorico qual era, nel campo dei nazisti. Dovette passare più di mezzo secolo prima che qualcuno tornasse a riferirsi  alla relazione esistente fra genesi del capitalismo ed "economia politica delle armi da fuoco". E' stato questo il caso dell'economista Karl Georg Zinn ("Cannoni e Peste", 1989), nello spazio della lingua tedesca, e dello specialista in storia moderna Geoffrey Parker ("La rivoluzione militare", 1990), nello spazio anglofono. Tuttavia, anche questi studi non sono esenti da tracce apologetiche, sebbene contengano materiale schiacciante. L'immagine tinta di rosa del mondo della modernizzazione, trasmessa dall'Illuminismo, può continuare a riempire le teste.

I deficit del materialismo storico
Si sarebbe dovuto pensare che la critica radicale, di origine marxiana, della società fosse predestinata a recuperare l'approccio trascurato dalla teoria borghese, e a svilupparlo. In fondo è stato Marx che, oltre ad aver analizzato la logica distruttiva del funzionamento del "soggetto automatico" e la forma di attività, separata dalle necessità, del "lavoro astratto", implicita in tale logica, ha anche evidenziato in maniera molto chiara - ad esempio nel capitolo sulla "cosiddetta accumulazione primitiva" - la preistoria niente affatto civilizzatrice del capitalismo.
Tuttavia, anche in questa caratterizzazione le origini della logica del capitale a partire da un'economia di guerra rimangono oscure. Ed il marxismo posteriore a Marx non è tornato a recuperare quest'approccio; la storia preindustriale della costituzione del sistema produttore di merci lo spaventava, in quanto era stranamente poco coerente con la sua dottrina.
Gli è che nella stessa teoria di Marx esiste una ragione per cui anche il marxismo deve rimuovere questo nesso così sgradevole per gli apologeti borghesi. Uno dei momenti essenziali nella costruzione del materialismo storico consiste nell'interpretare la storia come una sequenza di gradi di sviluppo "necessari" in cui anche al capitalismo viene concesso il suo posto, e perfino una "missione civilizzatrice" (Marx). Con questa costruzione ereditata dalla filosofia illuminista borghese e da Hegel, che è stata solamente convertita al materialismo e prolungata attraverso il socialismo, tuttavia così si finisce per concordare malamente con una storia della fondazione del capitalismo che è assolutamente anti-civilizzatrice, ed in cui il capitale - come dice Marx - viene al mondo con il sangue ed il sudiciume che gli fuoriesce da tutti i pori.
Il materialismo storico è ancora più contraddetto dal fatto che la logica della valorizzazione ed il lavoro astratto non sono nate dallo sviluppo delle forze produttive "dal seno" della società agraria premoderna ma, piuttosto, come un autentico "sviluppo di forze distruttive" che è provenuto dall'esterno e si è sovrapposto in maniera soffocante all'economia agraria dello scambio diretto, anziché sviluppare quest'ultima al di là dei suoi limiti.
Al fine di poter salvare lo schema storico-filosofico meta-teorico, anche i marxisti trascurano la proto e la preistoria della costituzione del capitalismo, oppure ne danno una valutazione che contrasta con la verità dei fatti. A quanto pare, la motivazione decisiva di un simile comportamento sarebbe stato il timore di dare impulso ad un pensiero reazionario. Ma questa è una falsa alternativa, in quanto le contraddizioni dell'ideologia borghese emergono sempre e comunque. La mitologia illuminista del progresso, da un lato, ed il pessimismo culturale ed il romanticismo agrario, dall'altro, non sono altro che le due facce della stessa moneta. Questi due modi di pensare hanno alla base la necessità di un'ontologia positiva.
Se. invece, si accoglie l'impulso negativo a "rovesciare tutte le condizioni nelle quali l'uomo è un essere degradato" (Marx), allora non è più necessaria alcuna costruzione ontologica. Da questo si potrebbe dedurre che in fondo i punti essenziali del materialismo storico si applicano ad un'unica formazione sociale, vale a dire quella capitalista. Al di là di queste considerazioni, si pone evidentemente la questione di come, alla fine, il modo di produzione capitalista sia nato dalla "economia delle armi da fuoco".

Armi poco degne dei cavalieri
Era un giorno buio del 14° secolo, quando in un laboratorio di alchimista da qualche parte della Germania sud-occidentale ci dev'essere stata una tremenda esplosione; una miscela di nitrato di sodio, zolfo ed altri reagenti chimici, preparata con poche precauzioni, fece saltare tutto in aria. Il monaco avido di conoscenza che aveva svolto l'esperimento si chiamava Berthold Schwarz. Di lui non sappiamo altro. Ma quell'esplosione dev'essere stata con ogni probabilità il vero e proprio Big Bang della modernità. Va detto per inciso che allora i cinesi conoscevano la polvere da sparo già da molto tempo prima e, occasionalmente, oltre ad usarla per dei sontuosi fuochi d'artificio, davano ad essa un utilizzo militare. Ma non si fecero mai venire in mente di costruire, sulla base di un simile esplosivo, armi per proiettili a lunga distanza, il cui effetto fosse, nel senso più vero de termine, contundente. La prima volta di cui è dimostrato che venne fatto ricorso ad un pezzo di artiglieria fu l'anno 1334, quando il vescolo Nicola I di Costanza lo inviò a difendere la città di Meersburg.
Era nata così "l'arma da fuoco" che rimane fino ad oggi l'arma assassina più comune. Quest'innovazione fondamentale ebbe come prima conseguenza quella "rivoluzione militare" (Parker) che avrebbe caratterizzato l'ascesa storica dell'Occidente. Già nel Medioevo c'era stato chi aveva intuito gli effetti che efficaci armi a lungo raggio potevano avere riguardo l'ordine tradizionale della società. Vennero espresse chiare riserve ideologiche in tal senso quando, intorno all'anno Mille, era apparsa, proveniente da Oriente, la balestra come nuova arma a lungo raggio. Il secondo Concilio Lateranense, nel 1129, proibì il ricorso a quest'arma da guerra, definendola "arma poco degna dei cavalieri". Non per niente, da allora, la balestra divenne l'arma principale di banditi, fuorilegge e ribelli.
L'arma da fuoco ridicolizzò definitivamente in termini militari l'orgogliosa e blindata casta dei cavalieri. Ancora nel contesto della Guerra dei Trent'anni, Grimmelshausen fa dire al suo "Simplicissimus", a proposito della propria carriera di figlio di un ufficiale della guardia forestale: "Una simile circostanza mi rende così grande dal momento che, ai nostri giorni, anche il più infimo degli stallieri può uccidere con un solo colpo l'eroe più coraggioso del mondo, ma se la polvere da sparo non fosse stata ancora inventata, probabilmente mi sarei visto costretto a lasciare la pipa in tasca."
Tuttavia, i "tubi da fuoco" non si trovano più nelle mani di pochi marginali. Appena si definiscono le potenzialità della nuova tecnica di armamento, non c'è più ritorno. Per paura di rimanere indietro rispetto agli altri, i piccoli ed i grandi sovrani lottano per il possesso delle miracolose armi esplosive. In questo caso, non c'è Concilio che tenga. Il know-how delle nuove macchine di annichilimento si diffonde con la rapidità di una macchia d'olio. E' in special modo nelle città rinascimentali del Nord Italia, con la loro destrezza artigianale relativamente evoluta, che anche la tecnologia delle armi da fuoco progredisce più rapidamente di quanto avvenga altrove. A tutte le realizzazioni e a tutte le scoperte di quest'epoca della nascita del mondo moderno, si sovrappone l'arte di costruire e maneggiare cannoni.
All'inizio del 16° secolo, il teorico norditaliano Antonio Cornazano descrive questo ruolo in tutto e per tutto decisivo delle armi da fuoco. cantando letteralmente odi al cannone, definendolo in maniera abbastanza personale come "Madama la bombarda che ha come figlio il fucile. Quest'arte diabolica ha messo fuori gioco tutto il resto ed apre ai nemici le città fortificate e, con il suo strepito, fa tremare interi eserciti." (citata da zur Lippe).
In questo modo si andarono costruendo fucili sempre migliori e, soprattutto, cannoni sempre più grandi che riuscivano a sparare sempre più lontano. I più grandi pezzi d'artiglieria da campagna ottennero perfino il diritto ad avere dei nomi propri. Come contropartita, si sviluppò la tecnica di costruzione delle fortezze. Perciò, il primo impeto della modernizzazione coincise con una corsa agli armamenti, e questo stesso processo si è ripetuto periodicamente fino ai nostri giorni, potendo così essere designato del tutto correttamente come la caratteristica essenziale della modernità. Quanto più grandi e più tecnologicamente sofisticati diventavano cannoni e fortificazioni, tanto più chiaramente appariva, anche, fino a che punto la "rivoluzione militare" stava alterando la società.

La macchina militare svincolata
Si arrivò ben presto alla conclusione che l'innovazione delle armi da fuoco non si limitava ad un'alterazione della tecnologia militare. La profonda alterazione avvenuta nell'ambito dell'organizzazione e della logistica della guerra aveva inflitto anche un colpo, ancora più profondo, alla situazione vigente. Fino a quel punto, in quasi tutte le società agrarie la forma di organizzazione civile e la sua controparte militare erano state in gran misura identiche. Di regola, qualsiasi cittadino completamente libero costituiva anche un militare con l'obbligo di partecipare alla guerra. Un esercito si riuniva soltanto se la relativa istanza suprema sotto forma di imperatore, re, duca, console, ecc. "chiamava (gli uomini) alle armi" per organizzare una spedizione di guerra. Fra l'una e l'altra di tali occasioni, abitualmente non esisteva alcun apparato militare degno di questo nome. E' vero che alcuni dei grandi imperi, quali i cinesi o l'impero tardo-romano, avevano mantenuto eserciti più o meno numerosi in uno stato di operatività permanente. Ma, per quanto oneroso fosse spesso stato quest'incarico militare permanente, era riuscito ad influenzare il modo di produzione e di vita dei comuni mortali solo in maniera superficiale.
La differenza decisiva consisteva nel problema dell'equipaggiamento. Il guerriero premoderno portava con sé le armi e le usava anche nella sua quotidianità, oppure le teneva in casa. L'elmo, lo scudo, la spada potevano essere praticamente prodotti da un qualsiasi fabbro del paese. E qualsiasi ragazzo che pascolava il gregge sapeva come fabbricare un arco e le relative frecce, o una fionda. Anche tutta la logistica di guerra poteva essere organizzata in forma decentralizzata. Ciò corrispondeva in tutto all'organizzazione in gran parte decentralizzata di una civiltà agraria. Anche il potere centrale, per quanto potesse essere dispotico, si ripercuoteva in maniera attenuata, e la sua mano mal interferiva con la vita di ogni giorno.
Questo stato di cose finì irrimediabilmente. I moschetti e, soprattutto, i cannoni non potevano venire prodotti in qualsiasi villaggio, né potevano essere tenuti in casa, ed ancor meno potevano essere normalmente portati con sé. Improvvisamente, l'arma assassina aveva superato la scala domestica per collocarsi al di là dei limiti umani. Col cannone, ci troviamo di fronte, quindi, in un certo modo all'archetipo della modernità, ossia, allo strumento che comincia a dominare il suo creatore. Sorge una nuova industria di armamenti e di morte che va a costituire la matrice della successiva industrializzazione e del cui fetore cadaverico le società moderne, incluse le democrazie del mercato mondiale dei nostri giorni, non riusciranno mai più a liberarsi.
L'apparato militare comincia a staccarsi dall'organizzazione borghese e civile della società. Il signore della guerra si trasforma in una categoria professionale specializzata e l'esercito diventa un'istituzione permanente che comincia a piegare la società al suo dominio. Geoffrey Parker lo dimostra anche nel suo lavoro di ricerca: "Nel contesto di un tale sviluppo, la dimensione degli eserciti aumentò in tutta Europa, e si videro fra il 1500 ed il 1700 le forze armate di alcuni Stati decuplicarsi, e le strategie per l'utilizzo di questi eserciti più grandi si fecero più ambiziose e più complesse (...). Alla fine la rivoluzione militare fece sì che le ripercussioni della guerra sulla società si aggravassero in maniera drammatica: i costi aumentarono, le perdite si moltiplicarono e gli eserciti maggiori posero le amministrazioni di fronte ad accresciuti livelli di esigenza" (Parker 1990, 20).
In tal modo, le risorse della società vennero dirottate a fini militari n una misura senza precedenti. Una sorta di militarismo dello sperpero era senza dubbio già esistito precedentemente in forma occasionale, ma non era mai stato così duraturo, né si era mai impadronito di una parte così elevata di prodotto sociale. Il nuovo complesso armamentista e militare si era rapidamente sviluppato fino a diventare un mostro insaziabile che consumava mezzi e a cui venivano sacrificate le migliori potenzialità sociali. Nonostante, o proprio a causa delle sue numerose odi eroiche e delle sue apparenze militari, le culture premoderne erano tagliate per un consumo delle armi in una misura molto minore, e le loro guerre potevano sembrare quasi delle risse senza particolari conseguenze.
A questo proposito, Karl Georg Zinn stabilisce un paragone poco lusinghiero per la modernità: "Rispetto allo sviluppo della tecnica verificatosi a partire dal 14° secolo, il Medioevo disponeva (...) di un potere militare relativamente irrisorio. La guerra e l'armamento costituivano per la società medievale un fardello assai più leggero rispetto alla modernità. La porzione di prodotto agricolo che veniva consumato a fini distruttivi rimaneva relativamente bassa per tutto il Medioevo in quanto diversamente non avrebbero potuto essere attuati gli investimenti necessari al progresso della tecnologia agraria, né sarebbero state edificate così tante cattedrali, nuove città e fortificazioni urbane. Quel che soprattutto si evidenzia nella comparazione fra Medioevo e modernità, è la qualità diametralmente opposta del progresso tecnologico: le innovazioni agrarie del Medioevo contrastano con la tecnologia urbana degli armamenti e dei prodotti di lusso della modernità, che si accompagna all'abbandono dell'agricoltura" (Zinn 1989, 58).
"Madama la bombarda", tuttavia, non si limitava a divorare una parte spropositatamente grande del prodotto sociale, ma dava anche un impulso decisivo all'economia monetaria che, fino ad allora, era stata assai limitata. Grazie solo alla crescente produttività agraria ed artigianale, una simile ascesa del denaro fino al punto di diventare potere anonimo dominante non sarebbe stata possibile. Nel corso dei millenni sono sempre apparse innovazioni tecniche. Ma di regola le persone preferiscono approfittare del guadagno di produttività per avere più tempo libero o per aumentare il proprio benessere sensibile, piuttosto che dedicarsi all'accumulazione di capitale monetario. Una forma così squilibrata dello sviluppo delle capacità produttive poteva essere imposta solo dall'esterno e con la forza. Ed era la nuova macchina armamentista e militare, svincolata dal contesto della società, che offriva i migliori presupposti per una simile impresa.
Dal momento che la produzione delle armi da fuoco non poteva avvenire in maniera decentralizzata nell'ambito dell'economia agraria di carattere domestico e basata sullo scambio diretto, essa doveva venire concentrata nell'ambito della società. La stessa cosa si applicava agli eserciti e agli apparati militari permanenti, i cui membri ora erano passati ad essere assassini professionali che per sostentarsi non potevano più far ricorso ad una qualche produzione domestica propria. L'unico mezzo possibile per la riproduzione della macchina militare svincolata da contesto sociale era il denaro. L'astrazione del dispositivo delle armi da fuoco relativamente alle necessità materiali della società, corrispondeva alla forma astratta del denaro come veicolo adeguato. L'economia armamentista permanente dei cannoni e dei grandi eserciti divenuti strutturalmente autonomi venne, pertanto, tradotta socialmente in una espansione corrispondente della mediazione per mezzo del denaro. E sebbene si alimentasse da fonti diverse, tutte quante provenivano dalle conseguenze della "rivoluzione militare".

Banchieri di guerra, Condottieri e Mercenari
I condottieri dei mercenari dei primordi della modernità, così come i loro subordinati, i semplici artiglieri e moschettieri, furono i primi soggetti ad essere del tutto rimossi dal contesto agrario di riproduzione naturale e, in tal modo, persero i loro vincoli sociali. Con ciò, la loro forma di esistenza costituiva il prototipo della stessa forma del soggetto che solamente nella modernità sarebbe diventato il principio generale della società sotto forma dell'astrazione dell'attività in relazione alle necessità.
Nelle analisi dello storico culturale Rudolf zur Lippe appare evidente come i nuovi e sanguinari "artigiani della morte" si fossero convertiti negli archetipi del moderno lavoro salariato e della sua gestione: "La pianificazione delle azioni belliche (...) si trovava già soggetta al primato del calcolo dei profitti. Gli ideali di onore cavalleresco ed il rispetto corrispondente allo status sociale di ciascuno non rientrava in questo calcolo. (...) I resti non funzionalizzati di un atteggiamento feudale, cioè, di una relazione immediata con le persone e le cose per cui si lottava, stava già svanendo da una generazione degli 'ultimi cavalieri' all'altra. (...) In realtà, la massa dei guerrieri si era convertita in soldati, ossia, in ricevitori di soldo, ed i condottieri venivano pagati dalle casse degli Stati e dai depositi commerciali. La prima invenzione tecnica che ebbe un eminente significato pratico, venne introdotta proprio in quell'area, nella quale già da tempo esisteva qualcosa come il lavoro astratto, vale a dire salariati perfettamente sostituibili: il cannone corrispondeva tecnicamente agli intenti di guerre in cui ciò che era in questione erano cose astratte in termini comparativi come le ipotesi di accumulazione del capitale commerciale. (...) In quanto il numero di mercenari in una formazione militare rappresentava solo la quantità che il committente poteva pagare, la sintesi astratta della capacità di attacco insita in quella macchina di distruzione che è il cannone ne costituiva una conseguenza logica." (zur Lippe 1988, 37).
La causa principale del collegamento fra innovazione delle armi da fuoco e lavoro astratto non è stato, tuttavia, il vecchio capitale commerciale, come viene qui suggerito ancora nel senso di un'ontologia del materialismo storico. Non è stata la macchina di morte astratta, il cannone, che ha corrisposto ad un interesse di accumulazione astratto e preesistente del capitale commerciale ma è stata, piuttosto, la genesi stessa di questa forma di interesse causata dalla "rivoluzione militare" e dai processi che ne sono conseguiti a livello sociale.
Arrivato a questo punto, il materialismo storico avrebbe dovuto cominciare a diffidare di sé stesso, dal momento che la sua supposizione di una "base economica", nel presente caso, del capitale commerciale dei primordi della Modernità, non si conforma ad una dialettica fra "potenziale economico e condizioni di produzione" che, in realtà, verrebbe ad essere solo una conseguenza tardiva del modo di produzione capitalista. Quale avrebbe dovuto essere stato il potenziale economico che, da parte sua, avrebbe dato origine all'interesse astratto per l'accumulazione del capitale commerciale dei primordi della modernità? La bussola forse, o l'invenzione degli occhiali? Il collegamento causale presupposto a questo punto non esiste neppure.
In realtà, l'interesse astratto per l'accumulazione e, insieme ad esso, la libera imprenditoria dell'economia monetaria moderna non avrebbero potuto nemmeno nascere in maniera immediata dal seno dei commercianti e degli artigiani urbani medievali. Gli è che questi gruppi alloggiati nelle nicchie delle società agraria, rimanevano vincolati dalle loro corporazioni delle arti e mestieri ad un sistema rigido di obblighi reciproci e di tradizioni. I mercati corrispondenti non erano caratterizzati dalla libera concorrenza, e lo erano ancor meno da una logica astratta di accumulazione. Solo nella misura in cui famiglie di commercianti - i famigerati Fugger, ad esempio - ascesero al ruolo di banchieri di guerra delle autorità dotate di armi da fuoco, l'interesse divenne quello dell'accumulazione monetaria pura e semplice. In quanto creditori dei Principi, questi banchieri erano interessati ai bottini di guerra, tanto esorbitanti quanto passibili e capaci di essere facilmente convertiti in denaro. Questo calcolo dei profitti, privo di qualsiasi vincolo sociale, si ripeteva nei condottieri dei mercenari. La razionalità astratta dell'economia industriale moderna germogliò dalle canne delle spingarde e dei cannoni manovrati dalle mani di incendiari ed assassini professionali, e non dall'interesse per il benessere della società.
Il maneggio dei moschetti e dei cannoni fu, in un certo qual modo, l'archetipo del "lavoro astratto". Quest'espressione confonde ancora oggi la maggior parte delle persone, seppure non sia difficile comprendere ciò che essa vuol dire. Il "lavoro astratto" è un'attività che viene esercitata in cambio di denaro e nella quale l'interesse monetario diventa decisivo, il che equivale a dire che il relativo contenuto diventa comparativamente indifferente. Nella forma primordiale della moderna soggettività del denaro, quest'indifferenza arrivava dritta fino all'annichilimento, dal momento che anche l'annichilimento stesso veniva accettato come esito plausibile. L'oggettualizzazione e l'oggettivazione del mondo a favore dell'esercizio indifferente di mettere insieme profitti includeva l'oggettualizzazione e l'oggettivazione del rischio di morte della persona stessa. Il soggetto e l'oggetto identico della storia erano, in maniera prototipica, sia gli impresari della morte che gli operai della morte, tanto i condottieri di mercenari, ossia i manager, quanto i soldati, ossia gli operai salariati. E' indifferente contro chi e a favore di che si fa la guerra, in quale ramo produttivo si investe, che tipo di lavoro si esercita, basta che i conti a fine mese tornino, anche se per questo dovrà perire l'uno o l'altro mondo.
Questo nichilismo del denaro incominciò a travestirsi nelle parabole originarie della vita di campagna. In tedesco, prima del carbone (N.d.T.: "Kohle" [carbone] è uno dei sinonimi popolari di denaro), il fieno ("Heu") era l'espressione colloquiale che designava l'interesse monetario astratto. Quel che si voleva "fare", era "denaro come fieno", tutto il resto era irrilevante, come rivela una canzone dei soldati mercenari: "Non ci preoccupiamo / dell'Impero Romano. Che morrà oggi o domani / Per noi è lo stesso / Quel che conta è che ci sia buon fieno / Con cui la gente faccia una corda / Che torni a cucirlo."
I soldati a piedi negli apparati militari emergenti si abbrutivano e, allo stesso tempo finivano per essere socialmente squalificati a causa della mancanza di propri mezzi di produzione. Inoltre sono stati i primi a correre il rischio di restare disoccupati. Quando finiva il denaro nelle casse dei signori della guerra, i posti di lavoro in seno agli eserciti diminuivano. Molti moschettieri ed artiglieri diventavano vittime dei licenziamenti in massa; si venivano quindi a trovare senza alcun appoggio, letteralmente in mezzo alla strada, ed erano temuti in quanto vagabondi e mendicanti, banditi e assassini occasionali. Quello del soldato sradicato e assai spesso disoccupato, era un fenomeno di massa.

La monetizzazione della società
I bottini di guerra ed i debiti successivamente contratti dai banchieri di guerra ricchi di capitale commerciale erano, tuttavia, insufficienti a mantenere in movimento la macchina militare. Nella stessa misura in cui questa macchina reclamava ogni tipo di combustibile, la totalità della riproduzione sociale veniva deviata a tale scopo essendo, perciò, simultaneamente soggetta alla forma del denaro. Per questo, ciò significava la monetizzazione dei contributi che, fino ad allora, erano stati pagati in prodotti naturali. Se la tassazione in natura era ancora vincolata al rendimento agrario reale, l'imposta in denaro si astraeva del tutto dalle condizioni naturali e, quindi, trasferiva la logica dell'apparato militare sulla quotidianità del mondo dei comuni mortali.
L'insaziabile fame di denaro delle autorità dotate di armi da fuoco divenne il punto di svolta. Secondo calcoli recenti, la pressione fiscale fra il 15° ed il 18° secolo aumentò niente di meno che del 2.200%. Il fatto che questa imposizione sotto forma monetaria abbia avuto un effetto demoralizzante sulle persone, risulta da numerose testimonianze.
Pure Rousseau dà conto nelle sue autobiografiche "Confessioni" delle sofferenze della popolazione rurale depredata, così come le ha conosciute in gioventù nel corso del suo vagabondaggio per l'Europa: "Molte ore dopo (...) entrai, stanco e quasi morto di fame e di sete, nella casa di un contadino. (...) Chiesi al contadino di darmi qualcosa da mangiare, dicendo che lo avrei pagato. Mi offrì del latte scremato e del pane di scarsa qualità e mi disse che era tutto quel che aveva. (...) Il contadino, che non smetteva di farmi domande, aveva dedotto dal mio appetito la veridicità delle mie risposte. Dopo aver dichiarato di essere convinto che io fossi un bravo giovane onesto e che non ero venuto per derubarlo, aprì una piccola botola a lato della sua cucina, vi discese e, poco dopo, tornò con un (...) prosciutto dall'aspetto assai appetitoso ed una caraffa di vino. (...) A tutto questo aggiunse anche una frittata abbastanza spessa. (...) Quando arrivò il momento di pagare, venne di nuovo preso dalla sua inquietudine e dalla sua paura, non voleva denaro e continuava a rifiutarlo con straordinario imbarazzo, (...) ed io non riuscivo a capire che cosa temesse. Finalmente disse fra i denti, tremando, le terribili parole 'commissario' e 'topi da cantina'. Mi fece capire che nascondeva il suo vino a causa dei funzionari pubblici, ed il suo pane a causa delle tasse, e che sarebbe stato rovinato se qualcuno avesse sospettato non moriva di fame. (...) Lasciai la sua casa, tanto arrabbiato quanto commosso, ed imprecai contro la sorte di questi splendidi dove la natura sperperava i propri doni per farne bottino per i barbari esattori di imposte."
Questi esattori di imposte costituivano, dopo i banchieri di guerra ed i condottieri, un altro prototipo della libera imprenditorialità, nella misura in cui compravano dallo Stato, per mezzo di un patto, il diritto di raccogliere il denaro delle tasse. E a chi non poteva pagare, l'ufficiale giudiziario sequestrava, se necessario, l'ultima vacca o lo strumento di lavoro, al fine di convertirli in denaro.
Ma neppure la conversione dei contributi in natura, in imposte da pagare in denaro, insieme all'inflazionamento straordinario di quest'ultime, fu in grado di soddisfare la fame di denaro delle macchine da guerra. I dispotici regimi militari della modernizzazione cominciarono a fondare le loro imprese di produzione al di fuori dell'ambito delle corporazioni e delle gilde, e la cui finalità non consiteva più nella soddisfazione delle necessità, ma unicamente nell'ottenere denaro. Questi laboratori e queste piantagioni dipendenti dallo Stato producevano, per la prima volta, per un mercato anonimo che aveva una grande estensione geografica che sarebbe poi diventato il presupposto della libera concorrenza. E dal momento che nessuno si sottometteva volontariamente al lavoro salariato, malpagato com'era, si ricorse ai condannati, ai malati mentali imprigionati e, nella periferia, anche alla manodopera schiava. Si arrivò ad inventare delitti con l'unico scopo di mettere insieme una moltitudine di lavoratori forzati. I direttori delle nuove case di correzione e di lavoro al servizio del libero mercato, che si andava sempre più formando come prodotto collaterale della monetarizzazione forzata della società, completarono la galleria illustre dei prototipi della libera imprenditoria.

La guerra al servizio della formazione degli Stati
I condottieri che si vendevano, insieme ai loro propri eserciti privati, al signore urbano o territoriale che faceva l'offerta migliore sono stati un fenomeno di transizione. Gli amministratori dei principati, che inizialmente si erano limitati ad apparire come mandanti, non tardarono a prendere la situazione nelle loro stesse mani. Tutto questo che, successivamente, si sarebbe convertito nella legge dello sviluppo dell'economia moderna, cominciò ad imporsi al livello delle potenze che si facevano guerra con le armi da fuoco; i pesci grandi mangiano quelli più piccoli.
Una volta messi in marcia dalla dinamica auto-alimentata della "rivoluzione militare", gli Stati proto-moderni freschi di costituzione cominciarono un movimento di espansione e, così, entrarono in rotta di collisione. Con bagni di sangue che fino ad allora non si erano mai visti, misurarono per la prima volta le loro forze basate sulla tecnologia pesante al fine di risolvere con le armi la questione di chi avrebbe dovuto avere l'egemonia sull'Europa. Lo storico conservatore svizzero Jacob Burckhardt ha colpito nel segno quando ha parlato di "Guerra di costituzione dello Stato" dei primordi della modernità, in quanto fu a quel livello che si formarono le strutture basilari delle strutture del potere ancora oggi vigenti e tutto quello che - in quanto rovescio della medagli della riproduzione monetaria - designiamo come politica.
Questa dinamica venne accelerata dalla scoperta delle Americhe. Nella stessa misura in cui la tecnica della guerra moderna produceva un equilibrio, la forma del denaro delle macchine militare portava ad un'espansione, in entrambe le parti dell'America, che senza armi da fuoco sarebbe stata impensabile. E' ben noto che avventurieri come Pizarro, con mezza dozzina di cannoni ed una manciata di moschettieri, macellarono intere nazioni di indios. L'economia armamentista ed il colonialismo si andavano potenziando a vicenda. Il traffico permanente fra i due lati dell'Oceano Atlantico esigeva enormi programmi di costruzioni di flotte che, a loro volta, potevano essere realizzati solo facendo ricorso all'economia monetaria astratta. La "Guerra di costituzione dello Stato" assunse dimensioni intercontinentali. Dietro la logica dei cannoni, si celava l'ossessione megalomane del dominio del mondo. Così la guerra dei Sette anni, dal 1756 al 1763, fra Prussia ed Inghilterra, da un lato, ed Austria, Russia e Francia, dall'altro, fu la prima guerra a meritare la designazione di mondiale, dal momento che si svolse simultaneamente sia in Europa che nelle colonie del Nuovo Mondo. La Storia iniziò allora a consistere in un flusso sempre più rapido di conflitti militari. Secondo Geoffrey Parker, la modernità costituisce, sia sotto l'aspetto della frequenza che sotto la prospettiva della durata e dell'estensione delle guerre, il periodo meno pacifico di tutta la storia dell'umanità. Questa densificazione della guerra e la militarizzazione dell'economia vanno necessariamente di pari passo con una centralizzazione della società. Non avveniva solamente all'esterno, ossia, negli "affari" fra Stati, che i grandi pesci mangiassero quelli piccoli. Anche all'interno degli Stati costituiti ad immagine e somiglianza del cannone, il dominio si andava riorganizzando. Fino al 16° secolo non era esistita alcuna amministrazione organizzata dall'alto verso il basso. Le persone dovevano dare contributi sotto forma di generi o di servizi di lavoro, ma per il resto facevano per conto proprio nella vita di ogni giorno. La maggior parte dei temi veniva trattata da istituzioni tanto limitate quanto autonome. Finco ad allora esistevano grandi regioni con contadini ed artigiani liberi, che possedevano le loro armi e neppure conoscevano il feudalesimo; il carattere repressivo delle strutture consisteva, qui, soprattutto nella ristrettezza delle condizioni stabilite da vincoli di sangue.
Qui, la modernizzazione non significava altro se non la distruzione da cima a fondo di queste forme di una "autonomia ristretta" per poter assoggettare le persone alle esigenze di questa "economia politica delle armi da fuoco", ossia, alla tassazione monetaria e poter finalmente convertirle in unità di rifornimento diretto di lavoro astratto ai fini della moltiplicazione del denaro. Dalle guerre contadine del 15° e 16° secolo agli "assalti alle macchine" degli inizi del 19° secolo, i produttori indipendenti si opposero in disperate rivolte alla loro riconversione in carne da cannone della macchina da guerra e della sua economia monetaria astratta. Tale resistenza venne annegata nel sangue. Gli apparati degli Stati assolutisti costituiti sulla base dell'innovazione delle armi da fuoco imposero con la violenza i loro imperativi.

L'economia svincolata
Dietro l'onnipresente obbligo moderno a guadagnare denaro c'è, in fin dei conti, la logica del cannone tuonante. La dinamica delle alterazioni sociali innescate da tale logica cominciò, nel 18° secolo, a divorare i suoi progenitori. Il sistema di "economia politica" di un apparato armamentista e militare svincolato dalla società e che poteva ormai essere alimentato solamente a costo del lavoro astratto, si emancipò dalla sua finalità originale. La forma denaro dei regimi militari dispotici dei primordi della modernizzazione si trasformò nel principio della "valorizzazione del valore" che fin dai primi anni del 19° secolo prendeva il nome di capitalismo. La camicia stretta della tutela statale e militare è stata rimossa unicamente al fine di far sì che la macchina monetaria, ora resasi autonoma, continui a funzionare come fine in sé puro e semplice di una "economia svincolata" da ogni vincolo sociale e culturale (Karl Polanyi) ed aprire la strada alla concorrenza anonima.
Sul viso di questa concorrenza totale, e perfino nella sua terminologia, si trovano incise le stimmate della sua provenienza dalla guerra totale. Non per niente, Thomas Hobbes, in quanto fondatore della teoria liberale dello Stato moderno, ha designato la "guerra di tutti contro tutti" come lo stato naturale dell'uomo. Sono stati i protagonisti del cosiddetto Illuminismo che, nel 18° secolo, a tradurre gli imperativi della "economia svincolata" in un'ontologia filosofica astratta del "soggetto autonomo" che, alla fine, viene invariabilmente stabilito dalla forma totalitaria del valore. Il socialismo, dal suo canto, si è limitato ad appropriarsi della medesima ontologia borghese e, insieme ad essa, delle origini del mondo moderno a partire dall'economia della guerra. Non per niente, il marxismo del movimento operaio ha parlato, in maniera del tutto candida e positiva, di "eserciti del lavoro".
Per le democrazie del mercato mondiale di oggi, il fine in sé "svincolato" della valorizzazione del valore e del lavoro astratto, in quanto imposizione già da molto tempo interiorizzata, è diventato definitivamente qualcosa di indiscutibile. Sono state esse a portare fino alle ultime conseguenze, non solo la monetarizzazone di tutte le aree della vita così come, parimenti, l'amministrazione burocratica delle persone ad essa associate. Tutti i diritti e tutte le libertà, tutta la presunta autodeterminazione e responsabilità di sé, tutta la politica ed i programmi di tutti i partiti risultano adesso e sempre da questo muto apriorismo.
La critica radicale del capitalismo rimarrà bloccata finché condividerà la base ontologica della soggettività borghese. La maggior parte dei critici di sinistra degli ontologhi borghesi sono, essi stessi, ontologhi borghesi. Implicitamente, o perfino esplicitamente, continuano ancora a voler appoggiarsi alle costruzioni ontologiche dell'illuminismo borghese e, perciò, assumono una postura agnostica nei confronti delle vere origini della modernità e fanno risalire la nascita del capitalismo, contrariamente a quella che è la verità dei fatti, direttamente dalla società agraria.
Un'anti-modernità emancipatrice, al contrario, non farà certamente crescere un'ideologia retrograda, ma investirà sul serio nella "dialettica negativa", al di là di Adorno ed al di là del materialismo storico, vale a dire, taglierà definitivamente i ponti con l'ontologia illuminista del soggetto. E di questo fa anche parte una rivalutazione della storia, dalla quale non verrà omesso che la modernità è nata dalla "economia delle armi fa fuoco".

- Robert Kurz - Pubblicato sulla rivista Jungle World, il 9 gennaio 2012 -

fonte: EXIT!

lunedì 21 marzo 2016

La critica e la strada

brasil


Di cosa parlano le manifestazioni nelle strade?
di Rall Canti

Nelle città brasiliane tornano con forza le manifestazioni. Quelle di domenica 13/3/2016 sono state le più grandi nella storia del paese. Nonostante siano focalizzate sulla lotta alla corruzione nel Partito dei Lavoratori e sul "Impeachment" della Presidente Dilma, evidenziano un enorme sfiducia nella politica e nei politici. Chi si avventura a partecipare a queste manifestazioni avrà dei problemi con i manifestanti a prescindere dalle articolazioni che l'opposizione ha con i gruppi che si pongono comem "avanguardia" del movimento.
Quello che ha caratterizzato la strada fin dalle prime manifestazioni è stata la spontaneità ed una profonda sfiducia, se non il rifiuto vero e proprio della politica dei partiti così come la conosciamo, situazione questa che sembra in contrasto con ciò che pensano i gruppi organizzati del movimento che mantengono strette relazioni con alcuni partiti. Pertanto, la contestazione nei confronti di Dilma e del Partito dei Lavoratori si estende ai partiti di tutti i colori ed ai loro cacicchi. Quelli dell'opposizione che si sono arrischiati a partecipare alle manifestazioni sono stati costretti a battere in rititata dopo le contestazioni.

Tuttavia, non si sa se il rifiuto della politica sia relazionato solamente alla percezione per cui la corruzione viene vista come un fenomeno generalizzato, oppure sia anche legato alla consapevolezza che la politica non è più in grado di dare risposte alle questioni poste dalla crisi, o, ancora, si tratti di un preconcetto autoritario che appare evidente per alcuni dei manifestanti, o, cosa più probabile, tutte e tre le cose insieme in misura diversa.
E' possibile che i limiti interni che impediscono al capitalismo di continuare a crescere vengano percepiti in maniera immediata proprio a partire dalla crisi di quelle istituzioni che tale crescita supportano, ancor prima che per la consapevolezza che stiamo andando verso un collasso totale. Ne consegue che possono emergere posizioni diverse in quanto approfondimento della critica delle istituzioni borghesi di diverso colore, ma non del suo modo di produzione. Tende così ad accentuarsi l'illusione secondo cui ripulendo la società da corrotti e corruttori, anche in violazione della Costituzione, si possa disegnare un mondo differente che porti alla soluzione della crisi economica e sociale, come se fosse possibile.

La critica radicale delle istituzioni che danno sostegno al capitalismo - una forma di per sé corrotta della produzione, se consideriamo che l'obiettivo è quello di accumulare ricchezza astratta, e non soddisfare le necessità delle persone, come si cerca di fare apparire - può servire a far aumentare la consapevolezza che è possibile costruire alternative al di là dei limiti imposti dalla società capitalista in crisi, anche se queste alternative si manifestano come punti opachi, non delineati all'orizzonte, ma possono essere immaginati come opzione rispetto ad un mondo che si sta sbriciolando davanti ai nostri occhi.
Sebbene l'illusione che si possano "domare" le categorie del capitale (Stato, mercato, lavoro astratto, valore, denaro, ecc.), modellandole per mezzo di una politica ripulita dagli eccessi e ricondotta agli interessi della società, sia più attraente, pensare a dei cambiamenti che non considerano i limiti del capitalismo è sempre meno possibile nella misura in cui la situazione diventa più grave. L'idea di una "pulizia" nella politica, come soluzione, oltre che ad essere una semplificazione della realtà, tende a risolversi in un moralismo ingannevole e nella difesa di gestioni autoritarie della crisi che, tuttavia, non la risolvono. Può anche aprire la strada all'emergere di posizioni retrograde che sostengono l'approfondimento dell'apertheid sociale, la discriminazione sessuale, l'indifferenza per la situazione ecologica, e che tendono a colpevolizzare il capitale finanziario per tutti i mali del capitalismo, come se avesse a che fare con cose differenti.

Alcune posizioni latenti appaiono quando parte dei manifestanti si esprimono facendo uso non solo di solgan generici. In un'intervista a nove manifestanti, pubblicata su "Folha de São Paulo" del 14/3/2016, quando il giornalista chiede quale possa essere il risultato elettorale delle elezioni presidenziali, tre esprimono ammirazione per un politico di estrema destra legato a gruppi oscuri del passato regime dittatoriale ed un quarto chiede senza mezzi termini il ritorno al potere dei militari. Questo potrebbe anche non essere un campione significativo, ma se prestiamo attenzione al clima delle manifestazioni, ai commenti delle persone e alla virulenza discriminatoria sui social network, si sente che non tira affatto una buona aria.
Tutto questo, però, non esenta né "coinvolge" la sinistra pro-governo, con il suo discorso cinico e sempre regolato secondo il momento, quando viene accusata di sguazzare nel fango della corruzione in cerca di arricchimento personale mano nella mano con la Destra che prima criticava. Essa è parte importante di questo peocesso, ma reagisce come se non ci avesse niente a che fare. Le intercettazioni telefoniche trapelate e le parole di chi ha reso deposizioni - soprattutto il senatore Delcídio do Amaral, figura chiave in vari governi - sono più rivelatrici dell'intrigo fra Stato e mercato, fra pubblico e privato nella società capitalista, di quanto lo sia qualsiasi trattato sociologico. La reazione della popolazione alla politica è correlata alla percezione reale del fatto che le differenze fra i partiti nella democrazia sono formali e spariscono quando sono al potere.
E' possibile che fra non molto si scopra che la corruzione è intrinseca al sistema. L'operazione "Mani Pulite" che in Italia ha spazzato via dalla politica i grandi partiti corrotti fino al midollo, specializzati nel deviare enormi somme di denaro pubblico, e che sembra avesse liberato la politica dai cattivi politici, ha prodotto Berlusconi. Il nuovo, in realtà, era altrettanto vecchio di quelli che sono stati puniti principalmente nelle urne, solo che grazie all'esperienza accumulata a partire dal fallimento dei suoi predecessori avvea affinato il furto.

Pur con tutte le rivelazioni e le mobilitazioni, il tempo dimostrerà che uscirne è molto più difficile di quanto si aspettano i paladini della moralità che ritengono possibile la costruzione di un capitalismo esente dalla corruzione. Col passare del tempo, si osserva fra gli attori più lucidi della " Operação Lava Jato" una certa disperazione provocata dal non vedere soluzioni al problema della corruzione che possano durare sul lungo periodo. Ragion per cui, sono tentati di trasgredire i limiti dell'ordine borghese.
La storia recente è piena di esempi di movimenti che hanno cercato vie d'uscita alle crisi economiche e sociali nell'ambito del modo di produzione capitalista ed esempi di Stati che sono stati occupati dagli interessi di gruppi o di famiglie e hanno fatto fiasco. Basta guardare la situazione dei paesi arabi nel post-primavera, dell'Ucraina e di altri paesi dove lo scambio di governo - dopo che si era raffreddato l'impeto delle masse, spesso in seguito ad una brutale repressione - si è verificato fra mafie assetate di denaro, potere e sangue. Qui, sarà diverso?
Coloro che hanno abbracciato la critica radicale e credono nella possibilità di emancipazione, devono sollevare le problematiche dolorose senza inchinarsi alle tendenze del momento o agli equivoci dei movimenti sociali permeati dagli interessi immediati.

- Rall Canti - Pubblicato il 20/3/20016 -

fonte: Rumores da Crise