mercoledì 28 ottobre 2015

Per tirare avanti

burawoy

A partire dagli anni 1930, i sociologi del lavoro hanno cominciato a domandarsi perché mai gli operai non lavorassero di più. Michael Burawoy, invece, quanto a lui, ha cominciato a domandarsi perché mai gli operai lavorassero così duramente, e cosa mai facesse in modo che acconsentissero al loro stesso sfruttamento. Per cercare di rispondere a queste domande, ha lavorato per un anno alla catena di una fabbrica di motori, alla periferia di Chicago. Situandosi agli antipodi di una visione padronale della sociologia del lavoro, "Produire le consentement" è un libro che mescola descrizioni etnografiche e teoria del processo del lavoro capitalista. Burawoy analizza il processo di produzione come se fosse un gioco in cui sono i lavoratori stessi che ne elaborano le regole, e dimostra come questo insieme di pratiche informali vadano a costituire un spazio di lavoro in parte controllato dagli operai, il quale ben lungi dall'attenuare lo sfruttamento, lo rafforza.

POSTFAZIONE: Burawoy e la teoria del processo del lavoro.
- di José Angel Calderòn -

Il sociologo americano Michael Burawoy occupa un posto preminente nella sociologia del lavoro. Il suo studio sulla produzione di consenso al lavoro, realizzato alla metà degli anni settanta, è divenuto un classico ed uno dei testi più citati dalla sociologia contemporanea.
L'analisi del consenso deriva dalla teoria gramsciana dell'egemonia. L'originalità dell'approccio di Buroway consiste nell'applicare allo spazio della produzione, un terreno al quale Gramsci si era avvicinato in maniera secondaria, in quanto le sue preoccupazioni erano fondamentalmente politiche e culturali. In questo modo, stabilisce im dialogo critico con il marxismo dei suoi tempi, il quale ha secondo lui la tendenza a bloccare il lavoro in un punto cieco. E' un marxismo che riduce la smobilitazione operaia e l'assenza di coscienza di classe a fattori di ordine ideologico o politico, derivanti dall'azione repressiva e deformatrice dello Stato e dalla propaganda dei mass media. Per Burawoy. è nel processo del lavoro che i lavoratori si costituiscono in quanto individui isolati, piuttosto che come membri di una classe:
"Bisogna comprendere non solo perché i lavoratori non agiscano in funzione di una serie di interessi che vengono loro attribuiti ma, soprattutto, perché tendano a favorirne altri. Di conseguenza, il processo di produzione dev'essere compreso nei termini della combinazione concreta di coercizione e consenso; una combinazione che porta i lavoratori a collaborare alla ricerca di plusvalore."
Animato da questo interesse, si farà assumere in una fabbrica, dove lavorerà per dieci mesi come operaio alla catena di montaggio. I risultati ottenuti verranno pubblicati nel 1979 con il titolo di "Manufacturing Consent. Changes in the Labour Under Monopoly Capitalism.". E' la sua tesi di dottorato.

IL RITORNO ALLE ORIGINI
Per meglio comprendere le scoperte ed i limiti, a volte perfino gli errori del suo approccio al lavoro ed ai lavoratori, il contributo di Burawoy va situato nel suo contesto scientifico. Nel 1974, la pubblicazione di un libro di Harry Braverman, "Lavoro e capitale monopolistico", segna una svolta importante nelle analisi che fino ad allora avevano creduto nell'ineluttabilità del progresso tecnico e sociale, e che avevano pensato che l'automazione in corso doveva essere in grado di rimettere insieme le briciole del lavoro. Il ciclo di lotte, di contestazione operaia dell'organizzazione scientifica del lavoro e dell'autoritarismo  delle regole tayloristiche per la mobilitazione e lo sviluppo del lavoro, pone termine alla "illusione consensuale" delle fasi precedenti ed apre la sociologia del lavoro all'analisi di nuovi problemi, di nuove sfide.
La prospettiva di analisi del lavoro in questo nuovo paradigma include:
1) Il ritorno allo studio diretto del processo lavorativo. Questo presuppone un rinnovamento dei metodi, una rivalutazione dell'osservazione partecipe, studi antropologici del lavoro e dei lavoratori. Le situazioni reali di lavoro diventano il primo oggetto di studio per poi, a partire da esse, determinare le tendenze dell'evoluzione del lavoro e dell'esperienza dei lavoratori.
2) In secondo luogo, questa prospettiva si identificherà con quello che è stato chiamato, in particolare nella tradizione italiana, "la centralità della fabbrica". La fabbrica (l'unità di produzione) è lo spazio dove i rapporti di classe che esistono nella società nel suo complesso si sviluppano in maniera più chiara ed esplicita. Pertanto portare la propria attenzione su quello che avviene nella fabbrica è utile alla comprensione dell'evoluzione della società nel suo insieme. Bisogna perciò analizzare le condizioni generali che determinano in maniera sempre nuova l'organizzazione del lavoro in fabbrica. In questo periodo, va ricordato, i punti centrali dell'analisi del processo lavorativo saranno le basi di opere sociologiche di carattere più generale, come ad esempio "Regolazione e crisi del capitalismo" (1997) di Michel Aglietta.
L'analisi dell'opera di Braverman, e con essa il ritorno ai classici ed in particolare al primo libro de Il Capitale, fornirà una base di chiarimento dei problemi teorici che attengono agli studi concreti sul campo, spesso di lunga durata. Burawoy ha riassunto queste importanti idee nell'introduzione al suo libro:
"Bisogna abbandonare le generalizzazioni astoriche [...] così come le ipotesi metafisiche circa l'esistenza di un conflitto o di un'armonia soggiacente. Né il conflitto né il consenso sono latenti o soggiacenti, essi si riferiscono a delle attività suscettibili di osservazione diretta che devono essere comprese in funzione dl processo di produzione di una organizzazione del lavoro determinata."

LA QUESTIONE DEL CONTROLLO E DELLA RESISTENZA, AL CENTRO DEL NUOVO PARADIGMA
La specificità della teoria del processo lavorativo consiste innanzitutto in un chiarimento concettuale di che cosa sono il lavoro e la produzione in un regime di produzione capitalista. In questa tradizione sociologica, il processo lavorativo non è sinonimo di attività effettuate da un individuo né da un insieme di occupazioni, ma effettuate dalla frazione del modo di produzione capitalista nella quale i salariati dispiegano la loro capacità produttiva per la produzione di merci e di plusvalore. L'interesse del sociologo che proviene da questa tradizione si focalizza allora sulla natura del processo di produzione in quanto modo capitalista di valorizzazione, così come sulle dinamiche della lotta e dello sfruttamento all'interno del processo lavorativo.
La questiono del controllo è allora, in quest'approccio, inseparabile dall'organizzazione del processo lavorativo. Un punto che solleverà una controversia particolare attiene alla tesi esposta da Braverman a proposito del taylorismo. Braverman considera il taylorismo come la forma di controllo proto-tipica del capitalismo monopolistico, e questo malgrado - afferma - le riforme "cosmetiche" attuate dalle direzioni delle imprese per migliorare la qualità delle "relazioni umane" in fabbrica, o per aumentare la motivazione dei lavoratori. Merita segnalare che, in questa tradizione, non è il controllo in sé della forza lavoro ad essere in discussione, ma la sua natura: tutti gli autori riconoscono infatti che questo è radicato nei rapporti di produzione capitalisti.
I postulati di Braverman oggi sono sufficientemente noti. L'obiettivo del taylorismo è quello di sottrarre al lavoratore il potere che egli ancora conserva sul suo proprio lavoro, e di controllare in maniera rigorosa lo sviluppo di ciascuna attività. Il lavoro che si sviluppa secondo questi principi diviene dequalificato, nel mentre che si deteriora inesorabilmente. Ora, ciò che veramente importa è il controllo, e non la dequalificazione e la degradazione in sé del lavoro, cioè a dire che il lavoro si degrada a causa dei mezzi adottati per porre in essere questo controllo. In tale prospettiva, la qualificazione non è più soltanto un affare di contenuto dei compiti o della soddisfazione procurata dal lavoro, ma è un mezzo di pressione (di controllo) importante sul lavoro. Autori come David Noble (1984) o Harley Shaiken (1992), seguendo questo orientamento di ricerca, mostreranno in maniera del tutto convincente come un processo che minaccia la qualificazione operaia prepara allo stesso tempo le basi per un importante trasferimento di potere al di fuori del luogo di lavoro.
Tuttavia, i limiti di questa concettualizzazione del taylorismo e dell'evoluzione delle forze produttive appaiono assai velocemente, e saranno alla base di quella che è stato chiamata "la seconda ondata della teoria del processo lavorativo". Da un punto di vista tecnico, sembra ragionevole considerare che il taylorismo abbia favorito la conservazione delle informazioni, in quanto ha soppresso da subito la possibilità anche teorica di una distanza fra il lavoro prescritto ed il lavoro reale. Nella pratica concreta, scrive all'epoca, la distanza fra lavoro prescritto e reale dimostra che l'iscrizione del controllo nel processo di lavoro, secondo la razionalità taylorista, non è del tutto realizzabile, in quanto la produttività e la qualità dipendono largamente dal coinvolgimento dei lavoratori. Da un punto di vista sociale, si afferma che la distanza fra prescritto e reale favorisce l'articolazione di collettivi di lavoratori capaci di creare delle norme clandestine e di trasmettersele. Immersioni nell'universo della fabbrica, come "L'Établi" di Robert Linhart, mostrano come l'incitamento permanente, non solo alla trasgressione delle regole ma anche alla produzione di altre regole, ad esempio l'incitamento all'autonomia, si situa alle origini stesse di un gruppo di solidarietà, radicato in dei valori critici e lontano dalla logica della razionalità d'impresa. Per tutte queste ragioni, ed altre ancora, il taylorismo è stato compreso come un insieme di pratiche per aumentare il controllo capitalista sulla forza lavoro. In quest'ottica, è stato considerato da alcuni come un vero e proprio fallimento (Burawoy, 1979), in quanto tecnicamente il meno adeguato a far fronte alla resistenza operaia (Friedman, 1977).
Le critiche rivolte a Braverman sottolineano non tanto l'omissione, nelle sue analisi, della lotta industriale in sé, quanto il fatto che egli studia la qualificazione, e più in particolare la dequalificazione, senza tener conto della capacità dei lavoratori di influenzare la relazione fra cambiamento tecnologico e qualificazione. A questa scoperta, seguiranno due grandi dibattiti, ed è nel quadro di tali dibattiti che va inscritto il contributo di Michael Burawoy.

Il primo dibattito, a partire da una definizione dinamica del controllo, si interroga sull'evoluzione delle politiche manageriali di mobilitazione e di messa al lavoro. Il costante rinnovamento delle forme di resistenza operaia alla dequalificazione diventa, per molti, esplicativo della crisi del modello taylorista. E' la resistenza al sistema taylorista che obbliga la direzione ad escogitare nuove forme di organizzazione "senza perdere il potere" (Durand, 1978). All'epoca, alcuni si sforzano di caratterizzare la relazione fra le forme flessibili o morbide di controllo e le forme più rigide. Per Friedman (1977), la frontiera del controllo non è mai fissa né predeterminata: esiste tutto un mondo di possibili tattiche che dipendono dalla resistenza dei salariati. Quest'approccio verrà sviluppato e sistematizzato in maniera molto convincente da Robert Linhart, nella sua analisi delle industrie di trasformazione. Altri autori tenteranno una periodizzazione delle forme organizzative in funzione della dialettica controllo-resistenza (Edwards, 1979). Alcuni testi allora torneranno sulle differenti tradizioni nazionali e perfino locali, in funzione di una dialettica della contrattazione salariale.
Il secondo dibattito riguarda la natura della relazione controllo-resistenza, ed apre all'analisi della razionalità del lavoro come esperienza soggettiva. Questo dibattito tenderà ad allontanarsi dalla prospettiva oggettivista di Braverman e si avvicinerà all'interpretazione ermeneutica del reale, ovvero al dominio del simbolico, delle pratiche e delle esperienze soggettive quotidiane nello spazio del lavoro.
In tale contesto, la proposta di Burawoy diventa una critica dell'approccio dualistico classico dei rapporti sociali di produzione, secondo il quale il controllo e la resistenza vengono trattati come se fossero due poli opposti. Ed è all'analisi di tale proposta che ora passiamo.

UN ROVESCIAMENTO DELLA PROBLEMATICA
La più parte delle critiche a Braverman pongono l'accento sul fatto che egli non tiene conto della resistenza dei lavoratori. Burawoy pone invece la questione inversa: perché il lavoratori accettano le condizioni capitalistiche di produzione? La risposta non è facile, in quanto si tratta di un tema fino ad allora ignorato dalla sociologia delle organizzazioni e del lavoro. La teoria marxista classica non risponde in maniera molto convincente, dal momento che questa accettazione delle condizioni lavorative degradate non può essere attribuita soltanto alla coercizione.
Burawoy si domanda: perché il lavoratori lavorano così duramente? Cercherà di rispondere a questa domanda per mezzo di uno studio etnografico condotto nella fabbrica Allied, a Chicago, dove si fa assumere come macchinista in una linea di produzione dove gli operai vengono pagati a pezzo. Il caso vuole che questa fabbrica sia la stessa dove trent'anni prima aveva lavorato Donald Roy. Questa coincidenza gli consentirà di analizzare i cambiamenti avvenuti nel microcosmo della fabbrica e di interpretarli secondo le evoluzioni delle relazioni di lavoro a partire dalla seconda guerra mondiale.

Burawoy dà per scontata l'integrazione del lavoratore nel sistema. Il suo obiettivo è quello di comprendere le forme attraverso cui si esprime l'auto-controllo, cioè a dire la maniera in cui gli operai stessi creano le condizioni di consenso. Quest'adattamento avviene grazie a dei "giochi", ossia sotto forma di produzione autonoma di regole informali e di pratiche destinate a creare uno spazio e dei tempi propri, volte a controllare l'aumento della produzione al fine di ottenere un premio complementare al salario di base e, in ultima analisi, a rendere la vita lavorativa un po' più interessante. Buroway chiama tutto questo: "giochi per tirare avanti".
L'obiettivo di ciascun lavoratore si stabilisce in funzione di una serie di fattori, come il tipo di posto occupato (il tipo di remunerazione, ecc.), la macchina utilizzata ed il grado di esperienza. Alcuni lavoratori sono soddisfatti di ottenere il 125% della quota normale di produzione, mentre altri non sono soddisfatti se non ottengono almeno il 140%, il limite massimo imposto a tutti i partecipanti. La cultura dell'officina ruota quindi intorno alle possibilità di "uscirne". Allo stesso tempo, il gioco modella la conflittualità così come essa si manifesta nelle officine, nel senso che il salario individuale può regolare la velocità delle operazioni o la capacità di lavoro della macchina di ciascuno, ma è nondimeno dipendente dagli altri lavoratori i quali a loro volta agiscono in maniera relativamente autonoma: "Questa contraddizione fra controllo della macchina e dipendenza dagli altri, fra attività produttive e rapporti di produzione, dà luogo a dei conflitti particolari nelle officine."
I conflitti fra i diversi gruppi di lavoratori attenuano il conflitto con la direzione dell'impresa; in ogni caso, è giocoforza constatare che, nella prospettiva di Burawoy, non si tratti più di un conflitto capitale-lavoro ma di una serie di tensioni più o meno acute che derivano dall'assenza di condizioni tali per cui ciascun lavoratore possa "uscirne". La deviazione dei conflitti gerarchici verso dei "conflitti laterali" impedisce l'identificazione di classe. Su questo punto, l'analisi di Burawoy colpisce: non si tratta di una tendenza parziale, ed in quanto tale contingente, ma si tratta della trasformazione di una supremazia di classe fondata sulla coercizione in un'egemonia che viene prodotta e viene approvata dagli stessi dominati all'interno del processo di produzione. In tal senso, Burawoy condivide con Friedman ed Edwards l'idea per cui il capitalismo monopolistico non avrebbe più bisogno di metodi coercitivi per esercitare il suo dominio, in quanto può ottenere il controllo attraverso l'internalizzazione di un individualismo concorrenziale, più efficace al fine di ottenere, in definitiva, l'adesione dei lavoratori all'impresa.

La concorrenza che esiste sul mercato del lavoro esterno, si internalizza sotto forma di un'ideologia individualista e concorrenziale che si vede rafforzata nello spazio di produzione in ragione di due fattori. Da una parte, la creazione di un mercato interno del lavoro che si sviluppa all'interno dell'impresa e che configura i sistemi di promozione, la distribuzione dei posti di lavoro e la scala salariale. Dall'altra parte, lo sviluppo di un'organizzazione politica interna che si fa carico della contrattazione salariale e che permette l'istituzionalizzazione del conflitto. Quest'organizzazione dissimula i rapporti capitalistici di produzione attraverso la costituzione dei lavoratori come "cittadini industriali", titolari di diritti e di doveri. Questi due fattori, il mercato del lavoro interno e l'organizzazione politica che si svolge all'interno dell'azienda, svolgono delle funzioni complementari nel processo di fabbricazione del consenso, a condizione che la direzione non violi le norme che reggono le scelte a disposizione dei lavoratori.
Burawoy, nel 1984, ha avuto anche l'occasione di studiare i rapporti sociali che nascono in un contesto di produzione "non-capitalista", in quanto ha lavorato come operatore in un'industria ungherese. Questa ricerca gli ha consentito di avvicinarsi al tema delle fonti di controllo. Per molti decenni, l'ortodossia comunista si è limitata a segnalare che la base del controllo capitalista si fondava sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Burawoy ha mostrato che è possibile statalizzare un'impresa senza cambiare sostanzialmente i rapporti sociali né il tipo di controllo esercitato sulla manodopera. Comparativamente, l'organizzazione della produzione era molto più efficace di quanto lo fosse nella fabbrica di Chicago; gli operai lavoravano assai duramente, ma il ritmo della produzione era meno elevato: nessuno superava i limiti di produzione scelti collettivamente. Eppure, il clima di cooperazione non impediva la costituzione di rapporti di subordinazione fra i sessi, che erano alla base dei rapporti di dominio nelle officine, né l'alcolismo generalizzato come via di fuga al rigore delle condizioni di lavoro.

L'ORDINE ED IL TEMPO: PER UNA LETTURA DIALETTICA DI BUROWAY
L'opera di Buroway è stata ovviamente oggetto di critiche da parte di schieramenti diversi, i quali vi hanno visto, in primo luogo, la natura etnografica di tale opera. Da una parte, alcuni hanno criticato il fatto che Burawoy focalizzi la sua attenzione sullo studio del consenso, e che non prenda sufficientemente in considerazione le forma individuali di resistenza, quali l'abbandono del posto di lavoro, l'assenteismo ed altre forme di indisciplina (Edwards e Scullion, 1982). Più fondamentalmente, sembra che Burawoy abbia avuto la tendenza a generalizzare i risultati del suo studio, quando negli studi di questo genere è sempre possibile trovare delle tendenze contrarie. Inoltre, fino a che punto i suoi risultati potrebbero essere generalizzabili?

In una frase citata sovente, Marx ha sottolineato l'importanza del tempo storico, e la relazione dialettica che esiste fra l'ordine ed il tempo, per poter comprendere il momento presente: "Gli uomini fanno la loro propria storia, ma non la fanno liberamente, nelle circostanze scelte da loro stessi, bensì la fanno nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione."

Ciascuna impresa, ivi compresa la Allied, ha una storia nel corso della quale i rapporti e le procedure salariali e professionali si sono istituzionalizzate, le risorse sono state stabilite ed alcune azioni e decisioni sono state considerate più legittime di altre, o quanto meno come preferibili. Ad un dato momento, le direzioni delle imprese possono volere un reorientamento nel dominio della politica di controllo mirata alla produzione di consenso, cosa che può presupporre una novità qualitativa considerevole, nella costruzione dell'ordine industriale. Ma ciò non vuole necessariamente dire che le condizioni che producono il conflitto e la coercizione spariscano, o che esse siano radicalmente trasformate.
Analogamente, lo stato dei rapporti professionali - sia a livello macro che micro -, la cultura organizzativa dello stabilimento e la stessa lotta per il controllo del processo di produzione, condizionano pesantemente l'introduzione di innovazioni, anche nel dominio del controllo. Questo vuol dire che non si può più riconoscere ad esse un obiettivo esclusivamente razionale - in termini di massimizzazione delle opzioni tecniche ed umane - se non altro per il fatto che si riferiscono al passato e derivano dalla dialettica stessa della contrattazione salariale - passata e presente.
L'insieme di queste riflessioni ci può portare a considerare che in ultima istanza l'abilità del capitale a generare consenso dipende in primo luogo dal contesto socio-politico generale, e non fondamentalmente dal contesto particolare del processo lavorativo. I rapporti di forza in un determinato periodo, condizionano pesantemente i rapporti di potere all'interno dell'impresa. Questo senza dubbio spiega il fatto che nel periodo in cui Burawoy scriveva sul consenso, gli operai dequalificati italiani si battevano per l'autogestione operaia all'interno dei comitati di base. In generale, questa mediazione fra il particolare (l'esperienza particolare del lavoro) e l'universale (l'identità e la governance mondiale), in sociologia, rimane da essere approfondita.

Altri critici hanno messo in dubbio la sua costruzione della soggettività dei manager. E' vero che può essere accettata facilmente la tesi di un'assenza di coscienza di classe da parte degli operai, nel senso che, come dice lo stesso autore, l'esperienza dello sfruttamento non fa parte del loro quotidiano. Pertanto, quanto meno nella coerenza della sua analisi, non ha alcuna ragione valida per supporre a priori che tutti i manager e tutti i membri delle direzioni differiscano così fondamentalmente dai lavoratori, nel loro adattamento al lavoro capitalista, cioè a dire che anche essi partecipino, come fanno i lavoratori, alla produzione ed alla riproduzione del gioco.
Dacché egli considera lo spazio di lavoro come un luogo azionale organizzato intenzionalmente dagli organizzatori, al fine di promuovere il consenso, Burawoy sopprime la possibilità, anche teorica, di un ordine (o di un'organizzazione) negoziato al plurale, ossia concepito come una "arena politica" dove gli interessi e le fonti di potere siano plurali. Ricordiamo che i contesti in cui i giochi si riproducono necessitano di una certa indeterminazione per quel che concerne i risultati ottenuto. Tale indeterminazione, benché minima o semplicemente percettibile, mobilita la capacità dei salariati di esercitare dei livelli di controllo, deboli ma soddisfacenti, sul processo lavorativo. Questa "simulazione" di autonomia, secondo Burawoy, produce una denaturalizzazione del potere di agire in condizioni di autonomia: l'autonomia non è altro che di facciata, nel senso che essa viene suscitata dalle politiche manageriali poste in essere, e destinate in ultima analisi a nascondere oppressione e sfruttamento.

Credo che quest'approccio restrittivo e semplicistico al lavoro ed ai lavoratori costituisca il suo errore più madornale. Burawoy parte dalla necessità di interrogare nell'analisi, il momento della ricezione soggettiva della politica manageriale, in modo da superare un'analisi che ha avuto troppo spesso la tendenza a considerare i lavoratori come semplici oggetti passivi del dominio padronale. E non ha torto quando considera che la teoria del controllo manageriale, così come è stata sviluppata da Barverman, è insufficiente in questa sfera. Questa critica è tanto più importante dal momento che è impossibile comprendere i rapporti di produzione (nella loro stessa dinamica di trasformazione e/o di riproduzione) se vengono assunti come la sola dimensione del capitale. Tuttavia, l'autore non arriva alla fine della sua analisi, in quanto la sua tesi sul consenso non distingue fra l'oggettività del controllo manageriale e la sua internalizzazione soggettiva da parte dei lavoratori. Si potrebbe perfino affermare che, nella sua concezione del lavoro e dei lavoratori, gli attori si trovano pienamente disatutorizzati, nel senso che l'azione svolta, dal e nel gioco, derivi da una strategia concepita dal management. Riferendosi ai risultati della sociologia industriale, Burawoy reintroduce l'inganno, l'imbroglio. Ma questo non ci fa uscire da una concezione strumentale dell'attività, Anche se abitata dall'intelligenza astuta, l'attività viene considerata come strettamente asservita a degli obiettivi imposti ai salariati dall'esterno. Le questioni etiche e politiche vengono in questo modo situate come esterne all'attività. L'attore al lavoro, in quanto tale, si dissolve, dal momento che il terreno produttivo diventa un oggetto supplementare dell'inventario strategico manageriale. La sua tesi si avvicina in questo modo alla teoria della cospirazione.
Non possiamo quindi ritenere che Michael Burawoy abbia dato una risposta soddisfacente alla questione centrale, benché abbia posto le basi per tentare di rispondere seriamente: perché i lavoratori lavorano così duramente?
Questo interrogativo alimenterà delle riflessioni posteriori molto poco numerose. Robert e Daniel Linhart (1985) hanno cercato di superare l'insufficienza dell'approccio di Burawoy in questa sfera, introducendo la dimensione identitaria del lavoro. Così, per i Linhart, l'appropriazione di strumenti e di tecnologie, dal momento che permette un intervento maggiore sull'organizzazione del lavoro, si viene a trovare all'incrocio di due processi: l'integrazione oggettiva in quanto produttori zelanti e la contestazione soggettiva. L'idea sviluppata da questi autori consiste nel considerare che questi due processi apparentemente contraddittori operano insieme. Essi dipendono l'uno dall'altro e tendono a configurarsi vicendevolmente. La proposizione dei Linhart quindi comprende i lavoratori in quanto produttori efficaci  e zelanti, e allo stesso tempo contestatori della razionalità dell'organizzazione: è in questo perciò che risiede la profonda ambivalenza della natura del lavoratore contemporaneo.

OGGI, VA DI NUOVO POSTA LA DOMANDA
Trent'anni dopo la pubblicazione del libro di Burawoy, le trasformazioni del mondo del lavoro contemporaneo sembrano andare nel senso delle tendenze suggerite dall'autore, per quel che riguarda l'evoluzione delle modalità manageriali di mobilitare e mettere al lavoro. Nella nuova impresa, la dimensione umana viene stavolta presa in considerazione: non è più soltanto il tempo oggettivo della produzione ad essere oggetto del desiderio da parte della direzione dell'impresa, ma anche le modalità d'intervento ed il senso dell'implicazione dei lavoratori. A differenza di ieri, oggi il salariato non è solamente costretto a "lavorare velocemente", più velocemente di ieri; egli è anche costretto a "lavorare bene", cioè a dire a conformarsi alle nuove esigenze dell'impresa in termini quantitativi e qualitativi. Per adeguare i suoi comportamenti alle nuove norme, alle nuove esigenze produttive, ai nuovi obblighi spesso contraddittori, per assicurare una produzione continua, per rendere un servizio soddisfacente al cliente, il lavoratore deve mobilitare tutto il suo essere, sia mentalmente che emotivamente, ma anche fisicamente, per conseguire gli obiettivi non negoziabili fissati dalle direzioni.
E' tutta la tensione del flusso che dev'essere mantenuta attraverso la cooperazione di tutti i salariati, per mezzo di uno scambio più sostenuto di informazioni, per mezzo di una capacità di nuove reattività ed innovazioni, per mezzo di una volontà di superarsi continuamente, attraverso attività che non sono facilmente programmabili. La fissazione degli obiettivi, trasmessi a ciascun salariato sotto forma di contratto individuale, si erge nella modalità di una pressione onnipresente. Non è più sufficiente fare qualcosa, ma bisogna contribuire alla produzione del plusvalore. "E' stato invertito il senso della produzione industriale", ci dice Annie Thébaud-Mony nel suo ultimi libro (2007). Nelle officine, negli uffici, si installa l'arbitrario, sullo sfondo dell'individualizzaziuone, e gli obiettivi finanziari rimpiazzano gli obiettivi della produzione. Questo dispositivo contiere la contraddizione che fa letteralmente esplodere il lavoratore: "Si esigono da lui delle vere e proprie prodezze, si esige la trasformazione dell'eccezionale in quotidiano, e si valuta la sua capacità di realizzare l'irrealizzabile" (Annie Thébaud-Mony, 2007).

Le storie collettive, i valori del lavoro, si diluiscono nel lavoratore individualizzato, atomizzato, che deve mobilitare le sue capacità al servizio di valori puramente di mercato ed in quanto tali, estranei. La finalità del lavoro, il sentimento di utilità sociale, si dissolvono nel gesto tecnico. Le inchieste sociologiche e psicodinamiche sul lavoro, ci parlano di salariati che non possono più esercitare il loro mestiere secondo lo stato dell'arte, e che vivono costantemente sul filo del rasoio, e che spesso "crollano". Ora, se "crollano" così spesso, questo avviene perché si preoccupano di ciò che fanno e che non sono più disposti a fare a qualsiasi costo per fare coincidere i mezzi ed i fini del loro lavoro. Paradossalmente, è proprio nel momento in cui l'impresa si dichiara aperta alla società, ed afferma di voler alla fine far rientrare la cittadinanza nel suo seno grazie a differenti forme di partecipazione, che essa si arroga il diritto di definire una propria morale, a misura dei suoi soli interessi che essa intende imporre a tutti i suoi salariati. Così, il salariato si vede tagliato fuori dalla società.
Confrontandosi tutti i giorni con la materialità delle situazioni, i lavoratori si vedono costretti a dover decidere fra logiche diverse (merci, tecnica, morale). Lo fanno, ma l'orientamento scelto non è determinato in anticipo, esso diventa molto problematico. Il lavoro diventa una questione di vita o di morte in senso non letterale, come dice Annie Thébaud-Mony (2007), ma ontologico, cioè a dire a seconda che esso permetta o non permetta ai salariati di continuare ad orientare, attraverso la loro attività, la direzione in cui marcia il mondo secondo i loro propri valori, di acquisirlo per farne una proprietà sociale.

Prendiamo l'esempio dei Call Center. La razionalizzazione temporale del processo di produzione si accompagna ad potente razionalizzazione morale del contenuto del lavoro. Lo "strumento del sorriso" va usato continuamente quando si entra in una di queste unità di produzione: le fabbriche moderne, così come sono state descritte nella letteratura sociologica. Il lavoro diventa più difficile e più penoso, non solo perché è più ripetitivo, monotono ed automatizzato, ma perché bisogna sempre giocare continuamente un ruolo, perché sospendere la propria personalità ed i propri valori per adottarne degli altri, dettati dalla razionalità dell'impresa ed iscritti nel processo lavorativo: redditività e produttività. Se la società, in quanto insieme di valori e norme irriducibili ai valori del mercato, viene così portata a dissolversi nel luogo di lavoro, i salariati tuttavia riescono ad imporre nell'attività le loro proprie valorizzazioni, ed a costituirsi in collettivo di lavoro a partire da queste altre valorizzazioni del lavoro e della sua finalità. Ho potuto così osservare un conflitto in uno di questi call center, dove i salariati sono scesi in sciopero perché il prodotto di punta dell'azienda, che dovevano vendere tutti i giorni, non funzionava correttamente: "Non si può continuare a mentire al cliente come è stato fatto finora", hanno fatto osservare alla direzione (Calderòn, 2005).

Si può vedere bene come la questione proposta da Nurawoy oggi acquista una rinnovata importanza. Porsi il problema riguardo alla molla della mobilitazione sul lavoro, nella prospettiva di ricerca aperta dall'autore nordamericano, oggi ci dovrebbe portare a rendere visibile il lavoro ed i lavoratori, che nella sociologia si vedono spesso confinati in una posizione di passività o di sofferenza. Dei lavoratori che, oltre al loro adattamento a delle condizioni di lavoro sempre più degradate, riescano ancora a far vivere i loro propri valori, ed eventualmente ad organizzarsi per la loro difesa. Questa prospettiva di ricerca, probabilmente necessita di tempi e di apporti multipli, e apre indubbiamente delle problematiche ancora poco esplorate. Noi pensiamo di aver aperto qualche pista che ci permette di continuare ad avanzare.

- José Angel Calderón - Pubblicato su "Tracés. Revue de Sciences humaines" online, il 30 maggio 2009 -

fonte: Tracés. Revue de Sciences humaines

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