lunedì 31 agosto 2015

Economia critica e critica dell'economia

postone

Teorizzando il mondo moderno
- di Moishe Postone -

E' ampiamente riconosciuto che gli ultimi trent'anni hanno segnato una rottura significativa con l'ordine sociale, politico, economico e culturale che aveva caratterizzato i decenni precedenti seguiti alla seconda guerra mondiale. Si verificano mutazioni fondamentali, quali l'indebolimento e la trasformazione degli Stati del benessere sociale del capitalismo occidentale, il collasso o la metamorfosi fondamentale degli Stati burocratici dell'Est europeo e l'erosione degli Stati sviluppisti in quello che convenzionalmente venivano chiamati del Terzo Mondo. In generale, gli ultimi decenni hanno visto l'indebolimento della sovranità economica statale nazionale e l'emergere ed il consolidarsi dell'ordine globale neoliberista. Da una parte, la vita sociale, politica e culturale è diventata sempre più globale; dall'altra, è diventata sempre più decentrata e frammentata.
Questi cambiamenti si sono verificati nel contesto di un lungo periodo di stagnazione e crisi: a partire dall'inizio degli anni 1970, il tasso di crescita dei salari reali è diminuito drammaticamente - in generale sono rimasti inalterati laddove i tassi di lucro ristagnavano ed i tassi di produttività del lavoro si abbassavano. Tuttavia, questi fenomeni di crisi non hanno portato alla rinascita dei movimenti della classe operaia. Al contrario, nei passati decenni abbiamo assistito al declino dei movimenti classici dei lavoratori e all'emergere di nuovi movimenti sociali, frequentemente caratterizzati da politiche di identità, ivi incluso movimenti nazionalisti, movimenti politici relativi al libero orientamento sessuale e varie forme di "fondamentalismo" religioso. Un'analisi delle trasformazioni su larga scala, avvenuti negli ultimi trent'anni, quindi richiede che si prenda in considerazione non solo il declino economico sul lungo periodo, ma anche gli importanti cambiamenti avvenuti nella vita sociale e culturale.
E' sullo sfondo di questa problematica che intendo discutere tre saggi molto importanti - di Robert Brenner, Giovanni Arrighi e di David Harvey - che trattano le trasformazioni in corso. Quest'articolo vuole solo essere generale. Non pretende di fornire un'analisi critica definitiva delle opere di questi tre autori, ma affrontare a livello metaforico i loro libri specifici, focalizzandosi sui presupposti teorici in modo da problematizzare la natura e le caratteristiche di una teoria critica che possa essere adeguata al capitalismo attuale.
Perché una teoria del capitalismo, o meglio, una teoria del capitale? Lasciatemi cominciare con un'osservazione che Harvey ed altri hanno fatto in relazione al periodo di prosperità del dopoguerra, fra il 1949 ed il 1973: gli Stati occidentali producevano in maniera simile crescita economica stabile ed innalzamento del tenore di vita - attraverso una combinazione di Stato del benessere sociale, politica-economica keynesiana e controllo delle relazioni salariali - di modo che partiti politici molto differenti fossero al potere. Si potrebbe aggiungere che in tutti gli Stati occidentali, tale sintesi dello Stato del benessere sociale viene meno negli anni 1970 e 1980, indipendentemente da quale partita fosse al potere.
Questi sviluppi storici su larga scala possono essere compresi in riferimento ad un quadro storico più ampio: l'ascesa e la caduta dell'organizzazione centrata su uno Stato di vita economica e sociale caratterizzato dall'apparente predominio del politico sull'economico. L'inizio di questo periodo può essere collocato, grosso modo, nella prima guerra mondiale e nella rivoluzione russa; la sua fine può essere osservata nella crici degli anni 1970 e nel susseguente emergere dell'ordine globale neoliberista. Questa traiettoria generale è stata una traiettoria globale. Essa ha compreso paesi capitalisti occidentali ed Unione Sovietica, così come territori colonizzati e paesi decolonizzati. Rispetto a tale traiettoria generale, i diversi sviluppi appaiono più come differenti inflessioni di un modello comune piuttosto che come sviluppi fondamentalmente differenti. Il carattere generale del modello storico che ha strutturato su larga scala gran parte del XX secolo, suggerisce l'esistenza di imperativi strutturali e di restrizioni generali che non possono essere adeguatamente spiegati in termini locali e contingenti.
Quindi, la considerazione del modello storico generale che caratterizza il XX secolo mette in discussione le comprensioni post-strutturaliste della storia intesa come un modello essenzialmente contingente. Questo, tuttavia, non implica necessariamente che si ignori la constatazione critica che sta alla base dei tentativi di affrontare la storia in maniera contingente - in altre parole, che la storia, intesa come il dispiegarsi di una necessità immanente, possa essere vista come espressione di una forma di oppressione.
Questa forma di oppressione è l'oggetto della teoria critica del capitalismo di Marx, che si preoccupa, in primo luogo, di delineare e fondare gli imperativi e le restrizioni che generano la dinamica storica ed i cambiamenti strutturali del mondo moderno. La critica del capitale non nega l'esistenza dell'oppressione storica per focalizzarsi sulla contingenza. Al contrario, cerca di analizzare storicamente questa oppressione sociale, svelandone le basi, e indicando la possibilità del suo superamento. In altre parole, una teoria critica adeguata del capitale mira a chiarire la dinamica del mondo moderno, e lo fa a partire dal punto di vista immanente della possibilità della sua trasformazione. Questa teoria critica del capitalismo, della dinamica storica della modernità, a mio avviso, può fornire una base migliore per un approccio rigoroso alle trasformazioni degli ultimi trent'anni. Solo essa può realizzare tutto questo, però nella misura in cui è in grado di affrontare adeguatamente le profonde alterazioni sociali e culturali, così come quelle economiche, degli ultimi decenni.

I tre autori di cui tratto, cercano di comprendere queste trasformazioni recenti sulla base di una teoria critica del capitalismo. In "“The economics of global turbulence”, Robert Brenner raccoglie molte prove (dati sui salari reali, tassi di profitto, tassi di produttività del lavoro e tassi di crescita) al fine di dimostrare che l'economia mondiale si trova da trent'anni praticamente in ristagno. Scrivendo alla fine degli anni 1990, Brenner argomenta contro l'illusione, diffusa in quel periodo (in realtà, un'illusione capitalista ricorrente), che il problema dei cicli economici sia stato risolto, che ci siamo lasciati i cicli alle spalle. La sua preoccupazione principale non è solo quella di spiegare il declino economico dell'inizio degli anni 1970, ma anche quella di spiegare che esso si è protratto per molto tempo. La caduta della redditività, che annuncia la fine del boom del dopoguerra, è cominciata a metà degli anni 1960, secondo Brenner, e non, come molti sostengono, fra il 1969 ed il 1972. Questo, sempre secondo Brenner, contraddice quella che egli chiama "teorie delle offerte" [“supply-side” theories], le quali attribuiscono il declino, così come la sua durata, alla crescente pressione esercitata dai lavoratori sui profitti, dal momento che egli indica come questo declino sia precedente a tale pressione. Inoltre, gli approcci che si focalizzano sul lavoro osservano necessariamente la situazione specifica di ciascun paese. Non riescono a spiegare le caratteristiche più salienti del declino della fine del XX secolo: che il suo inizio e le sue diverse fasi sono state universali e simultanee - comprendendo economie deboli con forti movimenti di lavoratori (Inghilterra) ed economie forti con deboli movimenti di lavoratori (Giappone) - e che il declino è durato così tanto tempo. Sulla base di queste considerazioni, Brenner sostiene che la spiegazione del declino e del conseguente fallimento delle economie ad adattarsi, va situata a livello di sistema internazionale, inteso come un tutto. La caduta del tasso di profitto non è stato il risultato di fattori tecnologici, di pressioni operaie o di controlli politici, secondo Brenner, ma è stato fondamentalmente il risultato della concorrenza sul mercato internazionale e dello sviluppo diseguale.
Al centro dell'analisi di Brenner, sta l'argomento generale per cui il capitale, in un settore particolare, non può essere facilmente dirottato verso un altro settore, dal momento che gran parte di esso si trova nella forma di capitale fisso. Di conseguenza, in tale situazione, la concorrenza crescente, risultando in minori tassi di profitto, non porta al dirottamento del capitale in altre aree, come prevede la teoria economica predominante, ma porta alla sovrapproduzione sistemica. Pertanto, il declino derivante dalla sovrapproduzione non ha come risultato la prevista eliminazione dei concorrenti meno efficienti [shakeout], che dovrebbe in seguito dar luogo ad una ripresa, ma, sul lungo periodo, ha come risultato una caduta del tasso di profitto.
In particolare, Brenner sostiene che, come risultato della devastazione causata dalla seconda guerra mondiale, fondamentalmente c'è stata una sola fabbrica nel mondo dell'immediato dopoguerra - gli Stati Uniti. Negli anni 1960, tuttavia, gli Stati Uniti sono stati sfidati dalle economie della Germania e del Giappone. Grazie agli investimenti americani in capitale fisso - ad esempio, nell'industria automobilistica, laddove ha continuato a produrre ai suoi livelli precedenti, nonostante i tedeschi ed i giapponesi stessero espandendo la loro produzione (automobilistica). Il risultato è stata una sovrapproduzione endemica globale.
L'analisi di Brenner riferisce la crisi di sovrapproduzione nel capitalismo alla contingenza della concorrenza. Se non fosse per tale contingenza, le imprese saprebbero quando investire in capitale fisso. Ma esse non hanno e non possono avere una simile conoscenza; pertanto, sono soggette a pressioni imprevedibili. A causa del loro investimento in capitale fisso, però esse non possono permettersi di ritirarsi ed investire in un altro settore. Conseguentemente, i profitti precipitano. Le imprese tentano di controbilanciare questa tendenza alla caduta dei profitti facendo pressione sul lavoro, distruggendo sindacati e tagliando benefici sociali e previdenziali.

L'interpretazione, fatta da Brenner, del boom e della caduta del profitto chiarisce correttamente elementi importanti del lungo declino, specialmente il loro carattere globale. Mostra chiaramente che il capitalismo costituisce un ordine globale - un ordine, tuttavia, che è disfunzionale. La sua interpretazione è un'utile correzione del discorso economico predominante. Dimostra l'inadeguatezza della comprensione dei flussi di capitale risultanti dalla concorrenza ed il carattere illusorio della ricorrente nozione per cui i cicli economici sarebbero una cosa del passato. L'approccio di Brenner contraddice anche l'idea diffusa per cui il grande declino della fine del XX secolo sia stato il risultato della - e la risposta alla - vittoria della classe operaia fra il 1968 ed il 1972, e fornisce una base per criticare l'analisi della Scuola della Regolazione a proposito del declino del fordismo e dell'emergere del regime post-fordista.
Nonostante l'esame approfondito del lungo declino alla fine del XX secolo, fatto da Brenner, egli non affronta adeguatamente altre dimensioni, importanti, delle trasformazioni dei recenti decenni. In tal senso, il suo approccio non fornisce un'interpretazione adeguata del cambiamento storico. La sua analisi del lungo declino, con il suo riferimento alla concorrenza internazionale ed alla sovrapproduzione sistemica, mette in luce dimensioni importanti di questa crisi. Tuttavia, non vi è indicazione, nell'interpretazione di Brenner, di un'alterazione nelle dimensioni sociali, culturali e politiche della vita che possano essere messe in relazione ai processi economici che egli discute. Il focus di Brenner sull'economia, è tale che non viene evidenziato il fatto che il contesto storico generale della fine del XX secolo è in una qualche misura differente dai periodi precedenti al declino e alla rivalità inter-capitalista. Cioè, Brenner non tematizza la questione dei cambiamenti storici qualitativi nella società capitalista. Per cui, quando egli critica la Scuola della Regolazione, non fornisce un approccio alternativo rispetto alla dimensione centrale di questa prospettiva teorica - la preoccupazione per i cambiamenti sociali e culturali fondamentali che avvengono con l'emergere di quello che i teorici regolazionisti chiamano del nuovo modo di regolazione.
Tuttavia, se una teoria critica del capitalismo deve confrontarsi in forma adeguata con le trasformazioni storiche degli ultimi trent'anni, essa non può chiarire soltanto gli sviluppi economici, compresi in maniera ristretta, ma dev'essere capace di illuminare i mutamenti nella natura della vita sociale e culturale dentro la struttura del capitalismo. Solo così una teoria critica del capitalismo può essere rivendicata come teoria critica del mondo moderno, vale a dire, di una forma oggettiva/soggettiva della vita sociale storicamente specifica, e non una teoria di una determinata organizzazione economica che viene compresa in maniera restrittiva - della società moderna. Allo stesso modo (e questo è cruciale), una teoria critica del capitalismo dev'essere capace di chiarire i mutamenti qualitativi interdipendenti dall'oggettività e dalla soggettività sociale, se pretende di affrontare i cambiamenti culturali su grande scala ed i movimenti sociali. Solo così può essere, almeno potenzialmente, una teoria della possibilità di superamento del capitalismo.
La questione non è se Brenner, o qualsiasi altro teorico, si confronti in maniera esplicita con questi assunti, ma se il suo approccio sia sostanzialmente capace di chiarire trasformazioni storiche della politica, della cultura e della società. Indipendentemente dalle sue forze, l'approccio di Brenner non si confronta adeguatamente con lo sviluppo storico e con la struttura del capitalismo in quanto forma di vita sociale. Mutamenti nella cultura e nella soggettività, appaiono esterni alla sua prospettiva.

Questi limiti dell'approccio di Brenner sono relativi alla sua comprensione di base del capitalismo. La questione, qui, non riguarda semplicemente lo sforzo analitico - se un approccio critico al capitalismo debba solo affrontare processi economici, anziché trattare anche altre dimensioni della vita sociale. La questione è se le categorie di base di questa prospettiva possono riguardare intrinsecamente differenti dimensioni della vita, in quanto aspetti interdipendenti di una forma determinata di vita sociale. Il punto di partenza analitico di Brenner è un'enfasi marxista tradizionale sulla natura non pianificata, non coordinata e competitiva della produzione capitalista. Vale a dire, al centro della sua analisi del lungo declino si trovano i concetti dello sviluppo diseguale e della concorrenza. Nell'approccio di Brenner, queste nozioni definiscono il capitalismo, ed implicitamente indicano la pianificazione razionale come caratteristica più saliente del mondo post-capitalista. Il focus di tale critica del capitalismo, in altre parole, è essenzialmente il modo di distribuzione. Temi, come la forma di produzione, del lavoro e, più fondamentalmente, della mediazione sociale, sono estranei alla sua struttura teorica. Nozioni come la concorrenza e lo sviluppo diseguale, insieme alle categorie centrali per l'analisi di Brenner, come profitto, capitale fisso e circolante, tuttavia, sono categorie economiche; cioè, sono categorie di superficie che non catturano in forma adeguata la natura fondamentale e la dinamica storica del capitalismo in quanto forma di vita sociale storicamente specifica.
In questo saggio, posso menzionare soltanto il significato teorico della distinzione fra superficie e struttura profonda (che segna la distinzione fra economia politica critica e critica dell'economia politica) e perché avrebbe senso ridiscutere la categoria valore. Su questo punto, voglio solo sottolineare che qualificare un concetto quale lo sviluppo diseguale come una nozione di superficie non significa che essa sia illusoria, ma significa, invece, che essa non quel che è essenziale per il capitalismo.
Caratterizzare concetti, quali concorrenza e sviluppo diseguale, e categorie, quali il profitto, come fenomeni superficiali, esprime una posizione che considera le categorie come la merce, il valore ed il capitale come quelle che fanno parte della struttura profonda. Brenner, tuttavia, respinge queste ultime categorie, definendo gli approcci che si basano su di esse come "marxismo fondamentalista". Differenze in relazione alla teoria del valore, spesso esprimono comprensioni differenti delle categorie. Ad esempio, il valore è stato solitamente interpretato come una categoria economica, una categoria della distribuzione che fonda i prezzi, che dimostra lo sfruttamento (categoria del plusvalore) e che spiega il carattere incline alla crisi del capitalismo (come risultato della crescente composizione organica del capitale). Il significato del valore, compreso in questa maniera, è stato spesso messo in discussione a partire da argomentazioni che affermano che i prezzi, lo sfruttamento e le crisi possono essere spiegati senza riferirsi a questa categoria.
Propongo un'altra comprensione della categoria del valore di Marx. Essa non è semplicemente un perfezionamento di questa categoria così come è stata sviluppata da Smith e da Ricardo. Invece, è una categoria che pretende di cogliere le forme astratte determinate dalla mediazione sociale, dalla ricchezza sociale e dalla temporalità, le quali strutturano la produzione, la distribuzione, il consumo e, in maniera generale, la vita sociale nella società capitalistica. Sulla dimensione temporale delle categorie della struttura profonda, si fonda la dinamica del capitalismo; ciò aiuta a spiegare, in termini storicamente specifici, l'esistenza di di una dinamica storica che caratterizza il capitalismo. Quelle categorie, quindi, cercano di cogliere i contorni generali di questa dinamica in quanto indicano che una dinamica storica immanente di per sé non caratterizza la storia e le società umane. Inoltre, le categorie valore e capitale non sono meramente economiche e non sono neppure unicamente categorie dell'oggettività sociale - ma categorie che sono, allo stesso tempo, sociali e culturali. Infine, la dinamica basata sul valore è tale che il valore diventa progressivamente sempre meno adeguato alla realtà che produce. Vale a dire, la dinamica crea le condizioni di possibilità oggettive e soggettive di un ordine sociale al di là del capitalismo. (Comincerò ad approfondire l'elaborazione di queste affermazioni per discutere più avanti la nozione della caduta del tasso di profitto, come viene intesa da Brenner e da Arrighi.) Lungi dall'essere categorie della vita economica e sociale in generale, quelle che si trovano alla base della critica dell'economia politica pretendono di cogliere il nucleo essenziale di una forma della vita sociale storicamente determinata - il capitalismo - in modo da sottolinearne il suo carattere storicamente specifico e possibilmente transitorio. L'abolizione di quello che le categorie pretendono di cogliere porterebbe all'abolizione del capitalismo.

Farsi carico di questa problematica fondamentale richiede che si metta in discussione la natura della temporalità nel capitalismo, un assunto che non posso elaborare in maniera più ampia in questo saggio. Desidero, tuttavia, proseguire in queste considerazioni prendendo come riferimento "Il lungo XX secolo", di Giovanni Arrighi. Arrighi fa parte dei teorici che concettualizzano il periodo che parte dal 1973 come quello del cambiamento qualitativo, il cui tratto predominante egli caratterizza in termini di "finanziarizzazione" del capitale. Polemizzando con le posizioni come quella di Hilferding, per cui l'aumentata importanza del capitale finanziario segna uno stadio del tutto nuovo dello sviluppo capitalista, Arrighi afferma che la supremazia della finanziarizzazione è un fenomeno ricorrente, una fase dei cicli maggiori di sviluppo capitalista che sono cominciati nell'Europa fra la fine del Medioevo e l'inizio dell'era Moderna.
Lo studio di Arrighi sulla crisi della fine del XX secolo, si inscrive in una struttura teorica più ampia - un'analisi delle "strutture e processi del sistema capitalista mondiale inteso come un tutto, in tappe diverse del suo sviluppo". Quest'analisi, da parte sua, è profondamente influenzata dal tentativo ambizioso di Arrighi di pensare secondo quel che Charles Tilly ha definito come "i due grandi processi interdipendenti dell'era [moderna]: la creazione di un sistema di Stati nazionali e la formazione di un sistema capitalista mondiale". Per potere relazionare questi due sistemi internazionali, Arrighi ricorre alle teorie di Fernand Braudel e Karl Polanyi. Egli adotta la comprensione di Braudel del capitalismo inteso come una parte di una struttura intesa su tre livelli. Ci sarebbe un livello inferiore, che Braudel chiama della "vita materiale" - lo strato della non-economia che non potrà mai essere influenzato dal capitalismi, poi uno strato intermediario di economia di mercato e infine uno strato superiore di "anti-mercato", la zona dei predatori giganti. Per Braudel, questo ultimo livello superiore è il vero locus del capitalismo. Sulla base dell'analisi di Braudel, Arrighi sostiene che, storicamente, lo sviluppo capitalista non è stato soltanto il risultato non-intenzionale delle innumerevoli azioni realizzare dagli individui e dalle molteplici comunità dell'economia mondiale, ma che le "espansioni e ristrutturazioni dell'economia capitalista mondiale hanno avuto luogo sotto la guida di determinate comunità e blocchi di agenti governativi ed imprenditoriali". Vale a dire, Arrighi cerca di mettere in relazione il sistema statale ed il capitalismo sulla base del disallineamento, postulato da Braudel, fra l'attività economica quotidiana e lo strato superiore dei gruppi economicamente potenti.
Arrighi rafforza quest'approccio, appropriandosi della critica di Karl Polanyi all'idea, relativa al XIX secolo, di un'economia auto-regolata. Per Polanyi, questa auto-regolamentazione dipendeva dalla trasformazione in merci di tutti gli elementi dell'industria, ivi inclusi la terra, il lavoro ed il denaro. La natura mercantile degli ultimi tre, tuttavia, è completamente fittizia, secondo Polanyi. Un sistema basato su una simile finzione, è tremendamente disaggregativo per la società. Esso genera, come conseguenza, un contro-movimento che cerca di limitare le sue operazioni. Ciò implica che, per far funzionare il capitalismo sul lungo periodo, i meccanismi di mercato devono essere sociali e controllati politicamente.
Sulla base della sua appropriazione di Braudel e Polanyi, Arrighi descrive lo sviluppo del sistema capitalista mondiale in termini di quattro cicli sistemici di accumulazione, ciascuno di essi dominato da uno Stato capitalista egemonico - un ciclo genovese, dal XV secolo e fino all'inizio del XVII; un ciclo olandese, che si estende dalla fine del XVI secolo alla maggior parte del XVIII; un ciclo britannico che va dalla fine del XVIII secolo fino all'inizio del XX; ed un ciclo americano, che è cominciato alla fine del XIX secolo. Ciascuno di questi cicli si riferisce ai processi del sistema capitalista mondiale visto come un tutto, secondo Arrighi. Egli si concentra sulle strategie e sulle strutture degli agenti governativi ed imprenditoriali di ognuno di questi Stati, dal momento che sostiene che essi hanno giocato una centralità che ha avuto successo nella formazione di questi stadi.
Ciascun ciclo, secondo Arrighi, è caratterizzato dalle medesime fasi, una fase iniziale di espansione finanziaria, passando per una fase di espansione materiale, seguita da un'altra di espansione finanziaria. La finanziarizzazione svolge un ruolo cruciale nella successione di un'egemonia all'altra, secondo Arrighi. Come egli la descrive, la traiettoria ascendente di ciascuna egemonia si basa sull'espansione della produzione e del commercio. Ad un certo punto di ogni ciclo, tuttavia, avviene una "crisi di avvertimento", come risultato della sovraccumulazione del capitale. Allora, un altro Stato fornisce un mezzo per dare sfogo a tale capitale accumulato. In questo schema, la crescente finanziarizzazione richiede il trasferimento del capitale dell'egemone attuale verso il nuovo egemone. Questo modello di sviluppo non è, tuttavia, completamente ciclico. Ma ha una direzionalità. Ciascun nuovo ciclo è più breve del precedente; ciascun nuovo egemone è più grande, più complesso e più potente. Ogni egemone è in grado di internalizzare i costi che il suo predecessore non internalizzava. L'Olanda internalizzava i costi di produzione, anche il Regno Unito internalizzava i costi di produzione e gli Stati Uniti hanno aggiunto l'internalizzazione dei costi di transazione. Stabilendo questo quadro, Arrighi sostiene quindi che la fase attuale di finanziarizzazione è il segnale del declino dell'egemonia americana, l'inizio della fine del quarto ciclo.

Il quadro di sviluppo descritto da Arrighi è molto elegante e spesso illuminante. Tuttavia, ha degli aspetti problematici legati alla sua interpretazione che, a mio avviso, indicano i suoi limiti. Così, ad esempio, quando Arrighi si rivolge agli sviluppi più contemporanei, la sua interpretazione dell'ascesa e caduta dell'egemonia degli Stati Uniti a partire dal 1939 è molto più eclettica di quanto si poteva sperare a partire dalla sua descrizione dei cicli più lunghi dello sviluppo capitalista. Nel discutere la crisi del decennio 1970, egli si riferisce ad una concorrenza crescente, su scala internazionale, alla crescita dei salari reali, fra il 1968 ed il 1972, che ha oltrepassato l'aumento della produttività, così come alla decisione dei politici americani, alla fine degli anni 1970, di formare un'alleanza con l'alta finanza privata al fine di disciplinare quella che era considerata come una minaccia del Terzo Mondo, dopo la decolonizzazione.
E' molto difficile capire come quest'interpretazione si incastri nella struttura teorica dello sviluppo ciclico che Arrighi presenta. Sebbene egli caratterizzi come anomalo il ciclo americano, non spiega il suo carattere anomalo. Di conseguenza, esiste una lacuna fra la sua interpretazione eclettica riguardo il decennio 1970 e la sua struttura teorica più ampia, cosa che suggerisce che il modello di sviluppo che egli delinea è essenzialmente descrittivo. Non c'è, infatti, un'analisi riguardo a quel che muove il quadro di sviluppo che egli descrive.
Lo stesso tema emerge anche, implicitamente, quando Arrighi discute il declino dell'egemonia americana. Egli sostiene che un tale declino può portare all'ascesa di un impero veramente globale, basato sulla superiorità della forza dell'Occidente, ad un'economia mondiale di mercato senza un egemone, centrata sull'Est asiatico, oppure può portare al caos sistemico. Le due prime possibilità, secondo Arrighi, sono post-capitalistiche. Segnalerebbero la fine del capitalismo.
Questa è un'affermazione notevole, in quanto chiarisce come Arrighi consideri l'essenza del capitalismo: un sistema mondiale organizzato da un capitalista egemone. Questa posizione problematica ha le sue radici nell'appropriazione che Arrighi realizza della distinzione di Braudel fra economia di mercato e capitalismo. Quest'ultimo, secondo Braudel, non può essere spiegato sulla base delle relazioni continue di mercato, nella misura in cui un'economia mondiale di mercato ha preceduto il capitalismo. Quello che ciò ha causato, è stata la fusione del capitale con lo Stato, la quale è stata un'esclusiva dell'Occidente. I limiti di un simile tentativo di distinguere i mercati dal capitalismo, collocando gli Stati al centro dell'analisi, si manifestano, tuttavia, nelle riflessioni di Arrighi sulla fase corrente del declino dell'egemonia americana. Indipendentemente da quanto possano essere stati gli Stati per lo sviluppo del capitalismo, definire il capitalismo essenzialmente in riferimento allo Stato diventa una camicia di forza concettuale quando Arrighi tenta di analizzare il mondo contemporaneo.
Né Braudel né Arrighi sembrano avere conoscenza del modo assai differente secondo cui Marx e Weber distinguono il capitalismo moderno dai mercati e dal commercio, come essi possono essere esistiti all'interno di altre forme di società. Nonostante tutte le loro differenze, Marx e Weber vedono il capitalismo moderno come specifico in quanto basato su un processo continuo ed infinito di accumulazione, un processo che non può essere fondato sul commercio o sullo Stato e che, in realtà, trasforma entrambi. Nell'opera di Marx, la dinamica storica del capitalismo è la sua caratteristica più saliente. Essa ricorre a continue trasformazioni della vita sociale, che sono guidate, a loro volta, dal nucleo essenziale del capitalismo, un nucleo che è tanto immutabile quanto, comunque, produttore di mutazioni. La categoria capitale, in Marx, tenta di cogliere questo nucleo e la dinamica che esso genera.
Nella trattazione fatta da Arrighi dei cicli del capitalismo, la categoria capitale rimane fondamentalmente sotto-teorizzata. Di conseguenza, il suo approccio esclude qualsiasi analisi circa quello che costituisce il carattere specifico del capitalismo, la sua dinamica storica. Invece, come indica la sua concezione della fine del capitalismo, Arrighi fonde questa dinamica con l'ascesa e la caduta degli egemoni. Il suo approccio sostituisce all'analisi di quello che sta alla base della dinamica, una descrizione di un modello e lo fa anche in modo da escludere considerazioni sulle continue strutturazione e ristrutturazioni del lavoro e, in maniera generale, della vita sociale sotto il capitalismo.
Quindi, anche se le teorie di Braudel e Polanyi forniscono ad Arrighi una struttura teorica per pensare nel suo insieme lo sviluppo del sistema statale e del capitalismo mondiale, creano anche dei seri problemi teorici. La triplica divisione, realizzata da Braudel, della società moderna in strati di vita materiale, economia di mercato e capitalismo, non permette di considerate la relazione delle forme quotidiane di vita sociale come Il Capitalismo, mentre l'insistenza di Polanyi sul carattere fittizio del lavoro, della terra e del denaro come merci, oscura l'analisi di Marx della merce in quanto forma delle relazioni sociali. In questa struttura teorica, niente è "naturalmente" una merce. Di converso, non esiste ragione ontologica che possa servire come base per distinguere merci "reali" e merci "fittizi". Né Braudel né Polanyi permettono una concezione adeguata di capitale e, quindi, della natura della dinamica intrinseca alla società capitalista, così come della possibilità del suo superamento.
Queste considerazioni critiche vengono rafforzate quando osserviamo più da vicino la trattazione fatta da Arrighi della crisi degli anni 1970. Nell'affrontare questa crisi, fa ricorso alla concezione per cui, nel capitalismo, vi è una tendenza alla caduta del tasso di profitto. Come Brenner, Arrighi basa tale tendenza sulla concorrenza.

Il teorema della caduta tendenziale del tasso di profitto è stato varie volte identificato con Marx. E' stato comunemente inteso come il tentativo di Marx di dimostrare la natura propensa alla crisi ed i limiti del capitalismo. Questo teorema, tuttavia, non è stato originariamente sviluppato da Marx, ma da economisti politici come Adam Smith, Thomas Malthus e David Ricardo. Infatti, Marx affronta questo teorema dell'economia politica classica. Lungi dal prevedere una caduta inesorabile del tasso di profitto, tuttavia, egli tratta questo teorema cone una tendenza superficiale, la quale, pertanto è soggetta a molti fattori e a tendenze compensatorie. Nella misura in cui il tasso di profitto effettivamente cade, secondo Marx, ciò avviene come una manifestazione economica superficiale di uno sviluppo storico più fondamentale, la tendenza della composizione organica del capitale - vale a dire, il rapporto fra capitale costante (macchine, materie prime, ecc.) e capitale variabile (lavoro salariato) - a crescere.
L'idea di una diminuzione del capitale variabile in relazione al capitale costante è centrale per poter comprendere la forza della teoria del valore in Marx. Marx sostiene, com'è noto, che il valore è costituito soltanto dalla spesa socialmente necessaria di tempo di lavoro umano diretto. Al contrario di Adam Smith, tuttavia, Marx non considera il valore una forma trans-storica della ricchezza, ma una forma di ricchezza storicamente specifica al capitalismo. La distinzione che egli fa fra produzione di valore e di valore d'uso non va compresa trans-storicamente ed ontologicamente, ma come costitutiva della crescente contraddizione del capitalismo fra produzione di valore come elemento strutturale che definisce il capitalismo e l'enorme capacità di produzione di valore d'uso generata dal capitalismo. Il potenziale inscritto in questa contraddizione del capitalismo indica una possibile trasformazione fondamentale della natura e della distribuzione sociale del lavoro. La realizzazione di tale possibilità, tuttavia, viene costantemente limitata dalla riproduzione sistemica del lavoro determinato dal valore, a prescindere dal fatto che questo lavoro diventa sempre più anacronistico nei termini di potenziale produttivo del tutto.
Il cambiamento nella composizione del capitale, pertanto, non è importante nella critica di Marx tanto perché fornisce una spiegazione migliore rispetto alla caduta tendenziale del saggio di profitto, fondando in tal modo in forma più solida un teorema dell'economi politica classica. Piuttosto, è importante in primo luogo perché, sotto il livello superficiale dei prezzi e dei profitti, esprime la trasformazione del lavoro e della produzione che indica eventualmente la possibilità di una società post-capitalista. Lungi dall'essere un modo primordiale di spiegare le crisi, quindi, il teorema della caduta tendenziale del saggio di profitto, come rielaborato da Marx, esprime, in maniera indiretta, un processo di continua strutturazione e ristrutturazione della vita sociale, un processo segnato da una distanza crescente fra la strutturazione attuale del lavoro e della vita sociale, e la maniera in cui essi potrebbero venire strutturati in assenza del capitale. Marx trasforma un teorema di economia politica - che molti hanno preso come un'indicazione dei limiti economici del capitale laddove si tratta di un'espressione superficiale di una dinamica storica più fondamentale. La forza della sua critica non risiede tanto nel "provare" l'inevitabile collasso economico del capitalismo, quanto nel disvelare una crescente disparità fra quello che è e quello che potrebbe essere, una disparità che costituisce le condizioni della possibilità oggettiva/soggettiva di un diverso ordinamento della vita sociale. L'idea per cui tale disparità, in quanto disparità evidente, permetterebbe un'indagine sulla genesi storica delle sensibilità, delle necessità e degli immaginari che vanno al di là delle considerazioni della distribuzione o degli interessi materiali diretti. In altre parole, la contraddizione crescente del capitalismo compresa in questa maniera (in forma non economicista) generà la possibilità di un futuro qualitativamente diverso, come dimensione immanente del presente.
Tuttavia, questo livello di considerazione è assente in Arrighi, così come in Brenner. Quindi, anche le categorie che sono essenziali per la critica di Marx - valore, merce, capitale - sono fondamentalmente assenti oppure comprese in forma implicita in restrittivi termini economici. Così, per esempio, quando Brenner prende in esame la trattazione fatta da Marx della caduta tendenziale del tasso di profitto, egli afferma che, secondo Marx, la crescita della composizione organica del capitale porta ad un aumento del rapporto prodotto/lavoro, che è insufficiente a controbilanciare la caduta parallela nel rapporto prodotto/capitale, che essa stessa produce. Pertanto, il tasso di profitto cade perché la produttività globale dovrebbe cadere. Quest'interpretazione fonde completamente valore e valore d'uso in Marx, oscurando l'affermazione di Marx per cui un aumento nella produttività può portare ad una diminuzione nel plusvalore. Questo, però, significa, più fondamentalmente, che essa non riconosce l'analisi del valore fatta da Marx come l'analisi di una forma di ricchezza e di vita sociale storicamente specifica, possibilmente transitoria. Di conseguenza, la traiettoria storica del capitalismo in direzione di una possibile trasformazione qualitativa, come viene analizzata da Marx, si riduce ad una analisi economica delle crisi.
Arrighi, da parte sua, sostiene che ciò che egli chiama la "la versione di Marx della 'legge' di caduta tendenziale del saggio di profitto" era identica alla tesi di Adam Smith riguardo al tasso di profitto. Secondo Arrighi, sia Ricardo che Marx hanno accettato integralmente la tesi di Smith. L'unica differenza è quella per cui Marx ha criticato la versione di Smith, della "legge", come troppo pessimista riguardo al potenziale di lungo periodo del capitalismo al fine di promuovere lo sviluppo delle forze produttive della società. Tuttavia, quest'equiparazione di Smith e Marx significa che Arrighi fonde anche l'economia politica e la sua critica, vale a dire, una comprensione trans-storica del valore in quanto ricchezza con la comprensione del valore in quanto forma di ricchezza storicamente specifica al capitalismo.
L'approccio di Arrighi introduce effettivamente una dimensione molto importante nell'analisi del capitalismo - quella dello Stato, o meglio, del sistema statale. Lo fa, tuttavia, a detrimento delle dimensioni centrali di una teoria critica del capitalismo che punti verso la possibilità di un'altra forma di vita. Lo stesso Arrighi nota che il suo libro ha un focus ristretto, escludendo la considerazione di questioni come la lotta di classe. Ma la limitazione a cui si riferisce non è meramente empirica. Data la struttura teorica del libro, anche se Arrighi introducesse tali questioni, non potrebbe trattarle in forma coerentemente relazionata al suo approccio.
Non è in discussione il fatto se Arrighi o Brenner siano fedeli ad un dogma rivelato ("fondamentalista"), ma se i loro approcci siano interamente adeguati all'oggetto delle loro indagini - la dinamica del capitalismo contemporaneo. Le considerazioni che ho delineato cercano di chiarire la differenza fra tali prospettive di economia politica critica, focalizzata su temi economici, ed il progetto di critica dell'economia politica.

Anche David Harvey, ne "La crisi della modernità", enfatizza il predominio della finanziarizzazione discutendo del periodo a partire dal 1973. La trattazione che fa Harvey della finanziarizzazione, tuttavia, è meno centrata sullo Stato rispetto a quella di Arrighi, il quale rimane legato alla questione degli egemoni in ascesa ed in declino. Infatti, Harvey enfatizza il fatto che, nel mondo contemporaneo, il capitale non ha un locus o una posizione determinata, ma è diffuso e globale. Come risultato della concorrenza universale fra i capitali, differenze marginali nei tassi d profitto diventano sempre meno importanti, con significative conseguenze per i livelli salariali nei paesi metropolitani, a causa di un'estensione globale diseguale del lavoro salariato e della direzione e del volume dei flussi di capitali globali. Tali flussi, secondo Harvey, pongono in atto una forma di disciplina che è molto più diffusa ed efficace di quanto possa essere qualsiasi istituzione governativa.
Diversamente da Arrighi e Brenner, Harvey fa ricorso ad una teoria del capitale al fine di chiarire ciò che egli considera come un cambiamento epocale nella cultura così come nelle pratiche politico-economiche. Tenta di affrontare il periodo a partire dal 1973, non solo in termini politico-economici, ma anche in termini di configurazione modificata della vita. Inoltre, nel farlo avendo come riferimento una teoria del capitale, con le sue distinzioni fra superficie e struttura profonda e fra valorizzazione e processi lavorativi, Harvey è in grado di contrapporsi criticamente agli approcci post-industriali, argomentando che ciò che essi intendono come una nuova epoca è soltanto un elemento di una dinamica più complessa di restrizioni, continuità e mutazione. Così, per esempio, quando considera le trasformazioni del capitalismo nei decenni recenti, Harvey si concentra sulle domande di valorizzazione che mediano la produzione, anziché sulla natura dei processi lavorativi in maniera non mediata. Quindi, egli caratterizza le più nuove configurazioni del capitalismo in termini di "accumulazione flessibile", invece di utilizzare in termine di "specializzazione flessibile", più orientato ai processi lavorativi. In questo modo, Harvey è in grado di dimostrare che quest'ultima fase di sviluppo capitalista dà luogo a tutto un insieme di pratiche produttive - dal risorgere del super-sfruttamento del lavoro [sweatshops] fino alla robotica - che in superficie appaiono antagonistiche e che non possono essere comprese adeguatamente come teorie post-industriali con il loro focus unilaterale sui processi lavorativi, Quest'approccio distingue la teoria critica del capitalismo da una qualsiasi teoria dello sviluppo tecnologico lineare e, naturalmente, da qualsiasi teoria del determinismo tecnologico.
Allo stesso modo, focalizzandosi sul capitale, Harvey è in gradi di dimostrare che questa nuova fase del capitalismo comporta una dialettica complessa di decentralizzazione e di centralizzazione, di eterogeneità e di omogeneità. Su questa base, Harvey attua una critica severa degli approcci postmoderni che isolano un lato di questa dialettica, confondendo, perciò, gli sviluppi in corso con una rottura liberatrice rispetto al passato. Nel comprendere criticamente l'ordine esistente soltanto in termini di centralizzazione e di omogeneità, tali approcci celebrano la decentralizzazione e l'eterogeneità anch'esse generate dal capitalismo contemporaneo. Lungi dall'essere critici, gli approcci postmoderni, secondo Harvey, sono espressioni di una nuova configurazione del capitale che non comprendono. In questo modo, servono ad oscurare e a difendere il capitale nelle sue manifestazioni più nuove.
Cercando di mettere in relazione i cambiamenti culturali postmoderne con una nuova configurazione del capitale, Harvey va al di là delle posizioni che comprendono il capitalismo soltanto in termini economici. Anche il suo approccio alla relazione fra cultura e capitalismo va oltre la teoria della regolazione, che cerca di fatto di prendere conoscenza della cultura come momento costitutivo di una data tappa del capitalismo, ma che lo fa assumendo una relazione completamente contingente fra cultura e capitalismo, sulla base di una comprensione della cultura che è essenzialmente vuota. Mentre quest'ultimo approccio fornisce un'analisi funzionalista della relazione fra le forme culturali e qualsiasi configurazione su larga scala del capitalismo, Harvey cerca di relazionarli intrinsecamente.
L'approccio di Harvey pone in forma esplicita la questione della dinamica storica. Il suo argomento per cui nei decenni passati abbiamo assistito all'emergere di una nuova configurazione del capitalismo ci ricorda che quest'emergenza comporta un processo di cambiamento (una nuova configurazione) e di continuità (capitalismo). Nel distinguere le forme superficiali dalle forme fondamentali del capitalismo, egli sottolinea anche come quello che rimane inalterato è un elemento centrale del capitalismo.
Queste considerazioni aiutano a chiarire alcuni elementi del capitalismo e l'importanza dell'analisi del capitale. Visto in maniera retrospettiva, il dominio del capitale è esistito in varie configurazioni storiche, a partire dalla forma più mercantile fino alle forme liberali del XIX secolo, quelle statali del XX secolo e, ora, le forme globali neoliberiste. Queste configurazioni mutevoli indicano che il capitalismo non può essere identificato completamente con nessuna delle sue configurazioni. Allo stesso tempo, riferirsi a queste diverse configurazioni in quanto forme del capitalismo implica che alla base di tutte vi sia un nucleo caratteristico, il capitale.
Questo, quindi, suggerisce che il nucleo del capitalismo produce le sue diverse configurazioni storiche. Sebbene un'analisi completa del carattere storicamente dinamico del capitalismo non sia possibile nello spazio di questo saggio, va notato che si tratta di una dialettica complessa di mutamento e riproduzione, per mezzo della quale gli elementi centrali del capitalismo producono mutazioni e, allo stesso tempo, si riproducono. Questa dinamica dialettica si basa sulla distinzione fra superficie e struttura profonda del capitalismo, e rende accessibile la possibilità di un futuro al di là del capitale, mentre riproduce il nucleo di base del capitalismo e, per mezzo di esso, ostacola la realizzazione del futuro.
L'approccio che sto delineando, allora, non presuppone l'esistenza di una dinamica storica, intesa come caratteristica della vita sociale umana, ma analizza la forma di dominio sociale intrinseca alla moderna società capitalista come produttrice di una dinamica storica. Vale a dire, essa basa questa dinamica sulle forme sociali storicamente specifiche che sono al cuore del capitalismo - come la merce ed il capitale. Nel fondare la dinamica storica della moderna società capitalista nelle forme sociali storicamente specifiche, quest'approccio cerca di superare l'opposizione fra la concezione di una logica trans-storica della storia ed il suo relativo complemento, ossia una concezione trans-storica della possibilità storica. Direi che un tale approccio dialettico non-lineare permette una teoria dello sviluppo capitalista più sofisticata di quelle che rimangono dentro la struttura teorica dell'opposizione tradizionale, dualista, essenzialmente metafisica, fra determinismo e contingenza.
L'approccio di Harvey indica tali temi. Ma, la sua elaborazione a proposito del nucleo del capitalismo è tale da escludere aspetti importanti di una teoria critica del capitale o, quanto meno, di svilupparli assai poco. Per Harvey, ci sono tre elementi centrali nel capitalismo: esso è orientato alla crescita, si basa sullo sfruttamento del lavoro vivo nella produzione, ed è necessariamente dinamico dal punto di vista tecnologico ed organizzativo. Questi tre fattori centrali sono, tuttavia, incoerenti. Di conseguenza, lo sviluppo capitalista è caratterizzato da una tendenza alla sovraccumulazione, che lo rende propenso alla crisi. Storicamente, allora, il problema del capitalismo è diventato l'amministrazione della sovraccumulazione. Sulla base di quest'analisi, Harvey procede poi ad analizzare la transizione dal fordismo al post-fordismo.
Questa comprensione del nucleo del capitalismo permette ad Harvey di fare una distinzione fra struttura profonda e superficie, a partire dalla quale formula la sua critica degli approcci postmoderni, e ad analizzare i vincoli e gli imperativi che caratterizzano lo sviluppo del capitalismo da un modo di regolazione all'altro. Tuttavia, la sua attenzione al carattere di propensione alla crisi, del capitalismo, non esamina la distanza crescente fra la forma che assume la vita sociale sotto il capitalismo e la forma che potrebbe avere, se non ci fosse il capitalismo. Un approccio che problematizzasse più esplicitamente la categoria del capitale, e che la collocasse al suo centro, potrebbe mettere a fuoco con più rigore una tale distanza.
La differenza fra i due approcci diventa chiara in relazione al tema del rapporto fra le forme di soggettività e di oggettività nel capitalismo. Harvey tratta le concezioni mutevoli di spazio e tempo, ad esempio, come reazioni ai mutamenti del capitalismo. Il capitalismo realizza ciò che Harvey definisce compressioni spazio-temporali. Esse alterano le esperienze dello spazio e del tempo che le persone fanno, esperienze che vengono espresse culturalmente e sulle quali si riflette teoricamente.
Per quanto chiarificatrice possa essere l'analisi di Harvey, la sua enfasi sull'esperienza come mediatrice fra capitalismo e cultura rimane fondamentalmente intrinseca alle forme sociali espresse dalle categorie marxiane. In tal modo, le manca la dimensione epistemologica/soggettiva di quelle categorie, che le possano permettere di affrontare una maggior quantità di assunti riguardanti le forme di conoscenza e di soggettività. Per esempio, l'approccio categoriale può affrontare altre teorie dell'economia o della storia, in quanto espressioni equivoche radicate come possibilità nelle forme sociali stesse. Un simile approccio non intende soltanto spiegare percezioni e teorie sul mondo, come quelle di Smith, di Ricardo o di Hegel, come non del tutto adeguate ai loro oggetti; ma cerca anche di fondare la possibilità stessa della critica. Questa è evidentemente in rapporto con la questione della creazione storica, da parte del capitalismo, delle necessità e delle sensibilità che puntano oltre il capitalismo. Un tale approccio categoriale parla, quindi, di forme di soggettività come intrinseche alle categorie stesse.
Le differenze fra questi due approcci diventano ancora più evidenti quando si considera l'analisi di Harveu a proposito del postmodernismo e del capitalismo. Quando egli mette in rapporto i due, tratta implicitamente in capitalismo come unidimensionale. In altri termini, Harvey non tratta il capitale come qualcosa che, nel ricostituirsi, punti al di là di sé stesso. Vale a dire, egli non si chiede se anche il postmodernismo possegga un momento emancipatore, sebbene molto diverso da quelli espressi dalle sue auto-comprensioni postmoderne. Dentro la struttura teorica che sto delineando, il postmodernismo potrebbe essere compreso come un tipo di post-capitalismo prematuro, che indica possibilità generali, ma non realizzate, nel capitalismo. Allo stesso tempo, per il fatto che il postmodernismo non comprende il suo contesto, esso può servire come un'ideologia di legittimazione per la nuova configurazione del capitalismo, del quale esso è parte.
Questo porta ad una questione generale con la quale le teorie critiche del capitalismo devono confrontarsi. In una transizione globale precedente del capitalismo, i marxisti spesso hanno opposto la pianificazione razionale generale all'irrazionalità anarchica del mercato. Invece di puntare necessariamente al di là del capitalismo, tuttavia, tali critiche il più delle volte hanno aiutato a legittimare il susseguente capitalismo centrato sullo Stato. Allo stesso modo, l'ipostasi contemporanea della differenza, dell'eterogeneità e dell'ibridazione non punta necessariamente oltre il capitalismo, ma può servire da velo ed a legittimare una nuova forma globale che combina decentralizzazione ed eterogeneità della produzione del consumo con una crescente centralizzazione del controllo e con l'omogeneità strutturale.
Ciascuna di queste posizioni, tuttavia, possiede anche un momento emancipatore. Il difficile è separare concettualmente la dimensione emancipatrice dalle possibilità create dal capitalismo di quelle forme di non-emancipazione o anti-emancipatrici in cui tale dimensione è stata generata. Una teoria critica del capitalismo dovrebbe essere in grado di rendere chiare in quanto forme di incomprensione, quegli approcci che confondono una dimensione della vita sociale generata dal capitalismo con il tutto. Nell'oscurare il nucleo di base del capitalismo in quanto forma di vita sociale, tali approcci sono emancipatori solo apparentemente. I loro orientamenti critici finiscono per promuovere e legittimare il dominio del capitale nelle sue nuove forme, quali il capitalismo centrato sullo Stato ed il capitalismo postmoderno. Questo non significa che il potenziale di emancipazione del coordinamento sociale generale, o del riconoscimento della differenza, non debba essere considerato. Ma questo potenziale può essere realizzato soltanto quando viene associato al superamento storico del capitale, il nucleo della nostra forma di vita sociale.
Nonostante tutti i loro vantaggi, i diversi approcci formulati da Brenner, Arrighi ed Harvey non riescono a chiarire completamente il nucleo storico del capitale in un modo che possa indicare la possibilità del suo superamento storico. Tuttavia, senza un'analisi del capitale che non sia ristretta al modo di distribuzione, ma che, da un lato, possa affrontare gli impulsi di emancipazione espressi dal marxismo tradizionale, e del postmodernismo, dall'altro lato, il nostro concetto di emancipazione continuerà ad oscillare fra un'omogeneizzazione generale (realizzata dal mercato e dallo Stato) ed un particolarismo, un'oscillazione che replica le stesse forme dualistiche della merce e del capitale.

- Moishe Postone - Pubblicato nel 2007, in "Political Economy and Global Capitalism: The 21st century, Present and Future" (Anthem Press) -

fonte: Blog da Boitempo

giovedì 27 agosto 2015

Etica Obbligatoria

etica

Il fallimento del microcapitalismo
- di Robert Kurz -

Attualmente, tanto la crisi del sistema finanziario internazionale quanto la caduta dell'economia globale, vengono considerate sotto controllo, anche se il problema è stato soltanto dislocato verso le finanze pubbliche. Ma, non a caso, nelle ultime settimane, in tutto il mondo, ha cominciato ad essere sulla bocca di tutti un altro presunto modello di successo capitalista.
Il modello del microcredito, nelle aree di povertà ed in molti paesi cosiddetti emergenti, è stato considerato non solo come un progetto resistente alle crisi, ma anche come una prova della forza elementare del pensiero dell'economia di mercato. Sotto il segno della "responsabilità personale" neoliberista, soprattutto le donne povere devono trasformarsi in piccole imprenditrici del settore dei servizi, capaci di prendere nelle proprie mani il loro destino capitalista, con l'aiuto di piccoli prestiti che vanno dai 100 ai 500 euro.
Significativamente, l'inventore di questo modello - Muhammad Yunus, del Bangladesh - è stato premiato, nel 2006, con il Premio Nobel, non dell'Economia, ma della Pace. L'entusiasmo delle élite è stato davvero grande, visto che l'idea sembrava raggiungere lo scopo di riuscire a prendere parecchi piccioni con la medesima sola fava, combinando una riduzione della povertà grazie ad una sua base nell'economia di mercato ad una emancipazione delle donne, anch'essa strettamente legata all'economia di mercato, di modo da ottenere una pacificazione sociale che potesse essere completamente conforme al sistema. A sostegno di questo progetto, c'è stato, quindi, un vero e proprio profluvio di donazioni da parte dei capitalisti filantropi, a cominciare dalla Fondazione di Bill Gates.

Così, a partire dal Bangladesh e dall'India, è sorto in poco tempo, in Asia, in Africa ed in America Latina, un nuovo mercato finanziario del valore di miliardi di microcrediti, prevalentemente "femminili". Le grandi banche asiatiche, ed anche istituti finanziari come la Deutsche Bank, hanno cominciato a creare in queste aree delle società di investimento. E sulla scia di una simile espansione, le prime microbanche sono già state quotate in Borsa. E' stato un business brutale, costruito a partire dall'immagine dell'etica obbligatoria. Ufficialmente, i microcrediti vanno soprattutto ad appoggiare i gruppi di auto-aiuto delle donne ed i loro progetti imprenditoriali. Ma al microindebitamento vengono applicate le stesse misure che riguardano i grandi prestiti: in quanto anticipazioni di rendimenti reali futuri, bisogna che vengano "garantiti", il che significa pagare interessi e costi di ammortamento.
Però, le piccole imprese femminili così finanziate si ritrovano legate ad un filo e finiscono per scontrarsi rapidamente con le condizioni esterne. Basta che si ammali un familiare, o che si verifichi un'inondazione - sempre più frequenti a causa del mutamento climatico indotto dal capitalismo - ed ecco che il microcredito sparisce, sommerso dai costi "improduttivi" dell'economia di mercato. Con l'espansione esplosiva dei mercati del microcredito, il patrocinio delle microimprese ha finito per essere un'illusione sempre più grande. Starci dentro era solo una questione di crescita ad ogni costo. In India, i gruppi di auto-aiuto sono diventati sempre più una pura copertura formale, mentre il denaro veniva semplicemente dirottato verso l'acquisto di alimenti.

Dopo la crisi dei più importanti mercati finanziari, è arrivato il turno della crisi del microcredito. Ma la faccenda ora è molto più brutale di quanto lo sia nei corridoi dell'alta finanza. La ristrutturazione dei debiti nelle microbanche fa aumentare l'importo dei pagamenti e degli interessi settimanali. Molte donne sono costrette a prostituirsi per poter continuare ad essere solvibili. In India, aumentano i suicidi dei debitori che non riescono a ripagare prestiti di cinque o di sei euro.
Lo scoppio di questa bolla finanziaria speciale, che ormai non è più così tanto piccola, non solo va a ripercuotersi sull'economia di molti paesi emergenti, ma è anche un segnale d'allarme per la crisi del credito nel suo insieme, che non è in alcun modo sotto controllo.

- Robert Kurz - Pubblicato su  Neues Deutschland, del 13.12.2010 -

fonte: EXIT!

mercoledì 26 agosto 2015

Ordine Esecutivo n°6102

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Ieri sera su La7, Tremonti, commentando lo scoppio della bolla cinese, ad un certo punto ha affermato: "questi non riescono nemmeno a realizzare l'inflazione, come vorrebbero!" Ma perché mai, la deflazione è uno sviluppo così poco gradito dall'economia capitalista? Tra gli argomenti messi in campo, quelli più comuni riguardano l'asserzione per cui la deflazione taglierebbe i salari ed incrementerebbe il debito.
I presunti meccanismi che innescherebbero simili effetti negativi sulla classe operaia, vengono così argomentati:
- La vostra azienda ottiene meno entrate, per cui è costretta a tagliare i vostri salari;
- Con salari più bassi, o senza alcun salario perché disoccupati, i vostri debiti sono più difficili da ripagare - riferendosi qui ad un mutuo per una casa o ad un prestito per acquistare un'automobile.

Fatto sta, che con l'inflazione ci si trova ad avere a che fare con i problemi di segno opposto:
- L'inflazione fa aumentare, costantemente, il costo reale della vita;
- E con l'aumento dei prezzi, o riesci ad ottenere frequenti aumenti di salario, oppure lavori per un numero maggiore di ore, in modo da mantenere il tuo attuale standard di vita;
- Con l'aumento dei prezzi, la tendenza è quella che porta a diventare sempre più dipendenti dal debito, al fine di compensare la differenza, sempre maggiore, fra il tuo salario e i prezzi che devi sborsare quando passi alla cassa.

Quindi, cos'è peggio? Perdere il lavoro o dover misurarsi con i tagli salariali e lavorare più ore, in modo da continuare a tenere la testa fuori dall'acqua?
Ovviamente, si tratta di una falsa scelta: che ci sia inflazione o deflazione, salari e lavoro vengono comunque tagliati. Se c'è una cosa che il capitalismo riesce a fare molto bene, questa cosa è ridurre il costo del lavoro. In fondo, è l'unica cosa che sa fare davvero bene! Al capitalista non importa che i prezzi aumentino o diminuiscano, in quanto può continuare ad incrementare i suoi profitti riducendo i suoi costi per ottenere lavoro.

Dal 1930, quasi tutte le economie hanno sofferto ininterrottamente di un'inflazione secolare. E nonostante quest'inflazione ininterrotta, in tutti questi anni si è continuato a perdere "posti di lavoro". Una simile perdita non ha niente a che fare né con l'inflazione né con la deflazione, bensì con il modo di produzione che continua a ridurre il tempo di lavoro sociale richiesto dalla produzione di merci.
E' sbagliato pensare che sia la deflazione a causare la perdita dei "posti di lavoro", mentre l'inflazione avrebbe l'effetto di impedire tale perdita. Gli economisti che fanno un'affermazione del genere, mentono deliberatamente. Così come mentono quando sostengono che il taglio dei salari ha qualcosa a che fare con l'inflazione o con la deflazione. Semplicemente, i capitalisti cercano di ridurre i costi del lavoro, e sfruttano qualsiasi opportunità al fine di tagliare i salari. Il periodo della più grande caduta dei salari coincide esattamente con il periodo della più alta inflazione: gli anni 1970. I dati empirici dimostrano in maniera definitiva che a partire dagli anni 1970 i salari reali hanno continuato a diminuire. Ovviamente, si tratta di una caduta non nominale, dal momento che i salari nominali appaiono in crescita. Ma questa è un'illusione monetaria, che ci fa credere che i soldi nel portafogli siano aumentati, a partire dagli anni 1970, mentre la loro capacità d'acquisto non ha fatto altro che diminuire molto velocemente, costringendoci a spendere sempre più denaro per comprare qualsiasi cosa.
Chiunque può capire come un aumento del salario nominale non sia la stessa cosa di un aumento del salario reale. Il salario reale è quello che il tuo stipendio può comprare; è questa la sola misura. E questo "quello", a partire dal 1971 non ha fatto altro che continuare a diminuire, mentre aumentava la quantità della moneta che doveva servire a comprare il "quello".
Quindi, l'inflazione non impedisce al tuo "posto di lavoro" di essere eliminato, né impedisce al tuo salario di diminuire. Non è affatto vero che la deflazione taglia salari e "posti di lavoro", mentre invece l'inflazione li protegge!
Per dirla fuori dai denti: se hai bisogno di un "posto di lavoro" e di un salario, sei fottuto, a prescindere dal fatto che ci sia inflazione o deflazione!

Ma allora, se l'inflazione o la deflazione non fanno alcuna differenza, se sei un salariato, perché questo è un problema? Perché gli economisti sono così preoccupati circa le prospettive legate ad un ciclo di deflazione globale? Tranquillizzatevi, la preoccupazione non ha niente a che fare con voi: a nessuno importa una sega di voi, del vostro miserabile posto di lavoro e del vostro salario da pezzenti. La sola persona, su tutto il pianeta, che si preoccupa del vostro "posto di lavoro" e del vostro salario è ciascuno di voi, insieme alle persone che ne dipendono.
Quando gli economisti o i funzionari del governo dicono di essere preoccupati per la deflazione, questo non è perché sono preoccupati per voi. Naturalmente, tutto questo lo pongono sempre in termini che voi possiate capire - i termini del vostro "posto di lavoro" e del vostro salario - ma questo è solo marketing! Loro sanno che siete preoccupati per il vostro "posto di lavoro" e per il vostro salario, così inquadrano il problema in maniera tale che possa evocare la paura.

"Se scoppia la deflazione, voi proletari morirete! Milioni resteranno senza lavoro e le persone moriranno di fame in mezzo alla strada!"

Questo è solamente il modo in cui ci vendono la loro politica, e lo stanno facendo da quando, negli anni 1930, Roosvelt pronunciò la frase di cui sopra per poter giustificare un taglio ai salari del 40%, attuato nel 1933. Si trattava di un'emergenza, ebbe a dire, e il solo modo per porre fine alla depressione era quello di tagliare il salario di ciascuno. E' probabile che nessuno abbia mai sentito parlare di quell'Ordine Esecutivo, e che nessuno sappia che quell'Ordine ha posto fine alla Grande Depressione. E nessuno lo saprebbe, nemmeno se dovesse succedere oggi. Nessun economista ne parla. Ma se si guarda un qualsiasi grafico sulla Grande Depressione si può vedere che il fondo venne toccato nel 1933, quando Roosvelt tagliò i nostri salari del 40%. Lo fece semplicemente attraverso l'inflazione, tagliando a tutti il potere d'acquisto della loro moneta.

Quindi, dal momento che Roosvelt tagliò i salari per porre fine alla Depressione, questo vuol dire che non lo ha fatto per proteggere i salari. L'inflazione non protegge i vostri salari, ma li riduce. Né Roosvelt ha salvato i posti di lavoro; infatti l'occupazione ha continuato a cadere per un altro anno, toccando il fondo nel 1934. Tagliare i salari nel 1933 non ha avuto alcun effetto diretto sulla creazione dei "posti di lavoro" e non ha salvato un solo "posto di lavoro".
Se tagliare i salari non crea "posti di lavoro", cos'è allora che li crea? Perché, in altre parole, è così importante creare inflazione?
E' semplice: tagliare i salari fa crescere i profitti. Fa solo questo: fa crescere i profitti! Non c'è alcuna altra ragione al mondo di tagliare i salari. Se un'impresa vuole aumentare i suoi profitti, può ottenere questo in due modi: tagliando i salari o tagliando i lavoratori.
Roosvelt fece entrambe le cose in un colpo solo, e lo fece per tutta l'economia, con l'Ordine Esecutivo n° 6102.

Oggi, Roosvelt è celebrato come un eroe della classe operaia da persone troppo ignoranti della loro propria storia per sapere come sia finita la Grande Depressione. Da allora, lo Stato ha continuato ad usare l'inflazione per tagliare i vostri salari e far crescere i profitti dei capitali investiti.
E' questo il motivo per cui la prospettiva di un ciclo deflazionario globale causa costernazione fra gli economisti e fra i funzionari governativi.
La deflazione, molto probabilmente, significherebbe che potrebbero non essere in grado di ridurre automaticamente, ogni anno, il tuo salario, per poter sostenere i profitti. La paura della deflazione non è affatto preoccupazione per il vostro lavoro e per i vostri salari. Attiene solamente ai profitti.
Se vuoi aggiustare il capitalismo, allora la deflazione è un grosso problema, me se vuoi ballare sulla sua tomba, allora bisognerebbe brindare alla deflazione.
Le sole persone che dovrebbero aver paura di una deflazione dilagante sono i capitalisti ed i loro funzionari, pagati o non pagati che siano.

martedì 25 agosto 2015

Morti in aspettativa

opel

Sovrapproduzione
- di Robert Kurz -

La crisi porta alla luce del giorno il fatto che nel capitalismo si è prodotto "troppo". La logica economica astratta non fa alcuna distinzione fra beni di utilizzo necessario, quali alimentazione, vestiario, abitazione, ecc., beni di lusso, o perfino prodotti meramente distruttivi, come le armi da guerra. Com'è noto, la posta in gioco non è il contenuto delle necessità, ma solamente il potere d'acquisto, come mezzo di valorizzazione del capitale. Secondo un preconcetto persistente fra i marxisti, la sovrapproduzione ha luogo quando il plusvalore prodotto non si "realizza" a sufficienza, per mancanza di potere d'acquisto. Da questo derivano, ad esempio, le argomentazioni sindacali, in conformità con il sistema, per cui il potere d'acquisto dev'essere rafforzato, di modo da dare impulso all'economia. Tuttavia, il potere d'acquisto risulta solamente dalla creazione di plusvalore. Quando si produce sufficiente plusvalore, si può anche realizzarlo. La mancanza di potere d'acquisto significa, in realtà, che è stato prodotto poco plusvalore. E' questa l'essenza della crisi.

Come esempio, possiamo portare il problema nel settore chiave dell'industria dell'automobile. L'aspetto qualitativo è quello per cui la mobilità è stata orientata in maniera unilaterale verso il trasporto individuale, in quanto la produzione delle automobili è stato un segmento importante della valorizzazione reale del capitale. Da questo ne è conseguito il punto centrale delle emissioni inquinanti e della distruzione del clima. I trasporti pubblici, tuttavia, sono stati ridotti perché, in quanto consumo pubblico, al contrario, gravavano sulla valorizzazione del capitale. L'aspetto quantitativo sta nel fatto che lo sviluppo delle forze produttive, nella terza rivoluzione industriale, ha razionalizzato la forza lavoro creatrice del plusvalore, su una scala senza precedenti. Per riuscire a conseguire il medesimo profitto, si dovrebbe produrre una massa materiale sempre maggiore di automobili. La stessa cosa si applica a tutto l'insieme della produzione capitalistica. Alla fine, è diminuita la massa di plusvalore nella società, il che si è tradotto nella caduta dei profitti, precisamente anche dell'industria automobilistica. Da un lato, il problema è stato rimandato, per mezzo del finanziamento a credito e del leasing, sia nella produzione che nel consumo. Dall'altro lato, i trasporti pubblici che sono rimasti sono stati privatizzati, come le conseguenze note, ad esempio, con la sottomissione alla razionalità del lucro dell'economia imprenditoriale, al fine di riuscire ad integrarli, bene o male, nella valorizzazione reale del capitale, e sollevare lo Stato da queste necessità.

Il collasso del sistema creditizio gonfiato non ha ancora finito di realizzarsi in tutta la sua estensione, che il terremoto finanziario ha già reso evidente la mancanza di contenuto del plusvalore della sovrapproduzione materiale. Ancora una volta, questo si vede con particolare chiarezza nell'industria automobilistica, dal momento che qui la mancanza di potere di acquisto reale si ripercuote più rapidamente di quanto avvenga per i beni di utilizzo immediatamente necessario per la vita. Le misure pubbliche di salvataggio, dettate dal panico, sono rivolte oltre che al settore bancario soprattutto alle grandi imprese del settore dell'automobile, considerate altresì di "importanza sistemica". Ma in questo modo non viene eliminato il problema della sovrapproduzione materiale, per quel che riguarda la capacità di valorizzazione. Secondo i criteri capitalistici, le sovraccapacità devono essere chiuse. Il fallimento delle grandi imprese del settore dell'automobile viene ritardato; la General Motors e la sua filiale Opel sono soltanto dei morti in aspettativa. Una "pulizia" in questo senso, tuttavia, non apre automaticamente un nuovo percorso di crescita; al contrario, minaccia di provocare una reazione a catena di caduta dei profitti, con una ancor maggiore riduzione del potere di acquisto e una maggior interruzione delle vendite. L'industria automobilistica diventa il settore chiave, sia della crisi ecologica che della crisi economica del capitalismo.

- Robert Kurz - Pubblicato su Neues Deutschland del 11.12.2009 -

fonte: EXIT!

lunedì 24 agosto 2015

Di cos’è fatto il capitale

post1-2

Note sul Capitale
(Capitale e mutamento storico)
- di Moishe Postone -

- I -

1. L'enorme trasformazione epocale del mondo negli ultimi decenni ha indicato drammaticamente che l'attuale teoria sociale e storica dev'essere intesa come centrale rispetto alle dinamiche storiche ed ai cambiamenti strutturali su larga scale, se vuole dimostrarsi adeuata al nostro universo sociale.

2. La categoria marxiana di capitale è di importanza cruciale per quel che riguarda la costituzione di una tale teoria del mondo contemporaneo - ma solamente se essa viene riconcettualizzata in modo da distinguersi sostanzialmente dai modi nei quali la categoria di capitale è stata recentemente usata nei diversi discorsi delle scienze sociali, così come nelle interpretazioni marxiste tradizionali.

3. La categoria di capitale che presenterò, allora, ha ben poco in comune con i modi in cui "capitale" viene usato da una grande varietà di teorici, che vanno da Gary Becker, passando per Bourdieu, fino ad arrivare a molti marxisti per i quali "capitale" generalmente si riferisce ad un surplus sociale di cui ci si appropria privatamente. All'interno di quest'ultimo quadro interpretativo, capitale è essenzialmente surplus di ricchezza nelle condizioni di sfruttamento di classe astratto e non palese.

4. La categoria di capitale di Marx, sostengo, non è solamente una categoria sociale che delinea un determinato modo di sfruttamento. E' anche, centralmente, una categoria temporalmente dinamica che cerca di cogliere la moderna società capitalista come forma di vita sociale caratterizzata da forme quasi oggettive di dominio che sono alla base di un'intrinseca dinamica storica. La dinamica dialettica e storicamente specifica, colta dalla categoria di "capitale" di Marx, è una caratteristica fondamentale, socialmente costituita, storicamente specifica, del capitalismo (che, allo stesso tempo, lo fa sorgere ma determina anche la possibilità di una forma di vita post-capitalista emancipata). Essa si fonda in ultima analisi su una forma di ricchezza storicamente specifica al capitalismo, chiamata valore, che Marx ha distinto nettamente da quella che egli ha definito ricchezza materiale.

- II -

5. La mia attenzione sul carattere storicamente dinamico del capitalismo risponde alle massicce trasformazioni del capitalismo durante l'ultimo terzo del 20° secolo. Questo periodo è stato caratterizzato dal dipanarsi della sintesi fordista stato-centrica del dopoguerra, in Occidente, dal collasso o dalla trasformazione fondamentale dei partiti-Stato e delle loro economie di comando nell'Est, e dall'emergere di un ordine globale capitalista neoliberista (che potrebbe, a sua volta, essere compromesso dallo sviluppo di enormi blocchi regionali concorrenti). Dal momento che hanno incluso il collasso dell'Unione Sovietica e del comunismo europeo, questi cambiamenti sono stati assunti come segnale della fine del marxismo e della rilevanza teorica di Marx.

6. Eppure queste trasformazioni storiche hanno anche sottolineato il bisogno di confrontarsi con le dinamiche storiche e con i cambiamenti su larga scala, Ed è precisamente questa problematica ad essere il cuore dell'analisi critica di Marx.

7. L'importanza centrale di questa problematica è rafforzata quando si considera la traiettoria complessiva del capitalismo stato-centrico nel 20° secolo, dal suo inizio che può essere collocato nella prima guerra mondiale e nella rivoluzione russa, attraverso il suo apogeo nei decenni susseguenti alla seconda guerra mondiale, ed il suo declino dopo i primi anni 1970.

8. Quel che è significativo in questa traiettoria è il suo carattere globale. Essa comprende i paesi capitalisti occidentali e l'Unione Sovietica, così come i territori colonizzati ed i paesi decolonizzati. Differenze nello sviluppo storico, naturalmente, si verificano. Na, osservate in riferimento alla traiettoria vista nel suo insieme, sono più una questione di inflessioni diverse rispetto ad un modello comune piuttosto che sviluppi fondamentalmente diversi. Ad esempio, lo Stato sociale si era esteso a tutti i paesi industriali occidentali, nel corso del 20° secolo dopo la fine della seconda guerra mondiale, e poi limitato, o parzialmente smantellato, a cominciare dai primi anni 1970. Questi sviluppi si sono verificati a prescindere dal fatto che al potere ci fossero partiti conservatori o parti socialdemocratici ("liberal").

9. Tali sviluppo generali non possono essere spiegati in termini di decisioni politiche contingenti, e suggeriscono fortemente l'esistenza di vincoli strutturali generali. Indicano come la storia capitalista  non possa essere adeguatament4e colta come "diacronica", ossia, in termini di sola contingenza.

10. L'esame di tali modelli storici generali suggerisce, quindi, che le posizioni che cercano di trattare la storia in termini di contingenza, come quelle degli autori post-strutturalisti, sono empiricamente inadeguate rispetto alla storia della società capitalista. Non di meno, tale considerazione non rinuncia necessariamente a quello che potrebbe essere considerata come l'intuizione critica che guida tali tentativi di affrontare la contingenza storica - vale a dire, che la storia intesa come dispiegarsi di una necessità immanente dovrebbe essere colta come il delinearsi di una forma di mancanza di libertà.

11. La categoria di capitale, suggerisco, permette una posizione che possa andare oltre la classica antinomia fra necessità e libertà, riassunta come una via di mezzo fra la concezione hegeliana della storia intesa come necessità ed il suo rifiuto post-strutturalista fatto in nome della contingenza (e presumibilmente dell'azione). Così come andrò ad elaborarla, la categoria di capitale trattiene la dinamica immanente della moderna società capitalista dentro forme determinate di mediazione sociale. Dentro questo quadro, la Storia, intesa come dinamica diretta in maniera immanente, non è una categoria universale del vita sociale umana. Piuttosto, è una caratteristica determinata, storicamente specifica, della società capitalista che può essere, ed è stata, proiettata su tutta la storia umana.

12. I modelli globali su grande scala che caratterizzano la storia capitalista implicano l'esistenza di forti vincoli sulle decisioni politiche, sociali ed economiche. Lungi dal vedere la storia come inequivocabilmente positiva, una posizione che basa tali modelli sulla categoria di capitale coglie la loro esistenza in quanto manifestazione di eteronomia.

13.In questa valutazione, la posizione critica marxiana è più vicina al post-strutturalismo che la marxismo ortodosso della Seconda Internazionale. Tuttavia, essa non considera la storia eteronoma come come una narrazione, la quale possa essere semplicemente dissolta in maniera discorsiva, ma come una struttura di dominio che deve essere superata. Da questo punto di vista, qualsiasi tentativo di salvare l'agire umano concentrandosi sulla contingenza in un modo che mette in parentesi l'esistenza di strutture di dominio storicamente specifiche è - ironicamente - profondamente depotenziante.

14. Infine, dentro il quadro che ho delineato, il capitale, come struttura di dominio, è dialettico; è sia auto-perpetuante che auto-distruttivo.

- III -

15. Che cos'è il capitale, secondo Marx? Al centro della categoria di capitale di Marx si trova il plusvalore. Questa categoria è stata generalmente intesa nel senso di sfruttamento. Essa indica che, a dispetto delle apparenze, il plusvalore nel capitalismo non è costituito da un numero di fattori di produzione, come lavoro, terra, e macchinari, ma soltanto dal lavoro. Il plusvalore è una categoria dello sfruttamento basato sulla classe.

16. Pur non essendo in disaccordo con quest'analisi del plusvalore, la posizione da me delineata la ritiene parziale. La comprensione convenzionale di plusvalore si concentra esclusivamente sulla creazione del plusvalore, ma non considera sufficientemente il significato che nell'analisi di Marx ha la forma di ricchezza in esso coinvolta, vale a dire il valore.

17. Elaborare il concetto di capitale di Marx, perciò, comporta che si considerino brevemente le categorie più fondamentali con cui Marx inizia la su analisi: merce e valore. Com'è ben noto, Marx analizza la merca come relazione sociale oggettivata piuttosto che come oggetto. Al cuore dell'analisi che Marx fa della merce, sta la sua tesi per cui il lavoro, nel capitalismo, ha un "carattere duplice": è sia "lavoro concreto" che "lavoro astratto". "Lavoro concreto" si riferisce al fatto che alcune forme di quello che noi consideriamo attività lavorativa, in tutte le società mediano le interazioni degli esseri umani con la natura. "Lavoro astratto" non è semplicemente riferito al lavoro concreto in astratto, al "lavoro" in generale, ma ad un tipo di categoria molto differente. Significa che il lavoro, nel capitalismo, possiede anche una dimensione sociale unica che non è intrinseca all'attività lavorativa in quanto tale: essa non solo media le relazioni degli esseri umani con la natura, ma anche le relazioni sociali. Così facendo, essa costituisce una nuova, quasi oggettiva, forma di interdipendenza sociale. "Lavoro astratto", in quanto funzione mediatrice, specificamente storica, del lavoro, è il contenuto, o meglio la "sostanza" del valore.

18.Il lavoro nel capitalismo, secondo Marx, quindi, non è soltanto lavoro, come noi lo intendiamo in maniera trans-storica e secondo il senso comune, ma è anche un'attività mediatrice storicamente specifica. Dal momento che le sue oggettivazioni - merce, capitale - sono sia prodotti del lavoro concreto che forme oggettivate della mediazione sociale. Secondo quest'analisi, le relazioni sociali che più fondamentalmente caratterizzano la società capitalista sono assai differenti dalle evidenti relazioni sociali, qualitativamente specifiche, che caratterizzano le società non-capitaliste. Sebbene quest'ultimo tipo di relazioni continuino ad esistere nel capitalismo, quello che in ultima analisi struttura questa società è un nuovo, soggiacente, livello di relazioni sociali che sono costituite dal lavoro. Tali relazioni hanno un peculiare, quasi-oggettivo, carattere formale, e sono dualistiche - sono caratterizzate dall'opposizione fra una dimensione omogenea, generale, astratta ed una dimensione materiale, concreta, particolare. Entrambe le dimensioni appaiono essere "naturali", anziché sociali, e condizionano le concezioni sociali della realtà naturale.

19. Il carattere astratto della mediazione sociale soggiacente al capitalismo, si esprime anche nella forma della ricchezza dominante in questa società. La "teoria del valore-lavoro" di Marx non è una teoria della ricchezza-lavoro, ossia, una teoria che cerca di spiegare il funzionamento del mercato e di provare l'esistenza dello sfruttamento, sostenendo che il lavoro, in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, è la sola fonte di ricchezza sociale. Marx analizza il valore in quanto forma di ricchezza storicamente specifica, la quale è legata al ruolo storicamente unico del lavoro nel capitalismo; in quanto forma di ricchezza, esso è anche forma di mediazione sociale.

20. Marx distingue esplicitamente il valore dalla ricchezza materiale. Questa distinzione è di fondamentale importanza per la su analisi. La ricchezza materiale è misurata dalla quantità di prodotti fabbricati ed è funzione di una serie di fattori, quali la conoscenza, l'organizzazione sociale, e le condizioni naturali, oltre che il lavoro. Il valore è costituito solamente dal dispendio di tempo di lavoro umano, secondo Marx, ed è la forma dominante di ricchezza nel capitalismo. Se consideriamo che la ricchezza materiale, quando è la forma dominante della ricchezza, viene mediata da relazioni sociali evidenti, il valore risulta essere una forma di ricchezza auto-mediante.

21. Quindi, nel quadro di questa interpretazione, quello che fondamentalmente caratterizza il capitalismo è la forma astratta, storicamente specifica, della mediazione sociale - una forma di relazioni sociali che è unica dal momento che è mediata dal lavoro. Questa forma di mediazione storicamente specifica è costituita da determinate forme di pratica sociale e, tuttavia, diviene quasi-indipendente dalle persone impegnate in tali pratiche. Il risultato è una nuova forma di dominio sociale - una dorma che assoggetta le persone ad imperativi strutturali impersonali, sempre più razionalizzati, e a vincoli che non possono essere sufficientemente compresi in termini di dominio di classe, o, più in generale, in termini di dominio concreto da parte di gruppi sociali o da parte di agenzie istituzionali dello Stato e/o dell'economia. Questa forma di dominio non ha una legittimazione precisa e, seppur costituita da determinate forme di pratica sociale, non appare essere affatto sociale.

22. A tal riguardo, è significativa la determinazione della grandezza del valore, in Marx. Già nella sua discussione circa la grandezza del valore in termini di tempo di lavoro socialmente necessario, Marx allude alla peculiarità del valore in quanto forma sociale di ricchezza la cui misura è temporale: incrementando la produttività, si incrementa l'ammontare del valore d'uso prodotto per unità di tempo, ma si traduce soltanto in un incremento a breve termine nella grandezza del valore creato per unità di tempo. Una volta che l'incremento della base produttiva diviene generale, la grandezza del valore scende al di sotto del suo livello di base. Il risultato è una sorta di dinamica della pedana mobile.

23. All'inizio della sua esposizione, Marx comincia a caratterizzare il capitalismo come una società guidata da una dinamica peculiare che conduce ad incrementare sempre i livelli di produttività, con la conseguenza di incrementare grandemente la produzione di valore d'uso. Questi livelli crescenti di produttività, ad ogni modo, non significano un incremento proporzionale del valore, la forma sociale della ricchezza nel capitalismo. Questo peculiare dinamica da tapis roulant è guidata dalla dimensione temporale del valore. La forma astratta, storicamente specifica, di dominio sociale intrinseca alla forma fondamentale di mediazione sociale del capitalismo, è il dominio delle persone da parte del tempo. Questa forma di dominio è associata ad una forma astratta di temporalità storicamente specifica - tempo astratto newtoniano - il quale è costituito storicamente insieme alla forma merce.

- IV -

24. Questa dinamica è al centro della categoria di capitale. Marx, per primo, definisce il capitale come valore auto-valorizzante. Cioè, il capitale, per Marx, è una categoria di movimento, di espansione; è valore in movimento. Il capitale, per Marx, non ha forma fissa, ma appare come momenti differenti del suo percorso a spirale sotto forma di denaro e di merci. Il capitale, secondo Marx, comporta quindi un processo incessante di auto-espansione del valore, un movimento direzionale senza alcun Telos (fine) esterno che genera un ciclo di produzione su larga scala di produzione e consumo, di creazione e distruzione.

25. Significativamente, nell'introdurre la categoria di capitale, Marx lo descrive con lo stesso linguaggio usato da Hegel nella "Fenomenologia" in riferimento alla "Geist" (spirito) - la sostanza semovente che è il soggetto del suo proprio processo. Così facendo, Marx suggerisce che il Soggetto storico in senso hegeliano esiste effettivamente nel capitalismo. Tuttavia - e questo è di importanza cruciale - egli non identifica questo soggetto con il proletariato (come fa Lukàcs), o con qualsiasi altro gruppo sociale, e neppure con l'umanità. Piuttosto egli fa riferimento al capitale - una struttura di relazioni sociali alienate costituite da un determinata forma di pratica oggettivante.

26. Il fatto che Marx adotti la determinazione concettuale iniziale dello spirito, di Hegel, per introdurre il concetto di capitale, ha molte significative implicazioni su cui qui posso soffermarmi solo brevemente. Egli suggerisce - come ho già detto prima - che il concetto hegeliano di storia, come dispiegamento direzionale dialettico, è valido, ma lo soltanto per l'era capitalistica. In relazione a questo, il dispiegarsi sociale della dialettica avviene nelle forme di mediazione sociale espresse dalle categorie di merce, valore, e capitale.

27. Questa identificazione dello Spirito di Hegel con il capitale, rappresenta la piena elaborazione della teoria dell'alienazione che Marx elaborò per la prima volta nei suoi primi lavori. Marx considera il dispiegarsi della logica dialettica del capitale come una espressione sociale reale delle relazioni sociali alienate che, sebbene costituite nella pratica, esistono in maniera quasi indipendente. Queste relazioni sociali non possono essere pienamente colte come relazioni di classe ma come forma di mediazione sociale che strutturano e sono strutturate dalle relazioni di classe. La logica del capitale, quindi, non è una manifestazione illusoria delle soggiacenti relazioni di classe ma è una forma sociale del dominio, inseparabile dalle forme sociali fondamentali / relazioni caratteristiche del capitalismo - merce e capitale. Una logica della storia e delle forme alienate delle relazioni sociali sono intrinsecamente correlate.

28. A margine: l'identificazione fra lo stesso soggetto-oggetto di Hegel e le forme storicamente specifiche della mediazione sociale ha delle implicazioni molto importanti per una teoria della soggettività. Essa cambia i termini del problema della conoscenza e, più generalmente, della soggettività, dalla conoscenza individuale o sovra-individuale del soggetto e dalla sua relazione con un mondo esterno (o esternalizzato), alle forme delle relazioni sociali, considerate come determinazioni tanto di oggettività sociale quanto di soggettività. In riferimento alla questione più specifica del lavoro e della coscienza, la questione viene ora ad essere focalizzata sulla forma di mediazione sociale vista come forma soggettiva/oggettiva, piuttosto che sulle relazioni fra esseri umani e natura.

29. La critica di Hegel, svolta da Marx ne Il Capitale, suggerisce che egli non tratti le relazioni capitaliste come estrinseche al Soggetto, come qualcosa che ne ostacoli la piena realizzazione. Invece, come abbiamo visto, Marx analizza queste relazioni stesse come costituenti il Soggetto. Nella sua teoria matura, poi, Marx non postula un meta-soggetto storico, quale il proletariato, che realizzerebbe se stesso in una società futura, ma fornisce le basi per una critica di tale concetto.

30. Similmente, la determinazione categoriale di Marx del capitale come Soggetto storico implica una posizione assai diversa da quella dei teorici come Lukàcs, per i quali la totalità sociale costituiva il punto di partenza della critica del capitalismo, che doveva realizzarsi nel socialismo. Nel Capitale, la totalità ed il lavoro che la costituisce sono diventati gli oggetti della critica.

31. Dentro il quadro del Capitale, la formazione sociale capitalista è unica nella misura in cui è costituita da una "sostanza" sociale qualitativamente omogenea. Quindi essa esiste come totalità sociale. Le fondamentali relazioni sociali delle altre società non sono qualitativamente omogenee. Quindi non sono totalizzate - non possono essere colte col concetto di "sostanza", non possono essere spiegate a partire da un singolo principio strutturante, e non mostrano una logica immanente necessariamente storica.

32. L'idea secondo la quale è il capitale il Soggetto totale, e non il proletariato o l'umanità, indica come la negazione storica del capitalismo comporti l'abolizione del Soggetto e della totalità, e non la loro realizzazione. Le contraddizioni del capitale, di conseguenza, devono essere rivolte oltre il Soggetto, oltre la totalità.

33. Determinare il capitale come Soggetto storico è collegato ad un'analisi che cerca di spiegare il complesso direzionale dinamico della società capitalista in riferimento alle relazioni sociali che, sebbene costituite dalla pratica, acquisiscono un'esistenza quasi-indipendente ed assoggettano le persone a vincoli quasi-oggettivi. Questa posizione differisce fondamentalmente da quelle che identificano il Soggetto storico con la classe lavoratrice. Interpretazioni che postulano la classe o l'umanità come il Soggetto storico sembrano promuovere la dignità umana con l'enfatizzare il ruolo della prassi nella creazione della storia. Dentro il quadro dell'interpretazione qui delineata, ad ogni modo, tali posizioni sono solo apparentemente emancipatrici nella misura in cui non colgono adeguatamente l'eteronomia espressa dalla Storia, dalla logica storica del capitale.

34. Più in generale, posizioni che asseriscono in maniera affermativa l'esistenza di una logica storica e di una totalità, sono relative a quelle posizioni che negano l'esistenza della totalità al fine di poter salvare la possibilità dell'emancipazione. Entrambe postulano in maniera unilaterale un'identità trans-storica fra quello che è e quello che dovrebbe essere, fra il riconoscere l'esistenza della totalità e l'affermarla. Entrambe differiscono rispetto all'approccio di Marx, il quale analizza la totalità come una realtà eterogenea, al fine di riuscire a scoprire le condizioni della sua abolizione.

35. La critica matura di Marx ad Hegel, non comporta più una inversione antropologica "materialista" della dialettica idealista di quest'ultimo (così come viene compresa, ad esempio, da Lukàcs). Si tratta piuttosto di una "giustificazione" materialista della dialettica. Marx sostiene implicitamente che il "nucleo razionale" della dialettica di Hegel è proprio il suo carattere idealista. E' un'espressione di un modo di dominio costituito da relazioni alienate, cioè, relazioni che acquisiscono un'esistenza quasi-indipendente rispetto agli individui, e che, a causa della loro peculiare natura dualistica, sono dialettiche nel carattere. Il Soggetto storico è la struttura alienata della mediazione social che è costituiva della formazione capitalista.

- V -

36. La logica storica, spiega Marx, è definitivamente radicata nel doppio carattere della merce e, quindi, nella forma del capitale. Come abbiamo visto, la forma merce, in quanto dualità di valore d'uso e di una forma storicamente specifica di ricchezza, il valore, implica una dinamica particolare. Da un lato, in quanto forma di ricchezza temporalmente determinata, il valore è alla base di un movimento continuo per incrementare la produttività che è un marchio di garanzia della produzione capitalista. Dall'altro lato, poiché il valore è una funzione del solo tempo di lavoro socialmente necessario, livelli generali di produttività socialmente più alti risultano in una più grande quantità di ricchezza materiale, ma non in più alti livelli di valore per unità di tempo. La dimensione di valore d'uso del lavoro, che è alla base dell'incremento di produttività, non cambia la quantità di valore prodotto per unità di tempo, ma cambia la determinazione di ciò che si intende come determinata unità di tempo - ad esempio, un'ora lavorativa sociale. L'unita di tempo (astratto) è stata spinta in avanti, per così dire, nel tempo (storico).

37. Questa dinamica dialettica di valore e valore d'uso è resa logicamente implicita nella trattazione che Marx fa, nella sua analisi preliminare della forma merce, del tempo di lavoro socialmente necessario. Emerge apertamente quando comincia ad elaborare il concetto di capitale rispetto a quello di plusvalore.

38. Analiticamente, Marx distingue due aspetti del modo capitalistico di produzione: è un processo per la produzione di valore d'uso (processo di lavoro) ed è un processo di generazione di (surplus) valore (processo di valorizzazione). Analizzando quest'ultimo, Marx distingue fra la produzione di plusvalore assoluto (dove gli incrementi nel plusvalore vengono generati incrementando il tempo di lavoro totale) ed il plusvalore relativo (dove gli incrementi nel plusvalore sono effettuati incrementando la produttività, cosa che comporta una diminuzione del valore necessario alla riproduzione del lavoratori).

39. Con l'introduzione della categoria di plusvalore relativo, la logica dell'esposizione di Marx diventa una logica storica, dacché è caratterizzata dall'accelerazione temporale. Ciò che nell'analisi di Marx caratterizza il plusvalore relativo è che dove il livello di produttività, ad un livello socialmente generale, è più alto, la maggior produttività, per poter generare un determinato incremento nel plusvalore, dev'essere ancora ulteriormente incrementata.

40. In altre parole, l'espansione di plusvalore richiesta dal capitale tende a generare incrementi di accelerazione nella produttività e, quindi, nella massa di merci prodotte e nei materiali consumati. Eppure, la quantità sempre crescente di ricchezza materiale non rappresenta un corrispondente alto livello di ricchezza sociale sotto forma di valore. Ciò suggerisce che una caratteristica del moderno capitalismo che lascia perplessi - l'assenza di benessere generale nel contesto di abbondanza materiale - non è soltanto questione di un'iniqua distribuzione, ma è anche una funzione della forma valore della ricchezza nel capitalismo.

41. Da un lato, la dialettica temporale che ho brevemente delineato indica che ad elevati livelli, socialmente generali, di produttività non diminuisce proporzionalmente la necessità, socialmente generale, di dispendio di tempo lavorativo (cosa che avverrebbe se la ricchezza materiale fosse la forma dominante di ricchezza). Invece questa necessità viene costantemente ricostituita. Di conseguenza, il lavoro rimane il mezzo necessario per la riproduzione materiale ed il dispendio di tempo lavorativo rimane fondamentale per il processo di produzione (a livello della società intesa come un tutto) indipendentemente dal livello di produttività.

42. Questo si traduce in una complessa dinamica storica di trasformazione e di ricostituzione. Da un lato, questa dinamica genera continue trasformazioni nei processi tecnici del lavoro, della divisione del lavoro e, più generalmente, della vita sociale, della natura della produzione, dei trasporti, della circolazione, dei modelli di vita, e della forma della famiglia.

43. Dall'altro lato, questa dinamica storica comporta la continua ricostituzione della sua stessa condizione fondamentale - che, in definitiva, la mediazione sociale viene attuata dal lavoro e che il lavoro vivente resta parte integrante del processo di produzione (a livello della società intesa come un tutto) indipendentemente dal livello di produzione.

44. Questo complesso dialettico è quello che spinge sempre più oltre la necessità del lavoro proletario nel mentre che ricostituisce questa stessa necessità come condizione di vita per il capitalismo.

45. Questa comprensione del complesso dinamico del capitalismo è, naturalmente, solo una determinazione iniziale astratta. (La spinta del capitale verso l'espansione, ad esempio, non ha sempre bisogno che questo comporti un aumento della produttività. Può avvenire anche attraverso l'abbassamento dei salari, per esempio, oppure allungando la giornata lavorativa. Nondimeno, quello che ho descritto delinea una logica sovrastante del capitale). Questa comprensione indica la possibilità di un'analisi che critichi socialmente (piuttosto che tecnicamente) la traiettoria della crescita e la struttura della produzione sotto il capitalismo.

- VI -

46. Da un lato, la dimensione temporale del valore soggiace ad un determinato modello di "crescita" - dove la sempre maggiore capacità produttiva umana ha una forma di fuga sulla quale le persone hanno scarso controllo. Questo modello, che dà luogo ad un incremento della ricchezza materiale maggiore dell'incremento del plusvalore (che rimane la forma rilevante dell'eccedenza nel capitalismo), porta alla distruzione accelerata dell'ambiente naturale.

47. In questo quadro, allora, il problema con la crescita economica nel capitalismo non è solo quello di essere attraversata da crisi, ma anche che la forma della crescita stessa è problematica. La traiettoria della crescita sarebbe diversa se lo scopo finale della produzione fosse un incremento della quantità di merci, anziché il plusvalore.

48. La distinzione fra ricchezza materiale e valore, allora, permette una critica delle negative conseguenze ecologiche della produzione capitalista moderna nel quadro di una critica teorica del capitalismo. Come tale, essa punta oltre la contrapposizione fra fuga, crescita ecologicamente distruttiva come condizione di benessere sociale, ed austerità come condizione di organizzazione di tipo ecologico della vita sociale.

49. Quest'approccio fornisce anche le basi per un'analisi della struttura del lavoro sociale e della natura della produzione nel capitalismo che sia sociale anziché tecnologica. Quest'approccio non considera il processo capitalista di produzione come un processo tecnico che, sebbene sempre più socializzato, viene usato dai capitalisti privati per il loro proprio fine individuale. Invece, parte dall'analisi di Marx delle due dimensioni del processo capitalista di produzione - il processo lavorativo ed il processo di valorizzazione.

50. Da principio, secondo Marx, il processo di valorizzazione rimane estrinseco al processo lavorativo (ciò che egli chiama la "sussunzione formale del lavoro sotto il capitale"). A questo punto, la produzione non è ancora intrinsecamente capitalista. Poi, però, il processo di valorizzazione plasma la natura dello stesso processo lavorativo (la "sussunzione reale del lavoro sotto il capitale"). La nozione di sussunzione reale del lavoro sotto il capitale significa che la produzione in un ordine sociale post-capitalista non dovrebbe essere concepita allo stesso modo della produzione come avviene nel capitalismo (ad esempio, produzione industriale), che ora non è più proprietà di una classe di proprietari privati.

51. Ad un livello logicamente astratto, la sussunzione reale del lavoro sotto il capitale può essere compresa come un processo in ultima analisi radicato nell'imperativo duale del capitale - la spinta verso un continuo incremento della produttività e la ricostituzione strutturale della necessità di un dispendio di forza lavoro umana diretta ad un livello sociale totale. La forma materiale della produzione capitalista pienamente sviluppata può essere colta, riferendola alle pressioni contraddittore generate da questi due imperativi sempre più opposti fra di loro.

52. Questo ci consente di dare inizio ad una spiegazione strutturale del paradosso centrale della produzione nel capitalismo. Da un lato, la spinta del capitale a continui incrementi nella produttività da luogo ad apparati produttivi tecnologicamente sofisticati che rendono la produzione di ricchezza materiale essenzialmente indipendente dal dispendio di tempo lavorativo umano diretto. Questo apre la possibilità di riduzioni, socialmente generate su grande scala, nel tempo di lavoro e di cambiamenti fondamentali nella natura e nell'organizzazione sociale del lavoro. Eppure queste possibilità non vengono realizzate nel capitalismo. Lo sviluppo di una produzione tecnologicamente sofisticata non libera un maggior numero di persone da un lavoro parziale e frammentato. Allo stesso modo, il tempo di lavoro non viene ridotto ad un livello sociale totale, ma viene distribuito in modo ineguale, addirittura aumentando per molti.

53. L'attuale struttura ed organizzazione della produzione non può, quindi, essere compresa adeguatamente soltanto in termini tecnologici, ma va compresa anche socialmente, in riferimento alle mediazioni sociali espresse dalle categorie di merce e di capitale.

54. A questo punto possiamo tornare all'implicita identificazione dello Spirito di Hegel con il capitale. Il lavoro nel capitalismo, come abbiamo visto, ha due dimensioni sociali analiticamente separabili, una dimensione di valore d'uso ("lavoro concreto") ed una dimensione di valore ("astratto"). La dimensione di valore d'uso del lavoro si riferisce al lavoro come ad un'attività sociale che media gli esseri umani e la natura producendo beni che vengono consumati socialmente. Marx considera la produttività come produttività del lavoro utile, concreto. Esso è determinato dall'organizzazione sociale della produzione, dal livello di sviluppo e di applicazione della scienza, e dalle competenze acquisite dalla popolazione lavoratrice. Cioè, il carattere sociale della dimensione del valore d'uso comprende l'organizzazione sociale e la conoscenza sociale e non si limita al dispendio di lavoro diretto. La produttività nell'analisi di Marx è un'espressione del carattere sociale del lavoro concreto, delle capacità produttive acquisite dall'umanità.

55. La dimensione di valore del lavoro ("lavoro astratto") si riferisce alla funzione storicamente unica del lavoro nel capitalismo in quanto attività socialmente mediante. La produzione di valore, diversamente da quella di ricchezza sociale, è necessariamente legata al dispendio di lavoro umano diretto.

56. Come abbiamo visto, Marx per primo introduce la categoria di capitale nei termini di quest'ultima dimensione sociale del lavoro, come valore auto-valorizzante. Comunque, nel corso della sua presentazione, ne Il Capitale, dello sviluppo della produzione, Marx sostiene che la dimensione di valore d'uso del lavoro diviene storicamente un attributo del capitale.

57. Inizialmente, nella trattazione della cooperazione e della manifattura svolta da Marx, quest'appropriazione della forza produttiva del lavoro concreto da parte del capitale appare essere semplicemente questione di proprietà privata, in quanto questa forza produttiva è ancora costituita dal lavoro umano diretto nella produzione.

58. Una volta che si è sviluppata l'industria su larga scala, però, le forze produttive sociali del lavoro concreto di cui si è appropriato il capitale non sono più quelle dei produttori immediati. Essi non esistono in quanto prima forze produttive dei lavoratori che poi vengono loro sottratte. Sono piuttosto forze produttive socialmente generali. La condizione per il loro essere storicamente è proprio quella per cui sono costituite sotto forma alienata, separata da, ed opposta ai produttori immediati.

59. Questa forma è ciò che Marx cerca di cogliere per mezzo della sua categoria di capitale. Capitale, così come esso si sviluppa, non è la forma mistificata delle forze che "attualmente" sono quelle dei lavoratori. E' piuttosto la forma reale di esistenza di quel "gruppo di capacità" che sono costituite storicamente sotto forma alienata.

60. Capitale, allora, è la forma alienata di entrambe le dimensioni del lavoro sociale nel capitalismo. Da un lato esso si pone di fronte agli individui come un alieno, totalizzante Altro. Dall'altro lato, i gruppi di capacità costituiti storicamente sotto forma di capitale aprono la possibilità storica di una forma di produzione sociale che non è più basata su plusvalore prodotto dal dispendio di lavoro umano diretto nella produzione, cioè, dal lavoro di una classe.

61. Un'implicazione di quest'analisi del capitale è quella per cui il capitale non esiste come una totalità unitaria, e che il concetto marxiano di contraddizione dialettica fra "forze" e "relazioni" di produzione non si riferisce alla contraddizione fra "relazioni che sono intrinsecamente capitaliste (ad esempio, il mercato e la proprietà privata) e "forze" che si presumono estrinseche al capitale. Piuttosto, questa contraddizione dialettica è una contraddizione fra le due dimensioni del capitale.

62. Come totalità contraddittoria, il capitale genera la complessa dinamica storica che ho cominciato a tracciare, una dinamica che punta alla possibilità del suo stesso superamento.

63. Questa dinamica non può essere afferrata adeguatamente, sia in riferimento allo Stato che alla società civile. Essa esiste "dietro" entrambe queste sfere, che incorpora e trasforma sempre più.

- VII -

64. A posteriori, è diventato evidente che la configurazione sociale/politica/economica/culturale dell'egemonia del capitale è cambiata storicamente - dal mercantilismo, attraverso il capitalismo liberale del 19° secolo e quello Stato-centrico fordista del 20° fini capitalismo neoliberista globale contemporaneo. Ogni configurazione ha suscitato un certo numero di critiche penetranti - per esempio, quella dello sfruttamento e della crescita irregolare ed iniqua, o quella della tecnocrazia, del modo burocratico di dominio.
Ciascuna di queste critiche, tuttavia, è incompleta. Come abbiamo visto, il capitalismo non può essere identificato pienamente in nessuna delle sue configurazioni storiche.

65. Ho delineato un approccio al capitale inteso come nucleo della formazione sociale, separabile dalle configurazioni del capitalismo più storicamente determinate. Allo stesso tempo, quest'approccio potrebbe aiutare a chiarire alcune dimensioni del capitalismo attuale.

66. Mettendo in relazione il superamento del capitale con il superamento del lavoro proletario, quest'approccio potrebbe cominciare ad affrontare l'emergenza storica delle auto-comprensioni e delle soggettività post-proletarie. Esso apre la possibilità ad una teoria che possa riflettere storicamente sui nuovi movimenti sociali dell'ultimo decennio del 20° secolo, le cui richieste hanno espresso bisogni che hanno molto poco a che fare con il capitalismo come viene tradizionalmente inteso. Un'adeguata teoria del capitalismo - una teoria che non sia legata ad una configurazione epocale del capitalismo e che sia in grado di cogliere i cambiamenti epocali del capitalismo - dovrebbe essere in grado di rispondere a tali movimenti, di spiegare storicamente sia il loro emergere che la natura delle soggettività espresse.

67. Allontanando il fuoco della critica dall'esclusiva preoccupazione per il mercato e per la proprietà privata, quest'approccio mira a fornire le basi per una teoria critica della società post-liberale in quanto capitalista ed anche dei paesi cosiddetti "socialisti attualmente esistenti" in quanto forme alternative (e fallite) dell'accumulazione capitalista, piuttosto che come modelli sociali che rappresentavano la negazione storica del capitale, seppure imperfetta nella forma. Esso permette anche un'analisi delle più nuove configurazioni del capitalismo - del capitalismo globale neoliberista - in modi che evitino di tornare in quadro marxista tradizionalista.

68. Questa reinterpretazione implica quindi un ripensamento fondamentale della natura del capitalismo e della sua possibile trasformazione storica. Essa suggerisce implicitamente che una teoria adeguata della modernità dovrebbe essere un teoria auto-riflessiva capace di superare le dicotomie teoriche fra cultura e vita materiale, fra struttura ed azione, mentre si ancora socialmente alla dinamica direzionale non-lineare globale del mondo moderno, alle sue forme di crescita economica, e alla natura ed alla traiettoria del uso processo produttivo. Ossia, una simile teoria dev'essere capace di fornire una descrizione sociale delle caratteristiche paradossali della modernità sopra delineate.

69. In generale, l'approccio che ho tracciato cerca di contribuire al discorso della teoria sociale contemporanea e, in relazione a questo, alla nostra comprensione delle profonde trasformazioni del nostro universo sociale, in dei modi che possano contribuire alla sua fondamentale trasformazione.

- Moishe Postone -