lunedì 29 febbraio 2016

Rompere il salvadanaio!

Norfield

L'imperialismo britannico, la City ed il Brexit
- Una recensione di "The City – London and the global power of finance", di Tony Norfield -
di Michael Robert

Tony Norfield ha avuto un esperienza ventennale nelle sale operative della City di Londra, per 10 anni, come direttore esecutivo e responsabile globale della strategia in una delle maggiori banche europee. Ha conseguito un dottorato in ricerca in scienze economiche al SOAS di Londra. Soprattutto. è un marxista. E questa è la ricetta perfetta per un eccellente libro sul moderno imperialismo britannico e sulle caratteristiche della finanza globale nel 21° secolo.
Nella City, Norfield porta con sé alcune delle intuizioni chiave per la comprensione della natura dei moderni sistemi finanziari e su quale ruolo essi giochino nel funzionamento (o nel non-funzionamento) del capitalismo. Norfield sottolinea come la finanza e la produzione nel capitalismo del 21° secolo siano inseparabili - "sono partner stretti nello sfruttamento". Lo sono sempre stati fin dall'inizio del capitalismo industriale, ma ora lo sono ancora di più. Ragion per cui il punto di vista che viene spesso espresso nei circoli keynesiano e marxisti circa il fatto che ci sia una divisione categoriale fra finanza e capitale produttivo, dove il primo è "cattivo" ed il secondo è "buono", è un errore che porta ad un'incomprensione della natura dell'imperialismo e del ruolo dei centri finanziari come la city di Londra.
Un'altra osservazione svolta da Norfield ci parla del ruolo avuto dal capitalismo britannico nell'imperialismo. La Gran Bretagna è seconda solo agli Stati Uniti per quel che riguarda l'importanza globale del suo settore finanziario ed in alcune aree, quali il commercio di valuta estera, si trova al primo posto (Norfield, p.71). La Gran Bretagna possiede la più grande riserva di investimenti esteri diretti (FDI) che ammonta a quasi 2 trilioni di dollari, equivalente al 30% del PIL del Regno Unito. Conteggiando le principali 500 imprese globali, il Regno Unito si trova secondo solo agli Stati Uniti, con 34 aziende. Se comparato agli Stati Uniti, che ne ha dieci, il Regno Unito ha sei istituzioni finanziarie fra le principali a livello globale. E i suoi attivi bancari ammontano a circa     quattro volte il suo PIL, il più alto rapporto in tutto il mondo, dopo la Svizzera ed il paradiso fiscale del Lussemburgo.
Favoriscono Londra, in quanto centro finanziario globale, il suo fuso orario, la lingua principale dell'imperialismo (l'inglese) e l'enorme riserva di servizi professionali, che contrasta con la relativa debolezza dei mercati monetari statunitensi e delle banche che hanno una minor portata globale.
Il capitalismo inglese ha perduto il suo status di egemonia un centinaio di anni fa ma nel periodo post-bellico il suo settore finanziario ha mantenuto il suo status globale mentre diminuiva la sua base manifatturiera. Il mercato dell'eurodollaro del 1960 ed il "Big Bang" degli anni 1980, quando le banche americane ed estere potevano operare senza alcuna restrizione, ha preservato la preminenza della city.
A pagina 111, Tabella 5, Norfield fornisce un eccellente grafico che mostra la gerarchia globale del potere imperialista secondo una serie di criteri (PIL, spesa militare, Investimenti all'estero, assetto bancario e commercio con l'estero)

pecking-order

Norfield evidenzia come il privilegio finanziario sia una forma di potere economico, che abilita i paesi imperialisti ad attingere a risorse ed a valore che viene creato altrove nel mondo. Per Norfield, la definizione di imperialismo attiene al fatto che esiste un piccolo numero di paesi domina i mercati mondiali per mezzo delle loro corporazioni multinazionali che possono fabbricare oggetti, fornire servizi e finanze, o spesso tutte e tre le cose insieme.
Ci parla della preziosa ricerca svolta da alcuni ingegneri svizzeri su come solamente 147 compagnie controllino globalmente tutto il mondo (p. 113), qualcosa di cui avevo già parlato nel mio blog. E' interessante notare come gli stessi ricercatori svizzeri abbiano recentemente pubblicato un nuovo rapporto che mostra come le compagnie statunitensi ed europee controllino ancora le leve del potere finanziario ed aziendale a livello globale, mentre difficilmente l'Asia potrà avere una simile possibilità, nonostante il grande "miracolo produttivo" degli ultimi 30 anni.
La finanza non può essere separata dal capitale produttivo: questa è una caratteristica dell'economia mondiale moderna. Ciò significa che limitarsi a guardare solo alle attività delle corporazioni dentro gli Stati nazionali significa perdere di vista la storia vera. Come indica Norfield, i ricavi delle corporazioni statunitensi  all'estero valgono circa 3 miliardi di dollari al giorni per un totale superiore al PIL annuale della Svizzera.
Parte fondamentale del libro di Norfield è quella che intreccia nei fatti il moderno imperialismo con un'analisi marxista del ruolo del capitale finanziario. Ci mostra correttamente che le banche possono creare moneta (p. 83) cosicché quella moneta può far sembrare il creare moneta come "completamente indipendente dalla produzione capitalista" (p. 85).
Emissione di moneta e attività bancaria non sono "parassiti" in sé, dal momento che sono necessari ad oliare le ruote della produzione capitalista. Ma il capitale fruttifero (soldi per fare soldi) è parassitario nel momento in cui viene dedotto dai profitti del capitale produttivo. E l'imperialismo capitale fruttifero globalizzato.
Marx ha collegato il fenomeno del fare denaro per mezzo del denaro (p. 90) con la sua definizione di "capitale fittizio": una denuncia degli investimenti della compagnie che creano valore e dei loro guadagni futuri. Norfield espone chiaramente l'inadeguatezza della narrazione marxista classica che fa Hiferding del capitale finanziario.
Hilferding si concentra giustamente sul capitale fittizio come caratteristica fondamentale del capitalismo monopolistico o dell'imperialismo ma considera le banche come se fossero le uniche leve del potere finanziario, mentre nel moderno imperialismo ci sono molti altri settori di capitale fittizio. Ed anche lo Stato nazione gioca un ruolo chiave nel supportare e nell'espandere il capitale monopolistico e il potere imperialista.
Per la moderna accumulazione di capitale è un vantaggio che obbligazioni, titoli e derivati siano estremamente liquidi (facili da comprare e da vendere). Ma come dice correttamente Norfield, il capitale fittizio non spezza il legame fra produzione di valore con la forza lavoro o con il valore di risorse "reali" quali materie prime, impianti, attrezzature, ecc., ma lo "estende" soltanto. L'espansione del capitale fittizio rende il capitalismo capace di espandersi più velocemente ma allo stesso tempo anche a collassare più tardi.
In realtà, lo sviluppo della moderna finanza e l'espansione del capitale fittizio in tutte le sue nuove forme a partire dagli anni 1980 è stata davvero una risposta alla caduta di redditività del capitale produttivo che c'è stata in tutte le maggiori economie capitaliste a partire dalla metà degli anni 1960 ai primi anni 1980.
Norfield si riferisce alla legge marxiana della tendenza del saggio di profitto a cadere come al fattore chiave che sta dietro le crisi economiche nel capitalismo. Ma è scettico circa la capacità di poter misurare la redditività del capitale per mezzo delle statistiche ufficiali (p. 153) e considera che la misurazione dei tassi nazionali di profitto ci dicono ben poco riguardo a questo mondo imperialista.
Tuttavia, tenta di misurare la redditività degli Stati Uniti e conclude che c'è stata una crescita a partire dagli anni 1980 e che il tasso degli Stati Uniti era "relativamente alto" durante il periodo del crollo finanziario globale (p. 155). Questo potrebbe sembrar contraddire la legge di Marx, così Norfield cerca una spiegazione nella crescita del tasso di profitto degli Stati Uniti fino alla Grande Recessione come indicazione dello scoppio di una bolla "alimentata con il credito" che era "fittizia". Questa spiegazione ha una qualche validità, ma io penso ancora che sia possibile misurare il trend nella redditività del capitale delle maggiori economie e per il Regno Unito e per gli Stati Uniti (e per quel che importa, per il mondo). E penso che una tale misurazione mostri che il tasso di profitto ha raggiunto il suo picco alla fine degli anni 1990 e ai primi anni 2000. Cosicché la legge di Marx tiene anche senza la spiegazione dei profitti fittizi.

Il libro di Norfield è decisivo nell'illuminare la natura della moderna economia inglese. In passato, avevo descritto la Gran Bretagna come la più grande economia 'redditiera' del mondo. E' questa una parola francese vecchio stile per descrivere un'economia basata sul succhiare 'rendita', attraverso il possesso del monopolio del capitale (o della terra), dai profitti dei settori produttivi. Entrambi i settori sfruttano il lavoro, ma l'economia redditiera si basa sul suo monopolio finanziario e legale per prendere una quota del plusvalore creato dal lavoro. Questo dà al capitale inglese il suo importante ruolo nel moderno imperialismo, ma ne fa anche il tallone di Achille in ogni collasso finanziario globale. In un altro crollo globale il capitale inglese è più vulnerabile rispetto alla maggior parte degli altri capitali.
Una delle conseguenze dell'economia redditiera della Gran Bretagna consiste nella sua relazione ambigua con il capitale europeo, in particolare quello franco-tedesco  e quello dell'Unione Europea. Gli strateghi imperialisti inglesi hanno guardato al di là dell'Atlantico, agli Stati Uniti, per una partnership finanziaria, ma anche all'Europa per commercio ed investimenti. Il Regno Unito è il salvadanaio che sta nel mezzo fra gli Stati Uniti e l'Europa franco-tedesca. Tutto questo adesso è arrivato al punto in cui il capitale britannico prende in considerazione il fatto se debba o meno rompere con l'Europa, mentre l'Europa balbetta nella situazione della sua lunga depressione.
Quel che appare chiaro a partire dal libro di Norfield è il perché la city di Londra sia in maniera schiacciante a favore della permanenza del Regno Unito nell'Unione Europea e si opponga al 'Brexit'. La city dipende dai liberi flussi di capitale fra le economie con 'eccedenza di capitale' del petrolio ed i produttori di risorse (BRICS) e le multinazionali del Nord America dentro e fuori dall'Europa. Questo legame potrebbe essere messo seriamente in pericolo se il Regno Unito si trovasse ad essere fuori dall'Unione Europea - soprattutto se in in futuro l'Unione Europea dovesse disgregarsi.

- Michael Robert - pubblicato il 24/2/2016

fonte: Michael Robert Blog

domenica 28 febbraio 2016

Il fantasma di Elena

elena

A ciascuno la sua Elena
- di Giorgio Ieranò -

Forse è morta impiccata a un albero nell’isola di Rodi. Forse ha attraversato i secoli e, trasmigrando di corpo in corpo, per successive reincarnazioni, è diventata una prostituta in un bordello fenicio. O forse abita in un’isola incantata, ai confini del mondo: un paradiso degli eroi, dov'è la sposa di Achille e trascorre le notti in un banchetto perenne.
Sono solo alcune delle storie che gli autori antichi raccontavano intorno a Elena di Troia. Storie bizzarre e, spesso, in contrasto tra loro. Archetipo della femme fatale, icona di bellezza e di morte, Elena è donna dai molti destini. Per Omero, è l’adultera per eccellenza, la «cagna» che, abbandonando il marito Menelao, provoca la guerra di Troia. Ma altri poeti, da Stesicoro a Euripide, sostenevano che Elena non era mai andata a Troia: gli dei dell’Olimpo avevano dato in ostaggio a Paride solo un suo fantasma, fatto di nuvole e d’aria. Lei, invece, si sarebbe nascosta in Egitto. E lì sarebbe rimasta, mentre sulle rive dello Scamandro scorreva il sangue di achei e troiani, e Achille ed Ettore morivano per un fantasma.

Sacra e adultera
Già gli antichi tentavano di attribuirle una psicologia. Ma Elena non ha una biografia, non è una Madame Bovary dell’età del bronzo: è un fascio di immagini che si rincorrono attraverso i secoli come in un gioco di specchi. Lowell Edmunds, filologo classico e professore emerito della Rutgers University, prova ora a mettere ordine nel caos del mito. Lo fa con un libro appena uscito negli Stati Uniti (Stealing Helen, letteralmente «Rubando Elena», Princeton University Press, pp. 430, $ 49,50) che propone un’ipotesi suggestiva: la figura di Elena si spiegherebbe innanzitutto alla luce del motivo folklorico della «bella moglie rapita». 
Scavando in leggende indiane, africane, cinesi, irlandesi, bulgare, e anche in favole italiane già catalogate da Italo Calvino, Edmunds compone una curiosa galleria di spose rubate: tutte donne di bellezza sovrumana, segnate da una nascita straordinaria (come Elena, che secondo il mito era uscita da un uovo), rapite e poi riscattate dai loro mariti con imprese in cui si combinano forza e astuzia. Il motivo è universale e si riflette anche nell’epopea indiana del Mahabharata. Certo, queste leggende non sono del tutto sovrapponibili al mito omerico: non sempre il ratto della moglie si risolve con una guerra come quella troiana. Ma in questa messe di racconti, che fa pensare a un’antichissima tradizione indoeuropea, s’intravede lo schema essenziale della figura di Elena. 
Elena sarebbe dunque approdata all’Iliade uscendo da questo mare di racconti. E non, invece, dal mondo arcano di una primitiva religione mediterranea. Si è spesso sostenuto che in origine Elena era una divinità della vegetazione, poi trasfigurata in personaggio dell’epica e in figura romanzesca. Ma le tracce di questa originaria natura divina sono evanescenti. È vero, a Sparta e a Rodi c’erano santuari in cui l’eroina era venerata come «signora dell’albero» o «signora del platano». L’Elena sacra ha però sempre dovuto convivere con il suo doppio, l’Elena adultera. Ad Atene, nel borgo di Decelea, si facevano sacrifici in suo onore. Ma intanto, nel teatro alle pendici dell’Acropoli, i poeti la trattavano da sgualdrina. Nel Ciclope di Euripide, un coro di satiri irriverenti interroga Odisseo, reduce da Troia: «Dimmi, presa la giovane Elena, non ve la siete ripassata a turno, visto che a lei piace avere tanti amanti? Che spergiura! Alla vista di un paio di brache colorate su cosce maschili perse la testa e piantò Menelao, un omino così per bene!». Le brache sono quelle del troiano Paride che, come tutti i barbari, portava i calzoni e non la tunica dei Greci.

L’ennesima maschera
Elena combatte da sempre per uscire dal recinto dell’epopea e del folklore, per trasfigurarsi in sogno metafisico. Le sette gnostiche la consideravano l’incarnazione della Sophía, della Sapienza suprema, imprigionata dalle potenze cosmiche inferiori in un corpo femminile e costretta a subire ogni oltraggio. Simon Mago, leggendario fondatore dello gnosticismo, l’avrebbe cercata per secoli, riscattandola infine da un bordello di Tiro. Poi Elena ha sconfinato anche nel mito di Faust. Come ricorda Edmunds, ben prima di Goethe, la regina di Sparta compare già nella Storia del dottor Faust, mago e negromante, pubblicata nel 1587 da Johann Spies. Qui, davanti a un gruppo di studenti, la domenica di Pasqua, Faust evoca dagli inferi Elena, che appare «in uno stupendo vestito nero e purpureo, gli occhi nerissimi, le labbra rosse come ciliegie».

Il libro di Edmunds si ferma alle soglie del Novecento. Ma si vorrebbe aggiungere ai molti volti di Elena quello delineato dal poeta greco Ghiannis Ritsos nel 1970: il volto di una donna vecchia e stanca, sopravvissuta alla sua leggenda. L’eco delle antiche guerre si è ormai spenta. Ed Elena si consuma nella penombra, tra un armadio e una specchiera, con le verruche che le spuntano sul viso. È il crepuscolo di un mito. O forse è solo l’ennesima maschera dell’inafferrabile Elena.

helen cover
fonte: La Stampa Cultura

giovedì 25 febbraio 2016

Onde corte

caduta

Recessione o Caduta?
- di Robert Kurz -

Il capitalismo è dinamica cieca, guidata da legittimità autonomizzata. Questo include il fatto per cui la riproduzione sociale avviene con un movimento oscillante, che non trova mai un punto di equilibrio. Ciò si può osservare su due piani. Da un lato, si tratta di un movimento ciclico di breve durata, pochi anni, nella norma degli alti e bassi della situazione. Dall'altro lato, vi sono delle mutazioni strutturali che si estendono nell'arco di diversi decenni e che, almeno al loro inizio, si legano a grandi crisi. In questo senso, si parla di "modelli di accumulazione", di "onde lunghe" o di "rivoluzioni" tecnologiche. Allo stato attuale, sul piano del lungo periodo, ci troviamo nella crisi globale della terza rivoluzione industriale, dove non si intravvede nessuna luce in fondo al tunnel, che possa annunciare una nuova grande epoca di prosperità. Sull'onda lunga di tale processo, tuttavia, si dipartono le onde corte della congiuntura. Con grande regolarità, si scambia il desiderio per la realtà e si confonde la ripresa ciclica dell'onda corta con la sospirata fine della grande crisi strutturale.

Il 2007 è stato di nuovo un anno di queste speranze infondate, in quanto la congiuntura mondiale spingeva con forza. Quel che è certo è che il nuovo ottimismo si è diffuso soltanto quando il punto culminante era già stato oltrepassato. In Germania Federale, il tasso di crescita nel 2006 ha raggiunto il 2,9% e nel 2007 è sceso al 2,5%, mentre le previsioni per il 2008 sono già state ridimensionate al 1,9%. Diventa sempre più chiaro che la ripresa riguarda soltanto il ciclo a breve periodo, che modella la profonda crisi strutturale, ma non la supera. E' vero che negli ultimi anni l'oscillazione congiunturale ascendente è stata maggiore di quanto lo è stata nei cicli precedenti. Questo, però, può significare che ora, inversamente, l'oscillazione ciclica discendente sarà anche più violenta. Il rafforzamento della situazione congiunturale degli scambio, con sullo sfondo la diffusa difficoltà generale di accumulazione, si basa, com'è noto, soprattutto sul ruolo centrale dell'economia di deficit americana. Negli ultimi anni, la congiuntura mondiale si è mossa trascinata dalla crescita del deficit americano; ora verrà trascinata dalla recessione americana che si annuncia, a causa della crisi del credito e del settore immobiliare.

L'impatto della recessione globale si farà sentire con tanto più forza quanto maggiore sarà la dipendenza di ciascun paese esportatore e, pertanto, quanto maggiore sarà la sua partecipazione alla globalizzazione. L'industrializzazione della Cina volta all'esportazione transnazionale, nella ripresa ciclica ha quasi raggiunto il volume della Germania Federale. Ma, con una popolazione circa 15 volte maggiore, l'esportazione cinese costituisce una parte assai minore della riproduzione totale. Fra tutti i maggiori Stati industrializzati, è in Germania che l'esportazione ha un peso relativamente maggiore. E' stato qui che i redditi reali hanno maggiormente regredito, in comparazione con la media europea, cosa che ha alimentato il boom delle esportazioni a prezzi modici. Il rovescio della medaglia è stata la stagnazione del consumo interno, anche nella ripresa; così nel 2007, le vendite interne dell'industria automobilistica sono scese del 3,5%. Nonostante il fatto che il mercato americano dell'auto nel 2007 si sia ridotto, come preannuncio della recessione, i costruttori tedeschi di automobili sono riusciti ad aumentare la loro quota di mercato, e così hanno più che compensato il calo della domanda interna. Ora, però, la forza si è mutata in debolezza. Una recessione globale potrebbe causare proprio in Germania una drammatica caduta.

- Robert Kurz - Pubblicato su Neues Deutschland del 18.01.2008 -

fonte: EXIT!

mercoledì 24 febbraio 2016

Mulini a vento

mulderscully

Mulder e Scully sono vecchi e cinici
- di Eduardo Cintra Torres -

X-files, la serie di "fantascienza" che ebbe un grande successo fra il 1993 ed il 2002, è tornata con gli stessi protagonisti. Più vecchi e cinici, come, alla fine, succede a tutti noi. Dare oggi credito alle frottole di allora sarebbe complicato. Mulder e Scully, autoriflessivi, mettono in discussione le storie su cui investigano. Non si tratta più del fatto se i mostri settimanali siano reali o meno, ma se i personaggi (e gli spettatori) credano o meno che lo siano.
L'immmaginazione degli individui è talmente grande che, se si vedono mulini a vento - come fa Sancho - allora sono mulini, e se si vedono giganti, come li vede Chisciotte, allora sono giganti.
Questa evoluzione della serie televisica viene a dare la mano e ad accompagnare il nostro crescente cinismo nella valle di lacrime bagnata da messaggi contraddittori che è il mondo nel quale viviamo.
Per poter essere credibile, X-Files dubita delle sue stesse storie. A queste storie, aggiunge sorrisi, ed io aggiungo sospiri.
Il mondo postmoderno del dubbio permanente su che cosa sia la verità sta invecchiando, come Mulder, come Scully, e come me.

Fonte: As guerras da propaganda

martedì 23 febbraio 2016

Impenetrabile

eschilo

Eschilo. Un'immagine contrastata
- di Luigi Battezzato -

Dodici donne africane arrivano in scena. Scappano per sfuggire alla violenza sessuale dei loro cugini maschi. Chiedono asilo. Così Eschilo, nel quinto secolo avanti Cristo, inizia le sue Supplici. Il «nero fiore, bronzea gente impressa dal sole» trova salvezza in una città in cui «il decreto del popolo, deciso con un voto unanime di tutta la città» stabilisce «di non consegnare mai queste donne alla violenza». La tragedia si chiude con una richiesta: Zeus «dia supremazia alle donne».

Un Eschilo femminista e protettore dei rifugiati politici? Anche questa va aggiunta alle tante immagini del poeta. L’introduzione del recente «Meridiano» Mondadori, a cura di Monica Centanni (Le tragedie, pp. 1254, € 49,00), esplora alcune di esse: Eschilo guerriero, Eschilo cittadino, Eschilo (modernamente) inventore di una rappresentazione di Atene. Altri Eschili lo hanno preceduto: Eschilo pio conservatore, ammiratore sbigottito della «violenza degli dèi»; democratico e rivoluzionario; severo e solenne; ammiratore dei tribunali, e del terrore religioso che tiene insieme la polis. Eschilo però ha anche scritto i versi in cui Achille ricorda le affascinanti gambe del suo amante Patroclo; quelli in cui Apollo, seguace dell’avanguardia scientifica e filosofica del V secolo, dimostra che la madre non ha rapporto di sangue con il feto.
Eschilo non sembra preoccuparsi di moltiplicare sconcertanti contraddizioni.
Le esuli dell’Africa vengono accolte, sì, ma dopo aver dimostrato di essere in realtà discendenti di Zeus, e di una donna greca; una politica di accoglienza che si basa sulla giustizia e gli ordini divini, ma che non disdegna il sostegno di un supporto razziale, politicamente meglio spendibile. Nel seguito della trilogia, di cui noi abbiamo solo riassunti, le donne sposavano i loro cugini, contro voglia. Li uccidevano tutti. Solo una salvava il marito, per amore.
È facile immaginare come queste trilogie continuassero. Talmente facile che si sono immaginate troppe soluzioni differenti, scavando tra le pieghe del mito, o ricombinando le simpatie della tragedia iniziale. Chi soffre diventa ingiusto, chi è colpevole diventa vittima. A volte. Così per Prometeo: come si concludeva la trilogia? Il tirannico Zeus scendeva a patti con il Titano ribelle? O la superbia del ribelle si piegava alla crudele giustiza divina? La contraddizione rimane, come spiega Oreste nelle Coefore: «Ares combatterà con Ares, Giustizia contro Giustizia». Oreste vince, e viene assolto grazie ad Apollo e Atena; ma gli dei vincitori si alleano con le Furie sconfitte, per mantenere l’ordine sociale ad Atene.
La perdita di tante tragedie ha reso questi testi così ricchi di contrasti ancora più aperti. Ha anche reso Eschilo più solo e più arcaico di quanto lo sia: comparendo come primo campione del genere tragico, sembra che le sue durezze e le complessità del suo stile siano qualcosa di non risolto, di ereditato da un passato che non conosciamo. Eschilo ci guarda severo dalla custodia di questo «Meridiano»: un vecchio senza capelli, con una lunga barba in spesse ciocche, e con la fronte accigliata. Disapprova noi, che pensiamo di capire.

Monica Centanni ha tradotto Eschilo: le sette tragedie integre, e i frammenti relativi alle tetralogie di quelle sette tragedie. Lo ha commentato. Chi cerca una rapida spiegazione di un’allusione mitica, o un riferimento a cosa gli studiosi precedenti hanno pensato di Eschilo, rimarrà deluso. Chi è interessato a seguire il filo delle metafore, dei temi e delle idee, troverà molto. Ad esempio il Prometeo è tradotto in una quarantina di pagine, e commentato in circa sessanta. Non si tratta di un commento continuo: piuttosto una serie di letture, intitolate con una incisività giornalistica: «fantasmi dal mare»; «teatro come città»; «il ricatto a Zeus»; «il bestiario simbolico»; «preservare il tremendo».
Le sezioni si concentrano su una parte di una scena, su un problema, un motivo, e comprendono al loro interno spiegazioni, glosse, note di regia. Non ci sono discussioni dei molti studi critici sul poeta; chi è specialista può intuire dalla bibliografia le fonti, le simpatie e le antipatie della curatrice.
Chiunque traduca Eschilo si chiede, come Cassandra nell’Agamennone, «Sbaglio? oppure come un bravo arciere ho colto nel segno?». E infatti il testo di Eschilo è impenetrabile come la mente di Zeus: «la sua intenzione non si lascia mai catturare», e l'interprete prova sgomento di fronte ai «sentieri della sua volontà, indecifrabili, inespressi».
La Centanni esprime e decifra. Tutto diventa chiaro; molto chiaro. A volte troppo. «Se a terra un uomo morendo il nero sangue della morte ha versato, chi mai potrà richiamarlo in vita con un incantesimo?». Così si domanda il coro dell'Agamennone. Ma il coro parla di richiamare il sangue: un’immagine inquietante, quella del sangue che si alza da terra. Sciogliendo la densità dell’immagine eschilea, qualcosa va perduto. Ma qualcosa va perduto in ogni traduzione, e bisogna applaudire questa per la coerenza delle scelte.
La Centanni discute le figure retoriche di Eschilo in un’utile appendice. Ne aggiunge spesso una nella sua traduzione: l’aposiopesi. Il sublime spesso lo rende così. Il sublime kantiano, la furia degli elementi alla fine del Prometeo «...ecco la terra trema, l’eco cupa del tuono ... è già un boato ... spirali, lampi abbaglianti di fuoco... un turbine solleva volute di polvere». E il sublime dell’orrido e del soprannaturale, la profezia di Cassandra: «questa casa... c’è un coro che non cessa mai: un concerto di voci, e non sono propizie. C’è già stato il simposio: loro... hanno bevuto e sono diventate ancora più prepotenti... un simposio di sangue umano...». Le figure di reticenza suggeriscono l’impossibilità di rendere il livello stilistico del testo antico con la nostra lingua.

La Centanni traduce il testo critico pubblicato da Martin West per la Teubner. Una splendida edizione del 1990. Splendida nei suoi successi e nelle sue cadute. Alla fine delle Supplici gli altri editori leggevano nonsense: «i frutti stillanti annuncia Afrodite kalora (?) impedendo thos (?) rimanere in eros». West, con un piccolo rimescolamento di lettere greche, ci dà: Afrodite «mette all’incanto frutti stillanti e acerbi, ammorbidendoli con il suo calore, fino a farli impazzire di eros» (la Centanni dimentica «impazzire di eros», purtroppo). Non so se questo è ciò che ha scritto Eschilo, ma è un’immagine degna di lui. Però nell’Agamennone ahimè leggiamo che il protagonista «non sa che la cagna odiosa con la sua lingua lo lecca e si avvicina festosa al suo orecchio, e poi ... ecco lo morde».
La Centanni, qui, sforzandosi di rendere accettabile l’impossibile testo di West, ammorbidisce le incongruenze e piega un po’ troppo la sintassi. Ma il testo di West, tradotto, non funziona: «non sa quali morsi sa dare la lingua (!) della cagna odiosa, dopo aver leccato, e dopo aver piegato il suo orecchio festoso». Un collage di membra animali da bestiario medievale.
La Centanni ritiene il testo di West «il miglior testo di Eschilo disponibile, semplicemente perché è l’ultimo in ordine di tempo»: giudizio forse vero, ma non per questo motivo. Altre ragioni per preferire quest'edizione, più valide e accorte, le elenca la Centanni nell’introduzione; a volte nelle note accenna a qualche sua perplessità di fronte ad alcune scelte. Più decisione, e maggiore indipendenza avrebbero eliminato alcuni passi problematici. West mette tra parentesi graffe le parole dei manoscritti che considera non di Eschilo, perché guastano il senso, o la sintassi o la metrica. Questo è un procedimento normale nelle edizioni critiche; ma la Centanni traduce anche queste parole, con un effetto leggermente surreale: «chi sta nella penombra (angoscia) attende di avere fortuna». Chi apre il volume una prima volta avrebbe bisogno, per questi dettagli, di un aiuto in più.
Ci vuole coraggio per tradurre e commentare tutto Eschilo. E questa edizione riesce meglio quanto più è indipendente, quanto più segue una sua linea: una informazione chiara sulle opere e sulla vita; utili, rapide introduzioni; un commento ai contenuti, e non all’erudizione; una traduzione moderna e scorrevole.

- Luigi Battezzato - pubblicato su Alias- il manifesto del  27 settembre 2003 -

lunedì 22 febbraio 2016

Finché i soldi fuoriescono dai bancomat!

climax

Il Climax del Capitalismo
- Breve sintesi della dinamica storica della crisi -
di Robert Kurz

Nella crisi, ci troviamo già dopo la crisi. E' questo il messaggio proveniente dal pensiero positivo a partire dal collasso di Lehman Brothers. Perché mai il più grande crollo finanziario mai avvenuto dopo gli anni 1930 avrebbe dovuto spingere ad una qualche sorta di riflessione sulla teoria della crisi? A volte si sale, a volte si scende. Tutto si trasforma, in un modo o nell'altro: ma soltanto così tutto rimane sempre uguale. Le crisi vanno e vengono, ma il capitalismo resta per sempre. Perciò non ci interessa la crisi in sé, ma soltanto quello che viene dopo, quando la crisi finisce, come tutte le noiose crisi precedenti. Chi andrà su e chi scenderà nella nuova era? Finalmente arriverà il miracolo economico africano, sarà il turno del Pacifico con la Cina come nuova potenza mondiale, o ci sarà la rinascita degli Stati Uniti dello spirito del piccolo imprenditore? Forse assisteremo ad una rinata lira che assurge a moneta di riserva? Anything goes. Ebbene, occorre svolgere un'analisi un po' coraggiosa delle tendenze, visto che i mercati finanziari, da parte loro, tornano a farsi arroganti e vomitano nuvole di cenere, come fa l'Etna nei suoi giorni migliori.

Nessuno vuole più sapere niente del contesto storico relativo allo sviluppo capitalista: felice è colui che dimentica. Non si deve nemmeno pensare che nel 1982, con la prima insolvenza da parte del Messico, aveva potuto avere inizio un ciclo di crisi qualitativamente nuovo, che dura fino ad oggi, e che avanza dalla periferia verso il centro, divorando tutto quello che incontra sul suo cammini. La struttura della percezione postmoderna esclude qualsiasi punto di vista che va oltre quella che è la tendenza del momento. Quel che Marx aveva definito, nella prefazione al primo volume del Capitale, come condizione per la conoscenza nella teoria sociale, ossia la "capacità di astrazione", gode oramai da tempo della cattiva fama di essenzialismo. La micro-economia che domina il discorso non riconosce più alcuna società, ma soltanto gli individui, come diceva Margaret Thatcher. Laddove tutto è economia, anche la relazione con il proprio Io, lo spazio ed il tempo sono ridotti all'orizzonte del click del mouse e dell'esperienza dello shopping. Non si parlare del Tutto negativo, di modo che esso possa rimanere nella più amabile invisibilità. Molti di quelli che mettono la testa nella sabbia eventualmente chiedono: quale fallimento della Lehman Brothers? E' successo prima o dopo la prima guerra mondiale? Chi si muove nello spazio mediatico, soltanto fra eventi disconnessi, senza coscienza né del passato né del futuro, riesce a rimuovere la crisi perfino dal pensiero, fino a quando i soldi continuano a fuoriuscire dal bancomat.

Ma a poco a poco la faccenda comincia a puzzare di bruciato, cosicché anche il valore di intrattenimento degli analizzatori di tendenze in quanto aruspici comincia a crollare, Nel nuovo secolo, sembra che la crisi sia venuta per rimanere. Ad una recessione, e ad un falso fine allarme, ne segue un'altra, mentre i guardiani del sistema bancario globale vorrebbero contare i loro scheletri nell'armadio e soprattutto buttar via la chiave. Nemmeno lo sciovinismo esportatore tedesco è del tutto sicuro che la Germania stia giocando davvero da sola, in un campionata del tutto diverso da quello del resto della zona Euro. Nessuno sa sotto quale tetto scoppierà l'incendio domani, o più tardi. Ma tutti sanno che il fuoco è in agguato ovunque e che gli incendi sono collegati fra loro in maniera misteriosa. La fondamentale fiducia postmoderna nel capitalismo si sfalda, anche se vergognarsene per ora non è diventato il tema centrale.

Perfino la sinistra foucaultiana comincia a rendersi conto di capire di economia politica quanto Karl Marx capiva di motociclismo. Perciò la crisi, nonostante tutto, deve portare il discorso su un terreno che finora è stato accusato di essere "economicista", e fondamentalmente evitato. Cosa sta succedendo allora con il capitalismo? Purtroppo, Marx non ci ha lasciato una comoda teoria della crisi sotto forma di libro tascabile. La pressione ad aderire alla perdita decostruttivista della realtà e alla riscoperta, a buon mercato, dell'economia volgare conduce, nella migliore delle ipotesi, a cercare versioni alquanto superficiali della tradizioni marxista.

Secondo tali versioni, di quando in quando il capitale entra in una fase di cosiddetta sovraccumulazione. Gran parte del capitale accumulato non riesce a continuare a valorizzarsi a sufficienza, dal momento che il plusvalore prodotto non può più essere trasformato nella sua forma denaro, ovvero "realizzato", a causa della mancanza di potere d'acquisto da parte della società. Gli investimenti in macchinari ed in forza lavoro sono stati troppo elevati per quella che è la capacità del mercato, c'è un eccesso di capacità di produzione, dappertutto ci sono merci invendibili, il capitale denaro fugge verso i mercati finanziari dove si formano così delle bolle. Il capitale eccedente, in tutte le sue componenti (capitale reale, forza lavoro, capitale merce, capitale denaro), deve ora essere svalorizzato dalla crisi. Dopo di che tutto può ricominciare dal principio.

Per la perniciosa ideologia postmoderna, questa versione è quella più gustosa. Dal momento che qui la crisi nasce come un evento astorico, in un eterno ritorno dello stesso. Di modo che, di tanto in tanto un aggiustamento fa bene al capitalismo, come una bella sudata. La crisi fa parte del suo meraviglioso modo di funzionamento, come sa da molto tempo la sinistra illuminata. Espansione e contrazione si alternano in una successione infinita, senza che si possa riconoscere un processo coerente e progressivo.

Ma in Marx si trovano anche riflessioni del tutto differenti. Secondo le quali, sul lungo termine, il problema non è l'insufficienza periodica della realizzazione di plusvalore sul mercato, bensì, assai più fondamentalmente, la mancanza stessa della sua produzione. Il capitale è l'autocontraddizione in processo in quanto, da una parte, ha come unico obiettivo l'accumulazione incessante di valore, ovvero "ricchezza astratta" (Marx), ma, dall'altro lato, la concorrenza obbliga, attraverso lo sviluppo delle forze produttive, a rendere superflua la forza lavoro, la quale è l'unica fonte di questo valore, e a sostituirla con dispositivi tecno-scientifici.

Tuttavia, lo sviluppo delle forze produttive non è l'eterno ritorno dello stesso, bensì un processo storico irreversibile. Come mostra Marx nei Grundrisse, questo porta ad una situazione in cui i prodotti sono di fatto beni utili, ma non possono più rappresentare nella merce una quantità sufficiente di energia lavorativa umana. Questo non è un aggiustamento, ma un "limite interno" (Marx) del capitale. Quest'aspetto della teoria di Marx era inaccettabile per il marxismo tradizionale, dal momento che ciò che ad esso importava era la "pianificazione del valore" e non la sua abolizione. Per una coscienza che ignora completamente la storia e non riesce a formulare un qualsivoglia concetto del valore, ma che va a sbirciare un evento dopo l'altro e gli piacerebbe convincersi che la coazione all'autovalorizzazione sia una libertà senza limiti, tano meno è possibile pensare ad un limite oggettivo per questa forma di esistenza.

Ora, il capitale non dipende semplicemente soltanto dal valore, ma anche dal plusvalore, prodotto dalla forza lavoro al di là dei suoi propri costi. Lo stesso sviluppo delle forze produttive che rende la forza lavoro sempre più superflua svaluta il costo della forza lavoro ancora utilizzata. Così, aumenta la quota parte di plus valore rispetto al tempo di lavoro totale speso. Ma la massa di plusvalore della società dipende non solo dalla sua quota parte per lavoratore, ma anche dal numero di lavoratori utilizzabili ad un determinato standard di produttività.

Marx ha formulato questo problema nel terzo volume del Capitale, come teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto. La parte di capitale reale nel capitale denaro aumenta continuamente, mentre continuamente diminuisce anche la forza lavoro mobilitabile per mezzo di esso. Questo può essere letto indirettamente nelle statistiche borghesi, nel fatto che storicamente i costi preliminari di un posto di lavoro sono aumentati in maniera inesorabile, in quanto per poter impiegare un lavoratore dev'essere utilizzato un aggregato sempre maggiore di macchinari, di infrastrutture, ecc.. Dal momento che solo la forza lavoro produce nuovo valore, il profitto medio del capitale denaro anticipato deve abbassarsi su scala sociale, sebbene aumenti la quota parte di plusvalore nella produzione di valore per ciascun lavoratore.

Il risultato sociale dipende dalla relazione di grandezza di due tendenze opposte. Insieme alla teoria di una svalorizzazione storica fondamentale, che si legge nei Grundrisse, l'argomentazione qui svolta contraddice talmente la comprensione astorica del capitale visto come eterno alternarsi fra espansione e contrazione che la nuovissima Nuova Lettura di Marx, per precauzione, ha dichiarato che la caduta tendenziale del saggio di profitto sia solo un semplice prodotto dell'immaginazione di Marx.

Di fatto, la caduta del saggio di profitto può essere compensata fino ad un certo punto dall'aumento della massa di profitto, se il modo di produzione capitalista come tale si espande e viene quindi applicato produttivamente più capitale denaro. Esternamente, quest'espansione si è esaurita con la "valorizzazione" di tutto lo spazio terrestre. Ci sono diversi concetti di espansione interna qualitativa, e sono tutti riferiti all'economista borghese  Joseph A. Schumpeter. Questi descrive lo sviluppo  capitalista come creazione periodica di nuovi prodotti e rami produttivi. Di conseguenza, l'espansione viene supportata da alcuni cicli di prodotti, fino a quando questi entrano in stagnazione e imprenditori innovativi vi pongono fine per mezzo di nuovi prodotti per nuove necessità. Nella fase della "distruzione creativa" avviene la contrazione. Il nuovo ciclo di prodotti diventa sostenibile solo gradualmente, e può cominciare l'espansione rinnovata su una base modificata.

La teoria di Schumpeter ha il piccolo difetto estetico di non relazionarsi in alcun modo con il contesto dello sviluppo delle forze produttive e con la produzione sostanziale di plusvalore. Così come in tutta l'economia politica, si considera la superficie del mercato come l'unico oggetto valido della scienza economica. E' in questo modo che la creazione di nuovi rami di produzione e di nuove necessità emerge automaticamente come base della ripresa capitalista, senza che nemmeno venga posta la questione delle condizioni concrete della valorizzazione attraverso la sostanza lavoro, in uno standard modificato di produttività. E' proprio per questo che la sinistra postmodernizzata raccoglie con così tanto gusto l'idea di Schumpeter ed i relativi teoremi, per completare Marx per mezzo di un po' di belletto anti-sostanzialista. Nuovi rami di produzione, nuovo successo della valorizzazione, poi la massa di energia lavorativa spesa possibilmente non svolgerà alcun ruolo troppo importante, se in quattro e quattr'otto si potrà fare download di soldi così come lo si può fare di tutto il resto. Si potrà poi scegliere se l'area di attività per il prossimo boom verrà creata adesso attraverso produzione di mostri di ingegneria genetica, o di reti di amici su Internet, o di biocombustili piuttosto che attraverso produzione di pane per il mondo o attraverso il salvataggio degli orsi polari.

Nella corrente sotterranea delle argomentazioni di Marx, le cose si presentano in maniera diversa. Quale che sia il contenuto della produzione, al capitale interessa solamente la quantità di forza lavoro creatrice di valore che può essere utilizzata. Questa deve crescere in termini assoluti, se si vuole che il fine in sé dell'accumulazione venga raggiunto. Ora, la creazione di nuovi rami di produzione, o l'ingresso nella produzione di massa di prodotti che prima erano di lusso, può compensare la razionalizzazione tecnologico-scientifica della forza lavoro solo per un periodo di tempo storicamente limitato. Il capitalismo raggiunge il suo culmine quando l'espansione interna viene raggiunta e superata per mezzo dello sviluppo delle forze produttive. Mentre la caduta relativa del tasso di profitto si trasforma in una caduta assoluta della massa sociale di plusvalore e quindi di profitto, mandando a sbattere così la valorizzazione del valore presunta come eterna contro la sua svalorizzazione storica.

Si può produrre qualche prova di come lo sviluppo capitalista sia entrato in questo stato a partire dagli anni 1980, con la terza rivoluzione industriale. Il culminare della contraddizione interna viene modificato e filtrato per mezzo dell'espansione storica del sistema creditizio, che riflette in maniera speculare la stagnazione ed il declino di massa del lavoro produttore di valore. Già il permanente aumento relativo del capitale reale aveva progressivamente spinto i costi morti anticipati fino ad un'altezza tale che questi costi potevano essere finanziati dai profitti correnti solamente per una parte sempre più ridotta. Il credito si è trasformato da elemento propulsore coadiuvante la produzione di plusvalore nel suo sostituto. L'accumulazione è alimentata da allora sempre meno dalla sostanza del valore reale e sempre più dall'anticipazione di lavoro immaginario futuro. Investimenti e posti di lavoro senza alcuna base reale, vengono finanziati per mezzo di un debito globale senza precedenti e delle bolle finanziarie che ne derivano. Questa è stata anche la condizione della possibilità sociale per un il trionfo delle ideologie virtualiste e decostruzioniste. Tuttavia, nonostante le apparenze temporanee, non si accumula capitale, come si è visto nell'industria delle costruzioni di molti paesi, dopo lo scoppio delle bolle immobiliari.

Alla superficie del mercato mondiale, il consumo sempre più anticipato di profitti e salari futuri ha assunto la forma assurda di una divisione di funzioni fra paesi in surplus e paesi in deficit. Gli uni comprano dagli altri, con denaro proveniente da entrate future, merci la cui produzione è stata finanziata attraverso il ricorso ad entrate future. Si apre un buco nero, che si allarga, fra la creazione passata di valore reale e una creazione futura, anticipata in maniera fittizia. Questo costrutto di una situazione globale di deficit avviene in due principali aeree: una maggiore, il circuito del deficit del Pacifico, fra Cina/Asia Orientale e Stati Uniti, r un altro, minore, in Europa, fra la Germania ed il resto dell'Unione Europea, o meglio della Zona Euro. L'occupazione così mobilitata, ad esempio in Cina, è altrettanto impraticabile di quanto lo sia stata l'attività di costruzione a seguito del boom immobiliare. In un caso, l'Asia ha accumulato riserve di valuta in dollari ad un ordine di grandezza astronomica, nell'altro caso, il sistema bancario internazionale aveva finanziato deficit altrettanto elevati dentro la zona monetaria comune. Questi famigerati "squilibri" sono incompatibili perfino con i manuali di Economia Politica che, in ogni caso, nessuno ha mai preso sul serio.

Dopo un susseguirsi ravvicinato di crisi finanziarie, che negli ultimi trent'anni hanno colpito paesi e settori economici isolati, il crollo finanziario del 2008 ha assunto, per la prima volta, una dimensione globale. La rottura delle catene di credito ha messo all'ordine del giorno il grande scoppio della svalorizzazione. Gli Stati, già di per sé altamente indebitati, hanno fermato la valanga per mezzo di iniezioni magiche di credito addizionale ed emissione monetaria. Si è immaginato, quanto meno, che non ci si trovava alla fine di una tempesta purificatrice, ma che erano le luci del capitale mondiale che si trovavano sul punto di spegnersi. Così, con l'aiuto delle garanzie degli Stati, i crediti in sofferenza vennero interrati come fossero scorie nucleari, le capacità industriali eccedenti vennero mantenute per mezzo di enormi sovvenzioni, e la congiuntura economica venne alimentata artificialmente con programmi statali. In particolare, il capitalismo di Stato cinese forzò il suo sistema bancario, basato su un patrimonio di debito, a finanziare investimenti rovinosi, sotto forma di città fantasma, aeroporti fantasma, fabbriche fantasma, ecc., gonfiando così la madre di tutte le bolle finanziarie.

Con tutte queste misure avventuriste non è stato risolto assolutamente niente, il processo di svalorizzazione è stato solo rimandato e si dislocato sugli Stati il problema del mercato finanziario. Era prevedibile che la boccata d'aria dei programmi statali si sarebbe esaurita rapidamente. E' cominciato nella Zona Euro, in quanto anello più debole della catena, ma anche tutte le altre finanze statali oscillano e corrono il rischio di innescare reazioni a catena. Così, la montagna di dollari cinesi si dissolverà in fumo, se gli Stati Uniti finiranno per ammettere che non hanno un soldo. I debiti pubblici ingestibili si assommano ai crediti inesigibili dei mercati finanziari: si avvicina la fusione nucleare del sistema creditizio. Il futuro del capitalismo, oramai consumato, è diventato il presente. La Grecia mostra in maniera esemplare come le persone debbano smettere di vivere per anni per poter continuare a soddisfare i criteri capitalistici.

Nel momento in cui l'emissione monetaria non si limita più a rinviare la svalorizzazione dei titoli di debito, ma va ad alimentare direttamente la congiuntura economica per mezzo di denaro senza sostanza attraverso la simulazione del credito, lo stesso mezzo del denaro in sé si svalorizza. Anche l'inflazione ha un percorso storico preliminare. Se era quasi sconosciuta dall'industrializzazione alla prima guerra mondiale, le economie di guerra potevano essere finanziate solo attraverso l'emissione monetaria, irregolare in termini capitalistici. Ma dopo la guerra mondiale, il fantasma dell'inflazione divenne il compagno costante del capitalismo, dal momento che i sistema di credito espanso divenne costitutivo anche per la produzione ordinaria di merci. Oggi, i pacchetti di salvataggio hanno già superato le dimensioni dell'economia di guerra e l'inondazione diretta di denaro da parte delle banche centrali si rivela essere l'ultima risorsa. Perfino una riforma monetaria radicale, che annullasse tutti i patrimoni e i crediti, non porterebbe ad un punto zero e ad un nuovo inizio. In quanto l'aggregato di conoscenza della società, che non permette più una produzione sufficiente di plusvalore, è ineludibile. La svalorizzazione continuerà a ripetersi, solo che lo farà ad intervalli più brevi.

Avvenga quel che viene. Nonostante tutto la coscienza da esperienza mediatica non vorrebbe perder tempo con fastidiose realtà. La fine del mondo, annunciata dal calendario Maya per il 2012, è più un motivo di svago. L'importante è che la carta di credito non venga annullata. Anche per tutta la sinistra postmoderna, riconvertita alla socialdemocrazia, è più facile immaginare un capitalismo senza mondo che un mondo senza capitalismo. L'autodecostruzione finale viene definita come un assunto eccitante. Non succede tutti i giorni che uno possa permettersi un simile lusso.

- Robert Kurz - Pubblicato sulla rivista Konkret del 02/2012 -

fonte: EXIT!

domenica 21 febbraio 2016

La poesia della storia

matri2

"Rassegna enciclopedica di miti e di simboli di ogni parte del mondo, questo testo classico dell'antropologia e della storia delle religioni, piú citato che effettivamente letto, è basato sulla scoperta di uno stadio dell'evoluzione della civiltà, durante il quale il potere sarebbe stato in mano alle donne anziché agli uomini. Nel matriarcato e nell'amore della madre per i figli (riscontrato in innumerevoli figure di Grandi Madri, prima fra tutte Demetra) Bachofen esalta una sorta di «poesia della storia», e una fase di grande elevazione morale della vita e del costume.
Secondo Bachofen, l'umanità si sarebbe sviluppata da una fase primordiale di promiscuità sessuale e da uno stadio matriarcale, improntato a stabilità, sicurezza e serenità, a una fase contrassegnata dalla vittoria del diritto maschile, o «paterno», che avrebbe trovato i suoi paladini in Apollo e in Augusto. Alimentato dalla costante tensione dialettica fra le società di tipo ginecocratico e i nuclei sociali che affermano il principio paterno, lo studio di Bachofen riesamina il contrasto fra le due concezioni (materiale l'una, spirituale l'altra; notturna la prima, solare la seconda) da un'angolatura inconsueta rispetto alle pubblicazioni scientifiche dell'epoca, tanto da scatenare l'ostracismo degli accademici. Con una erudizione sbalorditiva, Bachofen si muove ben al di là dell'orizzonte europeistico allora in voga, per indagare la situazione sociale della donna non solo nel mondo greco-romano classico ma anche in aree meno frequentate, come l'India e l'Asia centrale, l'Egitto, la Libia, le terre degli Incas...
Apprezzata da Marx e Engels (che vi ravvedevano la transitorietà della vita borghese), finita al centro di un vivace dibattito antropologico, amata da poeti come Rilke e Hofmannsthal o da narratori come Broch, Hesse e Thomas Mann, difesa da pensatori come Benjamin, Adorno e Fromm, sovente ripresa dalla letteratura femminista, l'opera di Bachofen resta, pur con tutte le sue ambivalenze, un seducente filo di Arianna teso attraverso i regni del maschile e del femminile. Anche se alcuni suoi dati possono risultare oggi superati o inesatti, essa continua a restare l'esempio di un incontro straordinario con una figura mitica, la mater, con cui ogni generazione si incontra e si misura, come rileva Furio Jesi, iniziatore di questa traduzione, nel saggio che accompagna il volume."
( dal risvolto di copertina)

Johann Jakob Bachofen
Il Matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia del mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici
Einaudi 2016
Piccola Biblioteca Einaudi. Classici
pp. LXX - 1230
€ 60,00
ISBN 9788806229375
in 2 volumi

matri1

Johann Jakob Bachofen Il padre del matriarcato
- di Emanuele Trevi -

Quando pubblicò Il matriarcato, nel 1861, Johann Jakob Bachofen, svizzero di Basilea, aveva appena superato i quarantacinque anni: età più considerevole ai suoi tempi che oggi, ma nemmeno a quei tempi veneranda. Era il rampollo di una delle più insigni (e ricche) famiglie patrizie della sua città, e fin da giovane si era consacrato a studi severissimi, nelle migliori università tedesche ed europee, diventando precocemente uno dei massimi esperti del diritto romano. Aveva a sua volta insegnato, e ricoperto importanti cariche di magistrato, come volevano le tradizioni del suo ceto. Ma era libero di vivere seguendo esclusivamente le sue inclinazioni, e finì per dedicarsi esclusivamente alla sua fame di sapere, e alla passione per i viaggi.
Spirito laborioso e metodico, la sua erudizione in fatto di storia antica, archeologia, mitologia divenne immensa. I paesaggi della campagna romana o del Peloponneso non erano diversivi turistici, ma occasioni per affinare e precisare le sue conoscenze storiche. È difficile fare illazioni sull’uomo capaci di perforare la severa dignità delle apparenze. Che si sia sposato solo a cinquant’anni, dopo la morte della madre amatissima, è un fatto che non può essere interpretato con i maliziosi criteri odierni.
Anche a guardare i suoi ritratti, che sembrano l’esatto contrario dell’immagine dell’artista romantico, sarebbe impossibile sospettare in Bachofen uno spirito talmente geniale e visionario da rasentare la follia. Di sicuro, durante la lunga fatica che doveva portarlo alla pubblicazione del Matriarcato , il suo entusiasmo era nutrito dalla consapevolezza di una scoperta capace di rivoluzionare tutto ciò che si sapeva sulla storia del mondo greco-romano, e più in generale delle antiche civiltà mediterranee. Non era il solo uomo del suo tempo ad avere accumulato un sapere quasi inconcepibile per un singolo individuo. Ma un erudito, di per sé, è solo il proprietario di un’immensa massa di macerie, informe e tarlata di contraddizioni. Pochi sono in grado di compiere quel salto mortale che solo può condurre dal sapere al comprendere. E ancora minore è il numero di coloro a cui tocca in sorte il pensare qualcosa che nessuno ha mai pensato prima.
Nonostante la compostezza dello stile, alieno da inutili effusioni, queste emozioni trapelano nitidamente nelle prime righe del Matriarcato, ora riedito da Einaudi, che sono la promessa di un viaggio mai tentato dallo spirito umano. «La presente opera affronta un fenomeno storico di cui pochi tennero conto e di cui nessuno valutò a fondo la portata. Le scienze che studiano l’antichità hanno continuato a ignorare fino ad oggi il diritto materno: nuova è tale espressione, e sconosciuta è la condizione familiare che essa designa».
Ecco l’oggetto misterioso, o meglio la chiave d’accesso al mistero che è la nostra storia, quando cerchiamo di decifrarne le origini. Noi diamo al capolavoro di Bachofen un titolo, Il matriarcato , che rende omaggio alla sua idea più memorabile e affascinante. Ma il titolo originale è Das Mutterrecht , ovvero il diritto materno. Il matriarcato o la ginecocrazia, ovvero «il potere delle donne», non è un’oscura favola, ma una fase capitale della storia umana. Un’epoca in cui la madre prevale sul padre nel sentimento dell’esistenza, così come è testimoniato dai miti, dai racconti degli storici, dalle leggi.
Per ricostruire quest’epoca dimenticata, Bachofen passa al vaglio, con sovrumana pazienza, le migliaia di testimonianze che ha raccolto (a un certo punto, appare anche una poesia del «conte Leopardi»!). Erodoto racconta che gli abitanti della Licia ereditavano il nome della madre e si trasmettevano i beni in linea femminile. Non è la notizia bizzarra di uno storico curioso di costumi esotici, ma la tessera di un immenso puzzle le cui tessere sono sparse su tutte le rive del Mediterraneo. Il potere delle donne è un istituto giuridico e nello stesso tempo un sistema simbolico, un’interpretazione totale della vita, una religione. La mano sinistra prevale sulla destra, la notte sul giorno, la luna sul sole. Dei fratelli, è l’ultimo nato il più importante. Tra gli esseri viventi prevale un senso di pace e fratellanza, conseguenza della consapevolezza di essere generati dalla stessa terra e di dover presto ritornare, con la morte, nel suo grembo.
Bachofen immaginò quest’epoca della storia umana con tanta intensità che ne immagino addirittura il paesaggio fisico, nel quale la vegetazione palustre, simbolo della spontaneità della vita, soverchiava i campi arati. Il fatto è che Bachofen, e proprio in questo consiste il fascino indelebile delle sue pagine, non distingue un mito da una legge, la testimonianza approvata di uno storico dalla decorazione di un vaso o di una tomba. Non ci sono documenti antichi più o meno «veri» di altri. Esistono solo modi diversi di tradurre la stessa esperienza umana. Anche le parole di un eroe di Omero sono un documento storico.
In una pagina che meriterebbe di figurare in tutte le antologie della prosa, Bachofen interpreta alla luce del diritto materno un bellissimo e celebre episodio dell’ Iliade . Prima di affrontarlo in duello, il greco Diomede chiede al suo avversario, Glauco, notizie sulla sua stirpe. Diomede è un greco, figlio di una cultura patriarcale, fondata sulla discendenza dai padri e sulla sottomissione della donna. Per lui è naturale chiedere cavallerescamente al nemico chi sia suo padre. Ma Glauco è un Licio. E gli risponde da Licio. In pratica, dichiara a Diomede che la sua domanda è insensata, dal suo punto di vista. Non esistono i padri e i figli, dice Glauco a Diomede, perché gli uomini sono come le foglie. Nascono tutti dallo stesso tronco e quando viene il loro momento cadono tutti a terra nello stesso modo. Nessuno discende da nessuno.
Bachofen considera questi versi di Omero, sempre ammirati per la loro bellezza, il riflesso di una condizione di esistenza, vale a dire di qualcosa che ha avuto luogo nella realtà. Un’organizzazione sociale e religiosa fondata sul predominio della madre e destinata a essere soppiantata, non senza conflitti molto aspri, dal principio maschile e paterno.
Distacchiamoci adesso dal grandioso scenario dipinto da Bachofen per considerarne il totale insuccesso tra i contemporanei. Da un certo punto di vista, il poderoso libro di Bachofen sembrava fatto apposta per non essere letto da nessuno. Alla solita meditazione sulla genialità e la solitudine bisogna aggiungere il ricordo ben più concreto di un tipografo folle, che ebbe l’assurda idea di mescolare un testo già lungo e impegnativo con le migliaia di note che dovevano corredarlo di tutte le indicazioni bibliografiche ed erudite. Ne venne fuori quello che il nostro più importante studioso di Bachofen, Furio Jesi, ha definito «un orrido groviglio» stampato su due colonne. Poteva capitare che una frase, cominciata a una data pagina, finisse soltanto a metà di quella successiva.
Che cosa ne avrà pensato l’autore? In qualche modo, quella catastrofe aveva qualcosa di simile alla sua mente poderosa e labirintica. Fatto sta che quando, dopo la sua morte, la vedova e il figlio provvidero a una ristampa, ripeterono la stessa assurdità, accompagnata questa volta da un numero esorbitante di errori di stampa. Forse non erano del mestiere, ma si sarebbero comportati così se Bachofen si fosse molto lamentato della prima edizione?
Lui era morto a settantadue anni, nel 1887, nel più completo isolamento intellettuale. Non cambiò mai idea, a quanto pare, su quella «poesia della storia», come la definiva, che era l’epoca del potere femminile. Sarebbe stato assurdo obiettargli che il matriarcato, come l’immane guerra tra i sessi che ne aveva dichiarato la fine e instaurato il potere del maschio, erano cose accadute solo nella sfera del mito e non sul piano della realtà. Perché tutta l’impresa di Bachofen si basa su un atto di fede fondamentale: il mito è realtà, traccia di una realtà vissuta non meno di un utensile o delle rovine di un’abitazione o di una norma giuridica. «Abbiamo di fronte a noi non finzioni, ma destini vissuti», affermava con una certezza che si addice più al poeta romantico che al filologo.
Ma la sorte del Matriarcato è tutt’altro che un argomento malinconico. Semmai, è una lezione istruttiva sulla potenza delle grandi visioni, che, come certi organismi naturali, resistono e si rafforzano nelle condizioni avverse, sanno aspettare il loro momento. A volte bastano dieci lettori per traghettare un capolavoro misconosciuto sulle acque oscure della dimenticanza. Oggi Il matriarcato ci appare pienamente comprensibile a un livello della verità che non è quello dell’archeologia o della storia del diritto, ma quello delle opere d’arte.
Più che a Friedrich Nietzsche, che non ne nutriva una grandissima stima, Bachofen sembra accostabile all’altro grande profeta inascoltato del suo tempo, Herman Melville. Potremmo affermare che Il matriarcato sta alla storia antica come Moby Dick sta alla caccia alla balena. In entrambi i casi, si tratta di una lettura indimenticabile, di quelle capaci di trasformare la vita. In ogni forma di espressione umana, nel romanzo come negli studi storici, esistono regole fondate sul buon senso e su una certa dose di conformismo. Ma se in determinati momenti non spuntassero fuori spiriti eretici e infiammati come Melville e Bachofen, tutto il resto si ridurrebbe al ben misero bottino delle carriere accademiche e dei premi letterari.

- Emanuele Trevi - pubblicato sul Corriere La Lettura il 31.1.16 -

venerdì 19 febbraio 2016

Uber Alles!

uber

«Uberizzazione»: cosa si nasconde dietro la parola che fa furore
- di Rachida El Azzouzi, Mathilde Goanec, Dan Israel e Martine Orange -

Cos'hanno in comune Uber, Airbnb o Blablcar? Queste tre piattaforme sono i fiori all'occhiello della "economia della condivisione", la nuova torta alla crema di un mondo economico che si vive come "uberizzato" a gran velocità. Ma qual è la realtà dietro le parole?

Da poco meno di un anno ha la sua pagina su Wikipedia ma non ha ancora fatto il suo ingresso nel Larousse e nel Robert. Dovrebbe, considerato che in pochi mesi si è imposto un po' dappertutto, e finendo per diventare fuorviante, abusato. Dopo che Uber, la start-up californiana specialista in VTC, ha fatto diventare pazzi i tassisti di tutto il mondo, il neologismo "uberizzazione" fa furore. E' LA parola dell'anno 2015 (e di quelli successivi) che fa tremare imprese e lavoratori.
"Uberizzazione" del settore immobiliare, delle farmacie, delle banche, degli idraulici, dell'istruzione, del diritto, del marketing, del sesso...
Provate a scrivere il termine su qualsiasi motore di ricerca e scoprirete qual è la sua portata e qual è l'estensione dei sudori freddi che provoca in tutti i settori di attività dell'economia tradizionale. La parola rimanda anche all'attualità, dallo sciopero dei tassisti che accusano Uber di dissanguarli, alle guerre interne ai governi, per sapere se i lavoratori di questo settore emergente avranno diritto ad uno statuto a parte, oppure ad una protezione sociale specifica.

Il primo ad aver creato questo verbo che fa scorrere tanto inchiostro in Francia? Maurice Lévy, il padrone di Publicis, nel corso di un'intervista rilasciata al Financial Times nel dicembre del 2014: "Tutto il mondo comincia a temere di essere uberizzato. E' questa l'idea che viene a chi si sveglia e scopre che le sue attività storiche sono scomparse... I clienti non sono mai stati così confusi o preoccupati per quel che riguarda il loro marchio ed il loro modello economico", ha dichiararo il direttore generale della multinazionale pubblicitaria. Nel timore di essere inghiottiti da "uno tsunami digitale", Maurice Lévy esorta a "reagire" e dà una prima definizione della uberizzazione, la paura del futuro digitale da parte dei giganti della vecchia economia obsoleta. E collega la uberizzazione ad un antro concetto inglese inventato da un uomo d'affari (il capo della TBWA), "disruption": quanto un'impresa dominante si vede superata da una start-up innovatrice che tesse la sua tela nel digitale, sconvolgendo la prassi consolidata e praticando dei prezzi più bassi.

Uber, l'applicazione che con i suoi autisti individuali non salariati ha cortocircuitato un settore ultra-regolamentato, dal punto di vista finanziario è altrettanto potente della General Motors (valutata più di 50miliardi di euro), ha dato il suo nome ad un concetto che è diventato un guazzabuglio volto a definire tutte queste nuove piattaforme online, che mescolano condivisioni e transazioni fra individui. Da Airbnb, l'albergatore senza alberghi, a Deezer e Spotify per la musica, Drivy per l'affitto di autovetture, oppure KissKissBankBank per il sostegno finanziario, non c'è un settore che venga risparmiato da questa economia tanto sconcertante quanto controversa.

"L'uberizzazione della società evoca l'accelerazione del mondo digitale, e il ruolo sempre più importante che esso occupa nel dominio dell'impresa. Una cifra ci permette di comprendere questa improvvisa emulazione: nel 2008, un titolo borsistico cambiava di mano ogni due mesi, mentre oggi un tale cambiamento avviene in media ogni 25 secondi", viene sottolineato sul sito Internet "L'Osservatorio della Uberizzazione" (http://www.uberisation.org/).
Il fenomeno ha il suo osservatorio in Francia. Nato lo scorso ottobre sotto la spinta di due imprese, definisce questo concetto come un "rapido cambiamento dei rapporti di forza grazie al digitale" e prepara delle riunioni in primavere che coinvolgano sindacati, politici, padroni.
Il suo obiettivo è quello di "formulare delle proposte che rispondano al meglio alle sfide del domani in materia sociale, fiscale, giuridica ed economica". Questo nuovo modello infatti fa esplodere tutte le regole, a cominciare dai codici sociali, i principi del tradizionale lavoro salariato, la definizione di lavoro tradizionalmente accettata, e annuncia nuove forme di micro-lavoro o di lavoro semi-amatoriale. E dietro questo neologismo, oggi utilizzato in tutte le salse, ci sono due estremi. Da un lato, un'economia finanziaria predatrice incarnata da Uber o Airbnb, e dall'altro la bella utopia dell'economia collaborativa chiamata condivisione, spinta dai "commoners", coloro che sostengono i "beni comuni", e cercano di sfuggire alla via capitalista.

Un mondo "uberizzato", tentativo di cartografia
In sostanza, di chi, di quali imprese, si parla quando si evoce la "uberizzazione"? Che cosa hanno in comune tutti quegli attori che si richiamano più o meno apertamente all'economia della condivisione? Cosa c'è in comune fra Uber, Drivy, Zilok o una piattaforma di donazione di oggetti?
Per vederci più chiaramente, Mediapart (https://www.mediapart.fr/) propone un tentativo di classificazione. Secondo due assi: il servizio è a pagamento o è gratuito? E quello che lo propone sta facendo il suo lavoro, oppure lo propone durante il suo tempo libero? Il risultato permette di comprendere le somiglianze e le differenze fra gli attori di questo mondo "uberizzato".

Drivy, o anche Ouicar, Koolicar... Piattaforma di affitto di automobili fra individui. Risponde ad una delle domande dell'economia collaborativa: evitare la moltiplicazione dei beni di consumo più inquinanti. Permette al proprietario di recuperare una parte dei suoi costi affittando la sua autovettura. Il settore viaggia col vento in poppa, Drivy ha fatturato 8milioni di euro nel 2015 ed ha acquisito Buzzcar, il suo principale concorrente. La piattaforma prende il 30% su ogni transazione.

Zilok, o anche Allovoisins...
Si presenta come "il luogo del mercato dell'affitto". Permette di affittare online degli oggetti, da individuo ad individuo o da professionisti ad individuo. La piattaforma incassa una commissione per ogni transazione, ma anche al momento in cui l'oggetto viene proposto online, pur impegnandosi a mantenere bassi i prezzi. Nel suo discorso si mescola la "voglia di lusso" allo "slancio ecologico". I creatori di Zilok hanno creato anche Ouicar, dedicato alle automobili.

LeBoncoin, o anche e-loue.com ...
Acquisto e vendita online. Un po' d'economia collaborativa gli conferisce l'aspetto di un gigantesco mercato delle pulci fra individui, un po' "uberizzato", dal momento che attualmente vi si può vendere la propria forza lavoro pubblicando delle offerte di impiego, o perfino diventare "venditore individuale". Per l'utente è tutto gratis, il sito si sostiene per mezzo della pubblicità e dei servizi a pagamento che vengono fatturai ai professionisti. L'investimento iniziale, realizzato da Ouest France e da un gruppo editoriale norvegese, si differenzia anche dalla modalità start-up rivendicata dalla maggior parte delle piattaforme.

Airbnb, ou anche Homelidays, Clévacances…
Sito di affitto di case vacanza fra individui. Valutato più di 25miliardi di dollari, pratica l'ottimizzazione fiscale, che cosa rimane dello spirito collaborativo? Si è allontanato dal sistema iniziale (accogliere un viaggiatore a casa propria in cambio di una piccola retribuzione), fino ad arrivare a competere con tutta la sua forza sul settore di mercato per mezzo di una differenziazione sempre più sfumata fra  amatoriale e professionale. I preesistenti siti alternativi (Couchsurfing) si sono coalizzati per contrastare il monopolio di Airbnb (Guesttoguest ou Nightswapping), al fine di "reinventare lo scambio della casa".

BlaBlaCar, ou anche Allostop, La roueverte…
Piattaforma di car-pooling, leader mondiale. Precedentemente comunitaria (covoiturage.fr), BlaBlacar è diventata a pagamento nel 2011, con un compendo che può cambiare seconfo il tipo di prenotazione. Se il modello è quello dell'economia collaborativa, il sito è cresciuto talmente da attirare le critiche: aumento delle tariffe, presenza sulla rete di falsi carpoolers che sono veri autisti, posizione monopolistica, opacità azionaria... Da qui il ritorno in forze di siti di car-pooling gratuiti a commissione fissa.

Donnons.org, o anche Recupe.net…
Sito di dono e di recupero oggetti online. Completamente gratuito, il sito vive di pubblicità in virtù del traffico che genera. Per ottenere l'oggetto desiderato, basta andarlo a cercare. 100% collaborativo, impegnato nel riciclaggio, attira anche le persone in difficoltà finanziarie. La proprietà del sito è di un'associazione e dei volontari si occupano della sua animazione.

Jeveuxaider.com, ma anche Tousbenevoles.org…
Raccoglitore gigante ed organizzato di tutte le associazioni francesi che hanno bisogno di sostegno. Il sito permette soprattutto a quelli che vogliono agire come sostenitori di unirsi ai 14milioni di volontari francesi per informarsi e trovare ciò che corrisponde ai loro bisogni, alla loro disponibilità e alla loro localizzazione.

Uber, ma anche Allocab, Chauffeur-privé, Snpacar…
Applicazioni per la richiesta di autovetture con autista, su prenotazione o immediatamente. Lanciata nel 2010 negli Stati Uniti e sbarcata in Francia alla fine del 2011, Uber è il successo più emblematico dell'economia cosiddetta collaborativa. Presente in 60 paesi e in dieci città in Francia, ha sconvolto dappertutto la legislazione, imponendosi sul mercato dei taxi o proponendo con UberPop a dei singoli individui di trasformarsi in autisti (Servizio proibito in Francia).

Etsy, piattaforma di acquisto di prodotti di design.
Il sito è una delle rare piattaforme totalmente internazionali. Mette in relazione acquirenti e venditori (in Francia, auto-imprenditori, artigiani, lavoratori autonomi) di prodotti fatti a mano, nuovi o "vintage", spesso pezzi unici. Ogni annuncio paga 0,20 centesimi di dollari al sito e il 3,5% al momento della transazione. Il sito vuole "reinventare il commercio per creare un mondo più giusto e più sostenibile". Molti auto-imprenditori iscritti ne traggono solo un reddito di complemento. Da due anni, il sito autorizza i venditori ad impiegare del personale e ad utilizzare dei produttori esterni.

Jemepropose.com, ma anche Frizbiz, JobiJoba…
Si presenta come LeBon Coin del "jobbing", e vuole mettere in relazione colore che cercano un aiuto e quelli che propongono i loro servizi, per lo più a pagamento. Trasporti, coaching, lezioni individuali, pulizia, viene proposto tutto. Vanta 250.000 membri iscritti in tutta la Francia. Una settore "collaborativo" permette di scambiare competenze o servizi, senza scambio di denaro.

Le parole dell'economia collaborativa
Ecco alcune parole per zoomare sulle sfide di questo nuovo mondo in formazione.

CONDIVISIONE
E' a questo vocabolo che si richiamano i piccoli ed i grandi dell'economia collaborativa. La condivisione, virtù cardinale di un'economia da "pari a pari", orizzontale, che ritiene che il consumatore non possegga più bensì "utilizzi" un bene, e lo mette in comune. Casa, auto, know-how o lavatrice, tutto è ormai a portata di mano del vicino virtuale, nella misura in cui si accetta di giocare al gioco della fiducia reciproca.
Tranne per il fatto che il collaborativo ha le spalle larghe, e spesso aggiunge mele e carote. "Questa definizione non ci dice niente sui fini e sulle forme giuridiche, patrimoniali e di governance che può assumere", ha ricordato recentemente (http://rue89.nouvelobs.com/2016/01/03/leconomie-collaborative-accroit-les-inegalites-patrimoniales-262256) a L'OBS Hugue Sibille, presidente del Labo dell'economia sociale e solidale. Il caso Uber è sintomatico. Se si mettono in relazione un cliente ed un autista, dove sta la condivisione? Gli altri giganti, Airbnb, Blablacar o Etsy, hanno sempre le parole solidarietà e comunità sulle labbra ma realizzano milioni in commissioni, per mezzo di una creazione di valore assai limitata (la gestione e la comunicazione del sito). Il modello capitalista di queste bandiere del collaborativo si basa, in maniera del tutto tradizionale, sulla concentrazione nelle mani di pochi dei frutti della messa in comune. Come caricatura, si potrebbe dire che la condivisione dei risultati non riguarda la moltitudine che si trova in basso.
Inoltre, riprendendo spesso delle vecchie ricette, le nuove tecnologie ed internet hanno permesso a queste imprese di moltiplicare i punti di contatto, di accrescere la loro portata e la loro infiltrazione. In funzione dell'utilizzo (perché funzioni una piattaforma di intermediazione, il suo numero di membri è determinante), vi si sono installati dei potenti monopoli, assai lontani dallo spirito di condivisione che rivendicano. La battaglia attorno ai dati parla di questa dualità. I grandi siti collaborativi maneggiano miliardi di dati (i nostri indirizzi, le nostre abitudini, i nostri modelli di consumo, le nostre mail...) che oramai valgono oro e sbarrano l'accesso alla concorrenza.
Come risposta, i militanti della prima ora dell'economia collaborativa soffrono tutte le pene del mondo per cercare di recuperare il concetto (vedi la guerra che oppone i "puri", utenti della prima ora di BlaBlaCar, a coiveturage.fr oppure la battaglia fra Airbnb ed il couchsurfing) e per far tornare l'economia di condivisione nel campo dell'economia sociale e solidale. La loro battaglia si muove in parallelo a quella del rinnovo delle cooperative, dei movimenti ambientalisti, del cohousing o della decrescita. E paradossalmente, come sottolinea Matthieu Lietaert, autore di "Homo cooperans 2.0", "Questa lotta ideologica sembra aver creato un relazione simbiotica fra gli attori. Malgrado le loro differenze, beneficiano tutti del generale entusiasmo intorno all'economia collaborativa".

LAVORO
L'uberizzazione non ha inventato la frammentazione del lavoro. I contratti a tempo determinato, l'interim, il lavoro indipendente, l'auto-imprenditorialità, o addirittura il lavoro a cottimo, esistevano molto prima che Uber sbarcasse sul mercato. Ma le piattaforme di intermediazione in linea utilizzano, in misura diversa, tutte le possibilità per derogare al lavoro salariato autorizzato dal diritto francese. Rimettono in discussione il rapporto di subordinazione, che viene sostituito da uno strumento che mette in una relazione orizzontale al servizio di una comunità di lavoratori e di consumatori. Il lavoro indipendente, per molto tempo limitato alle professioni liberali qualificate (architetti, medici, avvocati, ecc.), trova qui una forma low-cost, assai più potente nella misura in cui non mette barriere all'ingresso.
Queste piattaforme, in pieno sviluppo, non hanno tutte grandi possibilità di sopravvivere. Ma hanno offerto un'insperata promozione all'ibridazione, spingendo, spesso con il pretesto della modernità, ad un nuovo "status di attività", l'avvento del "lavoro post-salariato", di un uomo libero, a partire dallo stato deleterio del mercato del lavoro e della disoccupazione di massa. Le piattaforme offrirebbero, grazie all'effetto moltiplicatore di Internet, attività e clientela a tutti gli esclusi dal posto di lavoro. E quando il governo parla di assicurare dei percorsi professionali, per mezzo della creazione di un conto personale di attività, pensa agli innumerevoli lavoratori a tempo determinato, ma anche ai 2,3 milioni di lavoratori indipendenti, ai milioni di auto-imprenditori, e a tutti coloro che combinano queste diverse attività. Oggi, un indipendente su dieci ed un auto-imprenditore su tre hanno un lavoro salariato (secondo l'INSEE).
Più prosaicamente, l'uberizzazione assomiglia, strettamente sul piano del lavoro, ad una società di "micro-franchigia", giuridicamente indipendenti ma subordinati a degli operatori economici spesso monopolisti. I suoi attori sono dei cottimisti, che vendono i loro servizi su Internet, degli scippatori, campioni di accumuli, consenzienti o meno, certamente degli imprenditori, ma sotto la pressione effettiva della piattaforma alla quale pagano una commissione.
Di qui, tutto può cambiare: la qualifica necessaria per entrare su un mercato, la valutazione delle conoscenze professionali, la modalità di remunerazione, le regole che disciplinano il tempo di lavoro, le modalità di contribuzione alla previdenza sociale (vedi sotto).
Infine, nella grande pentola comune dell'economia collaborativa, dove inizia l'occupazione? Siamo in tanti a "completare" i nostri salari per mezzo dei siti collaborativi, navigando su Airbnb, su BlaBlaCar oppure su Le Bon coin. Generando un attività economica, l'utente di queste piattaforme si attiva per realizzare un profitto, va a cercare un pacchetto, gestisce dei messaggi, pulisce il suo appartamento, o si dispone a rendere un servizio a dei "pari". Questo servizio, a pagamento, verrà valutato, ed in qualche modo, monetizzato. Lavoro?

Previdenza
Il modello della uberizzazione è innanzitutto segnato dall'esplosione interna di tutto il modello di previdenza sociale: le piattaforme che mettono in relazione non sono legate a niente, né partecipano ad alcun momento di finanziamento della previdenza sociale. Esse impiegano assai poco personale, alcuni sviluppatori, qualche responsabile della comunicazione: Uber in Francia impiega 68 persone, secondo le ultime cifre pubblicate nel settembre 2015. La maggior parte dei servizi proposti viene realizzata da lavoratori affiliati, che però non vengono considerati come salariati, ma come dei fornitori di servizi, dei subappaltatori. Perciò la previdenza sociale è a loro carico - assicurazione sanitaria, mutua, pensione, pagamento dei contributi, assicurazioni sui veicoli ed altro.
Al momento della loro affiliazione a Uber, la maggior parte dei candidati assumono lo stato di auto-imprenditore (ora vengono chiamati micro-imprenditori). Questo status, creato nel 2009 e modificato nel 2015, ha lo scopo di favorire la sistemazione di persone che esercitano un'attività artigianale o commerciale, facendoli beneficiare di dichiarazioni semplificate. Inoltre, anche le persone che affittano il loro appartamento attraverso piattaforme come Airbnb possono beneficiare di questo status, nel limite di un volume di affari annuale di 32.900 euro.
Le persone che optano per questo status vengono assoggettate a dei costi sociali forfettari, calcolati sui redditi dichiarati. Questi sono pari al 13,3% per gli artigiani ed i commercianti e al 22,9% per i proprietari di servizi e per i locatori di appartamenti. Essendo il sistema dichiarativo, praticamente nessun auto-imprenditore dichiara la totalità dei suoi redditi, al fine di diminuire la quantità delle sue imposte e dei suoi costi sociali.
Nel 2005, è stato creato un fondo sociale unico, il sistema sociale degli indipendenti (RSI), per raggruppare le diverse casse degli artigiani, commercianti e professionisti. Il fine è quello di attuare dei risparmi. Dieci anni dopo, il ministro dell'economia, Emmanuel Macron, ha definito un "errore" la creazione di tale cassa. In un rapporto pubblicato nel 2014, la Corte dei Conti ha parlato, da parte sua, di "catastrofe". Contribuzione insufficiente, squilibrio del sistema sanitario, minacce sul sistema degli affitti, ritardi nei versamenti, complessità di gestione: il sistema fa acqua da tutte le parti. In maniera abbastanza prevedibile, la cassa del sistema generale rischia di essere chiamata a contribuire, in nome della solidarietà. Tanto più che il deficit continua a crescere. Questo sistema di evasione mina le basi morali e finanziarie di tutto il sistema di previdenza sociale. Nel 1978, i contributi sociali che finanziano i regimi obbligatori di base della previdenza sociale ed i regimi complementari rappresentano l'83,5% dei ricavi totali del sistema. Nel 2013, hanno costituito solamente poco meno del 60%, ci rammenta la Corte dei Conti in un rapporto del settembre 2015. Ben lungi dal fluidificare il mercato del lavoro, come pensano alcuni economisti, questo modello rischia di irrigidirlo ancora di più. Mentre si è già venuta a creare una profonda cesura fra i salariati che beneficiano di un contratto a tempo indeterminato, ed i salariati che usufruiscono del tempo determinato, di stage, di lavoretti saltuari, la comparsa di questa nuova categoria di lavoratori che di imprenditori hanno solamente il nome, esclusi da ogni sistema di protezione e che si assumono tutti i rischi, presi nella trappola della precarietà e della povertà, configura delle nuove rotture nel mercato del lavoro. Il governo pensa di poter rimediare instaurando un regime universale, dove i diritti saranno individuali e non più legati al settore, all'impresa, o al lavoro svolto.

Imposte
Pagare o non pagare le proprie tasse e le proprie imposte? La questione fa parte della posta in gioco nascosta dell'esplosione dell'economia collaborativa. Sia che questo riguardi i singoli individui o le grandi imprese che si sviluppano grazie alle piattaforme digitali che esse creano. Per molto tempo, i primi hanno beneficiato dell'indeterminatezza che circonda questa nuova economia e della scarsa conoscenza in materia da parte delle autorità. Naturalmente, i "jobbers" e gli altri "slashers" che offrono le loro capacità in cambio di una remunerazione su dei siti dedicati sono stati sempre tenuti a dichiarare i propri redditi. Come i proprietari di un appartamento che lo affittano tramite Airbnb. Ma la tentazione di dimenticare alcune centinaia o migliaia di euro al momento di riempire la propria dichiarazione dei redditi, era molto forte, e senza grandi rischi. Era molto difficile, per lo più, che l'amministrazione fiscale se ne potesse accorgere. Ma i parlamentari hanno messo fine a questa indeterminatezza, a metà dicembre. Era arrivato il momento di chiudere "un buco nella racchetta fiscale", secondo l'espressione di Christian Eckert, segretario di Stato al bilancio. A partire dal 1° gennaio, le piattaforme come Airbnb, Drivy ed altre sono tenute ad informare i loro membri circa le somme che devono dichiarare alle imposte. I senatori avevano votato il principio di una franchigia di 5mila euro, ma il governo e l'Assemblea lo hanno soppresso. Solo gli individui proprietari di automobili che propongono il carsharing e ricevono denaro a titolo di partecipazione ai loro costi, rimangono esenti da tasse. Diversamente, gli auto-imprenditori, i quali formano la più parte dei lavoratori dell'economia collaborativa, sono esentati dal pagamento dell'IVA fino ad 82.200 euro di entrate da commercio, oppure fino a 32.900 euro per quelle da servizi e da libere professioni (ma il governo intende alzare questo secondo limite). Ormai, la legge quindi mira esplicitamente ai consumatori ed ai produttori dell'economia collaborativa. La cosa funziona diversamente per alcune piattaforme che su questo hanno realizzato i loro profitti. Due delle più emblematiche, Uber e Airbnb, in Francia dichiarano solo una modesta frazione della loro attività reale nel paese e quindi non possono essere tassate al livello dei benefici che ne possono trarre. Le due imprese utilizzano modalità di ottimizzazione fiscale assai classiche, che sulla carta sono sempre legali.
Uber invia i suoi profitti reali alle Bermuda per mezzo di una catena di società attraverso i Paesi Bassi, le Antille e il Delaware, lo Stato che fa da paradiso fiscale per gli Stati Uniti. Per il 2014, hanno quindi dichiarato in Francia un volume d'affari di 6 milioni di euro, mentre secondo le stime hanno superato i 15 milioni. Quanto ad Airbnb, dopo che è passata dall'Irlanda per evitare la maggior parte delle imposte che avrebbe dovuto pagare in Europa, l'impresa ha messo su un circuito ancora più sofisticato che passa per Jersey, l'isola della Manica specializzata nel segreto fiscale in tutte le sue forme.

Stato
Se c'è un riferimento rispetto al quale gli attori di ogni tipo di economia collaborativa si tengono accuratamente lontano, questo è quello dell'onnipotente Stato sociale. Nei discorsi degli adepti del carsharing, della donazione di oggetti o del lavoro a cottimo, il potere pubblico ed i suoi poteri di regolazione hanno ben poco posto.
E, come dimostrato dalle ricorrenti manifestazioni dei taxi allarmati per la concorrenza di Uver ed altre app presenti sul loro mercato, si può dire che lo Stato stesso ha affrontato lentamente e maldestramente tali questioni. Il governo Fillon nel 2008 aveva fatto dire a Jacques Attali che era necessario togliere le barriere per funzionare come taxi, senza ottenere risultati. Il governo socialista ha dovuto varare d'urgenza un accordo arraffazzonato, una legge Thévenoud le cui numerose disposizioni sono state invalidate dalla Corte costituzionale ed i cui principi chiave oggi semplicemente non vengono applicati dagli autisti VTC. Anche nei confronti di Airbnb, il potere pubblico da tempo lascia fare. Parigi, che al momento è la città dove il sito ha il più alto numero di annunci di affitto di appartamenti (circa 50.000), ci ha messo degli anni prima di cercare di limitare gli abusi da parte di alcuni multi-proprietari, che avevano trovato una nuova attività nell'affittare degli appartamenti a destra e a manca, in barba a tutte le norme che regolano la professione di albergatore. Certo, la città ha ottenuto che a partire dal mese di ottobre la potente piattaforma raccolga ed essa stessa paghi direttamente la tassa di soggiorno che tutti i proprietari di appartamenti in affitto sono obbligati a versare, ma della quale l'immensa maggioranza finora ignorava l'esistenza. In tre mesi, sono stati pagati non meno di 5milioni di euro. Ma in questo bisogna vedere soprattutto un gesto di buona volontà da parte dell'azienda americana, che Parigi difficilmente avrebbe potuto costringere a far pagare. E' sul terreno della legislazione sociale che finalmente l'esecutivo ha deciso di concentrare la sua risposta. Ma non si sa ancora quale sarà l'ampiezza. Il ministro del lavoro, Myriam El Khomri, nel mese di marzo ha preparato una legge che dovrebbe, a suo dire, "inquadrare giuridicamente" lo status del lavoratori di questa nuova economia. Farà in modo, ha assicurato, che i siti di collaborazione partecipino alla "previdenza" degli indipendenti che fanno lavorare, come ha recentemente suggerito il Consiglio sul digitale. "Quando esiste un legame di dipendenza economica dei lavoratori indipendenti, è legittimo chiedersi se la piattaforma non abbia la responsabilità sociale di partecipare alla loro protezione, ad esempio finanziando la formazione", ha detto in occasione della presentazione del rapporto. Ma c'è un problema, Bercy si oppone a tale idea, negando che le piattaforme abbiano qualcosa da sborsare. Il ministero dell'economia si rifiuta anche di creare uno statuto su misura per questi lavoratori di nuovo tipo. E questo in nome di un principio semplice, difeso a spada tratta da Emmanuel Macron: regolare, significa eliminare la flessibilità e vincolare le capacità di adattamento dell'economia collaborativa. Detto in altri termini, per il ministro, mettendo il naso in questo nuovo settore, lo Stato impedirebbe a queste imprese di svilupparsi, di assumere e di contribuire ad abbassare la disoccupazione. E non importa il modo in cui i loro dipendenti vengono trattati.

Affitto

In un libro pubblicato nel 2013, "La nuova società a costo marginale zero", l'economista americano Jeremy Rifkin ha teorizzato l'economia della condivisione e la fine del capitalismo. Ha spiegato che dappertutto milioni di persone, avendo sia lo statuto di produttori che quello di consumatori, collaborano gratuitamente sui social network, elaborano nuove tecnologie informatiche, nuovi software, nuove forme di intrattenimento, nuovi strumenti didattici, nuovi media, nuove energie verdi, nuovi prodotti. Vanno a sostituire poco a poco con un'economia di condivisione, di scambio, il modello capitalista finanziario.Ma contrariamente a quanto sostengono i promotori, a cominciare dai responsabili delle imprese coinvolte, la "uberizzazione" non costituisce affatto un nuovo modello economico, un'economia condivisa. Nella migliore delle ipotesi, si tratta di un nuovo modello di consumo che permette, grazie ad Internet e alle tecnologie della comunicazione, di mettere più velocemente in comunicazione l'offerta e la domanda. Nel peggiore dei casi, nei fatti non è altro che la messa in opera del vecchio sistema del lavoro in affitto, presentato con abiti nuovi. Dal momento che questo fenomeno non si trova all'origine di nuovi servizi, di nuove creazioni, non è portatore di una visione a lungo termine. Si accontenta di sfruttare l'esistente sotto una forma diversa. Proporre dei servizi di taxi, trasportare dei passeggeri lungo un tragitto facendoli pagare, affittare un appartamento per le vacanze, sono tutti dei servizi che esistono da lunga data, anche se passano per altri canali. Per partecipare a questo nuovo modello con la speranza di trarne dei sussidi, bisogna che si possegga già qualche bene: un'automobile per fare da taxi o per il car-pooling, un appartamento o una casa da proporre sul sito Airbnb, un set per fonduta da affittare o da vendere. In qualche modo, lo spirito dei tempi della finanza si è impossessato di tutti i partecipanti: bisogna soprattutto non lasciar dormire il capitale, di farlo rendere al massimo con tutti i mezzi. Il non detto del sistema, che si suppone innovativo, si basa sull'accettazione della rinuncia a qualsiasi miglioramento, a qualsiasi prosperità futura. In un certo senso, si adatta perfettamente a questi tempi di deflazione economica mondiale. Sottintende l'accettazione di una stagnazione economica e di una regressione sociale.

Economia collaborativa o economia predatoria?
Le numerose start-up di questa nuova economia si vantano di giocare un importante ruolo sociale in un contesto di penuria di posti di lavoro, di record della disoccupazione. I loro oppositori ribattono che si tratta solamente di briciole, di un lavoro sempre più precarizzato. E' questa l'economia della condivisione? L'avvento di una nuova società dove saremo tutti dei lavoratori autonomi su richiesta? E qual è il ruolo delle piattaforme così tanto di moda in questa trasformazione sociale?

- di Rachida El Azzouzi, Mathilde Goanec, Dan Israel e Martine Orange - pubblicato il 26.1.2016 su Mediapart

fonte: Réseau des Démocrates