venerdì 11 dicembre 2015

Le sedie di Rubin e il silenzio degli oranghi


La sostanza del capitale (4 di 10)- Il lavoro astratto come metafisica reale sociale ed il limite interno assoluto della valorizzazione - di Robert Kurz
Prima parte: La qualità storico-sociale negativa dell'astrazione "lavoro".
*** L'Assoluto [Absolutheit] e la relatività nella Storia. Per la critica della riduzione fenomenologica della teoria sociale *** Il concetto filosofico di sostanza e la metafisica reale capitalista *** Il concetto negativo di sostanza del lavoro astratto nella critica dell'economia politica di Marx *** Il concetto positivo di lavoro astratto nell'ontologia del lavoro marxista *** Per la critica del concetto di lavoro in Moishe Postone *** Il lavoro astratto ed il valore come a priori sociale *** Che cosa è astratto e che cosa è reale nel lavoro astratto *** Il tempo storico concreto del capitalismo ***
*** Il concetto positivo di lavoro astratto nell'ontologia del lavoro marxista ***Marx si è avvicinato ad una critica del concetto di lavoro inteso come concetto di sostanza del capitale, ma non ha potuto portare a termine questa critica, giacché aveva ancora un piede sul terreno dell'ontologia moderna del lavoro. Una volta che il marxismo (tradizionale o del movimento operaio) si è fissato completamente sul momento ontologico della rappresentazione di Marx, volendo criticare il capitalismo dal punto di vista trans-storico del "lavoro", il concetto di lavoro astratto ha dovuto necessariamente restare in ombra, e insieme ad esso, però, in ombra ci è finita anche la sostanza del capitale. Si può trovare una tematizzazione di questo concetto - che vada al di là di una mera definizione positivista - soltanto in pochissimi teorici, come per esempio, negli anni venti, in Issak Rubin, che nei suoi "Studi sulla teoria del valore di Marx", pubblicato nel 1924, doveva constatare: "A fronte del grande rilievo dato da Marx alla teoria del lavoro astratto, c'è da chiedersi per quale motivo la letteratura marxista si sia interessata talmente poco a questa teoria".
Lo stesso Rubin, tuttavia, non va in nessun modo oltre l'aporia di Marx circa il concetto di lavoro. Egli positivizza il lavoro astratto in maniera duplice, ossia, da un lato come progresso storico nella genesi di una generalità sociale: "solo sulla base di una produzione di merci, caratterizzata da un notevole sviluppo dello scambio, attraverso il re-orientamento di massa degli individui da un'attività ad un'altra, e per mezzo dell'indifferenza degli individui nei confronti della forma concreta del lavoro, è possibile sviluppare il carattere omogeneo di tutte le attività di lavoro come forma del lavoro umano in generale... Non sarebbe affatto esagerato dire che forse il concetto stesso di Uomo, in generale, e di lavoro umano, in generale, hanno assunto importanza a partire proprio dalla produzione di merci. Era proprio questo che Marx aveva in mente, nel sottolineare che il carattere umano generale del lavoro si esprime nel lavoro astratto" (Rubin, ivi). Rubin mette qui in evidenza il ruolo dell'astrazione reale (che in lui ancora non compare come tale) in uno "sviluppo" connotato positivamente e, seppure di passaggio (alla stessa maniera di Marx), fa ugualmente riferimento alla "indifferenza degli individui riguardo alla forma concreta del lavoro"; tuttavia, non lo fa con il medesimo orientamento, radicalmente critico, di Marx.
Dall'altro lato, stabilisce sempre una differenza, per colmare in qualche modo l'aporia di Marx: il lavoro astratto della produzione di merci, che in Rubin appariva ancora come capitalista, dovrà sparire insieme al capitalismo, dovendo comunque rimanere ancora un momento, in cui tuttavia sarà dotato di un altro carattere: "Sebbene il lavoro astratto sia una caratteristica specifica della produzione di merci, un lavoro socialmente equiparato lo si trova, per esempio, in una società socialista... Tutto il lavoro astratto è lavoro sociale e socialmente equiparato, me non tutto il lavoro socialmente equiparato deve essere considerato lavoro astratto" (Rubin, ivi).
Rubin postula quindi una continuità trans-storica del lavoro in quanto astrazione all'orizzonte illuminista del progresso, in cui il lavoro astratto capitalista sarà soltanto un caso speciale di astrazione del lavoro, nel senso di un lavoro generale ed astratto in quanto "socialmente equiparato". In realtà, però, tutto questo non è altro che una parafrasi del lavoro astratto nel sistema produttore di merci, come del resto traspare con chiarezza dalla definizione di "lavoro socialista": "Immaginiamo una comunità socialista qualsiasi, fra i cui partecipanti esista una divisione del lavoro. Un determinato organismo sociale equipara i lavori dei diversi individui, gli uni con gli altri, dal momento che senza una tale equiparazione non si può realizzare un piano sociale più o meno complessivo. In una simile comunità, tuttavia, il processo di equiparazione del lavoro è secondario, in quanto integra il processo di socializzazione e di distrubizione del lavoro. Il lavoro è innanzitutto lavoro socializzato e distribuito. In questo quadro possiamo anche includere - come una caratteristica derivata ed addizionale - la qualità del lavoro in quanto socialmente equiparato. La caratteristica fondamentale del lavoro consiste nell'essere sociale e distribuito; la sua qualità di essere socialmente equiparato è accessoria" (Rubin, ivi).
A suo avviso, l'unica caratteristica che distingue il lavoro "equiparato" socialista dal lavoro astratto capitalista, è il carattere presunto come solo "secondario" ed "accessorio" dell'astrazione, cosa che tuttavia viene immediatamente smentita dal fatto che, secondo Rubin, senza una tale equiparazione non sarebbe possibile alcun "piano sociale". Un piano, tuttavia, si definisce per essere elaborato in anticipo, sennò non sarebbe tale, e quindi, secondo la logica dello stesso Rubin, anche il "processo di equiparazione" non può essere meramente secondario ed accessorio, in quanto costituisce il presupposto di tutto. Per di più, quello che presumibilmente precede il processo di equiparazione, supposto come soltanto accessorio, è ancora una volta il "lavoro", ossia, l'astrazione (reale). Quello che qui è apparentemente così difficile da pensare, è il problema di soppiantare la stessa astrazione reale distruttiva, ossia, l'intuizione per cui la "equiparazione" significa da sempre l'assoggettamento delle varie aree della riproduzione e della vita alle loro proprie logiche - logiche che hanno tempi e perfino esigenze assai diversi - ad una logica di sussunzione unitaria; tuttavia, è proprio in questo che consiste la logica unitaria e totalitaria della sostanza del lavoro astratto.
Non importa nemmeno che un piano, nel senso di una distribuzione delle risorse fra le diverse aeree, possa proprio evitare di basarsi su questa equiparazione, dovuta soltanto all'astrazione del valore e non ad una qualche esigenza oggettiva. Questo emerge in maniera particolarmente grossolana quando Rubin non si astiene dal parlare, in relazione al socialismo, di una "massa omogenea di lavoro sociale". Se il fatto per cui è lo stesso individuo quello che - diciamo - installa un cavo elettrico, pianta un albero, scrive una lettera o si prende cura dei bambini, questo non significa, in alcun modo, che lo stesso individuo tratta queste sue "alienazioni" così tanto diverse come una "massa omogenea" di dispendio sostanziale di energia inserito nella medesima logica temporale di un continuum astratto, per non parlare di tutta una società che deve comportarsi in questo modo trovandosi con la forma merce alle spalle.
Che una società si sia organizzata come il collettivo autocosciente di un'associazione libera di individui significa precisamente che essa non è soggetta ad un principio feticista di "equiparazione", e significa anche che non può soffrire di "mancanza di tempo", cosa che è una caratteristica specifica del fine in sé della valorizzazione del valore. Non avere tempo disponibile in quantità infinite non significa in alcun modo che "scarseggi" per principio, e che per "ottimizzare il carico di lavoro" bisogna che ci sia un processo di equiparazione fra massa "omogenee" di dispendio di energia umana. Questa concezione, di per sé completamente folle, può nascere solamente sotto il dettame del lavoro astratto nell'ambito della socializzazione del lavoro.
Lo stesso Rubin, nel tentativo di descrivere l'inquietante equiparazione, chiarisce che si tratta di altro dalla necessità materiale ed oggettiva o sociale dell'utilizzo delle risorse: "Supponiamo che gli organismi della comunità socialista equiparino gli uni con gli altri i diversi lavori dei diversi individui. Così per esempio, una semplice giornata di lavoro viene stabilita come un'unità, una giornata di lavoro qualificato, come tre unità; un giorno di lavoro dell'operaio qualificato A viene equiparato a due giorni dl lavoro dell'operaio non qualificato B, ecc.. Sulla base di questi principi generali (!), le istituzioni sociali di contabilità (!) sanno che l'operaio A ha speso venti, e l'operaio B, dieci unità di lavoro (!) nel processo sociale di produzione" (Rubin, ivi).
Il problema pertanto non consiste, in realtà, in una distribuzione pianificata delle risorse nei confronti di aree di riproduzione e di vita qualitativamente diverse, ma nella contabilizzazione delle prestazioni di lavoro al momento della distribuzione di beni, servizi, ecc.. E' il problema del calcolo di una "prestazione di lavoro" [Leistung] astratta, che anche dopo una presunta soppiantazione del lavoro astratto specificamente capitalista dovrà ancora costringere ad una simile "omogeneizzazione". Con questo, tuttavia, viene perpetuato proprio un momento del lavoro astratto nella logica della valorizzazione capitalista, così come del resto avviene similmente anche in Proudhon ed in tutte le utopie della contabilizzazione del "lavoro".
Anche nello stesso Marx si trova ancora un elemento di questa non-logica, quando parla della famigerate "due fasi" del socialismo/comunismo, dove fin da subito deve rimanere in vigore il principio della prestazione astratta di lavoro e, insieme ad esso, un momento della logica della valorizzazione: "Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo le sue prestazioni lavorative"; soltanto nel lontano comunismo, quando del resto Marx suppone significativamente che il "lavoro" sia diventato la "prima necessità vitale", sarà allora valido: "Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni". Tuttavia non vi è alcuna necessità che lo giustifichi. Se neppure lo sviluppo delle forze produttive del XIX secolo, sotto la determinazione della forma capitalista, appare sufficiente a Marx per poter gettare a mare il principio borghese della prestazione di lavoro, questo lo si deve principalmente alla sua fedeltà verso gli elementi dell'ideologia protestante del lavoro e della prestazione di lavoro. E ciò senza badare al fatto che questo concetto astratto della prestazione di lavoro sia specificamente moderno, ossia, per la precisione, non è legato alla situazione premoderna di uno sviluppo relativamente modesto delle forze produttive, ma paradossalmente nasce proprio solo insieme al cieco sviluppo capitalista delle forze produttive in quanto sviluppo di forze distruttive.
L'aporia nel concetto di lavoro di Marx, è stata quindi risolta dal marxismo in forma unilaterale, nell'ontologia positiva del lavoro; ed è stato proprio per questo che il concetto critico di lavoro astratto doveva rimanere spiegato male e banalizzato per mezzo di una definizione positivista. Rubin, sdoppiando questo concetto nella definizione di una categoria puramente capitalista (che in lui rimane ancora identica alla produzione sociale delle merci in generale), da un lato, e nella definizione di una "equiparazione sociale" generale ed astratta, valida per tutte le società, dall'altro lato, preannunciava una linea di argomentazione per la riflessione teorica che si è prolungata fino ad oggi. Cosa che, però, non risolveva per niente l'aporia, ma la portava solamente ad un livello di riflessione più elevato - nello stalinismo, tuttavia, questa riflessione non esisteva più; nel 1931, Rubin. come molti altri intellettuali scomodi, venne condannato all'internamento in un campo di detenzione, e da quel momento venne considerato scomparso.
Il destino di Rubin rimanda al fatto per cui il "socialismo", nel proseguio della rivoluzione dell'Ottobre russo, si vide costretto a reprimere qualsiasi riflessione teorica che si avvicinasse all'aporia di Marx, in quanto c'era bisogno che su questo terreno non vi fosse alcuna differenziazione. Gli è che le definizioni teoriche come quella di Rubin, che erano ancora alle prese col problema di delimitare il concetto di lavoro astratto - che per Marx è chiaramente legato alla relazione del capitale - rispetto ad una "equiparazione dei lavori", in una società post-capitalista, non più pensata sotto l'egida della forma del valore, dovevano apparire pericolose e sovversive, nella misura in cui, nella pratica, in questo "socialismo" si mostrava apertamente il carattere della sintesi sociale basata sul lavoro astratto, sul valore, sulla merce e sulla forma denaro.
Questo si riferisce al carattere di tutta un'epoca che, con la dovuta distanza temporale, può essere decifrata come una storia della "modernizzazione di recupero [nachholender Modernieserung]". I movimenti storici nella periferia del capitalismo non potevano rompere il guscio delle forme moderne del feticcio, ma anzi avevano ancora come fine l'implementazione sociale delle categorie reali del moderno sistema produttore di merci. Questo vale anche, seppure in un altro modo, per il movimento operaio occidentale, il quale si è sforzato principalmente di rivendicare il proprio "riconoscimento" in quanto soggetto giuridico e di cittadinanza, proprio in quelle forme sociali il cui presupposto era il lavoro astratto, sulla base di questo sistema che aveva già preso forma nei paesi industriali europei. Questo contesto storico permette di spiegare perché si sia perso il contenuto critico del concetto di lavoro di Marx e perché tanto il movimento operaio occidentale quanto il socialismo di Stato dell'Est, così come i successivi movimenti di liberazione nazionale del Sud, siano stati ideologicamente del tutto prigionieri dell'ontologia borghese del lavoro.
Nella teoria marxista tradizionale, e non solo in questa, i fatti connotati da Marx in maniera chiaramente negativa, sebbene rappresentati in modo aporetico, sono stati quindi del tutto oscurati, nella misura in cui il concetto di lavoro astratto, o non veniva in alcun modo inteso come un'astrazione reale negativa - ma semmai lo si intendeva come una mera astrazione concettuale - oppure, quando veniva inteso come un'astrazione reale (e comunque solo da parte della corrente più riflessiva del marxismo occidentale), questo non avveniva come un a priori, ma soltanto come astrazione reale a posteriori, ossia, riferita puramente e semplicemente ai prodotti del lavoro in quanto merce sul mercato; e insieme a questo, al modo in cui il lavoro reale, apparentemente sempre concreto e "utile", viene percepito in una forma astratta soltanto a posteriori, nelle merci finite in quanto oggetti del mercato; in un certo qual modo, come se fosse una qualità socialmente costituita del prodotto. In maniera positiva nell'ideologia del socialismo di Stato dell'Est ed in maniera negativa nella corrente del marxismo occidentale: in entrambi i casi, tuttavia, la definizione di lavoro astratto si limitava ugualmente ad un'astrazione che avrebbe avuto luogo soltanto nel processo di scambio sul mercato. E così diceva la letteratura marxista.
In altre parole: il marxismo sottolinea soltanto il suo "fondarsi sulla produzione" nel senso positivo di un "onore del lavoro" ontologico, in quanto la sua critica del capitalismo in realtà dispone solamente di un "fondarsi sulla circolazione", rimanendo proprio per questo limitato. Gli è che, intendere il processo di astrazione reale come qualcosa che viene effettuato solo a posteriori sul prodotto del lavoro, in quanto merce sul mercato, significa soltanto che si circoscrive la critica dell'astrazione reale - e insieme ad essa il sistema produttore di merci -, qualora venisse in qualche modo esercitata, alla sfera della circolazione. Il problema della negatività capitalista viene così ridotto soltanto alla sfera della circolazione ed al modo di distribuzione ad essa legato, dal momento che viene percepita solamente in questa prospettiva miope, come per primo ebbe a constatare Moishe Postone: "Secondo tale interpretazione, è il modo di distribuzione che si troverebbe al centro della critica di Marx. Una simile affermazione appare paradossale, giacché il marxismo viene generalmente considerato come una teoria della produzione. Passiamo poi ad osservare brevemente il ruolo svolto dalla produzione nell'interpretazione tradizionale. Se le forze produttive (le quali, secondo Marx, entrano in contraddizione con le relazioni di produzione capitalista) vengono identificate col modo di produzione industriale, questo implica che sono intese come se fossero un processo puramente tecnico, cioè, indipendente dal capitalismo. Il capitalismo viene trattato come un insieme di fattori esterni che agiscono sul processo di produzione: per esempio, la proprietà privata ed altre condizioni, che fanno parte dell'economia di mercato ma che sono esterne alla valorizzazione del capitale. In connessione con questo, il dominio sociale nel capitalismo viene inteso essenzialmente come dominio di classe, che rimane altrettanto esterno al processo di produzione" ( Moishe Postone, "Time, Labor, and Social Domination").
Il punto centrale di una simile miopia sta proprio nella riduzione del lavoro astratto alla sfera della circolazione, in quanto solo così la distribuzione mediata dalla circolazione viene fatta diventare l'oggetto centrale della critica, dal momento che, come dimostra Postone, solo la produzione è centrale nella misura in cui costituisce il punto di vista ( e non l'oggetto ) della critica. Da questo risulta - come prospettiva ugualmente miope di una supposta sostituzione [Überwindung] del capitalismo - o il paradigma di un "equo scambio", o il paradigma di una "produzione pianificata di merci" da parte dello Stato (oppure una combinazione delle due cose), in quanto la produzione come tale, nella sua forma di merce, viene positivizzata ontologicamente, in maniera esplicita o implicita.
Mentre il marxismo tradizionale equivoca la propria critica come riferita alla "produzione", perché in realtà essa non si riferisce alla produzione nel senso di un'attività della forma sociale e dell'astrazione reale, ma si riferisce unicamente ad un dominio, malinteso soggettivamente e sociologicamente, "sopra" la produzione, in quanto determinazione giuridica della proprietà; ossia, secondo una determinata terminologia di Marx, solo alla "sovrastruttura giuridica" della produzione, che come tale continua a rispecchiare la sua forma di attività e la sua sostanza sociale; quindi, anche solo nelle condizioni della circolazione, visto che solo in questa i proprietari di merci si confrontano come monadi giuridiche astrattamente libere e come "guardiani delle loro merci" (Marx).
Se qui si vede un momento della critica della forma del feticcio, questo viene però circoscritto alla sola sfera della circolazione. La forma del feticcio del valore, che comprende l'intero processo di riproduzione sociale (includendo sia il "lavoro"/produzione che la forma giuridica, la forma Stato, la forma della politica), viene così ridotta alla forma merce nel senso di mera oggettività della circolazione. Paradossalmente, è proprio per questo che il "lavoro astratto" non appare nemmeno come momento determinante della produzione (questa, al contrario, viene concretisticamente ridotta e proprio così ontologizzata), né in quanto legato alla produzione, ma, del tutto al contrario, come semplice momento della circolazione, come processo di astrazione a posteriori, circoscritto al processo di scambio del mercato. Così, per questo modo di intendere, il "doppio carattere del lavoro rappresentato dalle merci" diagnosticato da Marx viene diviso per due sfere differenti, in vece di determinare il carattere di tutta la riproduzione: nella produzione non si trova altro che non sia il lavoro "concreto" o "utile", mentre il prodotto della forma merce emerge, come rappresentato dal lavoro astratto, solamente nella circolazione.
A questo proposito, è prototipica la teoria di Alfred Sohn-Rethel, la prima ad introdurre il concetto di astrazione reale nel dibattito marxista. Tuttavia, per Sohn-Rethel l'astrazione socialmente oggettivata è reale solo in quanto "astrazione dello scambio". E' solo nel mercato che il lavoro astratto si presenta come sostanza comune delle merci che le rende compatibili: "L'astrazione che si svolge nello scambio deriva dalla relazione stessa di scambio. Non consegue dalla natura materiale delle merci, né dalla sua natura di valore d'uso, e neppure dalla sua natura di prodotto del lavoro".
L'equivoco del materialismo volgare, che consiste nel determinare l'astrazione del valore, ed insieme ad essa la logica del valore astratto, come la qualità materiale quasi-naturale della produzione, viene qui utilizzato come pretesto per nascondere qualsiasi relazione dell'astrazione del valore con il processo del lavoro "concreto", anche nel senso di una definizione sociale anziché naturale, assoggettandolo allo stesso verdetto con il quale la produzione viene sottratta furtivamente dall'ambito dell'astrazione reale. Ma il lavoro non ha proprio niente di naturale, ed è precisamente nella loro qualità di prodotti del lavoro che le cose sono di già merci o prodotti dell'astrazione reale, e non solo in forza dell'atto di scambio sul mercato. Pertanto, sebbene Sohn-Rethel abbia il merito di avere sviluppato, insieme al concetto di astrazione reale, la coscienza teorica del problema - cosa che costituisce una pietra miliare - egli è rimasto del tutto ostaggio dell'ontologia del lavoro e del concetto di astrazione reale limitato alla circolazione, cosa che lo vincola ancor di più alla scissione del concetto di lavoro in una cattiva astrazione, puramente circolatoria a posteriori, da un lato, e una concrezione "buona", produttiva e suppostamente ontologica, dall'altro lato. Egli pertanto afferma "due forme di sintesi sociale - una prodotta dallo scambio ed un'altra dal lavoro ..." (Postone).
La corrente principale del marxismo del movimento operaio finora non è arrivata così lontano, e perciò nella sua riduzione quanto meno si è mantenuta conseguente, nella misura in cui il problema dell'astrazione reale è stato dimenticato del tutto, e la produzione e la circolazione sono state affermate, fianco a fianco, come forme, in quanto la critica si riferisce solamente all'appropriazione di classe (insieme alla concezione sociologicamente ridotta del plusvalore) ed alla "anarchia" della circolazione, nel senso di un "potere di disposizione" giuridico. In tal modo, come sostituzione del capitalismo, veniva presentata, da un lato, la pianificazione puramente esteriore dell'insieme del processo di riproduzione sotto forma di merce, già preparata in seno allo stesso capitalismo per mezzo della concentrazione di capitale, di controllo da parte del capitale finanziario e di regolamentazione statale, e, dall'altro lato, l'occupazione politica dei posti di decisione di questa stessa pianificazione attraverso la rappresentanza politica della classe del proletariato. Come il concetto critico di astrazione reale, anche il concetto di feticismo non ha alcun posto in questa comprensione ridotta.
In maniera quasi commovente per il suo candore, si è andato affermando, nella letteratura sotterranea dell'economia politica accademica del "socialismo reale", un concetto crudamente positivista e del tutto irriflesso del lavoro astratto , molto al di sotto della coscienza della problematica espressa da un Rubin; così, per esempio, e per scegliere un esempio a caso, in un tomo come "Economia politica del socialismo e la sua applicazione nella Germania Democratica" (1969), redatto da un collettivo di autori coordinato da Günter Mittag: "Il lavoro produttore di merci dei produttori socialisti è, da un lato, il dispendio del lavoro pianificato nella sua forma utile, concreta o creatrice del valore d'uso. Dall'altro lato, vi è allo stesso tempo, dovuto alle condizioni di insieme del modo di produzione socialista, una forma generalizzata, astratta dalle sue specificità concrete, in quanto lavoro astratto, creatore di valore, cioè, sotto forma di valore. Il lavoro produttore di merci ha pertanto un doppio carattere, essendo allo stesso tempo lavoro sia concreto che astratto. Il lavoro concreto speso in forma pianificata nelle imprese al fine della produzione di merci deve sempre realizzarsi come lavoro astratto, creatore di valore, per poter svolgere la funzione di lavoro sociale... Nel socialismo, il doppio carattere del lavoro produttore di merci si distingue in maniera fondamentale da quello esistente nel capitalismo. Mentre il lavoro creatore di valore, nella produzione di merci capitalista, media la relazione di sfruttamento, essendo un anello del sistema di appropriazione capitalistica, il lavoro creatore di valore nel socialismo esprime il processo pianificato di appropriazione sociale dei produttori socialisti liberati dallo sfruttamento... La società socialista stabilisce pertanto il lavoro, speso dalle unità di produzione in regime di divisione del lavoro, come relazione mutua di dispendio di lavoro socialmente uguale. Riducendo così ogni parte della totalità del lavoro a lavoro socialmente necessario o a valore. Il lavoro concreto viene ridotto a lavoro astratto, socialmente determinato, nel realizzare il prodotto del lavoro concreto, il valore d'uso...".
Qui si passa grandiosamente a lato di ogni problematica, sia quella del lavoro astratto che quella della critica di Marx, dal momento che si tratta di una rappresentazione ideologica ormai legata all'apologetica di un processo storico sconsiderato. Il processo di astrattificazione, analizzato da Marx in maniera chiaramente negativa, viene presentato come un mezzo utile soltanto per "misurare", in maniera ottimizzata, in senso puramente tecnocratico, il dispendio sociale di risorse e, in questo modo, come un semplice "aiuto oggettivo" nella "realizzazione del valore d'uso". Questo pensiero ideologico non è neppure infastidito dal fatto di dover prima "realizzare" socialmente l'utilità (solamente astratta, nel suo concetto di valore d'uso) facendo ricorso ad un processo specifico. In fondo, si fa ricorso a niente di meno che al meccanismo della "mano invisibile" di Adam Smith, invocata da quest'argomentazione con l'unica differenza, per cui paradossalmente questa mano invisibile che, come processo di astrazione dei processi di mercato, deve coordinare la "allocazione di risorse", viene postulata come la mano visibile della pianificazione del socialismo di Stato (e proprio per questo doveva portare al suo fallimento).
La strumentalizzazione assolutamente acritica, positivista e tecnocratica del concetto marxiano di lavoro astratto che qui si manifesta - una legittimazione trasparente di  una pratica preesistente già oggettivata ed irriflessa rispetto alla sua costituzione storica - riceveva nella letteratura occidentale proveniente dal marxismo tradizionale, ma esigente in termini teorici, un fondamento ontologico assecondante. Georg Lukács ha compiuto la prodezza di formulare una "Ontologia dell'essere sociale" fondata sul "lavoro", dove al concetto di lavoro viene attribuito la consueta qualità trans-storica, nel senso di una "definizione teleologica" dell'azione in riferimento alla natura ed alla società.
Ora, è un fatto che si possa affermare (esplicitamente, da Aristotele in poi) che l'umanità si è discostata dal regno naturale ed animale per mezzo di una relazione di definizioni teleologiche (definizione degli obiettivi e dei mezzi), così come avviene, per esempio, nella famosa frase di Marx sulla differenza fra il peggior architetto e la migliore ape, secondo cui l'intero procedimento, nel caso dell'architetto, deve prima passare dalla coscienza. Lukács formula la cosa ontologicamente in modo "che uno schema mentale perviene alla realizzazione materiale, dal momento che stabilire degli obiettivi a livello di pensiero altera la realtà materiale, inserendo nella realtà qualcosa di materiale, che di fronte alla natura rappresenta qualcosa di qualitativamente e di materialmente nuovo... Non esiste alcun sviluppo immanente delle sue qualità, delle leggi e delle forze che in lui sono attive, che permetta di "dedurre" una casa dal mero essere-in-sé della pietra o del legno. Per una cosa simile, manca il potere del pensiero e della volontà umana". Tuttavia, non è in alcun modo giocoforza - né spiegato in alcun modo da Lukács, ma solo presupposto assiomaticamente - che la relazione teleologica, in quanto pratica, sia identica all'astrazione "lavoro". In questa maniera è stata ontologizzata la forma della prassi storica specifica della modernità.
E' anche per questo che Lukács estende il concetto di sostanza, in quanto sostanza del lavoro, definita chiaramente da Marx come sostanza del capitale, ad una categoria ontologica-trans-storica, che deve solo essere resa "dinamica": "Le più recenti conoscenze sull'Essere avrebbero distrutto la concezione statica, immutabile, della sostanza; tuttavia, da questo non deriva in alcun modo la necessità della sua negazione all'interno dell'ontologia, ma piuttosto il riconoscimento del suo carattere essenzialmente dinamico. La sostanza è quello che, nell'eterna mutazione delle cose, mutando sé stessa, si preserva nella sua continuità... L'Essere dell'Essere sociale si preserva come sostanza nel processo di riproduzione..." (Georg Lukács, Ontologie des Gesellschaftlichen Seins). E' proprio questa sostanza che viene definita come "lavoro": "Il lavoro può essere... considerato un fenomeno primordiale, come modello dell'Essere sociale" (ivi).
La specificità dell'astrazione "lavoro" come astrazione reale viene offuscata nell'ontologizzazione, apparendo oramai solo come una "astrazione razionale nel senso di Marx" (ivi). Qui Lukács non esclude nemmeno l'idea di Engels circa la "umanizzazione della scimmia per mezzo del lavoro", che può risultare involontariamente comica; il lavoro come "fenomeno primordiale" viene ontologicamente subito dopo le "forme di esistenza precedenti inorganiche ed organiche" (ivi), costituisce il linguaggio, ecc., di modo che al "farsi Uomo" corrisponda, oltre al "camminare eretto", anche la "attitudine al lavoro" (ivi). La realizzazione di questa attitudine al lavoro sarà per lui il suo vero punto di partenza "verso la formazione delle sue capacità, fra le quali non va dimenticato il dominio su sé stesso (!)" (ivi). Questo suona molto più protestante del "fenomeno primordiale", e ci ricorda involontariamente la storia - divulgata con candore borghese da Locke e Kant - secondo cui gli oranghi insisterebbero a non voler parlare perché non vogliono lavorare.
E' inevitabile che Lukács (al contrario, per esempio, di Rubin) debba ontologizzare, insieme al lavoro, anche il valore; in fin dei conti, una cosa ha come conseguenza l'altra. Pertanto, la categoria del valore viene estesa e sfuocata come avviene con la categoria del lavoro, nella misura in cui la definizione del concetto di valore, come avviene in Adam Smith ed in altri teorici dell'illuminismo del 18° secolo, si confonde sia con "criteri di valore" etico-morali che con il concetto di "utilità". Così, l'astrazione sociale del valore appare integrata in un processo ontologico della sostanza del lavoro, che rimane tale in ogni cambiamento ed è anch'esso "fenomeno primordiale": "Soprattutto, nel valore in quanto categoria sociale, non tarda a presentarsi il fondamento elementare dell'Essere sociale, il lavoro. Il suo collegamento alle funzioni sociali del valore rivela, allo stesso tempo, sia i principi fondamentali che strutturano l'Essere sociale, i quali provengono dall'Essere naturale dell'Uomo e simultaneamente dal suo metabolismo con la natura..." (ivi). Perciò, sarebbe essenziale che si definisse in maniera trans-storica "l'unità finale del valore come fattore reale dell'Essere sociale, fatte salve le sue mutazioni strutturali qualitative altamente significative nel corso dello sviluppo della società..." (ivi).
Anche il "valore economico" in senso stretto riceve una benedizione ontologica, come legge del valore del lavoro: "La legge più generale, la legge del valore, è stata dimostrata da Marx, per esempio nel capitolo introduttivo della sua opera principale. Tuttavia, essa è immanente al lavoro stesso, dal momento che vi è legata, per mezzo del tempo di lavoro, al lavoro stesso come dispiegamento delle capacità umane, essendo anche perfino contenuta dove l'uomo svolge ancora lavoro utile, dove i suoi prodotti non si convertono in merci, e si mantiene implicitamente ancora in vigore dopo che è terminata la compravendita delle merci" (ivi). Lukács dimostra qui, con particolare chiarezza, come la trasformazione storica, nella comprensione del marxismo del movimento operaio, si riferisca esclusivamente alla circolazione ed alla distribuzione. "La compravendita" può ancora non aver luogo, o essere in procinto di passare alla storia, ma il "lavoro" astratto ed il valore sono per sempre. Nell'opinione di Lukács, col socialismo "termina la struttura di scambio delle merci, l'efficacia della legge del valore per l'individuo come consumatore. Tuttavia, va da sé che, nella produzione e nel quadro della crescita delle forze produttive, il tempo di lavoro socialmente necessario, e insieme ad esso la legge del valore come regolatrice della produzione, devono restare in vigore, inalterati" (ivi). L'ontologizzazione della legge del valore semplicemente come "economia di tempo", però, semplicemente dimentica (dal momento che succede la stessa cosa, a volte, nello stesso Marx) che anche la qualità del tempo in quanto tale è storicamente diversa, e che esso viene distruttivamente "economizzato" solamente in senso moderno nello spazio funzionale capitalista.
Il "socialismo" in tal senso ridotto, limitato alla regolamentazione modificata delle relazioni giuridiche e di distribuzione, non trascendendo l'ontologia capitalistica, deve allora anche confermare, involontariamente la qualità sociale esplicitamente identica: "Quello che ha di speciale il capitalismo è il fatto che produce spontaneamente una produzione sociale nel senso proprio della parola; il socialismo trasforma tale spontaneità in una regolamentazione cosciente" (Lukàcs, ivi). La differenza qualitativa, che non è tale in senso stretto, si limita alla presunta transizione dalla "spontaneità" della regolamentazione ("anarchia del mercato") alla "regolamentazione cosciente", mentre il "che cosa" oggetto di questa spontaneità o regolamentazione, il contenuto sociale basilare, la "produzione sociale", viene ontologicamente elevato a "continuità dello sviluppo umano", come "sostanzialità reale del processo nella sua continuità" (ivi). Precisamente, quello che dovrebbe essere abolito senza alcuna pietà, per farla finita con la falsa ontologia capitalista, viene in questo modo dichiarato "condizione umana"; così come in generale, l'idea di una "condizione umana", di una "autenticità" antropologica che possa essere misurata e determinata nei suoi diritti, è un segno di tutto il pensiero affermativo per principio.
Con il lavoro astratto, in questo modo ontologizzato nella condizione umana, e rappresentando come insormontabile la concomitante costituzione di una "seconda natura", Lukàcs rientra nella metafisica della storia e nell'ideologia del progresso dell'illuminismo, dove lo sviluppo dell'astrazione del valore diventa di pietra e calce come se fosse una continuità meta-storica del calibro di una "necessità hegeliana": "Anche il lavoro socialmente necessario (reso ipso facto astratto) è una realtà, un momento dell'ontologia dell'Essere sociale" (ivi). Lukàcs, allo stesso tempo, rimane ben consapevole del fatto che questa storia, come ontologia "dinamizzata", è una storia di vittime: "Nel 19° secolo, milioni di artigiani indipendenti vissero l'entrata in vigore di quest'astrazione del lavoro socialmente necessario come la loro propria rovina, soffrendone così in pratica le conseguenze concrete, senza avere la minima idea di affrontare un'astrazione tradotta in fatto per mezzo del processo sociale; quest'astrazione aveva la stessa durezza ontologica della realtà fattuale di, per esempio, un'automobile che ci passa sopra" (ivi). Tuttavia, questa consapevolezza non spinge l'ontologo del lavoro alla critica sociale ed alla rottura con la falsa ontologia, ma solamente al "riconoscimento della necessità". A suo avviso, questa "durezza della realtà" comprende in sé il "progresso ontologico..., in quanto si distingue chiaramente che l'essenza dello sviluppo ontologico si trova nel progresso economico (che finisce per incarnare il destino del genere umano) e le contraddizioni sono le sue forme di apparenza ontologicamente necessarie ed oggettive" (ivi). E ora sacrificatevi al "progresso ontologico" dell'economia del lavoro e del valore, con i suoi piccoli rischi ed effetti collaterali!
Moishe Postone non si è occupato della principale opera ontologica, e tardiva, di Lukacs; ma quanto egli dice a proposito di ciò che finisce per essere l'inconsistenza delle sue opere precedenti, che argomentavano soprattutto a proposito della critica della conoscenza a partire dalle sue forme di pensiero, si applica anche alla "Ontologia dell'Essere sociale": "L'identificazione del proletariato (o della specie) con il soggetto storico finisce per rimanere nella stessa rappresentazione, storicamente non differenziata, del ‘lavoro’, che ne fa il 'marxismo ricardiano'. Il lavoro viene definito come la fonte trans-storica della ricchezza sociale e viene considerato la sostanza del soggetto storico, cioè, quello che costituisce la società" (Postone). Così, Lukacs si inserisce in questo "marxismo occidentale" (Perry Anderson) che, sebbene qui e là abbia graffiato la vernice del paradigma del marxismo del movimento operaio, non lo ha mai decisamente soppiantato in alcun modo. La pratica storica del "socialismo reale", che finiva per essere una modernizzazione di recupero ancora completamente dentro l'orizzonte dell'ontologia capitalistica della modernità, in questo modo, più che essere decifrata criticamente, veniva appoggiata filosoficamente.
Quanto a Lukàcs, come attenuante, si può sempre addurre che abbia scritto in un periodo nel quale questa pratica storica della modernizzazione di recupero (equivocata come trascendente) non si era ancora tuttavia esaurita, e sembrava fosse ancora incamminata verso la sua auge, attraverso una seconda ondata di movimenti di liberazione nazionale e di regimi progressisti del Sud mondiale, secondo il "modello" russo-sovietico. L'incredibile inerzia dei modelli interpretativi ideologici, al di là del loro fondarsi sulla storia reale, si evidenzia nel fatto per cui le teorizzazioni leggittimatrici di un'ontologizzazione del lavoro astratto continuano anche dopo il crollo del socialismo reale e della modernizzazione di recupero, come le unghie dei piedi dei cadaveri che continuano ancora a crescere per qualche tempo anche se il corpo nel suo complesso è già morto. Allo stesso modo, la continua elaborazione dell'ontologia del lavoro da parte di una obsoleta e demoralizzata sinistra occidentale di provenienza tradizionale, ormai non si sviluppa nella testa cerebralmente morta di una storia defunta, ma soltanto nelle estremità dei modelli alla fine della linea. La notizia della fine del suo mondo ancora non è arrivata alle unghie dei piedi ideologici.
Questa letteratura storica "delle unghie dei piedi" di un marxismo del lavoro già morto e sepolto, in quanto formazione associata ad una determinata epoca che ancora per molto tempo continuerà ad ossessionare il mondo, non di rado si presenta con alte pretese teoriche; dopo tutto, può avvalersi, contro la nuova elaborazione della teoria critica del valore e delle relativa critica dell'ontologia del lavoro, della vecchia esegesi del Marx dell'ontologia del lavoro - con l'unico inconveniente che questa ricchezza del tempo che fu nel frattempo ha assunto l'aspetto di un "bel cadavere". Questo genere di ontologia marxista del lavoro molto documentata, ma non più mediata storicamente e socialmente, è ormai un fenomeno mondiale.
In Germania, fa parte di questo lotto l'opera dell'interprete marxista di Hegel, Dieter Wolf, con cui l'elaborazione della teoria critica del valore ha già avuto, per così dire, diverse collisioni a partire dalla fine degli anni 1980. Non è a caso che il libro di Wolf, pubblicato nel 1985, fondato sull'ontologia del lavoro, "Ware und Geld (Merce e denaro)", è stato ripubblicato col titolo "Der dialektische Widerspruch im Kapital. Ein Beitrag zur marxschen Werttheorie (La contraddizione dialettica nel Capitale. Un contributo alla teoria del valore di Marx) [2002]". Questa riedizione si inserisce nel contesto di un tentativo, forse finale, da parte del marxismo accademico arrivato all'età della pensione, di dare inizio ad una sorta di controffensiva nei confronti della nuova critica del capitalismo, fatta dalla critica del valore.
Già parla da sé la forma in cui Wolf pretende di inquadrare la critica dell'economia politica di Marx nella storia delle teorie: "Marx con la sua teoria non assume una posizione indipendente nella storia delle teorie, a partire dalla quale invalidare le teorie dei suoi predecessori. Come dimostra uno sguardo alla genesi del socialismo scientifico, si tratta innanzitutto di un movimento storico-sociale nel quale Marx, confrontandosi con le teorie precedenti e con la situazione economico-sociale anteriore, si apre la strada attraverso queste teorie in direzione del lavoro sociale come fondamento che è tanto comune quanto inconscio" (Wolf).
Marx viene inserito in un movimento di fondo della storia delle teorie che rimane all'interno dei limiti dell'ontologia capitalista. E' questo un esempio tipico di un concetto erroneo di "immanenza", per lo più implicito nelle pretese di una supposta "critica immanente". Il movimento centrifugo dall'immanenza alla trascendenza viene sviluppato all'origine; la trascendenza scompare, mentre una posizione essenzialmente immanente si fa passare per trascendente. Quello che si è già manifestato relativamente alla filosofia illuminista nella sua totalità in seno al marxismo del movimento operaio, si ripete in relazione alla teoria economica in senso più stretto: la teoria di Marx appare come la mera continuazione della costruzione di un edificio, di una sorta di pantheon della storia della riflessione moderna, alla cui costruzione avrebbero partecipato anche i suoi "predecessori", e in cui essa ha trovato il suo posto. La critica di Marx non si presenta quindi sotto la prospettiva della rottura con ogni teoria che l'ha preceduta, rottura operata in forma incipiente nel quadro del confronto immanente (e che oggi andrebbe completata), ma sotto la prospettiva della continuità nella quale presumibilmente si inserisce insieme alla teoria precedente. Sotto una tale prospettiva, Marx non "rompe", ma "continua a sviluppare". Ed il "lavoro sociale" viene assiomaticamente dichiarato il concetto essenziale di tale falsa continuità, "il fondamento tanto comune quanto inconscio", non solo alla moderna storia della continuità, ma anche alla socialità trans-storica in generale.
A partire dalla premessa ideologica di questa falsa storia della continuità viene svolta l'argomentazione leggittimatrice dell'ontologia del lavoro. In questo caso, Wolf è più esigente della superficiale letteratura tecnocratica e positivista del defunto universo scientifico del "socialismo reale", nella misura in cui tenta, come prima di lui Rubin (del resto senza che neppure venga menzionato), di procedere da un'eso-differenziazione storica del concetto di astrazione "lavoro", o del "lavoro astratto", con lo scopo di salvarlo in quanto trans-storico. Egli distingue tre livelli di astrazione. L'astrazione del lavoro nella forma della merce, come al solito dedotta nella circolazione della mera "astrazione dello scambio", viene in primo luogo distinta dall'astrazione meramente concettuale (nominale) del "lavoro", tenuta come "razionale": "Per rendere chiaro questo, osserviamo una quantità di sedie differenti fra di loro: possiamo tenere a mente la qualità dell'essere sedia, così come la qualità generale che è comune a tutte le sedie. Qui viene preso in considerazione il fatto reale che ogni sedia, sia essa da cucina, da sala o da giardino ecc., attiene alla qualità di essere semplicemente una sedia, indipendentemente dalla sua forma concreta a fronte di un determinato tipo di utilizzo. Ciascuna sedia in particolare, così come qualsiasi lavoro in particolare, può, da un lato, essere contemplata sotto l'aspetto della particolarità in termini di contenuto e, dall'altro lato, sotto l'aspetto di una qualità generale che astrae da questa particolarità" (Dieter Wolf, ivi).
C'è qualcosa di insolito nell'equiparare l'astrazione del lavoro a quella della sedia. Ma è proprio questo a richiamare l'attenzione, a causa del suo controsenso. Gli è che nel caso delle sedie, la qualità comune cui si riferisce l'astrazione, e che la rende "razionale", è più che ovvia. Ma non è questo il caso del lavoro. Le qualità del tutto disparate delle aree di riproduzione e di vita umane, o delle possibilità umane di una "alienazione" dell'attività, non possono essere riunite sul medesimo piano, come avviene nel caso delle sedie, sotto un concetto generico qualitativo comune "razionale"; ma proprio al contrario, questa generalizzazione in sé è tutto tranne che razionale.
Wolf, inoltre, non salva l'assunto limitandolo alla trasformazione delle materie naturali: "... si tratta solo di vedere nel lavoro utile concreto, un processo di trasformazione della natura, che si materializza in un pezzo di materia cui è stata data una determinata forma" (ivi). La qualità comune dei diversi "lavori utili concreti", tuttavia, è qui definita in maniera molto generica, senza tener conto del metabolismo degli uomini con sé stessi, la loro attività nella relazione sociale che non si "materializza in un pezzo di materia cui è stata data una determinata forma" (ossia, quello che nel capitalismo appare per esempio sotto la denominazione di "prestazione di servizi personali"). Ma se includiamo le aree di attività socialmente interattive, non resta niente dell'astrazione "lavoro" tranne il fatto che si tratta di un modo di alienazione umana in generale. Tuttavia, questa qualità è talmente generica da non rappresentare un enunciato che abbia qualche senso. Soprattutto, a questo livello esagerato di astrazione, già non possono più essere distinti dall'alienazione umana, modalità come il gioco, il sogno, la contemplazione, la sessualità, il passeggiare, il piacere, ecc.. Proprio per questo, il concetto astratto di lavoro, dopo tutto, non nasce come concetto generico "razionale" di questo tipo, ma primariamente come un'astrazione sociale negativa (quello che viene fatto da uno schiavo, indipendentemente dal contenuto specifico).
Ma, proprio perché non è stato possibile stabilire alcuna generalità sociale del concetto di lavoro, di questa modalità di astrazione sociale (se non in senso meramente metaforico di negatività, di sofferenza), questo, come concetto astratto di "lavoro", appartiene unicamente al moderno sistema produttore di merci. Per la "qualità generale" delle alienazioni di energia umana, essere denominata come "lavoro" non è dovuto ad alcuna "astrazione razionale", ma ha senso solamente se questa "generalità" consiste nella capacità di dare valore; solo attraverso questa comunità sociale (negativa), le diverse attività possono essere sottomesse al concetto di lavoro, come i diversi tipi di sedia sotto il concetto di sedia. Pertanto, l'astrazione nominale è solo una conseguenza dell'astrazione reale e non è in alcun modo "razionale" in sé.
Niente affatto migliore è la situazione del secondo livello di astrazione del concetto di lavoro, che Wolf cerca per ontologizzare il lavoro astratto. Questo non conterrebbe soltanto un presunto concetto generico "razionale", secondo l'esempio della sedia, ma rappresenterebbe un concetto di pratica sociale. Wolf ricorre in questo caso alla linea di argomentazione ontologizzante di Marx stesso, che in ultima analisi serve da salvagente per Lukács e per tutta l'ontologia marxista del lavoro. Qui già non si tratta più di un mero concetto generico, di "lavoro umano astratto come qualità generale dei lavori utili concreti" (Wolf, ivi), ma della relazione sociale pratica delle diverse aree di attività con le "alienazioni" individuali e particolari.
In questo senso di regolazione sociale e di mutuo "riconoscimento", viene ora introdotto un secondo concetto di "lavoro umano astratto" in senso sociale: "Esiste, nel contesto sociale in cui gli esseri umani spendono i loro lavori utili concreti, un processo nel quale gli stessi, astraendo dal loro carattere concreto ed utile, si riferiscono gli uni agli altri anche come umani, cioè, generali e astratti? Questo processo esiste. E consiste nella già citata distribuzione di lavoro sociale in determinate proporzioni, così come è comune a tutte le formazioni sociali. Se, a partire da questa distribuzione, è possibile determinare perché i lavori utili concreti possono anche essere riferiti gli uni agli altri come astratti e umani, allora in questo caso si tratta di una situazione astorica, comune a tutte le comunità" (ivi).
Questo, tuttavia, è un problema che non esiste nemmeno nelle società pre-moderne. Wolf confonde qui due cose completamente differenti. L'unica cosa che va da sé è che qualsiasi società implica una relazione con la natura e relazioni sociali, in quanto gli esseri umani devono assicurare la loro riproduzione attraverso delle interazioni per mangiare, bere, vestirsi, abitare, trattare gli uni con gli altri, giocare, formare un'immagine del mondo, ecc.. Da tutto questo, però, non deriva alcuna astrazione di un "dispendio di energia umana" nel senso di una regolazione di insieme. Per esempio, il fatto di sapere che bisogna seminare per poter raccogliere non implica un "sistema di contabilizzazione" sociale generale del dispendio di energia, cosa che sarebbe implicita in una generalità astratta corrispondente. Se e nella misura in cui una regolazione contabilistica del genere avviene nelle società agrarie, si riferisce invariabilmente soltanto all'astrazione sociale di una determinata attività, segnatamente ad un'attività socialmente dipendente, e in nessun modo ad una "generalità sociale"; e, in determinate società, non si riferisce, o non si riferisce principalmente, alla riproduzione della vita, bensì a finalità trascendenti (come per esempio la costruzione di piramidi nell'antico Egitto).
La questione potrebbe anche essere formulata nella seguente maniera: tutte le società pre-moderne partono implicitamente dal principio per cui, in qualche modo, c'è sempre tempo eccedente a disposizione, per cui si "ha tempo", che in nessun modo occorre collocare addizionalmente in una "relazione di scarsità" con le diverse attività o alienazioni umane in generale. Una simile idea verrebbe considerata puramente e semplicemente assurda. Qui emerge chiaramente un determinato aspetto delle differenti qualità storiche del tempo. Marx ha ripetutamente richiamato l'attenzione sull'assurdità per cui nel capitalismo è proprio l'applicazione di mezzi "per risparmiare tempo" che resta legata ad un'eterna mancanza di tempo, e simultaneamente alla trasformazione del tempo di vita in "tempo di lavoro". Il motivo è che l'economia in quanto tecnica del tempo (che, anche sul piano tecnico, spesso dev'essere apparsa ridicola e grottesca alla coscienza pre-capitalistica) viene definita da una relazione sociale che si basa sullo "eccesso" - [Masslosigkeit] (Marx) - del capitale, segnatamente nell'incorporazione eccessiva del dispendio di energia umana misurata in unità astratte di tempo.
Così, quando Wolf afferma la "relazione (sociale) mutua dei lavori utili concreti come umani astratti" (ivi), pescando inoltre direttamente in Rubin e nel suo concetto di "equiparazione sociale" (come già detto, senza nominare l'origine), nella misura in cui essa è "inclusa nella distribuzione proporzionale della totalità del lavoro a disposizione di una comunità" (ivi), Wolf sta commettendo un anacronismo. Il sistema di tributi, esazioni, ecc. vigente nelle antiche società agrarie, come espressione del dominio sociale in determinate costituzioni di feticcio, non si basava esattamente su una "contabilizzazione" così assoluta e totalitaria. Elementi di pratiche simili si incontrano solamente nei periodici lavori forzati, come per esempio nella costruzioni delle piramidi, della muraglia cinese, ecc.. In questi casi, però, invariabilmente si trattava di eventi di espressione limitata, che non coinvolgevano in nessun modo la totalità della riproduzione sociale.
La semplice idea di fare incetta della "totalità del lavoro a disposizione di una comunità" contiene già in sé senza saperlo l'eccesso capitalista ed il totalitarismo della forma del valore, così come venne storicamente idealizzato per la prima volta dal protestantesimo. Il fatto per cui le società che scommisero sulla modernizzazione di recupero, con la sua logica di pianificazione statale, abbiano sempre proceduto proprio a questa "acquisizione" [Erfassung], definendo con un tale atto, per prima cosa, la "popolazione" come "forza di lavoro collettiva" astratta, non è stato altro che la ripetizione della storia della costituzione capitalistica della "sovranità", che aveva seguito lo stesso percorso indossando un'altra maschera ideologica.
Anche se Wolf, contrariamente agli ideologhi del socialismo di Stato, si smarca facilmente dalla trasformazione del "valore in una categoria astoricamente valida" (ivi), si vede costretto, in completa sintonia con i tratti dell'ontologia del lavoro di Marx o con l'ontologia del lavoro di Lukacs, a tentare di salvare la definizione del valore come trans-storica in un determinato senso, facendo ricorso al concetto di "distribuzione proporzionale dei diversi lavori": "Se il valore delle merci non è una categoria con validità astorica, e se non è neppure esistita in tutte le formazioni sociali, questo non esclude anche che si tratti sempre di qualcosa che è comune a tutte le formazioni sociali... Questo 'qualcosa' è... la distribuzione della totalità del tempo di lavoro che sta a disposizione di una società per i vari lavori utili concreti. Questa distribuzione viene sempre effettuata in un contesto storicamente determinato, che allo stesso tempo decide il riconoscimento sociale dei diversi lavori, ossia, decide la sua forma storicamente specifica" (ivi).
Per Wolf, quindi, il "lavoro" è storicamente differente soltanto nel senso delle differenti "forme di riconoscimento", e la forma moderna, capitalista, è determinata proprio dal mercato, cioè, dallo scambio di prodotti del lavoro in quanto merci. Il concetto di una "forma di riconoscimento" porta già in sé la possibilità del non riconoscimento, che viene ugualmente ontologizzato. Una relazione di riconoscimento e di non riconoscimento, nel venire regolata a parte per mezzo di istanze di mediazione sociale, è tuttavia un elemento basilare delle relazioni di dominio, e conseguentemente di feticcio.
Wolf ontologizza la relazione di riproduzione e di sottomissione fondamentale del lavoro astratto, ma vuole separare da essa la corrispondente relazione di mediazione del mercato, per dichiarare solo quest'ultima come caratteristica specifica del modo di produzione capitalistica: "Così, mentre in una comunità non capitalista i lavori utili concreti sono anche reciprocamente relazionati come astratti ed umani nell'ambito della distribuzione proporzionale della totalità del lavoro, il loro carattere generale però non consiste di lavoro umano astratto, ma, in un modo che si spiega per la natura del contesto sociale, consiste di lavoro utile concreto. Così come nelle comunità non capitaliste, anche in una comunità capitalista i lavori utili concreti sono reciprocamente relazionati, nella distribuzione proporzionale della totalità del lavoro, come astratti ed umani... Qui, però, si tratta di un ruolo sociale straordinario che viene interpretato dal lavoro umano astratto soltanto in un'unica situazione sociale" (ivi).
Quello che vediamo qui non è altro che rabulistica (N.d.T.: rabulistica, attribuire cose e motivazioni mai dette) concettuale. Se in una comunità non capitalistica, il carattere socialmente generale dei lavori consiste già nel lavoro utile concreto, e non sul concetto di lavoro umano astratto, e in questo caso il concetto di lavoro come tale, che in sé rappresenta un'astrazione, non può essere applicato in senso moderno oppure, nei casi in cui non esiste in alcun modo un concetto astratto per "l'attività in generale", questo si riferisce a tutto meno che alla generalità sociale (attività degli schiavi, ecc.). Il fatto per cui tutte le forme di alienazione nella società sono alienazioni umane o sociali non abbisogna di una concettualità extra, dal momento che questo è già di per sé evidente. Se, quindi, Wolf opera con due statuti differenti di "lavoro umano astratto", dal momento che quello che viene supposto essere ontologico e trans-storico deve giocare soltanto nel capitalismo un "ruolo straordinario", in quanto l'autore non riesce ad indicare alcun "ruolo" che abbia un senso in situazioni non capitalistiche, questo dimostra solo che egli tenta a tutti i costi di introdurre di contrabbando, nella storia e nel futuro, l'astrazione specificamente moderna del lavoro.
Il suo suddividere il lavoro astratto in pretesi dati ontologici, da un lato, e fatti specificamente capitalistici, dall'altro, in uno sforzo analogo a quello di Lukacs, sono solo dei bizantinismi. Coloro che possono permettersi questo genere di rabulistica , come veri e propri giocolieri concettuali, sono i marxisti del lavoro occidentale, dal momento che non devono rispondere di un processo di riproduzione sociale reale sulla base del lavoro astratto e della forma valore, come devono fare i pensatori del socialismo reale nel sistema di riferimento della "produzione pianificata delle merci" e sotto la pressione delle contraddizioni intrinseche a questa, i quali hanno dovuto affermare abbastanza brutalmente ed apertamente la categoria nuda e cruda del lavoro astratto.
Gli ideologhi del socialismo reale non sono mai stati stupidi, ma in una certa maniera, con il loro modo di pensare affermativo, sono stati più intelligenti di quei marxisti occidentali come Wolf, che ricadono nell'ontologizzazione del lavoro astratto e conseguentemente nell'ontologizzazione della forma valore e della mediazione del mercato ("pianificato"). Gli è che entrambe le cose sono associate anche nella realtà; il mercato non è altro che la "sfera della realizzazione" del processo complessivo della valorizzazione, e in quanto tale imprescindibile. Quando Wolf dichiara solamente la mediazione del mercato nel "ruolo" specificamente capitalista di "lavoro umano astratto", ontologizzando, inversamente, la situazione basilare dell'astrazione lavoro, getta una luce meridiana su quello che egli intende per una società post-capitalistica, suppostamente emancipata.
Un sistema di lavoro astratto senza la corrispondente mediazione del mercato potrebbe essere soltanto una dittatura estremamente repressiva del processo di riconoscimento/non riconoscimento, di contabilizzazione e distribuzione, di raccolta e gestione delle persone, alla moda stalinista o magari di Pol Pot; ossia, proprio quello che i marxisti tradizionali hanno ripetutamente vaticinato come presunta conseguenza della critica del valore, per denunciarla e ripudiarla. Tuttavia, quello che è emancipatorio, è solamente il superamento del sistema del lavoro astratto nel suo insieme, ivi inclusa la mediazione del mercato; e non la mediazione cieca del mercato da sé solo (che non potrebbe essere un vero superamento, ma solo un'ingerenza esterna, statale, che rimane vincolata alla forma categoriale del valore e, insieme ad esso, del mercato).
Quindi,  è proprio la teoria che si suppone essere la più riflessa, occidentale, di una critica del lavoro astratto e del feticismo, il cui intervento tuttavia rimane assolutamente limitato alla sfera della circolazione, che ha qualcosa a che fare con l'accusa e con l'implicazione in un sistema stile Pol Pot; e non la critica del valore, che come critica radicale del lavoro si distingue proprio per il suo mettere a nudo la soggiacente relazione di riproduzione nella sua totalità e alla radice. Solo quando la si farà finita con il concetto di "lavoro umano astratto", da cui Wolf non è ossessionato, si acquisirà una prospettiva di emancipazione che indichi un cammino che vada oltre il modo di produzione capitalista, e soprattutto oltre il paradigma della "modernizzazione di recupero", che pesa come un incubo sul cervello della sinistra.
- Robert Kurz - pubblicato sulla rivista Exit!, 1/2004(4 di 10 – continua…)
fonte: EXIT!

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