venerdì 30 ottobre 2015

La morte del sole

NCV

Anticapilatismo per il 21° secolo
- Un breve panorama della nuova critica del valore -
di Joelton Nascimento

INTRODUZIONE
In questo articolo si cerca di presentare, per linee generali, alcune delle tesi sostenute dalla Nuova Critica del Valore (NCV), oltre a dei riferimenti circa i suoi precursori. Per NCV si vuole intendere un fronte di lotta delle idee anticapitaliste, che sono nate e si sono sviluppate intorno a dei collettivi teorici che sono oggi pubblicamente presenti, soprattutto attraverso pubblicazioni aperte come, in particolare, le riviste tedesche "Krisis" ed "Exit!".
Cominciamo con lo spiegare che cosa intendiamo per "anticapitalismo". Come ogni "anti", l'anticapitalismo si definisce per mezzo di ciò a cui si oppone. Pertanto, una teoria anticapitalista può essere considerata tale quando rende possibile una definizione elementare di qual è la realtà sociale che si trova sotto la denominazione di capitalismo.
La parola "capitalista" comincia ad essere utilizzata per la prima volta dagli economisti nel 18° secolo, per designare la figura del detentore di beni e valori, i quali vengono da lui impiegati al fine di ottenere profitti. Ad esempio, viene utilizzata in tal senso da Adam Smith (1723-1790) e da Anne Turgot (1727-1781). Se ci limitassimo alla definizione data da questi autori, intenderemmo per capitalismo il sistema economico che ha al suo centro la figura del capitalista.
In tale contesto, anticapitalismo sarebbe soltanto la pratica che combatte la figura del capitalista. Questa definizione, tuttavia, sarebbe estremamente problematica, dal momento che per molti autori di questo periodo, come François Quesnay (1694-1774) e la stessa Turgot, il rappresentante più esemplare di capitalista è il proprietario terriero, e non l'imprenditore industriale (Jessua, 2001). Occorre avere un'idea coerente circa cosa sia il capitalismo, per poter formulare una sua critica intellettuale e pratica.
E' in tal senso che affermiamo che la teoria anticapitalista coerente nasce con il lavoro e con la prassi di Karl Marx (1818-1883) e dei suoi collaboratori. E questo per il semplice motivo che prima non era possibile vedere chiaramente i contorni di quello che sarebbe stato il "capitalismo". Dal punto di vista descrittivo, potremmo considerare il capitalismo come la grande industria, mossa dall'economia monetaria del lavoro salariato, e regolata dallo Stato-nazione.
Si potrebbe anche dire che, ben prima di Marx, c'erano idee comuniste che si aggiravano per la modernità, come quelle del pubblicista francese François Noël Babeuf. E' perfettamente possibile considerare Babeuf un comunista (seppure un comunista "primitivo", o "proto-comunista", dal momento che è con lui che, per la prima volta, si rende esplicito un programma politico e sociale di un egualitarismo di tipo comunista (Vovelle, 2000); si tratta di un politico e di un intellettuale che si unisce alla lunga corrente di tutti coloro che hanno fatto della propria vita una battaglia per la giustizia e per l'equità. Tuttavia, difficilmente potremmo definirlo anticapitalista, dal momento che l'ordine sociale costruito dalla grande industria, mossa dall'economia monetaria del lavoro salariato e regolata dagli Stati-nazione, non si era ancora sviluppata al punto da delineare le sue caratteristiche di base.
Potrebbe forse venire considerato anticapitalista, nel senso che aveva per Quesnay la parola "capitalista; cioè, nel senso di un sistema economico centrato sulla figura del capitalista individuale, il cui esemplare più tipico è il proprietario terriero. E infatti, la più forte delle tesi di Babeuf è contro la proprietà privata della terra, che, secondo lui, dovrebbe essere completamente nazionalizzata e ridistribuita equamente, imposta soltanto come proprietà collettiva.
Tuttavia, la proprietà privata non è un principio in grado di abbracciare nessuno dei principali pilastri del capitalismo menzionati nella nostra descrizione del capitalismo data all'inizio.
Con Marx nasce una teoria anticapitalista come delineamento di una pratica comunista concreta, al di là delle obiezioni morali e delle idealizzazioni intorno ad una società avveniristica.

1. ELEMENTI CENTRALI DEL MARXISMO TRADIZIONALE
Aiutato da una prospettiva storica, Ingo Elbe (2013) ha riassunto in maniera formidabile le letture centrali della teoria marxiana realizzate finora. A suo avviso, come conseguenza degli scritti di Marx, abbiamo nel nostro bagaglio critico il marxismo, ovvero il marxismo tradizionale, cioè le interpretazioni degli scritti di Marx legati soprattutto ai partiti politici e rappresentativi dei lavoratori. Abbiamo, inoltre, i marxismi, ovvero i modi dissidenti di lettura dei testi di Marx.
Fondamentalmente, il marxismo tradizionale è quello canonizzato nelle opere di Engels e di Kautstky, e che sono serviti da base per il cosiddetto marxismo-leninismo. Questa lettura si è abituata e si è adattata interamente agli schemi canonici di lettura rivolti al piano "essoterico"(*Nota*: secondo Marcel Van der Linden, il primo a parlare di un Marx "essoterico" e di un Marx "esoterico" è stato Stefan Breur, nel 1977. Una distinzione, questa, che ha esercitato un ruolo cruciale per Robert Kurz e per gli altri autori della NCV) delle opere di Marx, cioè, ai testi del filosofo e del leader operaio che servivano soprattutto ai fini della divulgazione e dell'agitazione politica. I marxismi dissidenti, specialmente il cosiddetto marxismo occidentale e la Nuova Lettura di Marx (neue Marx-Lektüre) si sono dedicati ad una lettura del Marx "esoterico", cioè, a quei testi marxiani che avevano una densità maggiore e maggior sforzo analitico e critico.
Inoltre, i marxismi dissidenti si sono spesso sviluppati al di fuori dei partiti e anche al di fuori dei grandi istituti di ricerca (ad eccezione della Scuola di Francoforte), nelle condizioni di una sorta di marxismo sotterraneo.
Sempre secondo Elbe, il marxismo tradizionale ha avuto come uno dei suoi canoni più importanti lo "Anti-Dühring "[1877] di Engels. Kautstky non ha mai nascosto il fatto per cui tutti gli intellettuali leggessero Il Capitale di Marx attraverso le lenti di questo libro di Engels; in larga misura, si può dire che il marxismo tradizionale è un "engelsianesimo".
Secondo Elbe, i pilastri del marxismo tradizionale sono tre: 1) la tendenza al determinismo ontologico; 2) l'interpretazione storicistica del metodo formale-genetico; 3) la critica dello Stato limitata al contenuto. Vedremo di seguito, rapidamente, ciascuno di questi pilastri.

1.1 La tendenza al determinismo ontologico
La tendenza al determinismo ontologico è la conseguenza abbastanza diretta del tentativo engelsiano di forgiare la dialettica in quanto metodo di comprensione, anche nei termini della determinazione di causa ed effetto, sia per i fenomeni della natura che per i fenomeno di ordine sociale e storico. La dialettica viene drasticamente suddivisa in "due insiemi di leggi", a partire dalle quali si può concludere che il pensiero o la coscienza può essere inteso come un'immagine mentale passiva del mondo esterno. Vi sono almeno tre deviazioni - si può dire, distorsioni - che vengono realizzate dall'engelsianesimo, rispetto alla concezione marxiana della prassi, e che sono fondanti del marxismo tradizionale.
Secondo Marx, non solo l'oggetto, ma anche l'osservatore dell'oggetto, è mediato storicamente e praticamente, e quindi non è esterno al modo di produzione. Engels, da parte sua, enfatizza il fatto che l'osservazione della natura in sé costituisca una osservazione "materialista".
"Il realismo ingenuo della teoria del riflesso sistematizzata da Lenin e da altri - che rimane prigioniera dell'apparenza cosificata dell'immediatezza di quello che è socialmente mediato, dal feticismo di un in-sé di quello che esiste solamente in una struttura di attività umana storicamente determinata - trova i suoi fondamenti negli scritti di Engels" (Elbe, 2013, p.2/13).
In questo modo, una visione pseudo-materialista mette in relazione, grossolanamente e non-mediatamente, il pensiero e l'essere, la coscienza e la realtà materiale.
Ne "L'Ideologia Tedesca" (1845-1846), insieme a Marx, Engels aveva espresso il concetto di derivazione naturale  [Naturwüchsigkeit] come qualcosa di negativo, cioè, avevano enunciato l'idea del superamento delle nozioni e delle leggi sociali, che rimanevano occulte nell'inconscio degli agenti collettivi, come se fossero naturali. Già nel Engels di "Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca" (1886), questo carattere negativo scompare; per lui ora è necessario soltanto applicare coscientemente al mondo sociale, le "leggi generali del movimento" del mondo esterno.
Se nelle "Tesi su Feuerbach" (1845), Marx scriveva che: "Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella attività pratica umana e nella comprensione di questa attività pratica" (Marx), Engels riduce la prassi all'attività sperimentale delle scienzw naturali. In generale, "Engels ha mischiato insieme [al marxismo] lo scientismo della sua epoca, lastricando la strada per mezzo della concezione meccanicistica e fatalista del materialismo storico, scambiando il nucleo della teoria sociale della prassi per una dottrina, per una teoria-riflessione contemplativa dello sviluppo" (Elbe, ivi). Ridotta altresì alle "tre leggi della dialettica" ed ai "cinque modi di produzione", la dottrina engelsiana dello sviluppo è stata innalzata dallo stalinismo a categoria della dottrina ufficiale dello Stato. La potenza dello Stato sovietico veniva costantemente proclamata come derivante dalla capacità dei suoi dirigenti di "applicare coscientemente", e di "accelerare", i movimenti della storia in base alla conoscenza delle sue "leggi", in un miscuglio paradossale di volontarismo e di determinismo: la volontà può tutto nella misura in cui sa ed applica la conoscenza alle leggi del movimento della realtà oggettiva indipendente dagli agenti in essa coinvolti.

1.2 L'interpretazione storicistica del metodo formale-genetico
Secondo Ingo Elbe, rispetto a quest'argomento, il marxismo-leninismo è ancora più esplicitamente engelsianesimo. L'interpretazione di Engels della simultaneità storica e logica del libro I del Capitale, è quella dominante nei cento anni che seguiranno alla prima pubblicazione di questo libro.
"Sullo sfondo della concezione di riflessione, Engels interpreta il primo capitolo dl Capitale come una presentazione, simultaneamente logica e storica, della 'produzione semplice di merci', la quale si sviluppa nel senso delle relazioni di lavoro salariato capitalista, 'soltanto spogliata dalla sua forma storica e sviata dagli avvenimenti casuali'. Il termine 'logico' di questo contesto non significa praticamente nulla, se non una 'semplificazione'" (Elbe, ivi).
L'interpretazione engelsiana della critica marxiana dell'economia politica, vista come un'opera fondamentalmente storica, che riflette solo "logicamente" sullo sviluppo storico, è alla base della tesi di Hilferding per cui "secondo il metodo dialettico, l'evoluzione concettuale procede parallelamente all'evoluzione storica". Anche uno dei marxismi dissidenti, il cosiddetto marxismo occidentale, ha in gran parte seguito questa tesi di Engels-Hilferding.
La principale conseguenza di questa tesi è quella una visione del passato secondo categorie e concetti propri delle società capitaliste. Tutta la storia umana diventa, indifferentemente, una storia di appropriazione di lavoro altrui. Tuttavia, la specificità delle categorie valore e denaro viene completamente sottostimata e la distinzione marxiana fra valore e forma valore viene del tutto oscurata.
"Fino agli anni 60, i teoremi di Engels continuano ad essere trasmessi senza che vi siano controversie. Insieme alla sua formula (ancora una volta, tratta da Hegel) della libertà come coscienza della necessità, ed ai paralleli fra leggi naturali e processi sociali, sono serviti a dare sostegno ad un 'concetto di emancipazione' socio-tecnologico conforme alla seguente premessa: la necessità sociale (soprattutto la legge del valore), la quale opera anarchicamente e selvaggiamente nel capitalismo, sarà, per mezzo del marxismo inteso come scienza delle leggi oggettive della natura e della società, gestita e verrà soddisfatta mediante un piano. Non è la scomparsa delle determinazioni delle forme capitaliste, ma è, piuttosto, il loro uso alternativo a caratterizzare questo 'socialismo degli aggettivi' (Kurz) e questa 'economia politica socialista'" (Elbe, ivi).
Osservazioni engelsiane sullo Stato si trovano anche nel " Anti-Dühring", in "Ludwig Feuerbach" e nella "Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato" (1884). Queste opere sono i canoni del marxismo tradizionale riguardo al tema, dal momento che vengono usate come chiavi di lettura dei testi di Marx, oppure, indifferentemente, amalgamati a quei testi (Nota: vedi Norman LEVINE "Tragic Deception: Marx contra Engels". Pennsylvania: Clio Books, 1975).
"Nel 'Ludwig Feuerbach', Engels afferma che il fatto per cui tutte le necessità, nelle società di classe, si articolano per mezzo della volontà dello Stato è 'l'aspetto formale del tema - ciò che è auto-evidente'. La questione principale per una teoria materialista dello Stato, tuttavia, è 'qual è il contenuto di questa volontà meramente formale?' La risposta a questa domanda, basata puramente sul contenuto e concernente la volontà dello Stato, è per Engels il riconoscimento del fatto 'che nella storia moderna la volontà dello Stato è determinata, come un tutto, dalle necessità mutevoli della società civile, a fronte della supremazia di questa o di quella classe, ed in ultima analisi dallo sviluppo delle forze produttive e dalle relazioni di scambio’". (Elbe, ivi).
Gert Schäfer (1990, p. 99) aveva ben compreso i limiti di questa concezione engelsiana:
"Più tardi [riferito al 1886] Engels asserì che 'noi tutti' poniamo e dobbiamo  porre 'l'accento principale sul calcolo delle idee politiche, giuridiche e simili, così come sulle azioni mediate attraverso tali idee, a partire dalle relazioni economiche di base'. 'E nel fare questo discutiamo del lato formale a beneficio del contenuto: come queste idee, queste rappresentazioni, ecc., nascono'. Engels considerava questa mancanza di mediazione fra contenuto e forma ('ho sempre trovato essere post festum questa mancanza') come uno degli 'aspetti della cosa, che... tutti noi discutiamo, assai più di quanto essa meriti'" (Engels a Franz Mehring, 14/07/1893).
Riprendendo le osservazioni di Schäfer, Elbe si rende conto che, per Engels, lo Stato ed i suoi aspetti politici e giuridici vengono spiegati quasi interamente attraverso il suo potere e la sua appartenenza di classe. "A partire da questo modo di considerare lo Stato come fissato storicamente-universalmente nel suo contenuto, si può dedurre che Engels perde di vista la questione realmente interessante, soprattutto, riguardo al perché il contenuto di classe nel capitalismo assume la forma specifica di pubblica autorità" (Elbe, ivi).
La conseguenza più importante di questa visione ristretta del marxismo tradizionale è che esso concepisce la pianificazione economica statale e la socializzazione diretta come equivalenti. Il compito del movimento operaio diverrebbe quello di "comandare" il potere centralizzatore, pianificatore e monopolizzatore derivante dallo sviluppo stesso del capitalismo, alterandone soltanto il contenuto classista, cosa che, oltretutto, sarebbe una conseguenza naturale della "obsolescenza" della classe borghese. E qui, di nuovo, seve una lunga ma fondamentale osservazione di Gert Schäfer:
"Engels (anche Hilferding e Lenin) confonde la socialità specifica della produzione capitalista delle merci ed il suo modo caratteristico di pianificazione con la produzione immediatamente sociale. La 'produzione' capitalista 'privata' non scompare con il semplice fatto di essere un capitale della società, 'produzione per mezzo dell'associazione di molti' capitalisti. Non si elimina la 'inesistenza della pianificazione' nel capitalismo con il fatto che i trust e le altre forme simili di organizzazione del capitale passano a concepire piani su larga scala. Di fatto, Engels aveva adottato un concetto di produzione privata che era riferita a quello che oggi chiamiamo capitalismo dell'imprenditore, e la 'mancanza di pianificazione' era da lui intesa in sensoi limitato; nel suo intendimento, la fine della 'mancanza di pianificazione' doveva avvenire attraverso il controllo del mercato così come vien esercitato nei trust, il quale permette una pianificazione delle vendite, delle quantità e dei prezzi; cosa che mette in discussione l'idea per cui la libera concorrenza costituirebbe la forma unica ed assoluta del movimento del capitale. Tuttavia, Engels non affronta il problema decisivo, che è quello della relazione della legge del valore con le nuove forme assunte dalla monopolizzazione e dall'intervento statale; e successivamente Lenin identificherà falsamente la 'anarchia' del modo capitalista di produzione con l'efficacia selvaggia della 'anarchia del mercato', con il cosiddetto capitalismo della concorrenza" (SCHÄFER, 1990, p. 132- 133).
Lo Stato, concepito solamente come un insieme di contenuti, passa ad essere determinato interamente dalla classe sociale che domina i suoi apparati, essendo la classe, a sua volta, determinata soprattutto dalla proprietà privata dei mezzi di produzione; nonostante il fatto che quest'ultima determinazione sia essa stessa ineluttabilmente giuridica.
Lenin scriveva con estrema chiarezza, nel 1917, che per lui la "transizione socialista" significava che "tutti i cittadini si convertono in impiegati ed in operai di una sola amministrazione universale di Stato", e così, la società intera non sarà altro che un grande ufficio o una grande fabbrica, con uguaglianza di lavoro ed uguaglianza di salario" (Lenin). Questo può essere visto come uno sviluppo politico-pratico della "critica" engelsiana dello Stato.

2. ELEMENTI CENTRALI DEI MARXISMI DISSIDENTI
Negli anni 20 del XX secolo abbiamo assistito ad una forte ripresa creativa della critica anticapitalista e, nel suo insieme, delle letture più attente dei testi di Marx, che hanno aperto nuove chiavi di lettura. Quattro opere si evidenziano come rappresentative: Storia e coscienza di classe (1923) di Geog Lukács, Marxismo e Filosofia (1923) di Karl Korsch, La Teoria Generale del Diritto ed il Marxismo (1924) di Evgeny Pasukanis e la Teoria Marxista del Valore (1924) di Isaak Rubin.
Le due prime opere, del giovane Lukács e di Korsch, sono state fondanti di quello che Merleau-Ponty ha definito il "marxismo occidentale". La riscoperta delle due ultime opere, negli anni 60, ha dato impulso ad un altro aspetto del marxismo dissidente, la Nuova Lettura di Marx, la quale, a sua volta, ha ricevuto una forte influenza da parte del marxismo occidentale.
Intellettuali come Georg Lukács (1895-1971), Ernst Bloch (1885-1977), Karl Korsch (1886-1961), Antonio Gramsci (1891-1937), Max Horkheimer (1895-1973), Theodor Adorno (1901-1969), Herbert Marcuse (1889-1979), Alfred Sohn-Rethel (1899- 1990), Lucio Coletti (1924-2001), Henri Lefebvre (1901-1991), Galvano Della Volpe (1895-1968) e Louis Althusser (1918-1990) hanno in comune il fatto di aver dato impulso a nuove letture e nuove frontiere per il pensiero anticapitalista che andava oltre i canoni del marxismo-leninismo.
"Gramsci, per esempio, criticava l'uso della rivoluzione russa di ottobre, come paradigma della rivoluzione, per l'occidente. Lukàcs ha spiegato in larga misura la reale posizione teorico-critica di Marx riguardo alla dialettica ed al materialismo, così come alcune delle distorsioni e riduzioni dell'engelsianismo, compito svolto anche da Korsch. Alcuni importanti aspetti del marxismo-leninismo, però, rimangono, nel marxismo occidentale, come per esempio, in Lukàcs e in Gramsci, la centralità del ruolo rivoluzionario del proletariato di fabbrica" (Elbe, ivi).
Per Elbe, tuttavia, il marxismo occidentale può essere caratterizzato anche a partire da quello su cui ha taciuto.
La caratteristica generale di questa formazione marxista - la sua sensibilità per l'eredità hegeliana e per il potenziale critico-umanista della teoria di Marx, l'incorporazione di approcci "borghesi" contemporanei al fine di spiegare la grande crisi dei movimenti operai, l'orientamento alla metodologia, la sensibilizzazione nei confronti dei fenomeni psicosociali e culturali in collegamento con la questione che si riferisce alle ragioni della mancanza della rivoluzione "in occidente" - fornisce la struttura per un nuovo genere di esegesi ristretta di Marx. Questa si caratterizza essenzialmente per la sua negligenza relativamente ai problemi della politica e della teoria dello Stato, per la ricezione selettiva della teoria del valore di Marx, e per la predominanza di una "ortodossia silenziosa" riguardo alla critica dell'economia politica. (...) Fino alla metà degli anni 60, sembra che nessun marxista occidentale abbia esteso il suo dibattito con le interpretazioni tradizionali di Marx al dominio della teoria del valore.
Secondo l'esauriente studio panoramico, realizzato dalla rivista/collettivo Endnotes, sulla ripresa della lettura di Marx, soprattutto del Capitale, negli anni 60, si evidenzia quella realizzata dalla Nuova Lettura di Marx, in Germania. Per Endnotes, la ragione principale di questo primato è che:
"... la grande risorsa culturale usata da Marx nella critica dell'economia politica - l'idealismo classico tedesco - non era soggetta a quegli stessi problemi di ricezione che aveva negli altri paesi, e che aveva avuto anche la ricezione del pensiero hegeliano. Così, mentre in Italia ed in Francia le nuove letture di Marx tendevano verso un preconcetto anti-hegeliano, come reazione alle precedenti mode hegeliane, e contro il "marxismo hegeliano", il dibattito tedesco riuscì a sfociare in un quadro più diversificato e più informato riguardo al vincolo Marx-Hegel. Un fatto cruciale fu quello che videro che, nel descrivere la struttura logica della totalità reale delle relazioni capitaliste, Marx, nel Capitale, era in debito, non tanto con la concezione hegeliana della storia dialettica, ma con la dialettica sistematica della Logica. Quindi, il nuovo marxismo critico, qualche volta denominato in maniera dispregiativa Kapitallogik, aveva meno in comune con il marxismo critico precedente di Lukàcs e di Korsch, di quanto avesse in comune con Rubin e Pasukanis. La Nuova Lettura di Marx non era una scuola omogenea, ma un approccio critico che sviluppava argomenti seri e disaccordi che nonostante tutto condividevano una certa direzione" (Endnotes, 2010).
Sono tre gli autori più significativi di questo primo momento della Nuova Lettura di Marx: Hans-Jürgen Krahl (1943-1970), i cui più importanti scritti sono stati raccolti in "Costituzione e lotta di classe"; Hans-Georg Backhaus, la cui opera principale è "Dialettica della forma valore"; ed Helmut Reichelt, il più noto dei tre, il cui libro, "Sulla struttura logica del concetto di capitale in Karl Marx", può essere considerato come il più importante della prima "ondata" di dibattiti della Nuova Lettura di Marx. Krahl, Backhaus e Reichelt significano sia una rottura che uno sviluppo della riflessione filosofico-critica della Scuola di Francoforte. Ma ancora: la Nuova Lettura di Marx ha rotto definitivamente con i limiti engelsiani che opprimevano la lettura dei testi di Marx e le critiche del capitalismo da essi derivate.
"Nei dibattiti tedeschi, e susseguentemente internazionali, l'autorità di Engels - così come quella del marxismo tradizionale che da essa dipendeva - è stata apiamente rifiutata. La Nuova Lettura di Marx sosteneva che né l'interpretazione engelsiana, né alcuna delle modifiche da egli proposte, rendeva giustizia al movimento che stava dietro l'ordine e lo sviluppo delle categore ne Il Capitale. Anziché da un procedimento che partiva da uno stadio non-capitalistico, o da un modello, ipoteticamente semplificato, della produzione mercantile semplive per arrivare poi ad una tappa successiva, o da un modello più complesso di produzione capitalista di merci, bisognava captare il movimento de "Il Capitale" come una rappresentazione della totalità capitalista fin dal principio, che si muoveva dall'astratto al concreto. In "Sulla struttura logica del concetto di capitale in Karl Marx", Helmut Reichelt ha sviluppato una concezione che ora, in un modo o nell'altro, è fondamentale per i teorici della dialettica sistematica: che la "logica del concetto di capitale" come processo autodeterminato corrisponde a superare il concetto della Logica di Hegel. Seconbdo questo punto di vista, il mondo del capitale può essere considerato come oggettivamente idealista: ad esempio, la merce come una cosa "soprasensibile seppur sensibile". La dialettica della forma valore mostra come, partendo dalla forma merce più semplice, gli aspetti materiali e concreti del processo di vita sociale sono dominati dalle forme sociali astratte ed ideali del valore" (Endnotes, 2010).
Partendo direttamente dal dibattito aperto da La Nuova Lettura di Marx, il cosiddetto "dibattito derivazionista" ha rimesso in questione il problema dello Stato, in maniera profondamente divergente dal modo engelsiano-leninista. E' stato riscoperto il modo conforme a quello in cui Pasukanis pose il problema. Ricordiamo la proposizione di Pasukanis:
"Il concetto di diritto viene qui [in Plekhanov] considerato esclusivamente dal punto di vista del suo contenuto: la questione della forma giuridica in quanto tale non viene posta. Tuttavia non vi è dubbio che la teoria marxista non debba solo esaminare il contenuto concreto degli ordinamenti giuridici nelle differenti epoche storiche, ma deve fornire anche una spiegazione materialista dell'ordinamento giuridico in quanto forma storica determinata. Se rinunciamo all'analisi dei concetti giuridici fondamentali, otterremo solamente una teoria giuridica esplicativa dell'origine dell'ordinamento giuridico a partire dalle necessità materiali della società e, di conseguenza, del fatto che le norme giuridiche corrispondono agli interessi di questa o di quella classe sociale. Ma l'ordinamento giuridico stesso rimane non analizzato in quanto forma, nonostante la ricchezza del contenuto storico che abbiamo introdotto in questo concetto" (Pasukanis).
Sebbene non se ne mostri consapevole, Pasukanis mette in discussione, in maniera molto simile a quella di Isaak Rubin, le premesse engelsiane al trattamento dei problemi della critica dell'economia politica. E' su questa strada che avanzano gli autori del dibattito derivazionista, nel quale si evidenzia Joachim Hirsch.
"Basandosi sul lavoro pionieristico di Pasukanis, i partecipanti al dibattito sulla derivazione dello Stato hanno captato la separazione fra lo 'economico' ed il 'politico' come elemento proprio del dominio capitalista. Questo implicava che, lungi dall'essere considerata come l'installazione di un'economia socialista e di uno Stato operaio, come auspicava il marxismo tradizionale, la rivoluzione doveva essere intesa come distruzione, tanto della 'economia' quanto dello 'Stato'. Nonostante il carattere astratto (e a volte accademico) di questo dibattito, ora cominciamo a vedere come in Germania il ritorno critico a Marx, sulla base delle lotte della fine degli anni 60, abbia avuto conseguenze concrete (e molto radicali) per la forma in cui viene concepito il superamento del modo di produzione capitalista" (Endnotes, 2010).
Il dibattito aperto dalla Nuova Lettura di Marx, che può essere visto come caratterizzato dal ricorso alla dialettica sistematica della forma valore, si è allargato a diversi paesi, senza che si possa necessariamente vedere in questo una relazione di influenza diretta, bensì una simultaneità. Diversi autori, più o meno legati ai movimenti sociali e più o meno accademici, si sono inseriti nelle questioni poste dalla critica marxiana delle forme sociali del valore. Questi autori possono essere messi in relazione con i seguenti (in modo non esaustivo):  Roman Rosdolsky, Cristopher Arthur, Alfredo Saad-Filho, Werner Bonefel , Michael Eldred, Michael Heinrich, Patrick Murray, Geert Reuten, Fred Moseley, Felton Shortall, Ruy Fausto, Tony Smith, Claudio Napoleoni, Jean-Marie Vincent, Ingo Elbe, Massimo De Angelis (2007), Slavoj Žižek, Moishe Postone, John Holloway, e Kojin Karatani.

3. LA NUOVA CRITICA DEL VALORE
L'espressione "Nuova Critica del Valore" è apparsa per la prima volta nel libro del saggista e critico sociale Anselm Jappe, "Le avventure della merce", originariamente pubblicato nel 2003. Con quest'espressione, Jappe designava un aspetto della teoria critica anticapitalista di cui il suo libro rimane la più potente sintesi.
Inizialmente, la NCV può essere definita come una doppia rilettura: essa è sia una rilettura dell'opera di Karl Marx che una rilettura del capitalismo, e si basa sulle recenti trasformazioni causate dal processo del suo sviluppo. Tuttavia, queste due riletture si definiscono a vicenda ed in maniera complessa: la rilettura di Marx è la base per una nuova critica del capitalismo, e questa nuova teoria critica del capitalismo è la base per una nuova lettura di Marx. La NCV, in questo modo, è un tentativo di andare "con Marx, oltre Marx" sulla base di un'interpretazione dello sviluppo del capitalismo a partire dagli anni 1970.
Non possiamo, tuttavia, non notare che questa dimensione teorico-critica è, allo stesso temo, una rottura ed uno sviluppo della Nuova Lettura di Marx tedesca. Essa si delinea in maniera specifica a partire dalla fine degli anni 1980 insieme all'attività dei collettivi e degli intellettuali indipendenti intorno alla rivista Krisis. Questo sforzo si moltiplica e si ramifica in diverse altre pubblicazioni, fra cui la rivista austriaca  Streifzüge (1996) e, a nostro giudizio la più importante, la rivista tedesca Exit! (2004). Sia Krisis che Exit!, tuttavia, sono pubblicazioni rivolte agli studiosi, con articoli teoricamente densi.
Questa dimensione della critica del capitalismo ha cominciato a guadagnare una certa attenzione in Brasile, quando è stato pubblicato il libro di Robert Kurz (1943-2012), "Il collasso della modernizzazione" (1993), che è stato molto dibattuto da parte di intellettuali della sinistra brasiliana e che ha rivelato una diversa visione della crisi economica degli anni 90. In seguito, sono state tradotte e pubblicate altre opere di Kurz; inoltre, è stata fondamentale l'apertura di portale elettronico in Portogallo, con testi della Nuova Critica del Valore, per la divulgazione dei lavori di autori come  Robert Kurz, Roswitha Scholz, Norbert Trenkle, Ernst Lohoff, Franz Schandl, Claus Peter Ortlieb, Anselm Jappe ed altri.

3.1 - La critica del lavoro
A nostro giudizio, uno dei primi e più importanti punti di rottura/sviluppo della NCV nei confronti della Nuova Lettura di Marx avviene nel 1995 con la pubblicazione di un articolo di Kurz sul n°15 di Krisis, dal titolo "Il post-marxismo ed il feticcio del lavoro". Si tratta di un passaggio importante nella costruzione teorico-critica che porterà al Manifesto contro il Lavoro (1999), che verrà pubblicato 4 anni dopo.
Nei Grundrisse, definiti il "laboratorio degli studi" (Bellofiore) marxiani dai quai sarebbe uscito Il Capitale, Marx si trovò ad affrontare i due concetti categoriali di "lavoro", la cui definizione e distinzione saranno cruciali per la sua critica matura dell'economia politica. Nella sua spiegazione metodologica - che nella dialettica marxiana è inseparabile dall'oggetto stesso - Marx fa un esempio della categoria del lavoro nei seguenti termini illustrativi:

"Il lavoro sembra una categoria del tutto semplice. Anche la rappresentazione del lavoro nella sua generalità - come lavoro in generale — è molto antica. E tuttavia, considerato in questa semplicità dal punto di vista economico, «lavoro» è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice astrazione. (...) L’indifferenza verso un genere determinato di lavoro presuppone una totalità molto sviluppata di generi reali di lavoro, nessuno dei quali domini più sull’insieme. Così, le astrazioni più generali sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo concreto, dove una sola caratteristica appare comune a un gran numero, ad una totalità di elementi. Allora, essa cessa di poter essere pensata soltanto in una  forma particolare. D’altra parte, questa astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una concreta totalità di lavori. L’indifferenza verso il lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro ed in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare la ricchezza in generale, e, come determinazione, esso ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella forma d’esistenza più moderna delle società borghesi, gli Stati Uniti. Qui, dunque, la astrazione della categoria «lavoro», il «lavoro in generale», il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera. Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, si presenta tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società moderna. (...) L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide — proprio a causa della loro natura astratta — per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni." (Marx, Grundrisse)

Il lavoro, come categoria astratta, potrebbe essere pensato fuori dal tempo storico capitalista? Se è così, la critica del capitalismo può essere assunta come una critica "dal punto di vista del lavoro", essendo quest'ultimo concepito come un contro-principio trans-storico rispetto al capitale. Ma se non è così, allora la critica del capitalismo è anche una critica della società del lavoro sans phrase; del lavoro come categoria sociale formata e formante la "economia" e la "politica" proprie della società produttrice di merci.
Il Marx dei Grundrisse non scioglie la questione, oscilla fra le due cose.
Ne Il Capitale, Marx affronta il problema elaborando i concetti di lavoro astratto e di lavoro concreto. Questi corrisponderebbero, rispetto alla natura bifida della merce, a valore e ad utilità. Essendo il primo, il lavoro astratto, il concetto che definisce l'attività umana nella dimensione in cui questa trasmette valore alla merce, ed il secondo, il lavoro concreto, il concetto che definisce l'attività umana che trasmette alla merce valore d'uso, nella sua dimensione materiale e simbolica. Non si tratta di due fenomeni distinti, ma delle due dimensioni di un unico fenomeno. La caratterizzazione bifida del lavoro nei concetti di lavoro concreto e lavoro astratto è il modo trovato da Marx per risolvere il problema dell'astrazione sociale-reale che esiste nel lavoro delle società produttrici di merci; per risolvere la sua  precedente oscillazione fra una caratterizzazione "ontologica" sovrastorica del lavoro ed allo stesso tempo la sua critica del modo storico in cui il lavoro si presenta, nella sua sussunzione al capitale. Tuttavia, l'oscillazione rimane latente.
Nei seguenti passaggi de Il Capitale, riappare:

"Innanzitutto, il lavoro è un processo fra l'uomo e la natura, un processo in cui l'uomo, per mezzo della sua azione, media, regola e controlla il suo metabolismo con la natura". (Marx, Il Capitale)
"Il processo lavorativo, come si presenta nei suoi elementi semplici ed astratti, è attività orientata ad un fine per produrre valore d'uso, appropriazione naturale per soddisfare le necessità umane, condizione universale del metabolismo fra l'uomo e la natura, condizione eterna della vita umana e, pertanto, indipendente da qualsiasi forma di questa vita, essendo anche ugualmente comune a tutte le forme sociali".(ivi)

Quindi, il processo lavorativo può essere concepito soltanto come processo che "regola, controlla e media il metabolismo dell'uomo con la natura", e pertanto come condizione eterna indipendente da qualsiasi forma storica di vita quando viene pensato nella sua forma "semplice e astratta"!
Il lavoro concreto, creatore di valore d'uso, può essere pensato soltanto trans-storicamente quando viene sottoposto ad una maniera "semplice e astratta" di raziocinio, che rimanda al modo storico della sua sussunzione al capitale - come si è visto nel precedente passaggio dai Grundrisse.
In molti passaggi come questo, l'oscillazione marxiana è sorprendente.

In un articolo pubblicato sulla rivista Krisis, nel 1985, Robert Kurz criticava questa "doppiezza" del concetto di lavoro, affermando che, con esso, Marx aveva solo "squartato in due" l'astrazione reale che si trova nel lavoro produttore di merci. Secondo la stessa argomentazione marxiana - la "dialettica della forma valore" - la conclusione più coerente cui si dovrebbe arrivare è che, così come la merce presenta natura bifida, anche il lavoro che la fa esistere possiede una tale natura. Tuttavia, Marx fa dell'aspetto materiale, sensibile, una presunta "ancora antologica", dove una dimensione del lavoro può apparire come indipendente dalla sua determinazione attraverso la forma. Così, nella caratterizzazione della natura bifida del lavoro produttore di merci, che troviamo nei concetti di lavoro astratto e lavoro concreto, Marx persegue solo il lavoro determinato dalla forma, trascurando l'aspetto sociale-reale dell'astrazione contenuta nel concetto stesso di "lavoro".

"Il famoso concetto di lavoro astratto che qui emerge è in realtà un'espressione strana, una duplicazione retorica, come se parlassimo di un "verde astratto", dal momento che la definizione di qualcosa come verde è già di per sé un'astrazione. Marx, per così dire, squarta in due l'astrazione reale: la sua forma sarebbe storicamente limitata, la sua sostanza o il suo contenuto sarebbe ontologico. Pertanto, abbiamo così il "lavoro" come eterna necessità naturale, e il "lavoro astratto" come determinazione storica del sistema produttore di merci. Marx, da un lato prolunga fino all'ontologico l'astrazione reale modellata nella forma attuale e, dall'altro lato intende salvarne il carattere storico e, in questo modo, il suo superamento."
Secondo l'interpretazione di Kurz, questo squartamento in due dell'astrazione del lavoro è stato il tributo pagato da Marz alla "immagine necessaria ed immanente che il movimento operaio costruisce di sé stesso" e che, secondo lui, pesa in diversi momenti dell'elaborazione teorica di Marx, facendolo oscillare. Tuttavia, osserva: "Il marxismo del movimento operaio ha avuto poco che fare con il concetto di lavoro astratto e non lo ha mobilitato criticamente; ha preferito invece attenersi al concetto ontologico del lavoro (nobilitato come conforme al valore d'uso), al fine di legittimarsi in forma storico-filosofica".
E che cos'è allora l'astrazione reale del lavoro, come essenza e contenuto?
"Tale bipartizione si ritrova ancora una volta nella determinazione di ciò che è alla fime realmente astratto nel lavoro astratto. Marx lo sviluppa principalmente in un'unica direzione - la direzione della forma: come astrazione reale "del" contenuto materiale, come indifferenza al momento sensibile, rappresentata dalla forma del valore e nel suo disaccoppiamento nel denaro, la cosa "realmente astratta". Non c'è dubbio che questo abbia grande rilevanza. Ma il "lavoro" produttore di merci è "realmente astratto" anche in un secondo senso, che Marx non ha sviluppato sistematicamente: nella sua esistenza in quanto sfera differenziata, separata dalle altre sfere, quali la cultura, la politica, la religione, la sessualità, ecc., oppure, su un altro piano, ugualmente separata dal tempo libero..." (Kurz)
Per la NCV è impossibile limitarsi alla critica del lavoro astratto senza affrontare la critica del lavoro. E le implicazioni della critica rivolta non solo al lavoro astratto, ma all'astrazione-reale del lavoro, sono molte e varie, e non si possono affrontare, neanche in maniera preliminare, nello spazio di questo articolo.
Comincia da questo punto, a nostro avviso, la separazione fra "post-marxismo" e NCV. La rottura su un concetto importante e basilare della lettura di Marx, nel suo spirito, ossia, quello della dialettica della forma valore. Nel 1999, con la pubblicazione del Manifesto contro il Lavoro, tali riflessioni critiche irrompono con forza polemica.

3.2 - Forme sociali di feticcio e lotta di classe
Un altro punto controverso nei dibattiti accesi dalla Nuova Critica del Valore - e che perfino un esame superficiale è in grado di mettere in relazione con la critica del lavoro - riguarda l'obsolescenza della lotta di classe, così come è stata pensata dal marxismo tradizionale, e anche dal marxismo occidentale. Nello stile caustico che lo contraddistingueva, Kurz ha scritto che quando si tratta del tema delle "classi" e della "lotta di classe", è facile veder scorrere le lacrime dagli occhi dei marxisti del movimento operaio.

L'idea, tanto propagandata ed accettata, per cui l'unico anticapitalismo efficace è quello che si pone "dal punto di vista del lavoro" e che, di conseguenza, come contro-principio sempiterno rispetto al capitale, è alla base della visione di una classe lavoratrice considerata come demiurgo della storia del superamento del capitalismo. Nelle parole di Kurz:
"L'apparato concettuale della critica radicale necessita di una spolverata. La 'classe rivoluzionaria' di Marx è stato chiaramente il proletariato industriale del XIX secolo. Unito ed organizzato dal capitale stesso, di cui doveva diventare il becchino. I gruppi sociali costituiti dai salariati dei settori derivati (servizi pubblici e commerciali, infrastrutture, ecc.) non potevano essere connessi al proletariato se non come forze di appoggio, e questo solamente perché quest'ultimo, come nucleo della massa della vita sociale, dominava le fabbriche produttrici del capitale. Questo schema tradizionale delle classi e della rivoluzione non poteva sopravvivere al capovolgimento del rapporto numerico che cominciò a diventare percettibile fin dall'inizio del XX secolo (e che venne affrontato solo in maniera superficiale dal vecchio marxismo, per esempio nella discussione a proposito delle tesi di Bernstein)." (Kurz, 2003)

Nel marxismo-leninismo, come abbiamo visto, volontarismo e determinismo si fondono insieme in un amalgama che si è prestato assai bene ad essere uno dottrina dello Stato autoritario. Qualcosa di questo amalgama è stato contrabbandato come teoria anticapitalista, quando si trattava di concepire la "lotta di classe" come una narrazione demiurgica della storia. Più viene invocata come ragione teorica, meno riesce a spiegare cosa potrebbe significare attualmente. A fronte dei molti cambiamenti recenti, fra i quali, specialmente, la rivoluzione industriale microelettronica:

"La lotta delle classi è diventata parte integrante di questo sistema di concorrenza universale e si è rivelata essere in sé solo un caso particolare di questo sistema, del tutto incapace di trascendere il capitalismo. Al contrario, ad un basso livello di sviluppo, quando si trattava ancora di riconoscere gli operai come soggetti civili di questo sistema, essa è stata la sua forma di movimento immanente.Per essere in concorrenza, competitivi, bisogna darsi delle forme comuni. Fondamentalmente, il capitale ed il lavoro sono solo delle concrezioni differenti di una sola, e medesima, sostanza sociale. Il lavoro è costituito da capitale vivente, ed il capitale è costituito da lavoro morto. Ma la nuova crisi è caratterizzata dal fatto che lo sviluppo stesso del capitalismo scioglie la sostanza del "lavoro astratto" contenuto nella base produttiva del capitale" (Kurz, 2003).

Le forme sociali costitutive della società produttrice di merci (valore, capitale, Stato) appaiono come naturalizzazioni e, di conseguenza, come "natura" secondaria della socializzazione. La lotta per gli interessi socio-economici immanenti a queste categorie, come ad esempio le lotte per il diritto al lavoro e ad un "giusto" salario. sono state importanti spinte propulsive della modernizzazione capitalista. Non si può negare questo fatto. Ma nelle condizioni attuali di sviluppo, esse hanno perduto la capacità di spingere alla transizione oltre il capitale.
Nelle parole di Kurz:

In tal modo, l'idea di "lotta di classe"  perde la sua aura metafisica, pseudo-trascendente. I nuovi movimenti non possono più definirsi in modo "oggettivo" e formale per mezzo di un'ontologia del "lavoro astratto" e per il loro "ruolo nel processo di produzione". Oramai, possono definirsi solo nel merito, per quello che vogliono. Cioè a dire per quello che vogliono impedire: la distruzione della riproduzione sociale a causa della falsa oggettività degli imperativi dettati dalla forma capitalista. E per il futuro che desiderano: l'utilizzo comune e razionale delle forze produttive, a partire dai loro bisogni e non dai criteri assurdi della logica del capitale. La loro comunità non può essere che la comunità degli obiettivi di emancipazione, e non quella di una reificazione dettata dal capitale. Questa pratica oggi viene portata avanti a tentoni. La teoria deve ancora essere formulata concettualmente. Solo allora, i nuovi movimenti potranno diventare radicalmente anticapitalisti in un modo nuovo, andando oltre la vecchia lotta di classe. (Kurz, 2003).

Questo tema ha provocato degli importanti dibattiti. Alcuni, ad esempio, hanno proposto un compromesso fra il tema della lotta di classe e la critica delle forme sociali svolta dalla Nuova Critica del Valore (Cuhna, 2009).

3.3 - Il limite interno assoluto della società della merce
Fortemente legato sia alla critica del lavoro che alla critica del carattere trascendente della lotta di classe, è anche la tesi che parla del limite interno assoluto della società produttrice di merci. Anselm Jappe ha riassunto piuttosto bene questa tesi, nelle sue tre principali dimensioni.

3.3.1 La contraddizione fra la realtà materiale e la sua forma valore
Secondo Jappe, la crisi ecologica dei nostri tempi è l'esternalizzazione di una contraddizione interna:
Quella che emerge, è una crisi molto più profonda rispetto a quelle che in passato mettevano in moto sproporzioni quantitative momentanee. La contraddizione fra il contenuto materiale e la forma valore porta alla distruzione del primo. Questa contraddizione diventa particolarmente visibile nella crisi ecologica, e si presenta allora come "produttivismo", come produzione tautologica di beni d'uso - produzione questa che, tuttavia, non è altro che la conseguenza della trasformazione tautologica del lavoro astratto in denaro.

3.3.2 La contraddizione fra le necessità d'uso e la loro forma valore
Anche questa contraddizione diventa visibile attraverso i suoi effetti dannosi di disuguaglianze sociali, regionali ed internazionali; essa si manifesta, ad esempio, nella crisi alimentare globale:

"La produzione di valore e di plusvalore, l'unico scopo dei soggetti della merce, può comportare anche una diminuzione di produzione di valori d'uso, anche di quelli più importanti. E' ciò che si verifica nel caso sempre più frequente della de-industrializzazione di interi paesi, nei quali la produzione si riduce ai settori i cui prodotti sono suscettibili di essere esportati, persino se si tratta solo di noccioline. La "produzione per la produzione" significa la maggior accumulazione possibile di lavoro morto. Gli aumenti di produttività, segnatamente l'aumento della produzione di valore d'uso, non cambiano in niente il valore prodotto in ciascuna unità di tempo. Un'ora di lavoro continua ad essere un'ora di lavoro. e se in quest'ora si producono 60 sedie invece di una, questo significa che in ciascuna sedia si trova contenuta solamente la sessantesima parte di un'ora: la sedia "vale" così soltanto un minuto. L'aumento delle forze produttive, spinto dalla concorrenza, non aumenta in nessun modo il valore di ciascuna unità di tempo: questo fatto costituisce un limite insuperabile per la creazione di plusvalore, la cui crescita diventa progressivamente sempre più difficile. Per poter produrre la medesima quantità di valore, si rende necessaria una produzione sempre più allargata del valore d'uso, e conseguentemente un accresciuto consumo di risorse naturali. Per il proprietario di capitale, se non vuole essere eliminato dalla concorrenza, si rende necessario produrre le sessanta sedie nella speranza di incontrare una domanda che compensi tale produzione. Può anche tentare di creare tale domanda, a prescindere dalla relazine reale fra necessità e risorse all'interno della proprietà." (Jappe, 2006).

3.3.3 La contraddizione fra la produttività del lavoro e la sua forma valore
Le costanti innovazioni tecnologiche che, da un lato, vengono spinte dall'urgenza di aumentare la produttività del lavoro sottomesso al capitale. dall'altro lato, entrano costantemente e progressivamente in collisione con la redditività dello stesso capitale.

"... questa accresciuta produttività del lavoro - che in quanto tale potrebbe naturalmente essere un bene per tutta l'umanità - porta in maniera diretta al crollo della società basata sul valore. Paradossalmente, il capitalismo raggiunge il suo proprio limite in virtù della sua forza, ossia, a causa della liberazione delle sue forze produttive: il dispendio individuale di forza lavoro è sempre meno il fattore principale della produzione. Sono le scienze applicate, così come le conoscenze e le capacità diffuse a livello sociale, che diventano direttamente la principale forza produttiva. La necessità di calcolare il lavoro effettuato da ciascuno, e pertanto il valore che a questo lavoro compete, si trasforma in una "corazza" che soffoca le possibilità produttive, in quanto il lavoro individuale smette di essere misurabile. Il dispendio di lavoro smette di essere la condizione per cui l'individuo partecipa ai relativi frutti. (...) Oggi, però, la separazione dei produttori non ha alcuna base materiale o tecnica, e deriva esclusivamente dalla forma del valore astratto, e perde così definitivamente la sua funzione storica." (Jappe, 2006).

Nello sviluppo attuale del capitalismo, la logica del valore smette di essere un fattore storico "civilizzatore" - come ancora appariva ad Engels ed a Marx del Manifesto Comunista - per diventare una "arcaica camicia di forza", Fondamentalmente, quel che accade è il seguente:

"Abbiamo detto prima che la caduta del saggio di profitto ha accompagnato tutta l'evoluzione del capitalismo. Ma per molto tempo tale caduta è stata compensata, e perfino sovra-compensata, dall'aumento della massa di profitti. Basta che il modo di produzione si allargasse più rapidamente del caduta del tasso di profitto: se in 10 anni, grazie all'utilizzo di nuove tecnologie, la parte di capitale variabile (ossia, la parte del salario) contenuta in una merce decresce dal 20 al 10%, e pertanto il tasso di profitto (supponendo un tasso di plusvalore, ossia un tasso di sfruttamento, stabile al 50%) diminuisce dal 10 al 5%; ma se allo stesso tempo si produce tre volte di più merce, allora la massa di profitto cresce del 50% e può quindi alimentare un ciclo allargato di produzione.
Questa possibilità venne prevista da Marx, ed effettivamente si è realizzata per più di un secolo. Tuttavia è evidente che tale evoluzione debba un giorno arrivare ad un punto in cui la massa di profitto del capitale globale comincerà a diminuire fino a raggiungere un limite assoluto.
" (Jappe, 2006).

Quel che ci mostra Jappe è che tali contraddizioni stanno appostate come uomini armati in agguato alla forma semplice del valore e della merce. Ed in questo modo il "soffocamento progressivo della produzione di valore, per mezzo dei lavori stronzata e del lavoro improduttivo, così come attraverso la diminuzione della massa di profitto che da questo deriva, è, sul piano logico, una conseguenza ineluttabile delle contraddizioni di base della merce".

"Raggiungere tale limite, tuttavia, non porta ancora a nessun "caos di crisi". Al contrario, è la ragione per un altro salto in avanti da parte del capitale. Questo salto, però, rimanda solamente per poco tempo le conseguenze ineluttabili del limite assoluto, e le aggrava ulteriormente. Stiamo assistendo, dalla fine degli anni 70, alla finanziarizzazione e alla 'fictionalizzazione' del capitalismo." (Jappe, 2016).

Rosa Luxemburg considerava teoricamente vero questo limite interno assoluto, ma riteneva anche che la "lotta di classe" avrebbe posto fine prima al capitalismo. Questo limite interno era visto come "l'estinzione del sole". così tanto lontana a venire. Oggi, tuttavia, sembra che il "sole" si stia estinguendo sotto i nostri occhi.

CONSIDERAZIONI FINALI
La Nuova Critica del Valore è ancora una corrente marginale nel dibattito anticapitalista, e la sua produzione vive ancora sotto il segno del sotterraneo, dell'underground - sebbene alcuni dei suoi autori, soprattutto Robert Kurz, Anselm Jappe e Roswitha Scholz, siano relativamente noti. La NCV non compare nella mappatura, fatta da Göran Therborn (2008), dei marxismi e dei post-marxismi attuali; né appare nella Enciclopedia del marxismo contemporaneo, organizzata da Jacques Bidet e Stathis Kouvelakis (2009).
Tuttavia, sono quelle condizioni di crisi, definite da  Foster e McChesney (2012) come "crisi senza fine", a rendere le tesi esposte dalla Nuova Critica del Valore non meno che urgenti. E, in questa situazione, dovremmo applicare all'anticapitalismo stesso il contenuto della seconda Tesi su Feuerbach di Marx:
E' nella realtà pratica ed effettiva che devono essere giudicati la forza ed il carattere terreno del pensiero.
Quale tipo di teoria anticapitalista è la più vera di fronte ad un crisi senza precedenti della società produttrice di merci?

- Joelton Nascimento -

fonte: Ensaios e textos libertários

giovedì 29 ottobre 2015

Modelli e mode

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Modelli interpretativi del razzismo, e conseguenze politiche attuali

In un libro sulla storia della Lega Rivoluzionaria degli Operai Neri (League of Revolutionary Black Workers) di Detroit - (James A. Geschwender, Class, Race and Worker Insurgency, Classe, race et insurrection ouvrière, Cambridge University Press, 1977) - opera sulla quale torneremo in un prossimo articolo, nella sua introduzione, l'autore descrive quattro grandi modelli di interpretazione del razzismo negli Stati Uniti. Sicuramente ne esistono altri, anche dal momento che questo libro è stato scritto più di trent'anni fa, ma ci sembra utile riprendere la sua analisi e verificare in che misura questi modelli possono applicarsi alla Francia.
Per Geschwender, questi quattro modelli americani erano:
- il modello assimilazionista;
- il modello esplicativo centrato sui pregiudizi, o il razzismo degli individui "bianchi";
- il modello "classista" che rende lo sfruttamento capitalista responsabile del razzismo;
- il modello che sottolinea il ruolo della "colonia interna", o della "nazione oppressa sommersa", costituita dagli afro-americani.

Se analizziamo la maniera in cui la sinistra, l'estrema sinistra, l'ultrasinistra e i libertari analizzano la questione del razzismo in Francia, si trovano numerosi elementi di questi modelli di interpretazione e d'azione, e nelle diverse correnti si trova spesso una miscela di queste analisi.

1. Il modello assimilazionista
Come spiega Geschwendere, è il modello dominante negli Stati Uniti, ma possiamo aggiungere che lo è anche in Francia. Secondo i sociologhi ed i politici che lo difendono, la questione del razzismo sarebbe secondaria; i suoi partigiani rifiutano persino di prendere in considerazione l'esistenza di un razzismo strutturale o istituzionale. I neri negli Stati Uniti (in Francia, Antille, gli africani, i magrebini, gli asiatici) sono una delle numerose minoranze che costituiscono la nazione borghese. Ciascuna ha dovuto subire il test più o meno doloroso della "integrazione" e alla fine nessuna minoranza è stata - o è davvero - più discriminata rispetto alle altre.
Traduzione: "I polacchi, gli italiani, i portoghesi, gli spagnoli hanno dovuto sbavare ma ne sono usciti finanziariamente e socialmente (qui, viene inserito qualche nome come esempio a conferma di questo ragionamento); i magrebini, gli africani, gli asiatici seguiranno lo stesso cammino, inutile quindi fare tanto casino sulla questione del razzismo."
Affinché la "integrazione" nella nazione borghese abbia successo, bisogna quindi che gli immigrati ed i loro discendenti "facciano degli sforzi" per assimilare la cultura dominante (in Francia, quindi, i valori repubblicani-universalisti-nazionalisti locali).
In un primo tempo, le minoranze saranno certamente vittime di potenti pregiudizi ma, a lungo termine, finiranno tutte per "integrarsi" e questo produrrà dei piccoli buoni americani (o dei piccoli buoni francesi). Se delle minoranze religiose o etniche non si assimilano, ciò avviene principalmente per colpa loro, anche se incontrano una ostilità più o meno violenta da parte della maggioranza "autoctona".
Negli Stati Uniti, vengono avanzate tre ragioni principali da parte degli assimilazionisti per spiegare i "problemi" delle minoranze, e soprattutto degli afro-americani:
- le minoranze non si sanno organizzare in comunità efficaci (in Francia, sarebbe piuttosto: le minoranze non aderiscono ai sindacati, ai partiti ed alle associazioni esistenti; gli immigrati non "vogliono frequentare dei francesi" e preferiscono "rimanere fra di loro" - i cinesi - oppure "si sposano fra di loro" - i turchi -; non fanno "nessuno sforzo per apprendere la lingua", ecc.);
- essi non votano alle elezioni (in Francia, ricordiamo le diverse associazioni di giornalisti e politici che, dopo le sommosse del 2005, hanno posto l'accento sull'importanza di iscriversi alle liste elettorali);
- essi non creano imprese e reti economiche sufficientemente potenti;
Come sottolinea Geschwender, questo modello assimilazionista rifiuta di ammettere che esistano delle differenze importanti - nei trattamenti da parte dello Stato americano (o francese, nel nostro casa), da parte dei padroni e da parte della società, in maniera più generale - tra gli immigrati europei e quelli non europei. Si potrebbe aggiungere, oggi, fra gli immigrati "cristiani" e quelli "musulmani".
La questione è evidentemente assai più complessa della semplice separazione europei/non europei, dal momento che ci sono proprio degli immigrati o dei cittadini europei (gli ebrei) che sono state vittime dei più grande genocidio di questo continente.
Espressa tale riserva (e non è affatto un dettaglio nella storia dei razzismi europei!), è evidente che l'importazione di questa o di quella categoria di manodopera, o l'apertura delle frontiere all'immigrazione, è strettamente legata, almeno nella storia del capitalismo, al bisogno di manodopera qualificata (gli artigiani svizzeri, belgi e tedeschi nella Francia del 19° secolo), o soprattutto non qualificata (le piantagioni del sud degli Stati Uniti, poi l'industria europea ed americana dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale). Ciò corrisponde alla necessità di sfruttare dei nuovi salariati. Questo sfruttamento si accompagna ad una propaganda ideologica volta a giustificare le discriminazioni sul mercato del lavoro, i bassi salari, l'impossibilità di salire nelle gerarchie, la segregazione spaziale, ecc..
Nel caso francese, si è sempre giustificata la scelta di certe nazionalità in questo o in quel settore industriale, in questa o in quella posizione, servendosi di criteri "culturali" razzisti, sia nelle costruzioni, che nelle miniere, nel settore automobilistico, nella siderurgia, o più recentemente nella sicurezza, nell'aiuto a domicilio o nella pulizia. Questi criteri razzisti sono stati anche "teorizzati" assai bene sotto la Terza, la Quarta e la Quinta Repubblica, generalmente da degli alti funzionari repubblicani di sinistra, e in ogni caso mai di estrema destra.
Questi criteri razzisti hanno contribuito a creare, o a mantenere, dei pregiudizi che hanno permesso a loro volta di mantenere la divisione fra i lavoratori di origine diversa. Per la maggioranza fi lavoratori franco-francese, perfino quelli i cui genitori sono stati naturalizzati, ad esempio, è stato, ed è ancora "normale" che occupino delle posizioni di operai professionali, di impiegati, di supervisori o di capiofficina, e che i (nuovi) immigrati occupino dei posti di manovale, di custode, di donna delle pulizie, di guardia di sicurezza o di operaio non qualificato.
Il modello assimilazionista rimuove questi pregiudizi e discriminazioni incoraggiate dalla classe capitalista, ma anche l'impatto che hanno queste situazioni sulla capacità degli immigrati di assimilarsi alla nazione borghese.
Ugualmente, presso i lavoratori immigrati appaiono dei riflessi identitari di autodifesa (sia di natura nazionalista, che etnica o religiosa) che rendono evidentemente molto più difficile l'assimilazione voluta (più o meno) dalla borghesia. Di fronte a tali reazioni identitarie delle minoranze, appaiono delle reazioni identitarie presso i membri della maggioranza "autoctona", ivi compresi i proletari.
Il modello repubblicano francese, anche se per il momento è meno favorevole all'organizzazione in comunità, rispetto al modello inglese o americano, è anch'esso "cieco ai colori" (esso nega l'importanza dei pregiudizi, delle discriminazioni razziste e del razzismo istituzionale). E quest'attitudine che relativizza il razzismo è diffusa sia a sinistra, perfino alla sinistra estrema e all'ultrasinistra, che a destra.

2. Il modello esplicativo centrato sui pregiudizi, o il razzismo degli individui "bianchi"
Anche questo modello è molto diffuso in Francia, nella misura in cui - sia nelle spiegazioni del MRAP, della LICRA o di SOS Racisme, così come negli interventi di giornalisti, artisti ed intellettuali di sinistra - è abbastanza comune denunciare i pregiudizi individuali dei francesi contro questa o quella categoria della popolazione ... senza andare più a fondo sulla questione e senza affrontare le cause strutturali del razzismo nella "patria dei diritti dell'uomo".
Questo modello è da trent'anni al centro dello "humour" diffuso da Canal Plus, dal Djamel Comedy Club, e da ogni sorta di soap opera o film che cercano di ridicolizzare il razzismo (senza mai attaccare le fondamenta del nazionalismo repubblicano francese).
Come nota Geschwender, questo modello d'interpretazione è popolare perché si basa su una visione molto ottimista. Nella misura in cui questo modello separa completamente razzismo e sfruttamento capitalista, esso attribuisce la causa principale del razzismo ad una reazione di rigetto, ad una semplice ignoranza o incomprensione de "l'Altro".
Per cui, basterebbe "educare" la maggioranza dominante affinché i membri delle minoranze siano visti in maniera simpatetica, perfino empatica, da questa stessa maggioranza. In una tale prospettiva, sarà l'umorismo dei comici di origine magrebina o africana, le serie o i film grondanti di buone intenzioni antirazziste, i grandi discorsi sul multiculturalismo o sulla "interculturalità", accompagnati da feste o da banchetti "etnici", i concerti antirazzisti, i discorsi sulla "Repubblica meticcia", la "diversità" o la "Francia multietnica o multiculturale"; tutte queste cose occupano un posto centrale al fine di migliorare il famoso "vivere insieme".
Come sottolinea Geschwender, questo modello è centrato soprattutto sulle tare o sui difetti individuali dei razzisti, o delle persone che hanno dei pregiudizi più o meno radicati nel loro cervello; esso cerca di convincerli a fare ammenda, a comprendere che si sbagliano. Questo modello, che ha una dimensione morale, perfino moralizzatrice, ignora l'utilità e la funzione politica, sociale ed economica del razzismo.
Questo modello è perfettamente accettabile anche da una parte della destra cosiddetta "repubblicana" in quanto non rimette affatto in discussione il sistema capitalista. Nel migliore dei casi, si accompagna alla creazione di un arsenale giuridico che permetta alle associazioni antirazziste di portare davanti ai giudici questo o quell'individuo razzista e di farlo condannare. In sé, quest'approccio puramente legale non è negativo, anche se ha una portata politica assai limitata. Di contro, esso tende a fare del razzismo unicamente una questione individuale, ad occultare la sua dimensione sociale, e a scoraggiare ogni lotta collettiva al fuori dei tribunali. Cosa che pone ancora dei grossi problemi...

3. Il modello "classista" che rende lo sfruttamento capitalista responsabile del razzismo
Questo modello è più utile dei due modelli precedenti, nella misura in cui permette di comprendere perché i padroni vanno a cercare della manodopera negli altri paesi (sia che si tratti di schiavi africani o di lavoratori salariati del Terzo Mondo, di "sans papiers" o di quelli che hanno un permesso di soggiorno). Permette di comprendere perché i capitalisti e lo Stato giochino sulla concorrenza fra le diverse categorie di salariati, diffondendo dei pregiudizi razzisti, anche nel settore del turismo.
Rispetto agli Stati Uniti, il modello "classista" permette di comprendere perché i lavoratori provenienti dalle differenti immigrazioni europee si sono opposti ai lavoratori di origine africana (spesso arrivati in America ben prima di loro, quanto meno se si parla dell'immigrazione europea, latinoamericana o asiatica del 20° secolo), e perché questi ultimi hanno ritenuto che gli operai bianchi fossero loro nemici. Esso spiega perché alcuni lavoratori neri siano arrivati perfino ad accettare di fare i crumiri nel corso degli scioperi, perfino di fare le guardie nelle milizie padronali, per spezzare le lotte degli operai bianchi precedenti alla seconda guerra mondiale.
Il modello "classista" permette anche di comprendere perché le multinazionali e gli Stati occidentali saccheggiano le risorse dei paesi del Sud del mondo, sostenendo delle dittature sanguinarie, fomentando dei colpi di Stato, e tutto ciò in nome della difesa della "civiltà" (cristiana), ieri, della "democrazia", oggi, o della contro il terrorismo islamico.
Esso ha, infine, come sua utilità principale, perfino essenziale, di mettere in evidenza una comunità di interessi oggettiva fra i proletari, gli sfruttati, di ogni origine e di tutte le nazionalità, in quanto il loro nemico, il capitale, è il medesimo.
L'inconveniente principale di questo modello è che non permette di spiegare l'ascesa sociale di una parte significativa di persone appartenenti a delle minoranze nazionali e/o etniche: sia che si tratti della creazione di una classe media nera negli Stati Uniti, o di una borghesia in Francia, il modello classista che ha la tendenza ad assimilare al proletariato (o nella versione trendy, ai "dominati") tutti i lavoratori originari dell'Africa, dell'America Latina o dell'Asia, si trova ad essere demolita quando delle frazioni significative di immigrati, o di discendenti di immigrati, non europei si costituiscono in comunità, in gruppi di pressione su delle basi etniche, religiose o etnico-religiose, e divengono a loro volta degli "eccellenti" sfruttatori, in particolare dei loro correligionari o dei loro compatrioti.
Ultimo limite del modello puramente classista: esso si basa sull'idea che il razzismo sarebbe un fenomeno unicamente europeo, unicamente legato all'espansione del capitalismo. Purtroppo, non è affatto così: per fare un esempio, il biancore della pelle, in Asia, è stato considerato sempre, sia un criterio di bellezza che un criterio di classe dacché solo quelli e quelle che lavoravano all'esterno, nei campi o per la strada, avevano la pelle "abbronzata" dal sole. Essi venivano considerati come razzialmente inferiori ai nobili, ai principi ed ai membri delle corti reali, i quali non lavoravano, questo a prescindere dal fatto che le "teorie" razziali più sofisticate sono state inventate in Europa.

4. Il modello che sottolinea il ruolo della "colonia interna", o della "nazione oppressa sommersa", costituita dagli afro-americani
Questo modello oggi è di gran moda, dal momento che è alla base delle letture cosiddette "decoloniali" delle realtà europee, ma la maggior parte dei militanti ignorano le sue origini poiché i suoi "inventori" le nascondono scientemente. Tali origini sono tuttavia facili da scovare, in quanto provengono dalle tesi dell'Internazionale comunista, ed in particolare sono quelle del Partito Comunista Americano (PCA), tra il 1928 ed il 1957, sistematizzate da un teorico trotzkista (CLR James) nel corso degli anni 1930, e poi da intellettuali nazionalisti afro-americani durante il periodo fra le due guerre e dopo la seconda guerra mondiale.
Queste tesi, inizialmente, hanno esercitato un grande fascino sui militanti più determinati: esse permettevano di offrire ai Neri americano delle prospettive, sia incitandoli a lottare per la creazione di uno o più Stati in seno agli Stati Uniti, dove sarebbero stati maggioritari ed avrebbero esercitato il potere; sia giustificando il ritorno in Africa (la "patria originale" totalmente idealizzata); sia legittimando delle rivendicazioni ed una lotta radicale per una più equa ripartizione del potere nazionale negli Stati Uniti. Tutte queste teorie rendevano i Neri americani fieri della loro storia e delle loro lotte, cosa che non era per niente trascurabile. Permettevano di spiegare in tal maniera come, allo stesso modo in cui l'impero britannico o quello francese erano riusciti a formare e/o a ottenere la collaborazione delle élite locali, per mantenere il loro dominio sulle colonie, la classe dominante americana poteva (e può sempre, del resto) reclutare nella minoranza nera dei sostenitori che accettassero di collaborare a giustificare il loro dominio, a condizione di beneficiare di sufficienti prebende.
Questo ragionamento, ovviamente, si può applicare anche alle minoranze non europee presenti oggi nel Regno Unito, o nei Paesi Bassi o in Francia, o anche in altri paesi che non hanno avuto un passato coloniale, ma che attraggono una manodopera proveniente dal Sud che cerca di stabilirsi in maniera permanente sul continente europeo.
Lungi dall'aver inventato una teoria radicalmente nuova, i sostenitori attuali della "decolonialità" non fanno altro che riprendere delle posizioni elaborate da intellettuali "bianchi" europei (i dirigenti della Terza Internazionale) e da intellettuali afroamericani, insieme, settant'anni fa. Ma riconoscere simili origini intellettuali, in parte "bianche", significherebbe demolire tutto il loro bel edificio "teorico".
Evidentemente, affinché questo vecchiume ideologico assuma un look che fa tendenza, oggi si sommano i discorsi "decoloniali" alle considerazioni postmoderne (provenienti anch'esse in gran parte dalla intellighenzia "bianca" occidentale: Foucault, Derrida, Deleuze & Co. non provenivano propriamente da delle "minoranze postcoloniali"!), a termini quali "decostruzione" e "decostruire", i quali sono nettamente più sexy del richiamarsi all'Internazionale comunista diretta da dei "Bianchi" o al trotzkista, poi panafricano antillese, CLR James, un convinto fervente sostenitore della dialettica hegeliana praticamente sconosciuto! Se si aggiungono anche dei riferimenti ai movimenti di liberazione nazionale del vecchio Terzo Mondo (movimenti che, come la Terza Internazionale, si situano anch'essi, malgrado i loro discorsi nazionalisti, nella tradizione di un certo universalismo occidentale... "bianco") che hanno ancora impatto sulla gioventù, grazie alle immagini di Epinal trasmesse dalla propaganda di sinistra e di estrema sinistra...
Ma siamo onesti: al di fuori di questo bricolage ideologico e della grossolana falsificazione, questa posizione che tende a drammatizzare la situazione delle minoranze non europee in Occidente e le confronta con quelle dei colonizzati ha quanto meno un piccolo aspetto positivo, malgrado le sue connotazioni identitarie reazionarie; in effetti, chiama ad una lotta radicale (soprattutto sul piano verbale ed al servizio di demagoghi carrieristi, ma non solo) in seno alle metropoli capitaliste europee. Non si tratta affatto di un discorso vittimista (almeno non sempre), ma di una discorso che si fonda sulla rivendicazione dell'uguaglianza, della giustizia e della dignità, Siamo molto lontani dalla lotta di classe e dalla solidarietà fra tutti i proletari, siamo a chilometri dall'azione diretta e dall'auto-organizzazione vera e propria, ma questo potrebbe essere un inizio: diciamo, un inizio democratico-radicale su delle questioni importanti che da decenni vengono ignorate dalla sinistra, dall'estrema sinistra e dagli anarchici.
Purtroppo, come i due primi modelli d'interpretazione, il modello "decoloniale" rimane fondamentalmente cittadinista, cioè a dire favorevole all'unione fra tutte le classi in seno alle comunità cosiddette "non bianche". Il suo obiettivo è quello di ottenere il riconoscimento da parte dello Stato, da parte delle sue istituzioni e dei suoi politici, e che nondimeno abbiamo bisogno di più giudici, poliziotti, capi, giornalisti, deputati e padroni "provenienti dall'immigrazione" affinché tutto vada meglio (apparentemente, i partigiani della decolonialità ed i loro sostenitori di sinistra europei non hanno imparato niente dall'esempio americano, ivi compresa la presenza di Barack Obama, Condoleeza Rice e Colin Powell ai vertici della più grande potenza del pianeta...).
A tal riguardo, è sufficiente ascoltare il dibattito organizzato dal mediapart con gli organizzatori della marcia contro il razzismo e per la dignità, del 31 ottobre 2015. Nessuno degli intervenuti e delle intervenute ha mai pronunciato la parola lavoratore, operaio o proletario. Tutti e tutte avevano sulle labbra soltanto parole come "non Bianchi" e "Bianchi", "musulmani", ecc.. Non hanno apparentemente alcuna coscienza del fatto che la società capitalista è strutturata in classi sociale con interessi opposti, e non semplicemente in pseudo "razze" (ideate dagli sfruttatori) o in religioni strutturate che fanno il gioco dell'ordine stabilito. Se la rivolta contro le discriminazioni razziste, contro i crimini del colonialismo e del neocolonialismo, è sempre positiva in partenza, diventa catastrofica qualora venga deviata e fissi come suo unico obiettivo una semplice divisione della torta capitalista...

- Y.C., Ni patrie ni frontières, 27/10/2015 -

Fonte: Mondialisme.org

mercoledì 28 ottobre 2015

Per tirare avanti

burawoy

A partire dagli anni 1930, i sociologi del lavoro hanno cominciato a domandarsi perché mai gli operai non lavorassero di più. Michael Burawoy, invece, quanto a lui, ha cominciato a domandarsi perché mai gli operai lavorassero così duramente, e cosa mai facesse in modo che acconsentissero al loro stesso sfruttamento. Per cercare di rispondere a queste domande, ha lavorato per un anno alla catena di una fabbrica di motori, alla periferia di Chicago. Situandosi agli antipodi di una visione padronale della sociologia del lavoro, "Produire le consentement" è un libro che mescola descrizioni etnografiche e teoria del processo del lavoro capitalista. Burawoy analizza il processo di produzione come se fosse un gioco in cui sono i lavoratori stessi che ne elaborano le regole, e dimostra come questo insieme di pratiche informali vadano a costituire un spazio di lavoro in parte controllato dagli operai, il quale ben lungi dall'attenuare lo sfruttamento, lo rafforza.

POSTFAZIONE: Burawoy e la teoria del processo del lavoro.
- di José Angel Calderòn -

Il sociologo americano Michael Burawoy occupa un posto preminente nella sociologia del lavoro. Il suo studio sulla produzione di consenso al lavoro, realizzato alla metà degli anni settanta, è divenuto un classico ed uno dei testi più citati dalla sociologia contemporanea.
L'analisi del consenso deriva dalla teoria gramsciana dell'egemonia. L'originalità dell'approccio di Buroway consiste nell'applicare allo spazio della produzione, un terreno al quale Gramsci si era avvicinato in maniera secondaria, in quanto le sue preoccupazioni erano fondamentalmente politiche e culturali. In questo modo, stabilisce im dialogo critico con il marxismo dei suoi tempi, il quale ha secondo lui la tendenza a bloccare il lavoro in un punto cieco. E' un marxismo che riduce la smobilitazione operaia e l'assenza di coscienza di classe a fattori di ordine ideologico o politico, derivanti dall'azione repressiva e deformatrice dello Stato e dalla propaganda dei mass media. Per Burawoy. è nel processo del lavoro che i lavoratori si costituiscono in quanto individui isolati, piuttosto che come membri di una classe:
"Bisogna comprendere non solo perché i lavoratori non agiscano in funzione di una serie di interessi che vengono loro attribuiti ma, soprattutto, perché tendano a favorirne altri. Di conseguenza, il processo di produzione dev'essere compreso nei termini della combinazione concreta di coercizione e consenso; una combinazione che porta i lavoratori a collaborare alla ricerca di plusvalore."
Animato da questo interesse, si farà assumere in una fabbrica, dove lavorerà per dieci mesi come operaio alla catena di montaggio. I risultati ottenuti verranno pubblicati nel 1979 con il titolo di "Manufacturing Consent. Changes in the Labour Under Monopoly Capitalism.". E' la sua tesi di dottorato.

IL RITORNO ALLE ORIGINI
Per meglio comprendere le scoperte ed i limiti, a volte perfino gli errori del suo approccio al lavoro ed ai lavoratori, il contributo di Burawoy va situato nel suo contesto scientifico. Nel 1974, la pubblicazione di un libro di Harry Braverman, "Lavoro e capitale monopolistico", segna una svolta importante nelle analisi che fino ad allora avevano creduto nell'ineluttabilità del progresso tecnico e sociale, e che avevano pensato che l'automazione in corso doveva essere in grado di rimettere insieme le briciole del lavoro. Il ciclo di lotte, di contestazione operaia dell'organizzazione scientifica del lavoro e dell'autoritarismo  delle regole tayloristiche per la mobilitazione e lo sviluppo del lavoro, pone termine alla "illusione consensuale" delle fasi precedenti ed apre la sociologia del lavoro all'analisi di nuovi problemi, di nuove sfide.
La prospettiva di analisi del lavoro in questo nuovo paradigma include:
1) Il ritorno allo studio diretto del processo lavorativo. Questo presuppone un rinnovamento dei metodi, una rivalutazione dell'osservazione partecipe, studi antropologici del lavoro e dei lavoratori. Le situazioni reali di lavoro diventano il primo oggetto di studio per poi, a partire da esse, determinare le tendenze dell'evoluzione del lavoro e dell'esperienza dei lavoratori.
2) In secondo luogo, questa prospettiva si identificherà con quello che è stato chiamato, in particolare nella tradizione italiana, "la centralità della fabbrica". La fabbrica (l'unità di produzione) è lo spazio dove i rapporti di classe che esistono nella società nel suo complesso si sviluppano in maniera più chiara ed esplicita. Pertanto portare la propria attenzione su quello che avviene nella fabbrica è utile alla comprensione dell'evoluzione della società nel suo insieme. Bisogna perciò analizzare le condizioni generali che determinano in maniera sempre nuova l'organizzazione del lavoro in fabbrica. In questo periodo, va ricordato, i punti centrali dell'analisi del processo lavorativo saranno le basi di opere sociologiche di carattere più generale, come ad esempio "Regolazione e crisi del capitalismo" (1997) di Michel Aglietta.
L'analisi dell'opera di Braverman, e con essa il ritorno ai classici ed in particolare al primo libro de Il Capitale, fornirà una base di chiarimento dei problemi teorici che attengono agli studi concreti sul campo, spesso di lunga durata. Burawoy ha riassunto queste importanti idee nell'introduzione al suo libro:
"Bisogna abbandonare le generalizzazioni astoriche [...] così come le ipotesi metafisiche circa l'esistenza di un conflitto o di un'armonia soggiacente. Né il conflitto né il consenso sono latenti o soggiacenti, essi si riferiscono a delle attività suscettibili di osservazione diretta che devono essere comprese in funzione dl processo di produzione di una organizzazione del lavoro determinata."

LA QUESTIONE DEL CONTROLLO E DELLA RESISTENZA, AL CENTRO DEL NUOVO PARADIGMA
La specificità della teoria del processo lavorativo consiste innanzitutto in un chiarimento concettuale di che cosa sono il lavoro e la produzione in un regime di produzione capitalista. In questa tradizione sociologica, il processo lavorativo non è sinonimo di attività effettuate da un individuo né da un insieme di occupazioni, ma effettuate dalla frazione del modo di produzione capitalista nella quale i salariati dispiegano la loro capacità produttiva per la produzione di merci e di plusvalore. L'interesse del sociologo che proviene da questa tradizione si focalizza allora sulla natura del processo di produzione in quanto modo capitalista di valorizzazione, così come sulle dinamiche della lotta e dello sfruttamento all'interno del processo lavorativo.
La questiono del controllo è allora, in quest'approccio, inseparabile dall'organizzazione del processo lavorativo. Un punto che solleverà una controversia particolare attiene alla tesi esposta da Braverman a proposito del taylorismo. Braverman considera il taylorismo come la forma di controllo proto-tipica del capitalismo monopolistico, e questo malgrado - afferma - le riforme "cosmetiche" attuate dalle direzioni delle imprese per migliorare la qualità delle "relazioni umane" in fabbrica, o per aumentare la motivazione dei lavoratori. Merita segnalare che, in questa tradizione, non è il controllo in sé della forza lavoro ad essere in discussione, ma la sua natura: tutti gli autori riconoscono infatti che questo è radicato nei rapporti di produzione capitalisti.
I postulati di Braverman oggi sono sufficientemente noti. L'obiettivo del taylorismo è quello di sottrarre al lavoratore il potere che egli ancora conserva sul suo proprio lavoro, e di controllare in maniera rigorosa lo sviluppo di ciascuna attività. Il lavoro che si sviluppa secondo questi principi diviene dequalificato, nel mentre che si deteriora inesorabilmente. Ora, ciò che veramente importa è il controllo, e non la dequalificazione e la degradazione in sé del lavoro, cioè a dire che il lavoro si degrada a causa dei mezzi adottati per porre in essere questo controllo. In tale prospettiva, la qualificazione non è più soltanto un affare di contenuto dei compiti o della soddisfazione procurata dal lavoro, ma è un mezzo di pressione (di controllo) importante sul lavoro. Autori come David Noble (1984) o Harley Shaiken (1992), seguendo questo orientamento di ricerca, mostreranno in maniera del tutto convincente come un processo che minaccia la qualificazione operaia prepara allo stesso tempo le basi per un importante trasferimento di potere al di fuori del luogo di lavoro.
Tuttavia, i limiti di questa concettualizzazione del taylorismo e dell'evoluzione delle forze produttive appaiono assai velocemente, e saranno alla base di quella che è stato chiamata "la seconda ondata della teoria del processo lavorativo". Da un punto di vista tecnico, sembra ragionevole considerare che il taylorismo abbia favorito la conservazione delle informazioni, in quanto ha soppresso da subito la possibilità anche teorica di una distanza fra il lavoro prescritto ed il lavoro reale. Nella pratica concreta, scrive all'epoca, la distanza fra lavoro prescritto e reale dimostra che l'iscrizione del controllo nel processo di lavoro, secondo la razionalità taylorista, non è del tutto realizzabile, in quanto la produttività e la qualità dipendono largamente dal coinvolgimento dei lavoratori. Da un punto di vista sociale, si afferma che la distanza fra prescritto e reale favorisce l'articolazione di collettivi di lavoratori capaci di creare delle norme clandestine e di trasmettersele. Immersioni nell'universo della fabbrica, come "L'Établi" di Robert Linhart, mostrano come l'incitamento permanente, non solo alla trasgressione delle regole ma anche alla produzione di altre regole, ad esempio l'incitamento all'autonomia, si situa alle origini stesse di un gruppo di solidarietà, radicato in dei valori critici e lontano dalla logica della razionalità d'impresa. Per tutte queste ragioni, ed altre ancora, il taylorismo è stato compreso come un insieme di pratiche per aumentare il controllo capitalista sulla forza lavoro. In quest'ottica, è stato considerato da alcuni come un vero e proprio fallimento (Burawoy, 1979), in quanto tecnicamente il meno adeguato a far fronte alla resistenza operaia (Friedman, 1977).
Le critiche rivolte a Braverman sottolineano non tanto l'omissione, nelle sue analisi, della lotta industriale in sé, quanto il fatto che egli studia la qualificazione, e più in particolare la dequalificazione, senza tener conto della capacità dei lavoratori di influenzare la relazione fra cambiamento tecnologico e qualificazione. A questa scoperta, seguiranno due grandi dibattiti, ed è nel quadro di tali dibattiti che va inscritto il contributo di Michael Burawoy.

Il primo dibattito, a partire da una definizione dinamica del controllo, si interroga sull'evoluzione delle politiche manageriali di mobilitazione e di messa al lavoro. Il costante rinnovamento delle forme di resistenza operaia alla dequalificazione diventa, per molti, esplicativo della crisi del modello taylorista. E' la resistenza al sistema taylorista che obbliga la direzione ad escogitare nuove forme di organizzazione "senza perdere il potere" (Durand, 1978). All'epoca, alcuni si sforzano di caratterizzare la relazione fra le forme flessibili o morbide di controllo e le forme più rigide. Per Friedman (1977), la frontiera del controllo non è mai fissa né predeterminata: esiste tutto un mondo di possibili tattiche che dipendono dalla resistenza dei salariati. Quest'approccio verrà sviluppato e sistematizzato in maniera molto convincente da Robert Linhart, nella sua analisi delle industrie di trasformazione. Altri autori tenteranno una periodizzazione delle forme organizzative in funzione della dialettica controllo-resistenza (Edwards, 1979). Alcuni testi allora torneranno sulle differenti tradizioni nazionali e perfino locali, in funzione di una dialettica della contrattazione salariale.
Il secondo dibattito riguarda la natura della relazione controllo-resistenza, ed apre all'analisi della razionalità del lavoro come esperienza soggettiva. Questo dibattito tenderà ad allontanarsi dalla prospettiva oggettivista di Braverman e si avvicinerà all'interpretazione ermeneutica del reale, ovvero al dominio del simbolico, delle pratiche e delle esperienze soggettive quotidiane nello spazio del lavoro.
In tale contesto, la proposta di Burawoy diventa una critica dell'approccio dualistico classico dei rapporti sociali di produzione, secondo il quale il controllo e la resistenza vengono trattati come se fossero due poli opposti. Ed è all'analisi di tale proposta che ora passiamo.

UN ROVESCIAMENTO DELLA PROBLEMATICA
La più parte delle critiche a Braverman pongono l'accento sul fatto che egli non tiene conto della resistenza dei lavoratori. Burawoy pone invece la questione inversa: perché il lavoratori accettano le condizioni capitalistiche di produzione? La risposta non è facile, in quanto si tratta di un tema fino ad allora ignorato dalla sociologia delle organizzazioni e del lavoro. La teoria marxista classica non risponde in maniera molto convincente, dal momento che questa accettazione delle condizioni lavorative degradate non può essere attribuita soltanto alla coercizione.
Burawoy si domanda: perché il lavoratori lavorano così duramente? Cercherà di rispondere a questa domanda per mezzo di uno studio etnografico condotto nella fabbrica Allied, a Chicago, dove si fa assumere come macchinista in una linea di produzione dove gli operai vengono pagati a pezzo. Il caso vuole che questa fabbrica sia la stessa dove trent'anni prima aveva lavorato Donald Roy. Questa coincidenza gli consentirà di analizzare i cambiamenti avvenuti nel microcosmo della fabbrica e di interpretarli secondo le evoluzioni delle relazioni di lavoro a partire dalla seconda guerra mondiale.

Burawoy dà per scontata l'integrazione del lavoratore nel sistema. Il suo obiettivo è quello di comprendere le forme attraverso cui si esprime l'auto-controllo, cioè a dire la maniera in cui gli operai stessi creano le condizioni di consenso. Quest'adattamento avviene grazie a dei "giochi", ossia sotto forma di produzione autonoma di regole informali e di pratiche destinate a creare uno spazio e dei tempi propri, volte a controllare l'aumento della produzione al fine di ottenere un premio complementare al salario di base e, in ultima analisi, a rendere la vita lavorativa un po' più interessante. Buroway chiama tutto questo: "giochi per tirare avanti".
L'obiettivo di ciascun lavoratore si stabilisce in funzione di una serie di fattori, come il tipo di posto occupato (il tipo di remunerazione, ecc.), la macchina utilizzata ed il grado di esperienza. Alcuni lavoratori sono soddisfatti di ottenere il 125% della quota normale di produzione, mentre altri non sono soddisfatti se non ottengono almeno il 140%, il limite massimo imposto a tutti i partecipanti. La cultura dell'officina ruota quindi intorno alle possibilità di "uscirne". Allo stesso tempo, il gioco modella la conflittualità così come essa si manifesta nelle officine, nel senso che il salario individuale può regolare la velocità delle operazioni o la capacità di lavoro della macchina di ciascuno, ma è nondimeno dipendente dagli altri lavoratori i quali a loro volta agiscono in maniera relativamente autonoma: "Questa contraddizione fra controllo della macchina e dipendenza dagli altri, fra attività produttive e rapporti di produzione, dà luogo a dei conflitti particolari nelle officine."
I conflitti fra i diversi gruppi di lavoratori attenuano il conflitto con la direzione dell'impresa; in ogni caso, è giocoforza constatare che, nella prospettiva di Burawoy, non si tratti più di un conflitto capitale-lavoro ma di una serie di tensioni più o meno acute che derivano dall'assenza di condizioni tali per cui ciascun lavoratore possa "uscirne". La deviazione dei conflitti gerarchici verso dei "conflitti laterali" impedisce l'identificazione di classe. Su questo punto, l'analisi di Burawoy colpisce: non si tratta di una tendenza parziale, ed in quanto tale contingente, ma si tratta della trasformazione di una supremazia di classe fondata sulla coercizione in un'egemonia che viene prodotta e viene approvata dagli stessi dominati all'interno del processo di produzione. In tal senso, Burawoy condivide con Friedman ed Edwards l'idea per cui il capitalismo monopolistico non avrebbe più bisogno di metodi coercitivi per esercitare il suo dominio, in quanto può ottenere il controllo attraverso l'internalizzazione di un individualismo concorrenziale, più efficace al fine di ottenere, in definitiva, l'adesione dei lavoratori all'impresa.

La concorrenza che esiste sul mercato del lavoro esterno, si internalizza sotto forma di un'ideologia individualista e concorrenziale che si vede rafforzata nello spazio di produzione in ragione di due fattori. Da una parte, la creazione di un mercato interno del lavoro che si sviluppa all'interno dell'impresa e che configura i sistemi di promozione, la distribuzione dei posti di lavoro e la scala salariale. Dall'altra parte, lo sviluppo di un'organizzazione politica interna che si fa carico della contrattazione salariale e che permette l'istituzionalizzazione del conflitto. Quest'organizzazione dissimula i rapporti capitalistici di produzione attraverso la costituzione dei lavoratori come "cittadini industriali", titolari di diritti e di doveri. Questi due fattori, il mercato del lavoro interno e l'organizzazione politica che si svolge all'interno dell'azienda, svolgono delle funzioni complementari nel processo di fabbricazione del consenso, a condizione che la direzione non violi le norme che reggono le scelte a disposizione dei lavoratori.
Burawoy, nel 1984, ha avuto anche l'occasione di studiare i rapporti sociali che nascono in un contesto di produzione "non-capitalista", in quanto ha lavorato come operatore in un'industria ungherese. Questa ricerca gli ha consentito di avvicinarsi al tema delle fonti di controllo. Per molti decenni, l'ortodossia comunista si è limitata a segnalare che la base del controllo capitalista si fondava sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Burawoy ha mostrato che è possibile statalizzare un'impresa senza cambiare sostanzialmente i rapporti sociali né il tipo di controllo esercitato sulla manodopera. Comparativamente, l'organizzazione della produzione era molto più efficace di quanto lo fosse nella fabbrica di Chicago; gli operai lavoravano assai duramente, ma il ritmo della produzione era meno elevato: nessuno superava i limiti di produzione scelti collettivamente. Eppure, il clima di cooperazione non impediva la costituzione di rapporti di subordinazione fra i sessi, che erano alla base dei rapporti di dominio nelle officine, né l'alcolismo generalizzato come via di fuga al rigore delle condizioni di lavoro.

L'ORDINE ED IL TEMPO: PER UNA LETTURA DIALETTICA DI BUROWAY
L'opera di Buroway è stata ovviamente oggetto di critiche da parte di schieramenti diversi, i quali vi hanno visto, in primo luogo, la natura etnografica di tale opera. Da una parte, alcuni hanno criticato il fatto che Burawoy focalizzi la sua attenzione sullo studio del consenso, e che non prenda sufficientemente in considerazione le forma individuali di resistenza, quali l'abbandono del posto di lavoro, l'assenteismo ed altre forme di indisciplina (Edwards e Scullion, 1982). Più fondamentalmente, sembra che Burawoy abbia avuto la tendenza a generalizzare i risultati del suo studio, quando negli studi di questo genere è sempre possibile trovare delle tendenze contrarie. Inoltre, fino a che punto i suoi risultati potrebbero essere generalizzabili?

In una frase citata sovente, Marx ha sottolineato l'importanza del tempo storico, e la relazione dialettica che esiste fra l'ordine ed il tempo, per poter comprendere il momento presente: "Gli uomini fanno la loro propria storia, ma non la fanno liberamente, nelle circostanze scelte da loro stessi, bensì la fanno nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione."

Ciascuna impresa, ivi compresa la Allied, ha una storia nel corso della quale i rapporti e le procedure salariali e professionali si sono istituzionalizzate, le risorse sono state stabilite ed alcune azioni e decisioni sono state considerate più legittime di altre, o quanto meno come preferibili. Ad un dato momento, le direzioni delle imprese possono volere un reorientamento nel dominio della politica di controllo mirata alla produzione di consenso, cosa che può presupporre una novità qualitativa considerevole, nella costruzione dell'ordine industriale. Ma ciò non vuole necessariamente dire che le condizioni che producono il conflitto e la coercizione spariscano, o che esse siano radicalmente trasformate.
Analogamente, lo stato dei rapporti professionali - sia a livello macro che micro -, la cultura organizzativa dello stabilimento e la stessa lotta per il controllo del processo di produzione, condizionano pesantemente l'introduzione di innovazioni, anche nel dominio del controllo. Questo vuol dire che non si può più riconoscere ad esse un obiettivo esclusivamente razionale - in termini di massimizzazione delle opzioni tecniche ed umane - se non altro per il fatto che si riferiscono al passato e derivano dalla dialettica stessa della contrattazione salariale - passata e presente.
L'insieme di queste riflessioni ci può portare a considerare che in ultima istanza l'abilità del capitale a generare consenso dipende in primo luogo dal contesto socio-politico generale, e non fondamentalmente dal contesto particolare del processo lavorativo. I rapporti di forza in un determinato periodo, condizionano pesantemente i rapporti di potere all'interno dell'impresa. Questo senza dubbio spiega il fatto che nel periodo in cui Burawoy scriveva sul consenso, gli operai dequalificati italiani si battevano per l'autogestione operaia all'interno dei comitati di base. In generale, questa mediazione fra il particolare (l'esperienza particolare del lavoro) e l'universale (l'identità e la governance mondiale), in sociologia, rimane da essere approfondita.

Altri critici hanno messo in dubbio la sua costruzione della soggettività dei manager. E' vero che può essere accettata facilmente la tesi di un'assenza di coscienza di classe da parte degli operai, nel senso che, come dice lo stesso autore, l'esperienza dello sfruttamento non fa parte del loro quotidiano. Pertanto, quanto meno nella coerenza della sua analisi, non ha alcuna ragione valida per supporre a priori che tutti i manager e tutti i membri delle direzioni differiscano così fondamentalmente dai lavoratori, nel loro adattamento al lavoro capitalista, cioè a dire che anche essi partecipino, come fanno i lavoratori, alla produzione ed alla riproduzione del gioco.
Dacché egli considera lo spazio di lavoro come un luogo azionale organizzato intenzionalmente dagli organizzatori, al fine di promuovere il consenso, Burawoy sopprime la possibilità, anche teorica, di un ordine (o di un'organizzazione) negoziato al plurale, ossia concepito come una "arena politica" dove gli interessi e le fonti di potere siano plurali. Ricordiamo che i contesti in cui i giochi si riproducono necessitano di una certa indeterminazione per quel che concerne i risultati ottenuto. Tale indeterminazione, benché minima o semplicemente percettibile, mobilita la capacità dei salariati di esercitare dei livelli di controllo, deboli ma soddisfacenti, sul processo lavorativo. Questa "simulazione" di autonomia, secondo Burawoy, produce una denaturalizzazione del potere di agire in condizioni di autonomia: l'autonomia non è altro che di facciata, nel senso che essa viene suscitata dalle politiche manageriali poste in essere, e destinate in ultima analisi a nascondere oppressione e sfruttamento.

Credo che quest'approccio restrittivo e semplicistico al lavoro ed ai lavoratori costituisca il suo errore più madornale. Burawoy parte dalla necessità di interrogare nell'analisi, il momento della ricezione soggettiva della politica manageriale, in modo da superare un'analisi che ha avuto troppo spesso la tendenza a considerare i lavoratori come semplici oggetti passivi del dominio padronale. E non ha torto quando considera che la teoria del controllo manageriale, così come è stata sviluppata da Barverman, è insufficiente in questa sfera. Questa critica è tanto più importante dal momento che è impossibile comprendere i rapporti di produzione (nella loro stessa dinamica di trasformazione e/o di riproduzione) se vengono assunti come la sola dimensione del capitale. Tuttavia, l'autore non arriva alla fine della sua analisi, in quanto la sua tesi sul consenso non distingue fra l'oggettività del controllo manageriale e la sua internalizzazione soggettiva da parte dei lavoratori. Si potrebbe perfino affermare che, nella sua concezione del lavoro e dei lavoratori, gli attori si trovano pienamente disatutorizzati, nel senso che l'azione svolta, dal e nel gioco, derivi da una strategia concepita dal management. Riferendosi ai risultati della sociologia industriale, Burawoy reintroduce l'inganno, l'imbroglio. Ma questo non ci fa uscire da una concezione strumentale dell'attività, Anche se abitata dall'intelligenza astuta, l'attività viene considerata come strettamente asservita a degli obiettivi imposti ai salariati dall'esterno. Le questioni etiche e politiche vengono in questo modo situate come esterne all'attività. L'attore al lavoro, in quanto tale, si dissolve, dal momento che il terreno produttivo diventa un oggetto supplementare dell'inventario strategico manageriale. La sua tesi si avvicina in questo modo alla teoria della cospirazione.
Non possiamo quindi ritenere che Michael Burawoy abbia dato una risposta soddisfacente alla questione centrale, benché abbia posto le basi per tentare di rispondere seriamente: perché i lavoratori lavorano così duramente?
Questo interrogativo alimenterà delle riflessioni posteriori molto poco numerose. Robert e Daniel Linhart (1985) hanno cercato di superare l'insufficienza dell'approccio di Burawoy in questa sfera, introducendo la dimensione identitaria del lavoro. Così, per i Linhart, l'appropriazione di strumenti e di tecnologie, dal momento che permette un intervento maggiore sull'organizzazione del lavoro, si viene a trovare all'incrocio di due processi: l'integrazione oggettiva in quanto produttori zelanti e la contestazione soggettiva. L'idea sviluppata da questi autori consiste nel considerare che questi due processi apparentemente contraddittori operano insieme. Essi dipendono l'uno dall'altro e tendono a configurarsi vicendevolmente. La proposizione dei Linhart quindi comprende i lavoratori in quanto produttori efficaci  e zelanti, e allo stesso tempo contestatori della razionalità dell'organizzazione: è in questo perciò che risiede la profonda ambivalenza della natura del lavoratore contemporaneo.

OGGI, VA DI NUOVO POSTA LA DOMANDA
Trent'anni dopo la pubblicazione del libro di Burawoy, le trasformazioni del mondo del lavoro contemporaneo sembrano andare nel senso delle tendenze suggerite dall'autore, per quel che riguarda l'evoluzione delle modalità manageriali di mobilitare e mettere al lavoro. Nella nuova impresa, la dimensione umana viene stavolta presa in considerazione: non è più soltanto il tempo oggettivo della produzione ad essere oggetto del desiderio da parte della direzione dell'impresa, ma anche le modalità d'intervento ed il senso dell'implicazione dei lavoratori. A differenza di ieri, oggi il salariato non è solamente costretto a "lavorare velocemente", più velocemente di ieri; egli è anche costretto a "lavorare bene", cioè a dire a conformarsi alle nuove esigenze dell'impresa in termini quantitativi e qualitativi. Per adeguare i suoi comportamenti alle nuove norme, alle nuove esigenze produttive, ai nuovi obblighi spesso contraddittori, per assicurare una produzione continua, per rendere un servizio soddisfacente al cliente, il lavoratore deve mobilitare tutto il suo essere, sia mentalmente che emotivamente, ma anche fisicamente, per conseguire gli obiettivi non negoziabili fissati dalle direzioni.
E' tutta la tensione del flusso che dev'essere mantenuta attraverso la cooperazione di tutti i salariati, per mezzo di uno scambio più sostenuto di informazioni, per mezzo di una capacità di nuove reattività ed innovazioni, per mezzo di una volontà di superarsi continuamente, attraverso attività che non sono facilmente programmabili. La fissazione degli obiettivi, trasmessi a ciascun salariato sotto forma di contratto individuale, si erge nella modalità di una pressione onnipresente. Non è più sufficiente fare qualcosa, ma bisogna contribuire alla produzione del plusvalore. "E' stato invertito il senso della produzione industriale", ci dice Annie Thébaud-Mony nel suo ultimi libro (2007). Nelle officine, negli uffici, si installa l'arbitrario, sullo sfondo dell'individualizzaziuone, e gli obiettivi finanziari rimpiazzano gli obiettivi della produzione. Questo dispositivo contiere la contraddizione che fa letteralmente esplodere il lavoratore: "Si esigono da lui delle vere e proprie prodezze, si esige la trasformazione dell'eccezionale in quotidiano, e si valuta la sua capacità di realizzare l'irrealizzabile" (Annie Thébaud-Mony, 2007).

Le storie collettive, i valori del lavoro, si diluiscono nel lavoratore individualizzato, atomizzato, che deve mobilitare le sue capacità al servizio di valori puramente di mercato ed in quanto tali, estranei. La finalità del lavoro, il sentimento di utilità sociale, si dissolvono nel gesto tecnico. Le inchieste sociologiche e psicodinamiche sul lavoro, ci parlano di salariati che non possono più esercitare il loro mestiere secondo lo stato dell'arte, e che vivono costantemente sul filo del rasoio, e che spesso "crollano". Ora, se "crollano" così spesso, questo avviene perché si preoccupano di ciò che fanno e che non sono più disposti a fare a qualsiasi costo per fare coincidere i mezzi ed i fini del loro lavoro. Paradossalmente, è proprio nel momento in cui l'impresa si dichiara aperta alla società, ed afferma di voler alla fine far rientrare la cittadinanza nel suo seno grazie a differenti forme di partecipazione, che essa si arroga il diritto di definire una propria morale, a misura dei suoi soli interessi che essa intende imporre a tutti i suoi salariati. Così, il salariato si vede tagliato fuori dalla società.
Confrontandosi tutti i giorni con la materialità delle situazioni, i lavoratori si vedono costretti a dover decidere fra logiche diverse (merci, tecnica, morale). Lo fanno, ma l'orientamento scelto non è determinato in anticipo, esso diventa molto problematico. Il lavoro diventa una questione di vita o di morte in senso non letterale, come dice Annie Thébaud-Mony (2007), ma ontologico, cioè a dire a seconda che esso permetta o non permetta ai salariati di continuare ad orientare, attraverso la loro attività, la direzione in cui marcia il mondo secondo i loro propri valori, di acquisirlo per farne una proprietà sociale.

Prendiamo l'esempio dei Call Center. La razionalizzazione temporale del processo di produzione si accompagna ad potente razionalizzazione morale del contenuto del lavoro. Lo "strumento del sorriso" va usato continuamente quando si entra in una di queste unità di produzione: le fabbriche moderne, così come sono state descritte nella letteratura sociologica. Il lavoro diventa più difficile e più penoso, non solo perché è più ripetitivo, monotono ed automatizzato, ma perché bisogna sempre giocare continuamente un ruolo, perché sospendere la propria personalità ed i propri valori per adottarne degli altri, dettati dalla razionalità dell'impresa ed iscritti nel processo lavorativo: redditività e produttività. Se la società, in quanto insieme di valori e norme irriducibili ai valori del mercato, viene così portata a dissolversi nel luogo di lavoro, i salariati tuttavia riescono ad imporre nell'attività le loro proprie valorizzazioni, ed a costituirsi in collettivo di lavoro a partire da queste altre valorizzazioni del lavoro e della sua finalità. Ho potuto così osservare un conflitto in uno di questi call center, dove i salariati sono scesi in sciopero perché il prodotto di punta dell'azienda, che dovevano vendere tutti i giorni, non funzionava correttamente: "Non si può continuare a mentire al cliente come è stato fatto finora", hanno fatto osservare alla direzione (Calderòn, 2005).

Si può vedere bene come la questione proposta da Nurawoy oggi acquista una rinnovata importanza. Porsi il problema riguardo alla molla della mobilitazione sul lavoro, nella prospettiva di ricerca aperta dall'autore nordamericano, oggi ci dovrebbe portare a rendere visibile il lavoro ed i lavoratori, che nella sociologia si vedono spesso confinati in una posizione di passività o di sofferenza. Dei lavoratori che, oltre al loro adattamento a delle condizioni di lavoro sempre più degradate, riescano ancora a far vivere i loro propri valori, ed eventualmente ad organizzarsi per la loro difesa. Questa prospettiva di ricerca, probabilmente necessita di tempi e di apporti multipli, e apre indubbiamente delle problematiche ancora poco esplorate. Noi pensiamo di aver aperto qualche pista che ci permette di continuare ad avanzare.

- José Angel Calderón - Pubblicato su "Tracés. Revue de Sciences humaines" online, il 30 maggio 2009 -

fonte: Tracés. Revue de Sciences humaines