martedì 13 ottobre 2015

decenza vorrebbe…

jappe

"Common decency" o corporativismo
- Osservazioni sull'opera di Jean-Claude Michéa -
di Anselm Jappe

Secondo alcuni, il capitalismo, chiamato anche economia di mercato più democrazia, vive, malgrado le sue crisi, una fase storica di grande espansione. Secondo altri, questi trionfi non sono altro che una fuga in avanti la quale maschera la sua situazione ogni giorno sempre più precaria. Ad ogni modo, si può dire che viviamo in un'epoca che non somiglia a nessun'altra. Questo appare del tutto evidente - salvo a quelli che hanno fatto della critica al capitalismo il loro mestiere. Si sarebbe potuto sperare che la fine definitiva del "socialismo di Stato", nel 1989, avesse anche messo fine a quel genere di marxismo legato, in un modo o nell'altro, alla modernizzazione "di recupero" che aveva avuto luogo negli "Stati operai". Il campo sembrava ormai sgombro per l'elaborazione di una nuova critica sociale, all'altezza del capitalismo postmoderno e capace di riprendere le questioni di base. Ma il rapido impoverimento delle classi medie, un'evoluzione che pressoché nessuno aveva previsto, ha ridato un vigore inaspettato a delle recriminazioni che rimproverano al sistema capitalista soltanto le ingiustizie della distribuzione, e i danni collaterali che producono, senza mettere mai seriamente in discussione la sua stessa esistenza ed il tipo di vita che impone. E' appoggiandosi spesso ai concetti più obsoleti del marxismo tradizionale, che troskisti elettorali, negriani ed altri cittadinisti espongono la loro richiesta di una diversa gestione della società industriale capitalista. Qui, la critica sociale si riduce essenzialmente al dualismo fra sfruttatori e sfruttati, dominanti e dominati, conservatori e progressisti, destra e sinistra, cattivi e buoni. Quindi, niente di nuovo sotto il sole. I fronti sono sempre gli stessi. Ed è un Karl Marx ridotto a cacciatore di "profitti immorali" che esercita nuovamente un diritto di presenza nei grandi media. La crisi finanziaria della fine del 2008, ha fatto tuttavia guadagnare dei punti a questa spiegazione del mondo.

Fortunatamente, a margine di questo confronto mediatico-elettorale fra liberalismo ed altermondialismo - che spesso non è nient'altro che una versione modernizzata della socialdemocrazia -, hanno cominciato ad essere formulate altre forme di critica sociale. Affrancati dall'obbligo di lanciare degli slogan per poter radunare le folle, alcuni autori hanno focalizzato la loro critica soprattutto sullo stato reale dei soggetti creati dal capitalismo ed hanno cominciato a mettere in dubbio il mito di una sinistra, o di un'estrema sinistra, eroicamente opposta ad un capitale sempre desideroso di annullare le "conquiste dei lavoratori" o delle "minoranze". Malgrado le loro grandi differenze, a volte contrapposizioni, su diversi punti, si possono trovare elementi di una tale prospettiva in autori come Luc Boltanski, Serge Latouche (e in generale agli autori legati al tema della "decrescita"), Dany-Robert Dufour, Annie Lebrun, Jaime Semprun o Jean-Claude Michéa, solo per limitarsi agli autori francesi. Le loro fonti sono assai varie e vanno dalle idee situazioniste fino alla psicoanalisi lacaniana, dal surrealismo all'ecologia. Allo stesso tempo, si comincia ad assistere alla diffusione di una critica che ha il suo punto di partenza in una ripresa delle categorie della critica dell'economia politica formulata da Karl Marx (il Marx "esoterico"): è la critica del valore e del feticismo della merce. E' incoraggiante poter constatare l'inizio di alcuni cambiamenti in questi differenti approcci che forse potranno portare un giorno ad una nuova critica sociale capace di coniugare l'acutezza della descrizione fenomenologica con il rigore delle analisi di fondo.

E' dunque dal punto di vista della "critica del valore" che qui andiamo a commentare una parte dell'opera di Jean-Claude Michéa. Quest'autore estraneo all'università ed ai media ha trovato un pubblico sempre più ampio. A partire dai suoi primi libri su George Orwell e sul "insegnamento dell'ignoranza", ha elaborato una critica sociale molto originale, soprattutto in quanto essa comprende anche una forte critica di tutta la sinistra, accusata di essere "liberale" e di aver abbandonato ogni prospettiva veramente anticapitalista. Vi si trovano degli aspetti che non solo possono essere sottoscritti senza riserve, ma che inoltre aprono delle vere e proprie nuove prospettive per la comprensione della "apocalisse dei nostri tempi", per cui bisogna essergli grati. Tuttavia, vi sono altri sviluppi sui quali non si può che esprimere, dal punto di vista della critica del valore, un disaccordo, a volte anche molto forte. E questo, per le nuove condizioni della critica, è un buon segno: non esiste più un'unica scala per determinare se un pensiero sia vicino o lontano rispetto ad un altro, non ci si deve più obbligatoriamente iscrivere ad uno dei partiti della riflessione per cui quelli che condividono le opinioni su "a" devono per forza condividere anche quelle su "b".

La tesi principale di Michéa non possono che sembrare provocatorie per un militante della sinistra: egli descrive "la sinistra" come una forma di liberalismo. Tuttavia, quest'amara constatazione è effettivamente essenziale per comprendere la storia del capitalismo. All'inizio del mio "Le avventure della merce", si può leggere che Karl Marx, con una parte della sua opera (la parte "essoterica"), è stato "il teorico della modernizzazione, il 'dissidente del liberalismo politico' (Kurz), un rappresentante dei Lumi che voleva perfezionare la società industriale sotto la direzione del proletariato". Michéa ha assolutamente ragione nel sottolineare che il capitalismo non è affatto conservatore per quel che riguarda la sua essenza, e che lo spirito borghese non è uguale al capitalismo. Egli analizza con acutezza il contributo dato alla modernizzazione del capitalismo da molte delle lotte della sinistra post-sessantottarda, quali il culto della gioventù, del nomadismo e degli uomini senza qualità e senza legami (di cui Gilles Deleuze è stato il cantore più conosciuto) [*1]. Egli sottolinea le ambiguità della "filosofia del sospetto" e della "demolizione degli eroi", e più in generale i danni provocati dall'educazione contemporanea. Allo stesso tempo, si capisce che la sua critica dei Lumi è sempre portata avanti in nome del "progetto moderno di emancipazione" e non ha niente a che vedere con un semplice rimpianto nostalgico del mondo che fu, ivi compreso il suo ordine sociale - rimpianto che comincia a diffondersi, perfino in certe nicchie della critica "anti-industriale". L'autore combatte la convinzione che la crescita delle forze produttive rovescerà i rapporti di produzione in senso emancipatore e vede, a ragione, nelle teorie di Antonio Negri e dei suoi seguaci un avatar di tale illusione che dura da più di due secoli. Alla fine, la grande forza di Michéa è quella di insistere sulla necessità di una riforma morale per uscire dal pantano della società delle merci. Questo tema viene raramente affrontato da coloro che si vogliono nemici del sistema, dal momento che l'esigenza morale presuppone che ciascuno sia capace di fare uno sforzo personale per sottrarsi parzialmente al sistema, invece di considerarsi una semplice vittima. Nelle pagine migliori di Michéa si respira, del resto come in quelle del suo ispiratore Christopher Lasch, l'autore de "La cultura del narcisismo", una vera e propria aria di "saggezza", dove il personale si coniuga con l'universale.

Tuttavia, le teorie di Jean-Claude Michéa suscitano almeno due grandi obiezioni. La prima riguarda il suo rifiuto di riconoscere la centralità della critica dell'economia politica per comprendere la società capitalista. La seconda, che in un certo qual modo ne deriva, riguarda il posto centrale che i concetti di "comune senso del pudore" e di "popolo" occupano nella sua riflessione.

Viene comunemente ammesso che il "materialismo storico" costituisce uno dei pilastri del pensiero di Karl Marx e del marxismo in generale. Quest'affermazione non è affatto falsa, anche se Karl Marx e Friedrich Engels hanno poco a poco approfondito le prime definizioni un po' semplicistiche che avevano dato nelle loro opere giovanili", "L'ideologia tedesca" e "Miseria della filosofia", cui Michéa si riferisce. La spiegazione materialista della storia ha significato una grande rottura con tutta la precedente storiografia, ed un certo unilateralismo, che ha sempre mantenuto anche nello stesso Marx, è pure dovuto a questa necessità di sostenere con vigore una prospettiva del tutto nuova (in effetti, i liberali non avevano mai applicato la loro antropologia dell'egoismo alla storia). La fossilizzazione dell'opera di Marx nel marxismo successivo, divenuto l'ideologia ufficiale di un movimento operaio che ormai si poneva all'interno delle categorie capitalistiche di base che non venivano più messe in discussione, aveva trasformato l'intuizione materialista originale in articolo di fede ed in denuncia ossessiva dello "idealismo borghese". Ma a differenza di quel che pensa Michéa, la spiegazione materialista della storia non è affatto logicamente identica alla fede nei benefici del progresso, sui quali d'altronde il vecchio Marx cominciava ad esprimere dei dubbi. Il materialismo storico partiva piuttosto dallo schema "base" contro "sovrastruttura", secondo il quale le attività di produzione e di riproduzione materiale, da un lato, e tutto il resto dell'esistenza umana, dall'altro, si trovano in una relazione di causa ed effetto. L'attività economica sarebbe, sempre e dappertutto, al centro della vita umana. E' la constatazione, quindi, per cui l'innegabile importanza di altri fattori, quali il linguaggio, la psicologia o la religione che hanno valso al marxismo, ed allo stesso Marx, l'accusa di "economicismo" e che ha spinto molti intellettuali inizialmente ispirati da Marx - come Cornelius Castoriadis o Habermas - a declassare il marxismo al rango di "scienza ausiliaria", ancora utile per comprendere certi meccanismi economici, ma assolutamente inadeguato ad afferrare la complessità della vita moderna.

Uno dei punti forti della critica del valore è quello di aver radicalmente rotto con la dicotomia della base e della sovrastruttura - non in nome di una presunta "pluralità" di fattori, ma appoggiandosi alla critica marxiana del feticismo. Il feticismo della merce non è una falsa coscienza, una mistificazione, ma una forma di esistenza sociale totale, la quale si situa a monte di ogni separazione fra riproduzione materiale e fattori mentali, dal momento che determina le forme stesse del pensare e dell'agire. Esso condivide questi tratti con altre forme di feticismo, quali la coscienza religiosa. Potrebbe così essere caratterizzato come un apriori - che tuttavia non è ontologico come in Kant, ma storico e soggetto ad evoluzione. Questo interrogativo sui codici generali di ciascuna epoca storica salvaguarda, allo stesso tempo, contro la frammentazione introdotta dall'approccio post-strutturalista e postmoderno, una prospettiva unitaria. Lo sviluppo di quest'approccio è ancora al suo inizio, ma si può indicare, come esempio del suo potere euristico, lo sguardo che permette di gettare sulla nascita del capitalismo nel 14° e nel 15° secolo [*2]: esiste un legame tra gli inizi di una visione positiva del lavoro nei monasteri nel corso del Medioevo, la sostituzione del "tempo astratto" al "tempo concreto" (e la costruzione dei primi orologi), le innovazioni tecniche e l'invenzione delle armi da fuoco  - quest'ultima è stata all'origine dell'enorme bisogno di denaro da parte dei nascenti Stati, ed ha dato impulso alla trasformazione delle economie di sussistenza in economie monetarie. in questo caso è impossibile stabilire una gerarchia fra dei fattori "ideali" (la concezione del tempo, la mentalità del lavoro)  e dei fattori materiali o tecnologici; allo stesso tempo, non si tratta affatto di una semplice coincidenza fra elementi indipendenti. L'attitudine all'astrazione e alla quantificazione sembrano qui costituire questo feticismo, questo codice a priori, questa forma di coscienza generale senza la quale le innovazioni tecnologiche o le scoperte geografiche non avrebbero avuto l'impatto che hanno avuto - e viceversa.

Questo "superamento" del materialismo storico - un vero e proprio Aufhebung in senso hegeliano - non è affatto un compito facile; si tratta piuttosto di un lavoro di lungo respiro. Purtroppo, il rifiuto  - assai giustificato - della vulgata materialista ha portato molti pensatori, a partire dagli anni sessanta, semplicemente a cogliere l'altra alternativa del dilemma tradizionale, e a ritornare a delle forme di spiegazione "idealista" della storia. E' il caso dell'opera di Michel Foucault con i suoi "epistemi" arrivati da nessun luogo, come del "decostruttivismo" che non vede altro che dei "discorsi" all'opera. Michéa, anche lui, ci tiene a smarcarsi esplicitamente dal "materialismo storico". Sembra così che il capitalismo e la società liberale esistano in quanto qualcuno li ha immaginati e qualcun'altro si è applicato a mettere in pratica queste idee. Il capitalismo sarebbe, secondo Michéa, "da principio una metafisica (e solamente in seguito il sistema realmente esistente generato dalla volontà politica di sperimentare quella metafisica)" (Michéa, "Impasse Adam Smith"). Nel suo ultimo libro, scrive: "In effetti, sostengo che il movimento storico che trasforma profondamente le società moderne dev'essere fondamentalmente compreso come la realizzazione logica (ovvero, la verità) del progetto filosofico liberale, così come si è progressivamente definito dopo il 17° secolo". Il liberalismo è stato voluto prima di essere implementato e, da più di due secoli, le "élite politiche occidentali" sono impegnate a "materializzare i dogmi su scala mondiale" [*3].

Ora, è proprio il fatto di mettere in rilievo che il capitalismo possiede delle radici metafisiche e non è solo, come si presenta, un progetto razionale di dominio del mondo, che procede dall'Illuminismo e che si definisce al di là di ogni metafisica e di ogni religione. Si può dimostrare, al contrario, che il valore economico e la sua auto-valorizzazione permanente non hanno solamente preso il posto degli antichi dei cui bisognava sacrificare, ma che il valore, e quindi il lavoro, il capitale, il denaro, ecc., hanno la loro diretta origine nelle antiche metafisiche. Sono in gran parte delle secolarizzazione di ciò che nel passato si presentava apertamente come religioso. Walter Benjamin è stato uno dei primi a fare delle riflessioni a tale proposito.

Ma in Michéa si tratta di qualcos'altro: egli afferma che le condizioni per la nascita del capitalismo si erano già verificate più volte, nel corso della storia, e che perciò il capitalismo non è affatto la "conseguenza ineluttabile del grado di sviluppo oggettivo" (Michéa, "Impasse Adam Smith"), in quanto era necessaria anche una determinata "configurazione politica e filosofica" (Michéa, ivi). Tuttavia, egli non descrive affatto un processo anonimi, dove gli atti sociali e le idee sono le due facce della medesima forma feticista, ma ci presenta una filosofia che è stata, secondo lui, capace di rimodellare la realtà. Espone la sua tesi con chiarezza: gli orrori delle guerre di religione nel 16° e 17° secolo hanno fatto nascere il progetto liberale di edificare una società che non chiede più agli uomini di essere buoni, ma soltanto di rispettare alcune regole che permettano loro di perseguire i propri interessi. Ma è qui che nasce un problema: se un secolo di massacri nel nome della religione può effettivamente spiegare la genesi della filosofia di Hobbes o di Spinoza, non spiega però del tutto la persistenza di un tale pensiero una volta che le guerre sono terminate. Il trauma è stato troppo duraturo? La storia dimostra tuttavia che le idee ricadono assai velocemente nell'oblio una volta che scompare il contesto che le ha fatte nascere. Quando il liberalismo ha cominciato a riportare i suoi veri trionfi, all'inizio del 19° secolo, esso aveva molte cose assai più conformi allo spirito dei contemporanei di quanto lo fossero le guerre di religione. Ci sono due possibilità: o che il liberalismo ha vinto perché era "in sintonia" con le "necessità" del capitale, dal momento che quello era divenuto la forma predominante della riproduzione sociale, oppure che bisogna attribuire un ruolo determinante alle idee ed alle "élite" in grado di imporsi con la forza e con l'astuzia. Questa seconda ipotesi, ci porta verso una spiegazione del capitalismo come cospirazione permanente dei grandi signori malvagi contro il popolo buono. Michéa rifiuta esplicitamente le "teorie del complotto", ma si chiede se così non si rischi che esse rientrino dalla finestra.

Si può applicare al ruolo delle idee - ad esempio, il "progetto di organizzare scientificamente l'umanità", al quale Michéa attribuisce grande importanza per quel che concerne la nascita dell'Unione Sovietica - l'argomento che Michéa giustamente oppone a coloro che attribuiscono un ruolo decisivo alle invenzioni tecnologiche (e che non si trovano soltanto nel campo marxista - basta pensare a Marshall McLuhan): invenzioni come la macchina a vapore sono state fatte molte volte nella storia, ma c'era ancora bisogno che tutte le altre condizioni - sociali e "di mentalità" - si unissero, prima che queste invenzioni potessero essere adottate e sviluppassero il loro potenziale. Questo ragionamento vale anche per le idee: perché un pensiero che esisteva, o che avrebbe potuto esistere, da molto tempo, ha cominciato a giocare il suo ruolo storico in quel preciso momento? Già Tommaso Campanella voleva che la sua "Città del sole" fosse governata da preti-scienziati.

Alla fine, Michéa ha ragione a criticare le proiezioni retrospettive sulle società pre-capitaliste delle categorie economiche moderne, come ha fatto Friedrich Engels nelle sue ultime opere. Ma il "materialismo storico" non è solo nato nella società moderna, ma ci dice anche la verità riguardo a questa società: è lo sviluppo capitalista stesso che ha effettivamente sottomesso la totalità dell'esistenza umana agli imperativi economici - o direttamente, o indirettamente con la creazione di ideologie e di sfere della vita che devono assicurare il funzionamento della macchina economica. Il totalitarismo della merce ha quindi realizzato il materialismo enunciato dal marxismo. Questa constatazione assume un senso quando si considera che il dominio dell'economia capitalista non è un progetto che sarebbe eticamente ingiusto, ma razionale e realizzabile - ma che piuttosto è la quintessenza dell'irrazionale e dell'autodistruzione. E quelli che denunciano "l'economicismo" di Marx credono di scoprire un'insufficienza della teoria di Marx, quando invece negano il difetto principale della realtà capitalista: il suo "economicismo realmente esistente".

Sovente, insieme all'acqua sporca dello "economicismo", si getta via tutta la critica dell'economia politica. Per una critica sociale che si voglia radicale, è fondamentale riconoscere nelle categorie di base della società capitalista - la merce, il valore, il lavoro, il denaro, il capitale, la concorrenza, il mercato, la crescita - delle categorie appartenenti a tutta la vita nella società. Non basta criticare le sole idee dominanti e credere che il sistema funzioni essenzialmente manipolando le coscienze delle persone. La critica della "rappresentazione economica del mondo" è prioritaria per Michéa - ma non si tratta solamente della "rappresentazione", cioè a dire del predominio dell'economia dentro le teste. Bisogna soprattutto demolire il dominio reale dell'economia, che si esercita anche su coloro che lo detestano. Si può constatare spesso, presso gli ambienti "critici", la convinzione che se perdesse l'approvazione dei suoi soggetti, il capitalismo entrerebbe in crisi [*4]. Ma la crisi ecologica dimostra chiaramente la dissociazione totale fra coscienza e ciò che i meccanismi anonimi della concorrenza ci costringono a fare tutti i giorni. Questi discorsi - per non parlare delle teorie decostruttivistiche, secondo le quali agire sulle rappresentazioni è il solo modo di agire, in quanto le rappresentazioni sono l'unica realtà - finiscono sempre per riportarci alla famosa frase d'inizio de "L'ideologia tedesca", in cui Karl Marx e Friedrich Engels si fingono giovani hegeliani (vero e proprio anello mancante fra i sofisti ed i postmoderni) che credono che gli uomini anneghino perché non riescono a liberarsi dall'idea di gravità...

Quest'assenza di un ancoraggio nella critica dell'economia politica (anche se Michéa rammenta che Marx ha svolto la critica dell'economia politica) lo porta alla fine a trascurare ogni critica del soggetto ed ogni critica del lavoro. Mentre descrive con brio le tristi forme della soggettività contemporanea, soprattutto fra i più giovani, si blocca in una dicotomia fra logica liberale del capitale (nella quale fa rientrare anche la sinistra e l'estrema sinistra "realmente esistenti", e questo sono fra le sue analisi più forti), da un lato, ed i soggetti, le "persone" e la "democrazia", dall'altro lato. Qui si arriva al secondo punto della critica. Mentre la pars destruens dell'analisi di Michéa è largamente convincente, la pars costruens lo è molto meno - un destino che condivide, e quasi necessariamente, con tutti quelli che vogliono indicare qualche "soluzione" ai mali che descrivono. Sa bene che la sua difesa del "populismo" presta il fianco a numerose critiche. Tuttavia, sottolineare l'attuale "cattiva fama" di questo concetto, come fa Michéa, non dimostra affatto che sia buono.

In primo luogo, l'affermazione per cui "le virtù umane di base sono ancora largamente diffuse nelle classi popolari" non può non scontrarsi con una massa di osservazioni empiriche. Il fatto che Michéa, seguendo George Orwell, eviti di definire chiaramente il suo concetto-chiave di "comune decenza" non basta a metterlo al riparo da ogni critica. L'affermazione per cui le "persone ordinarie" abbiano largamente praticato, o pratichino ancira, nella loro vita quotidiana, un minimo di virtù ordinarie, trova delle conferme, ma anche troppe eccezioni per poter costituire una regola. Dov'era la decenza comune dei tedeschi negli anni trenta? Dei russi al tempo di Stalin? Si risponde che quelle società erano già largamente rose dalla moderna logica dell'interesse personale? Ma dov'era allora la decenza comune degli spagnoli del 17° secolo? Difficile immaginare una società più indecente di quella descritta da Francisco de Quevedo in "El Buscón (Vita dell'avventuriero Don Pablos de Segovia)" (1626).

Certo, nelle comunità tradizionali, la decenza esiste effettivamente - sotto forma di solidarietà, di mutualità, di generosità, di quell'attitudine che consiste nel non nuocere agli altri - anche se spesso è il pensiero della sua stessa reputazione, a produrla. La si potrebbe definire come la sospensione parziale della concorrenza all'interno di un gruppo, e come un ruolo accresciuto del dono in rapporto allo scambio mercantile. Il problema è che questa decenza è spesso praticata soltanto all'interno del gruppo, rifiutandola agli altri. Frequentemente, essa non si applica agli stranieri, alla gente di passaggio: con loro, non vi è alcuna "catena di doni", nessun ritorno possibile. Si ha perfino l'impressione che questa decenza funzioni proprio a condizione di non essere universalizzata, a volte persino nell'essere inversamente proporzionale alla sua universabilità. Vi sono dei gruppi dove un certo "calore umano" all'interno, esteso all'occasione ai visitatori, si accompagna all'estrema malvagità verso gli altri gruppi. Di questo talvolta consiste il fascino ambiguo degli abitanti del sud di alcuni paesi, in Francia come in Italia, in Spagna o negli Stati Uniti. La solidarietà e lo spirito del dono all'interno di un collettivo possono trasformarsi, fuori dal loro ambiente di origine, in corporativismo ed infine in comportamento mafioso, soprattutto nel caso di certe minoranze etniche o religiose. Anche i malfattori di una volta avevano i loro codici d'onore che consisteva anche in una maniera di essere "decenti" fra di loro [*5]. Oggi, molte delle forme di estremo egoismo di alcune "comunità" (la Lega è forse il solo partito italiano attuale nato al di fuori delle élite e nei bar) hanno come fondamento la loro pretesa difesa contro delle persone che "nemmeno conoscono" e verso le quali, di conseguenza, non si possono avere dei rapporti di fiducia, quindi "decenti" [*6].

E' bello pensare che il processo di umanizzazione consista largamente nell'approfondimento, nell'interiorizzazione e nell'universalizzazione di questa decenza inizialmente praticata in ambiti ristretti (e normalmente basati su qualche forma di trasmissione per nascita), ma non se ne trovano molti esempi. E' vero che tali attitudini positive continuano ad esistere; la più parte delle persono compiono, giorno dopo giorno, degli atti che, in un'ottica strettamente liberale del "proprio interesse", dovrebbero essere giudicati inutili o nocivi. Tuttavia, non costituiscono necessariamente una "alternativa" all'economia mercantile, in quanto queste attitudini non avrebbero potuto continuare ad esistere così a lungo se una buona parte della riproduzione quotidiana non si svolgesse sotto una tale forma di non mercato. Sono proprio i ricercatori del MAUSS (Movimento Anti-utilitarista nelle Scienze Sociali), spesso citati da Michéa, che hanno messo in rilievo questo rapporto di complementarità. Queste attività non di mercato, ma integrate nel sistema di mercato come sua base invisibile, alla fine si prestano a venir recuperati sotto forma di "terzo settore", di volontariato, di servizi civici, ecc., semplici imprese di riparazione che assicurano la continuità del tutto. Qui, si avverte il rischio che i discorsi benintenzionati a proposito del dono, dell'autogestione, dell'economia alternativa nelle nicchie, alla fine non servano ad altro che alla costruzione di forme alternative di sopravvivenza che rimangono del tutto subordinate alla perpetuazione del disastro del mercato.

Di contro, si può pienamente approvare Michéa quando afferma che non si può affatto trattare di forgiare un "uomo nuovo" libero dai vizi e dai limiti umani, ma di creare dei contesti dove il desiderio di potere dei "Robert Macaire" (N.d.T.: figura letteraria del 19° secolo, incarnazione dell'arrivista cinico) si possa sfogare solamente in delle attività innocenti [*7]. Tuttavia, quello che andrebbe più spiegato - e combattuto - nella vita sociale non è tanto il desiderio di potere e di ricchezza da parte di alcuni - che in quanto tale non ha niente di misterioso - quanto la passività degli altri. Michéa, in effetti si pone la questione: perché c'è così poca opposizione ad un mondo così catastrofico? E' dovuto, dice, al fatto che la sinistra non immagina altro che un progresso tecnologico e disprezza le virtù delle persone comuni. E' vero, ma è troppo semplice come spiegazione.

Le sue affermazioni circa il ruolo storico della sinistra presentano dei tratti comuni con le analisi che i teorici della critica del valore hanno proposto a proposito del movimento operaio in quanto fattore immanente all'espansione capitalista. Tuttavia, Michéa vuole distinguere nettamente fra "sinistra" e "movimento operaio originale". Secondo lui, la sinistra è "metafisicamente" a favore del progresso e della modernizzazione, in quanto essa si concepisce come erede dei Lumi e come parte del cambiamento. Ma, aggiunge, l'individualismo liberale è l'unico sviluppo coerente dell'Illuminismo, e la sinistra si limita a voler "regolare" dei dettagli. Il socialismo operaio, al contrario, nacque, secondo Michéa, come opposizione alla modernità e all'individualismo assoluto, all'atomizzazione, alla dissoluzione delle comunità. Era in opposizione soprattutto al Sansimonismo, il quale si trova all'origine della sinistra progressista. E' all'epoca di Alfred Dreyfus che il socialismo operaio - che era proudhoniano piuttosto che marxista - si è unito alla sinistra repubblicana e liberale per la quale il progresso è necessariamente emancipatore; questo compromesso storico si è ripetuto con il Fronte popolare. Gli effetti positivi di una simile alleanza sono ormai passati, secondo Michéa, e della sinistra che ne è risultata non rimane altro che l'acquiescenza all'economia.

Per Michéa, l'alternativa al liberalismo e alla sinistra si trova in quel "socialismo originario" di cui fa un grand'elogio. Tuttavia, non va dimenticato il ruolo che ha giocato l'antisemitismo per Fourier e Proudhon. Non è stato solamente un "errore" dovuto allo "spirito dei tempi". I primi socialisti hanno espresso, insieme a molte cose giuste, anche la convinzione per cui "noi" - il popolo, i lavoratori onesti, le masse - siamo puri e buoni, e che tutto il male proviene dalle azioni degli altri (ebrei, franco-massoni, ecc.), generalmente situati nella sfera della circolazione (commercianti, speculatori). Così, non viene affatto messo in discussione il loro status di lavoratori che, al contrario, costituisce la base della "decenza". Si domandano semplicemente delle condizioni più "decenti" per il proprio lavoro.

Oggi, checché ne dica Michéa, esiste benissimo un populismo di estrema sinistra in cui l'anticapitalismo si riduce nell'inveire contro le "fortune indecenti" dei manager e a difendere i "lavoratori onesti" contro il capitale finanziario e contro i redditi senza lavoro. Questo populismo di sinistra potrebbe benissimo scatenarsi prossimamente in una caccia agli "speculatori" che non farebbe altro che rafforzare la logica anonima del sistema. Nel corso della crisi finanziaria del 2008, se ne sono già visti i prodromi: tutto il mondo, a destra come a sinistra, era d'accordo nel dare la colpa ai cattivi banchieri, e non a tutto il capitalismo in quanto tale. Ci si potrebbe così, nella maniera più innocente, limitarsi a domandare - invano - un "capitalismo dal volto umano": una società di mercato un po' più decente dove si proibiscano certi eccessi. Condannare, come fa Michéa, le ricchezze "indecenti" presuppone già l'accettazione della ricchezza del mercato, e questa non può che svilupparsi fino all'indecenza. Anche il Partito socialista condanna le "indecenti indennità" dei top manager - per cui è ben d'accordo che ci siano dei "paracadute dorati" un po' più "decenti" [*8]. Qui Michéa, come d'altronde Cristopher Lasch, sembra credere nella possibilità che il capitalismo si auto-limiti. La sua citazione dello scrittore anarchico americano Paul Goodman diventa altamente significativa: a quale cambiamento sociale pensa, se la conseguenza sarebbe che le persone possano semplicemente "tornare alle loro professioni, ai loro sport, alle loro amicizie", quindi anche alle stesse attività inutili e distruttrici di prima?

A fronte dell'attuale deterioramento generale delle condizioni di vita, che spinge verso una vera e propria barbarie, si potrebbe in effetti sostenere che la semplice difesa, o la conservazione, dei modi di vita che rimangono comuni da cinquant'anni, anche se non hanno niente della società ideale, farebbero già la figura del "male minore" (paradossalmente!). Ma questa modestia degli obiettivi è realista? Si potrebbe tornare alle tappe "meno indecenti" del capitalismo - e non si tratta del programma degli altermondialisti o di Pierre Bourdeau, contro i quali Michéa giustamente polemizza? Ma se si è passati dal compromesso "fordista-keynesiano" del dopoguerra all'attuale "turbo-capitalismo", non è stato solo a causa della sete di profitti "indecenti" da parte dei padroni, ma essenzialmente a causa del dinamismo del valore capitalista che non permette mai di fermarsi ad un dato livello.

Fra le pagine più notevoli di Michéa, vanno contate quelle che egli consacra al ruolo della "seduzione" e del culto della "trasgressione", divenuti centrali ai fini del dominio contemporaneo. Tuttavia, anche qui sarebbe stata utile una riflessione più centrata sulle categorie di base del capitalismo: avrebbe permesso di comprendere che il capitalismo non è libero di continuare indefinitivamente sotto forma di una "società del benessere". L'affanno dell'accumulazione del capitale su scala mondiale - inevitabile in un regime di concorrenza - crea un contesto di crisi, dove la carota è sempre più accompagnata dal vecchio bastone. Non si può identificare il capitale né con il solo Stato, né con il solo Mercato, né con il solo partito dell'Ordine, né con la sola trasgressione. E' sempre l'unità dialettica delle due cose. Michéa sa bene che oggi il capitalismo, non è affatto trionfante, e che, al contrario, mina le proprie basi. Ma, come molti altri commentatori, vede essenzialmente una crisi di legittimazione e non un'implosione progressiva delle basi dell'accumulazione del valore. La "seduzione" è soprattutto il caso della concorrenza fra imprese capitaliste che si contendono il denaro dei consumatori. Ma il sistema in quanto tale non funziona essenzialmente perché è approvato dai suoi soggetti, ma perché rende impossibile qualsiasi alternativa. Quindi è sbagliato credere che la sua fonte principale consista nello sforzo per farsi amare o per nascondere la sua vera natura. Tutti sanno che è la società industriale a trafiggere lo strato di ozono, ma questa stessa società industriale si è imposta come la sola forma possibile di esistenza, un'uscita dalla quale appare immaginabile solamente sotto la forma di una catastrofe definitiva.

Il vecchio autoritarismo perciò conserva un ruolo maggiore di quanto pensino Michéa o Dany-Robert Dufour, allo stesso modo di altre forme di potere che sembravano antiquate. L'Italia è uno dei centri del capitalismo mondiale, ma la Chiesa cattolica non fa altro che portare avanti delle battaglie di retroguardia. Nel 2007, ha fatto scendere in piazza due milioni di persone per protestare contro il semplice progetto di instaurare in Italia l'equivalente dei "Pacs" francesi (per le sole coppie eterosessuali), progetto subito ritirato dal governo Prodi. Qui come altrove, la critica "radicale" si sbaglia nel ritenere che sia necessariamente la sinistra la soluzione che converrebbe di più al capitale, dal momento che gli assicurerebbe la maggior adesione possibile. Come spiegare allora il ritorno della destra, e della destra più aggressiva e perfino la più "reazionaria", nella più parte dei paesi occidentali, se la sinistra è più in sintonia col capitale?

Allo stesso modo, il sistema non canta solo degli elogi ipocriti della famiglia per fare così una concessione ai "valori del popolo", come pensa Michéa: la famiglia, essendo una struttura evidentemente premoderna, e benché essa costituisca oggi un ostacolo alla flessibilità totale dei lavoratori, non è soltanto una sopravvivenza arcaica. Essa forma anche l'elemento più importante del "lato oscuro" della logica di mercato che comprende le attività che non rientrano direttamente nella produzione di valore, e che non sono quindi immediatamente "redditizie", ma senza le quali questa produzione redditizia non potrebbe aver luogo (vedi: Roswitha Scholz, "Note sulla nozione di valore e di dissociazione valore" e Johannes Vogele, "Il lato oscuro del capitale. Maschile e femminile come pilastri della modernità", in Illusio, n°4/5). Anche il capitalismo più postmoderno non potrà mai fare a meno della famiglia.

E' vero che la parola "conservatore" oggi ha assunto un senso diverso rispetto al passato e che si tratta sovente di difendere - di conservare - le condizioni minimali di una vita umana. Ma in questa impresa, non si potrà mai contare su quelli che, nel linguaggio politico, si definiscono dei "conservatori". Non esistono, o non esistono più, dei conservatori "illuminati", o quanto meno coerenti con i propri principi dichiarati. Quel po' di resistenza al rincretinimento che si può ancora trovare, quando lo si trova, avviene piuttosto fra persone che si potrebbero definire "di sinistra". Ad esempio, riguardo a quella misura primaria in materia di decenza che consiste nel non lasciare i propri figli davanti alla televisione o alla playstation.

Dove trovare quelle energie umane che potrebbero farci uscire dall'impasse Adam Smith? Le osservazioni di Jean-Claude Michéa sul ruolo negativo del risentimento sono molto giuste. Ma se solo le persone psicologicamente sane possono fare la rivoluzione, o operare un cambiamento salutare, siamo davvero messi male, ed il capitalismo avrebbe trovato un mezzo infallibile per eternizzarsi. In realtà, è proprio il capitalismo a creare, in ogni istante, la mentalità che renderà così difficile ogni uscita.

- Anselm Jappe - Pubblicato su Illusio n°6/7, primavera 2010 -

Note:
[*1]
- Il passaggio dal libertario al liberale, in effetti spiega bene l'esperienza della mia generazione, e le conseguenze inaspettate che possono derivare anche dalle migliori intenzioni. Mi ricordo dell'epoca (sono stato liceale in Germania negli anni settanta) in cui noi - i giovani di estrema sinistra, gli anarchici, i freaks, ansiosi soprattutto di non essere "borghesi" - ci sentivamo coraggiosi in quanto sostenevamo che ciascuno non è mosso altro che dai propri interessi personali, e che in ultima analisi si fa tutto per egoismo, anche quello che si presenta come un atto di generosità (lo si fa sempre per la propria reputazione). Questo ci sembrava provocatorio e "progressista": mettevamo a nudo l'ipocrisia borghese. In effetti, era molto giusto opporsi alle asserzioni - ancora molto diffuse - per cui gli insegnanti agivano solamente per il bene degli allievi, che i genitori si sacrificavano per i figli, che lo Stato pensava ai suoi cittadini, che i funzionari pubblici agivano soltanto secondo il loro senso del dovere e che non perciò dovevamo, in cambio, a queste figure  di autorità, della gratitudine e della fiducia, perfino anche quando i loro atti non ci piacevano e non ci convincevano del tutto, perché questo era dovuto alla nostra mancanza di maturità. Alcuni insegnanti ci accusavano di "ingratitudine". Questo mi faceva cadere dalle nuvole. Noi avremmo dovuto provare della gratitudine per quelli che avevano rovinato la nostra giovinezza per "adattarci" (parola chiave del nostro discorso) ad un sistema spregevole? Ma non ci fermavamo al fatto di smascherare gli interessi dei nostri tutori. Gli echi del materialismo storico, e della psicoanalisi, ancora malvisti dall'ideologia ufficiale, che ci arrivavano, ci spingevano a demolire con una sorta di perfida gioia tutta l'ideologia "borghese" dell'altruismo senza renderci conto che con una simile antropologia pessimistica sarebbe stato molto difficile costruire questa società emancipata che rimaneva il nostro orizzonte politico. Così, avevamo anticipato involontariamente uno stadio dello sviluppo capitalista che allora era ancora da venire: il liberalismo puro e duro, libero dai tributi ipocriti che i suoi predecessori pagavano ancora alla "virtù". Su un altro piano, anche il culto che alcuni riservavano a Sade costituiva una maniera di celebrare l'egoismo più totale in nome dell'emancipazione.

[*2] - Jean-Claude Michéa, anche lui, si propone di spiegare la nascita di questa "eccezione occidentale" - ma facendo iniziare la sua genesi nel 17° secolo, decisamente troppo tardi (Jean-Claude Michéa - L'impero del male minore - Saggio sulla civiltà liberale )

[*3] - Andrebbe anche sottolineato che i liberali di oggi non hanno il diritto di rivendicare dei pensatori come Alexis de Tocqueville. Alcune delle considerazioni di questi, riguardano la messa in guardia contro i pericoli del totalitarismo "dolce" di una società perfettamente liberale e di mercato.

[*4] - Appare quindi assai dubbio che, come afferma Michéa, "il sistema capitalista sviluppato crollerebbe in un sol colpo [!] se gli individui non interiorizzassero in massa, ed in ogni istante, l'immaginario della crescita illimitata, del progresso tecnologico e del consumo come maniera di vivere e fondamento dell'immagine di sé" ("Conversazione con Jean-Claude Michéa", in A contretemps n°31, luglio 2008). Altrove, dice giustamente che "siamo globalmente liberi di criticare il film che il sistema a deciso di proiettare per noi [...] ma a rigore non abbiamo alcun diritto a modificarne lo scenario" (ivi).

[*5] - Potrebbe essere più giusto dire che la decenza si può trovare dappertutto e in tutti gli strati sociali - ma sempre come un'eccezione. Questo è il senso di "Novantatré" di Victor Hugo

[*6] - Si potrebbe criticare il mio utilizzo di termini quali "solidarietà", "calore umano", o "dignità" come equivalenti di "comune decenza". Ma l'indeterminazione voluta di questo termina da parte di Michéa, li rende inevitabili.

[*7] - Si può qui ricordare il fatto che spesso gli zingari, il più "ricco" non è quello che possiede di più, ma quello che dona di più agli altri.

[*8] - E' quasi comico che Michéa, quando vuol dare un esempio di "indecenza", parli di un ristorante di lusso per cani e gatti. Anche Nicola Sarkozy sarebbe probabilmente d'accordo a dire che è un po' troppo!

fonte: Illusio

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