venerdì 31 luglio 2015

Il letto di Ulisse

letto

Il risultato del masochismo storico
- Il capitalismo comincia a liberare l'uomo dal lavoro -
di Robert Kurz

Nella storia del pensiero occidentale,soprattutto nell'era moderna, il linguaggio della filosofia e della scienza si è allontanato sempre più dal linguaggio dell’uomo comune e si è trasformato nel linguaggio segreto di una casta sacerdotale del sapere separata dal resto della società. Ci sono pochi concetti che appartengono simultaneamente alla sfera della riflessione teorica e a quella della vita quotidiana. "Lavoro” è uno di questi concetti. Da una parte esso rappresenta una categoria filosofica, economica e sociologica; dall’altra, viene utilizzato perfino con una costanza sconcertante nel quotidiano di tutti gli uomini. Questo carattere peculiare del significato sociale del “lavoro” indica una correlazione universale nel mondo moderno. Nessuna parola è, a prima vista, più cristallina e, ad un secondo colpo d’occhio, meno chiara di quanto lo sia questa.
In filosofia e nella teoria sociale, Karl Marx è stato quello che più si è avvalso del concetto del “lavoro” come base del suo pensiero. Ed è stato il marxismo ad adottare con fermezza il punto di vista del "lavoro", al fine di legittimare nella storia moderna il grande movimento sociale dei salariati. In termini filosofici, il "lavoro" è, per il marxismo, una condizione sovra-storica dell'esistenza dell’uomo nella sua relazione con la natura. Nel prisma economico, sotto le lenti di questa dottrina, il "lavoro" come forma universale dell’attività umana, viene degradato ad uno stratagemma di sfruttamento per mezzo del dominio della proprietà capitalista. Sotto l'aspetto sociologico, è la classe operaia che deve costituirsi politicamente come “partito del lavoro” per porre fine alla relazione di “sfruttamento dell’uomo sull’uomo” ed arrivare ad una “liberazione nel lavoro”. Oggi, tale teoria della società e della storia, che si supponeva coesa ed incrollabile, ha perduto il suo contenuto di verità; essa appare, per così dire, arcaica e polverosa. Tuttavia, il concetto di “lavoro” ha mantenuto la sua validità e il suo carattere incontestabile. Come si spiega questa curiosa circostanza?
Il marxismo ha sempre cercato di rivendicare a sé il “lavoro” come ideale positivo e di distinguerlo dal supposto “non lavoro” del mondo borghese e dei suoi rappresentanti. Nella caricature della stampa socialista del 19° secolo, i capitalisti di solito venivano rappresentati come parassiti panciuti oppure come dandy e flaneur che conducevano una vita piacevole e “senza lavoro”, sulle spalle della classe lavoratrice. “Gli oziosi si facciano da parte”, così la celebre “Internazionale”, inno del movimento operaio. Sono innanzitutto i vecchi signori feudali e quelli che vivevano di rendita grazie agli ingenti patrimoni monetari a comparire in questa grande immagine del nemico, e non i moderni amministratori. Infatti, i ricchi industriali sono snelli, fanno jogging tutti i giorni, dispongono di meno tempo libero di quanto ne disponesse uno schiavo nelle piantagioni, e devono andare in terapia perché sono diventati “malati di lavoro”.
In realtà, il "lavoro" è stato da sempre un ideale borghese e capitalista, molto prima che il socialismo scoprisse per sé questo concetto. L’elogio del “lavoro” viene cantato a pieni polmoni dalla dottrina sociale cristiana. Anche il liberalismo canonizza il “lavoro” e promette, a somiglianza del marxismo, la sua “liberazione”. Inoltre, tutte le ideologie conservatrici e radicali di destra venerano il lavoro come un dio secolarizzato. “Il lavoro rende liberi” stava scritto sopra il cancello di Auschwitz. Evidentemente, la religione del “lavoro” è il sistema di riferimento comune a tutte le teorie moderne e a tutti i sistemi politici e gruppi sociali. Essi concorrono fra loro per vedere chi dà prova di più grande devozione e chi riesce a suscitare il maggior sforzo produttivo da parte degli uomini.
L'uomo moderno di livello medio, a volte si irrita contro simili idee. Che cosa si chiede, in fondo? "C'è bisogno di lavorare?" Chi potrebbe negare che gli uomini lavorano da sempre? Diversamente, non ci sarebbe cibo, vestiario, alloggi, cultura. Niente sorge dal nulla. E' per questo, come si sa, che la morale del "lavoro" pontifica: "Chi non lavora, non mangia". Gli uomini, non c'è dubbio, hanno sempre prodotto oggetti ed idee per vivere, godere, esplorare e divertirsi. Ma siamo sicuri che "lavoro" sia il corretto concetto universale e sovra-storico per tutto questo? "Lavoro" è un'astrazione, un termine generico che ha diversi significati. Karl Marx sosteneva una tale indeterminazione generica e faceva notare che si trattava di una "astrazione razionale", conosciuta da tempo immemorabile. Ma è così?
Un'astrazione razionale è un concetto universale coerente per delle cose qualitativamente diverse, seppure correlate in una determinata sfera. Così, per esempio, mele, pere, pesche, arance, ecc. vengono riunite nel concetto generale di "frutta". Ma, proprio in questo senso, il “lavoro”, come concetto generale delle attività umane, non è un’astrazione razionale. Anche sognare, passeggiare, giocare a scacchi o leggere romanzi sono attività umane, senza che per questo siano considerate come “lavoro”.
Molte culture contadine, pastorali o fondate sulla caccia non conoscevano affatto la nozione astratta di “lavoro”. Per esse, sarebbe stato estremamente irrazionale ed insensato riunire sotto un unico concetto astratto attività quali la caccia e la coltivazione delle piante, cucinare e allevare bambini, curare le malattie e celebrare le funzioni del culto. Spesso, in queste società arcaiche (nella misura in cui sono ricostruibili o hanno lasciato delle vestigia) esistevano differenti concetti universali di attività relativi alle diverse sfere della vita, per uomini e donne e per i differenti gruppi sociali o le diverse abilità (contadini, artisti, guerrieri, ecc.) - attività queste, che in nessun modo corrispondono al moderno concetto generale di “lavoro”.
Quando e in quale contesto è dunque sorto, in termini storici, questo concetto astratto e generale  di attività sociale ed economica? In molte lingue, la radice della parola “lavoro” rimanda ad un significato che caratterizza l'uomo minore di età, il dipendente oppure lo schiavo. Nella sua origine, pertanto, il “lavoro” non è un'astrazione neutra e razionale ma, piuttosto, sociale: è l’attività svolta da coloro che hanno perduto la libertà. Non importa cosa facciano questi uomini, se lavorano duramente in miniera oppure non lavorino se non come domestici, servendo i pasti, accompagnando i bambini a scuola o sventolando la padrona: è sempre l’attività di un uomo definito come servo. La condizione del servo è il contenuto dell'astrazione “lavoro”.
Non c’è dunque da meravigliarsi che questo concetto astratto abbia acquisito, nell'antichità, il significato metaforico di “sofferenza” e “dolore” (come in latino, ad esempio). L’uomo che, attivo soltanto nel senso negativo del termine, soffre "vacillando sotto un fardello". Questo fardello può essere invisibile, perché, in realtà, è il peso sociale della mancanza di indipendenza. Questo è già esplicito, in ultima analisi, nel vecchio Testamento, quando il “lavoro” viene definito come una maledizione scagliata sugli uomini. L'equiparazione fra “lavoro” e sofferenza non riguarda la mera fatica. Un uomo libero può stancarsi in determinate circostanze e, anche così, trarre piacere dalla situazione.
Perciò è un crasso errore considerare il “non-lavoro” degli uomini liberi e indipendenti nell’antichità come indolenza e puro “dolce far niente”, come spesso avviene nella letteratura del marxismo volgare. In Omero, l’eroe Ulisse è orgoglioso del fatto di aver costruito il suo proprio desco nuziale. Disonorevole non era l’attività in sé o il lavoro manuale ma, soprattutto, la sottomissione dell'uomo ad altri uomini o ad una “professione”. Un uomo libero poteva occasionalmente costruire un letto o un armadio, ma non poteva intraprendere la professione di falegname; poteva commerciare sporadicamente, ma non doveva essere commerciante; poteva occasionalmente scrivere delle poesie, ma non doveva essere poeta (ancor meno come forma di sostentamento).
L'uomo formalmente libero, eppure sottomesso per tutta la vita ad un lavoro remunerato in uno dei rami della produzione, era considerato "minore" a causa di questa attività e riceveva un trattamenti di poco superiore a quello degli schiavi. E' per questo che l'attività del libero dilettante non veniva considerata meno, o di qualità inferiore, rispetto a quella del "professionista" senza libertà. Esercitarsi in diverse arti ed acquisire conoscenze era qualcosa di perfettamente degno. Dalle fiabe provenienti da diversi ambiti culturali possiamo constatare che, nelle società antiche, i principi, a volte, dovevano imparare un mestiere, ma, ancora una volta, non "per essere" artigiani - e patire, così, le sofferenze del “lavoro”.
In una sorta di masochismo della fede, il cristianesimo ha innalzato la sofferenza (e pertanto il "lavoro") a nobile scopo dell'impegno umano. Nei monasteri, i monaci e le suore si sottomettevano, in maniera cosciente e volontaria, all'astrazione del "lavoro", per poter condurre, come "servi di Dio", una vita analoga alle sofferenze del Cristo. Nell'orizzonte della storia delle idee, la disciplina e l'ordine monastico, la rigida divisione delle giornate e l'ascetismo monastico sono precursori della successiva disciplina di fabbrica e della contabilità temporale astratta e lineare della razionalità aziendale.Questa missione del “lavoro”, però, si riferiva solamente al senso metaforico del concetto, come accettazione religiosa della sofferenza con lo sguardo rivolto all’aldilà, senza perseguire alcuno scopo terreno positivo.
Soltanto il protestantesimo, soprattutto nella sua forma calvinista, convertì il masochismo cristiano della sofferenza in un assunto terreno: nella condizione di "servo di Dio", il credente doveva prendere su di sé i dolori del “lavoro”, ma non nell’isolamento monastico, bensì, usare il "lavoro" come mezzo di successo  nel mondo terreno, al fine di dimostrarsi eletto di Dio. Naturalmente, non gli era assolutamente permesso di godere dei frutti del successo, sotto pena di perdere la grazia divina nella sua imitazione di Cristo. A lui toccava, con aspra sofferenza, trasformare il risultato del "lavoro" in  punto di partenza del nuovo “lavoro” ed accumulare incessantemente le ricchezze astratte senza goderne.
Tale mentalità protestante si coniugò alla sete di denaro degli Stati assolutisti pre-moderni e alla loro militarizzazione dell’economia. Se, alla sua origine, il calvario del “lavoro” cristiano era stato volontario, lo Stato, da parte sua, ne fece una legge sociale generale e imperativa. Il motivo religioso della sofferenza si trasformò in obiettivo di "lavoro" in sé stesso, mascherato da “razionalità economica”. In questo modo, tutti gli uomini formalmente liberi della Modernità sarebbero stati tutti quanti sussunti a quella forma minore di di attività, considerata dagli antichi come essenza della servitù e, perciò, come sofferenza.
L’attività libera ed autonoma si riduceva dentro i limiti del cosiddetto “tempo libero”. La sfera centrale del “lavoro”, purificata in quanto ambito funzionale dell’astratto fine in sé, si separò dalle sfere dell’abitare, della cultura, dell’educazione, del gioco e della vita in generale. “Andare al lavoro” venne, poco a poco, a significare la stessa cosa che significava l'antico "andare a messa", sebbene la società moderna abbia ben presto dimenticato l'origine storica e religiosa del “lavoro”. È rimasto il carattere - definito in termini positivi - di un fatto in realtà negativo e disastroso. Gli uomini si sono abituati ad immolare le loro vite sull’altare del “lavoro” e a considerare felicità il sottomettersi ad un "impiego" determinato da altri.
Il liberalismo ed il marxismo hanno ereditato dal protestantesimo e dai regimi assolutisti questa religione del “lavoro” e ne hanno perfezionato la sua secolarizzazione. Nella totalità globale di un attività incessante, la servitù è diventata libertà, e la libertà, servitù, ossia, accettazione volontaria di una sofferenza senza altro senso che la sofferenza stessa. Il "lavoro" si è sostituito a Dio, e, in questo senso, oggi tutti sono “servi di Dio”. Lo stesso "management" è parte del “lavoro” e porta la croce terrena della sofferenza, per trovare proprio in essa il suo potere masochista. Ulisse, l'eroe di Omero, disprezzerebbe come miseri servi gli attuali dominanti, in quanto si piegano sotto il giogo del “lavoro” e si collocano nella forma sociale della sottomissione.
Lo scarso “tempo libero”  è oggi un mero prolungamento del “lavoro” con altri mezzi, come dimostra l’industria dello svago. In questo frattempo, la logica del “lavoro” si è appropriata delle sfere separate e si è insinuata nella cultura, nello sport e persino nell’intimità. D'altra parte, tuttavia, lo sviluppo delle forze produttive scientifizzate porta fino all'assurdo la metafisica del "lavoro" liberale e marxista. Il principio positivo della sofferenza non può più essere mantenuto, in quanto il capitalismo ha cominciato a liberare gli uomini dal "lavoro".
In questo modo, non solo smentisce l’antropologia marxista, ma anche la sua stessa antropologia. In futuro, l'emancipazione sociale non potrà più fondarsi su un concetto positivo di “lavoro”. Agli uomini non resterà altro da fare che invertire il risultato del capitalismo e liberarsi dal “lavoro”. Questa fine storica della sofferenza non sarà la fine dell’attività umana nel suo scambio con la natura, ma soltanto la fine della sottomissione irriflessa. Per quanto i servi volontari vorranno preservare incondizionatamente la forma della sofferenza, il tempo del masochismo storico si è esaurito.

Robert Kurz – articolo apparso nel 1997 sul mensile brasiliano “Autores de Folha” -

fonte: EXIT!

giovedì 30 luglio 2015

Il tempo è il solo nemico!

postone

Qual è il valore del lavoro?
- di Moishe Postone -

I profondi cambiamenti storici del recente passato - il declino dello Stato-provvidenza nell'Occidente capitalista, il crollo del comunismo e dei partiti-Stato burocratici ad Est, e l'emergere apparentemente trionfante di un nuovo ordine capitalista mondiale e neoliberista - hanno restituito tutta la loro attualità ai problemi della dinamica storica e delle trasformazione mondiale nelle analisi e nei discorsi politici della sinistra.
Ma, allo stesso tempo, questi sviluppo rappresentano per la sinistra delle sfide difficili, in quanto mettono in causa tutta una serie di posizioni critiche che sono diventate predominanti negli anni settanta ed ottanta, così come le posizioni precedenti apparse dopo il 1917.
Da un lato, visto che il crollo drammatico e la dissoluzione definitiva dell'Unione Sovietica e del comunismo europeo fanno parte di tali cambiamenti, questi sono stati interpretati come la dimostrazione della fine storica del marxismo e, più in generale, della pertinenza della teoria sociale di Marx.
Ma, dall'altro lato, gli ultimi decenni hanno mostrato che la dinamica che sottende il capitalismo (dinamica intesa sia in maniera sociale e culturale che in maniera economica) continua ad esistere ad Est come ad Ovest ed hanno ugualmente mostrato come l'idea secondo la quale lo Stato potrebbe controllare tale dinamica non era valida se non, nella migliore delle ipotesi, in maniera provvisoria. Questa evoluzione mette profondamente in discussione le interpretazioni post-strutturaliste della storia e mostra inoltre che il nostro modo di comprendere le condizioni dell'autodeterminazione democratica dev'essere ripensata.
E' proprio perché le trasformazioni storiche recenti riaffermano l'importanza centrale delle problematiche della dinamica storica e dei cambiamenti strutturali su grande scale, che esse mostrano che oggi abbiamo assolutamente bisogno di una riconcettualizzazione della critica dell'economia politica di Marx. Ma, affinché una teoria critica del capitalismo possa essere adeguata al mondo contemporaneo, essa dev'essere radicalmente differente dalle tradizionali critiche marxiste.
Per "marxismo tradizionale", intendo un'analisi del capitalismo fatta essenzialmente in termini di rapporti di classe radicati nei rapporti di proprietà e mediati dal mercato, di modo che il socialismo viene visto principalmente come una società caratterizzata dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e dalla pianificazione centralizzata in un contesto industrializzato: un modo di distribuzione regolato in maniera giusta e cosciente, adeguato alla produzione industriale.
Un tale approccio non può più servire come base di una teoria critica emancipatrice.
In primo luogo, esso non ha consentito una critica storica adeguata del "socialismo realmente esistente" ed è stato impotente a pensare il crollo di questa forma sociale.
Inoltre, la natura della sua critica del capitalismo si è rivelata inadeguata. Non è più convincente la pretesa che il socialismo costituisca la risposta ai problemi del capitalismo quando ciò che si intende per socialismo non è altro che l'introduzione della pianificazione centralizzata e della proprietà di Stato.
Infine, il carattere degli ideali emancipatori del marxismo tradizionale si è sempre più allontanato dai temi e dalle cause dell'insoddisfazione sociale esistente nelle società industriali avanzate. Ciò è particolarmente vero a causa della sua attitudine positiva riguardo al lavoro industriale proletario e riguardo alla forma specifica di produzione, e del tipo di "progresso" tecnologico, che caratterizzano il capitalismo. In un'epoca in cui cresce la critica di questo "progresso" e di questa "crescita", la coscienza dei problemi ecologici, il declino, in numero ed in potenza, della classe operaia nei paesi centrali, il malcontento riguardo alle forme di lavoro esistenti, l'interesse per la libertà politica e l'importanza delle forme di identità sociale che non si fondano più principalmente sulle classi, in una simile epoca, dunque, il marxismo tradizionale si rivela sempre più anacronistico. Ad Est come ad Ovest, lo sviluppo storico del XX secolo ha dimostrato la sua insufficienza.
Per comprendere il tipo di dinamica storica che ha modificato profondamente il mondo nel corso degli ultimi vent'anni, abbiamo quindi bisogno di una teoria che riconcettualizzi il nucleo del capitalismo. E mi sembra che la teoria sociale della maturità di Marx fornisca il punto di partenza per questa teoria riconcettualizzata. Quello che tento di fare è ripensare l'analisi marxiana della natura profonda del capitalismo - le sue relazioni sociali, le sue forme di dominio e la sua dinamica storica - in una maniera che rompa con gli approcci marxisti tradizionali. Una tale reinterpretazione contribuirà a chiarire le strutture essenziali e la dinamica storica dominante dell'attuale società industriale avanzata, proponendo una critica radicale del marxismo tradizionale e redefinendo la relazione fra la teoria di Marx e le altre correnti maggiori della teoria sociale.
Al cuore di questa reinterpretazione, vi è l'idea che le categorie della critica del Marx della maturità siano storicamente specifiche alla società moderna (o capitalista). Guardare all'idea della specificità storica, implica guardare all'idea della specificità storica della stessa teoria di Marx. In un tale quadro concettuale, nessuna teoria - ivi compresa quella di Marx - ha una validità trans-storica, assoluta. (A partire dalle opere della maturità, uno dei compiti importanti della teoria è la riflessività: essa deve rendere plausibile il suo proprio punto di vista con l'aiuto delle stesse categorie che le servono per analizzare il suo contesto storico.)
Con le opere della maturità, tutte le nozioni trans-storiche - ivi compresi numerosi concetti del giovane Marx, concernenti la storia, la società ed il lavoro, espressi secondo l'idea di una logica dialettica sottesa alla storia umana - vengono storicamente relativizzate. Con queste opere, Marx cerca di scoprire i fondamenti della loro validità nelle caratteristiche specifiche della società capitalista.
Per spiegare il meccanismo che sottende questa società, Marx cerca di individuare la forma più fondamentale dei rapporti sociali che caratterizzano la società capitalista. Tale forma fondamentale, è la merce: una forma storicamente specifica dei rapporti sociali, costituita in quanto forma strutturata della pratica sociale che, allo stesso tempo, è un principio strutturante le azioni, le visioni del mondo ed i desideri degli uomini. In quanto categoria della prassi, essa è una forma sia della soggettività che dell'oggettività sociale. Sotto certi aspetti, essa occupa, nell'analisi della modernità fatta da Marx, un posto identico a quello della parentela nell'analisi antropologica di un'altra forma di società.
Ciò che caratterizza la forma-merce dei rapporti sociali così come Marx li analizza, è il fatto che essa è costituita dal lavoro, che essa esiste sotto una forma oggettivata e che essa ha un carattere duplice.
Per meglio capire questa descrizione, bisogna evidenziare la concezione marxiana della specificità storica del lavoro sotto il capitalismo.
Marx sostiene che, nel capitalismo, il lavoro ha un "carattere duplice": è sia "lavoro concreto" che "lavoro astratto". "Lavoro concreto" si riferisce al fatto che alcune forme di quello che noi consideriamo come attività lavorativa mediano le interazioni fra gli uomini e la natura in tutte le società. "Lavoro astratto" significa, secondo me, che, nel capitalismo, il lavoro ha anche una funzione sociale specifica: media una nuova forma di interdipendenza sociale.

Precisiamo: in una società in cui la merce è la categoria fondamentale strutturante la totalità, il lavoro ed i suoi prodotti non vengono socialmente distribuiti per mezzo di legami, di norme e di rapporti non mascherati di potere e di dominio tradizionale - cioè a dire di rapporti sociali palesi - come avviene nelle altre società. Al contrario, è il lavoro stesso che sostituisce questi rapporti servendo come mezzo quasi oggettivo per mezzo del quale si acquisiscono i prodotti degli altri. Emerge una nuova forma di interdipendenza dove nessuno consuma quel che produce, ma dove, tuttavia, il lavoro o il prodotto del lavoro di ciascuno è il mezzo necessario per ottenere i prodotti degli altri. Servendo così da mezzo, il lavoro ed i suoi prodotti adempiono alla funzione che era quella dei rapporti sociali palesi. Al posto di un senso definito, distribuito e dato a partire da rapporti sociali palesi, come avviene nelle altre società, il lavoro sotto il capitalismo è un senso definito, distribuito e dato a partire da delle strutture (merce, capitale) costituite dal lavoro stesso. Cioè a dire, nel capitalismo, il lavoro costituisce una forma di relazioni sociali che hanno un carattere quasi oggettivo, apparentemente non sociale, impersonale, e che ingloba, trasforma e, fino ad un certo punto, mina e rende obsoleti i legami sociali ed i rapporti tradizionali di potere.
Nell'opera del Marx della maturità, quindi, l'idea secondo cui il lavoro è al centro della vita sociale non è una proposizione trans-storica. Non è in rapporto al fatto che la produzione materiale è un prerequisito di tutta la vita sociale. Né significa che la produzione materiale sia la dimensione più essenziale della vita sociale in generale, o perfino del capitalismo in particolare. In realtà, nel capitalismo, si riferisce alla costituzione storicamente specifica per cui il lavoro è una forma di mediazione sociale che caratterizza fondamentalmente questa società. E' su questa base che Marx fonda socialmente i tratti essenziali della modernità.
Per Marx, il lavoro sotto il capitalismo non è soltanto il lavoro in senso trans-storico, abituale del termine, bensì un'attività di mediazione sociale storicamente specifica. I suoi prodotti - merce, capitale - sono quindi allo stesso tempo sia prodotti concreti del lavoro che forme oggettivate della mediazione sociale. Sulla base di quest'analisi, i rapporti sociali che caratterizzano in maniera fondamentale la società capitalistica sono molto diversi dalle relazioni sociali palesi, qualitativamente specifiche - come i rapporti di parentela o i rapporti di dominio diretti o personali - che caratterizzano le società non capitaliste. Benché tali tipi di rapporti sociali continuino ad esistere anche sotto il capitalismo, quello che alla fine struttura questa società è un nuovo livello che sottende i rapporti sociali e che si costituisce per mezzo del lavoro. Questi rapporti hanno un carattere particolare quasi oggettivo, formale, e sono duplici: si caratterizzano per l'opposizione fra una dimensione omogenea, generale, astratta, ed una dimensione materiale, particolare concreta - ciascuna di queste dimensioni appare essere "naturale", e non sociale - ed esse condizionano la concezione sociale della realtà naturale.
Il carattere astratto della mediazione sociale che sottende il capitalismo, si esprime anche attraverso la forma di ricchezza che domina in questa società. La "teoria del valore-lavoro" di Marx è stata sovente compresa in maniera erronea come teoria della ricchezza-lavoro, cioè a dire come teoria che cerca di spiegare il meccanismo del mercato, ed a provare l'esistenza dello sfruttamento, affermando che il lavoro, sempre e dappertutto, è la sola fonte sociale della ricchezza. Ma l'analisi di Marx non è un'analisi della ricchezza in generale, né del lavoro in generale. Essa analizza il valore in quanto forma storicamente specifica della ricchezza; il valore è anche una forma di mediazione sociale. Marx ha esplicitamente distinto valore e ricchezza materiale, ed ha legato queste due forme distinte di ricchezza al dualismo del lavoro sotto il capitalismo. La ricchezza materiale è determinata dalla quantità di beni prodotta, ed essa dipende da numerosi fattori, quali il sapere, l'organizzazione sociale e le condizioni naturali, oltre al lavoro. Il valore, secondo Marx, non è costituito altro che dal dispendio del tempo di lavoro umano, ed esso è la forma dominante di ricchezza sotto il capitalismo. Mentre la ricchezza materiale (quando è la forma dominante di ricchezza) viene mediata dai rapporti sociali palesi, il valore è una forma auto-mediante della ricchezza.
La teoria del valore di Marx permette un'analisi del capitale in quanto forma socialmente costituita di mediazione e di ricchezza la cui principale caratteristica è una tendenza all'espansione illimitata. Aspetto estremamente importante di questo tentativo di specificare e di fondare la dinamica della società moderna, è l'accento posto sulla temporalità. Anche qui, il valore non è affatto legato alle caratteristiche fisiche dei prodotti, così come la sua misura non è immediatamente identica alla massa dei beni prodotti ("la ricchezza materiale"). Al contrario, in quanto forma astratta d ricchezza, il valore si fonda su una misura astratta: il dispendio socialmente medio, o necessario, del tempo di lavoro.
La categoria del tempo di lavoro socialmente necessario, non è solamente descrittiva, essa esprime una norma temporale generale che è il risultato delle azioni dei produttori, ed a questa norma i produttori si devono conformare. Queste norme temporali esercitano una forma di costrizione astratta che è inerente alla forma di mediazione e di ricchezza del capitalismo. Detto in altri termini, qui, il fine della produzione si oppone ai produttori come una necessità esterna. Non è determinato dalla tradizione sociale, o dalla coercizione sociale palese, né viene deciso consciamente. Al contrario, il fine si presenta esso stesso come al di fuori del controllo umano.

La forma di mediazione costitutiva del capitalismo genera, quindi, una nuova forma, astratta, di dominio sociale: una forma che sottomette gli individui a degli imperativi e a delle costrizioni strutturali sempre più razionalizzate ed impersonali. E' il dominio del tempo sugli individui.
La forma astratta di dominio analizzata da Marx nel Capitale quindi non può essere compresa in maniera adeguata nei termini del dominio di classe o, più generalmente, nei termini del dominio concreto da parte dei gruppi sociali o degli organismi istituzionali dello Stato e/o dell'economia. Nel Capitale, Marx tenta di dimostrare che le forme di mediazione sociale espresse da categorie quali "merce" e "capitale" si sviluppano in una sorta di sistema oggettivo che determina sempre più i fini ed i mezzi dell'attività umana. Vale a dire che Marx tenta sia di analizzare il capitalismo in quanto sistema sociale quasi oggettivo, sia di fondare tale sistema sulle forme strutturate della pratica sociale. Questa forma di dominio non ha uno spazio determinato, e benché costituita attraverso forme specifiche di pratica sociale, essa non appare assolutamente come sociale.
La forma di dominio che ho cominciato a descrivere non è affatto statica: essa genera una dinamica che è intrinsecamente alla base della società moderna. Analizzando alcune conseguenze della dimensione temporale del valore, ho cercato di mostrare come il capitale, in quanto valore che si autovalorizza, sottenda una dinamica storica non lineare assai complessa. Da una parte, questa dinamica si caratterizza attraverso delle trasformazioni continue della produzione e, più in generale, della vita sociale. Dall'altra parte, intraprende la ricostituzione permanente di ciò che la fonda, in quanto caratteristica immutabile della vita sociale - vale a dire che, alla fine, la mediazione sociale viene realizzata dal lavoro e che, quindi, qualunque sia il livello della produttività, il lavoro vivente rimane integrato nel processo di produzione (considerato in funzione della società nel suo insieme). La dinamica storica del capitalismo genera incessantemente il "nuovo" mentre rigenera lo "stesso".
Un'analisi di questo tipo permette di comprendere perché il corso dello sviluppo capitalista non è stato affatto lineare, perché gli enormi aumenti di produttività generati dal capitalismo non hanno portato né a dei livelli generali di abbondanza sempre più elevati né ad una ristrutturazione fondamentale del lavoro sociale con una significativa riduzione generalizzata del tempo di lavoro. In questo quadro teorico, la storia sotto il capitalismo non è né una semplice questione di progresso (tecnico o altro) né una semplice questione di regressione o di declino. Al contrario, il capitalismo è una società in continua mutazione, ma che ricostituisce sempre l'identità che la sottende. Questa dinamica genera la possibilità di un'altra organizzazione della vita sociale, e tuttavia impedisce la realizzazione di una tale possibilità.

Questa comprensione della dinamica complessa del capitalismo permette un'analisi critica, sociale (e niente affatto tecnologica) della traiettoria di crescita e della struttura di produzione nella società moderna. Il concetto-chiave di Marx, il concetto di plusvalore, non indica soltanto, come hanno fatto le interpretazioni tradizionali, che il surplus viene prodotto dalla classe operaia: esso mostra come il capitalismo si caratterizzi attraverso una forma determinata, cieca, di "crescita" che comporta la distruzione accelerata dell'ambiente naturale! Nel quadro di questa analisi, il problema della crescita economica sotto il capitalismo non attiene solo al fatto che questa venga sopraffatta dalla crisi, come spesso hanno sottolineato gli approcci marxisti tradizionali. In realtà, è la forma stessa della crescita che è problematica. Secondo il nostro approccio, la traiettoria della crescita sarebbe differente se il fine ultimo della produzione fosse quello di aumentare la quantità di beni, e non la quantità di plusvalore. In altri termini, la traiettoria di espansione sotto il capitalismo non va confusa con la "crescita economica" in quanto tale - in realtà, si tratta di una traiettoria determinata, che genera una tensione crescente fra le preoccupazioni ecologiche e gli imperativi del valore in quanto forma di ricchezza e di mediazione sociale.
Quest'approccio, fondato sulla distinzione fra ricchezza materiale e valore, permette anche un'analisi critica della struttura del lavoro sociale e della natura della produzione sotto il capitalismo. Mostra che il processo di produzione industriale non dovrebbe essere compreso come un processo tecnico che, anche se sempre più socializzato, viene utilizzato dai capitalisti privati per i loro propri scopi. L'approccio che qui descrivo, al contrario, comprende questo processo come intrinsecamente capitalista, e fornisce l'inizio di una spiegazione strutturale di un paradosso centrale della produzione sotto il capitalismo. Da un lato, la tendenza del capitale a degli aumenti permanenti di produttività crea un apparato produttivo tecnologicamente molto sofisticato che rende la produzione di ricchezza materiale essenzialmente indipendente dal dispendio di tempo di lavoro umano diretto. Dall'altro lato, tale tendenza spalanca le porte alla possibilità della riduzione del tempo di lavoro al livello di tutta la società, e alla possibilità di trasformazioni fondamentali nella natura e nell'organizzazione sociale del lavoro.
Eppure, nel capitalismo, queste possibilità non vengono per niente realizzate. Benché ci sia sempre meno ricorso al lavoro umano, lo sviluppo di una produzione tecnologicamente sofisticata non libera affatto la maggioranza delle persone dal lavoro frammentato e ripetitivo. Analogamente, il lavoro non viene ridotto sulla scala di tutta la società, ma viene distribuito in maniera ineguale, perfino aumentandolo per molti. L'attuale struttura del lavoro e dell'organizzazione della produzione non può quindi essere compresa soltanto in termini tecnologici: lo sviluppo della produzione sotto il capitalismo dev'essere compreso anche in termini sociali. E' il prodotto, così come lo è il consumo, delle mediazioni sociali espresse attraverso le categorie della merce e del capitale.
Secondo quest'interpretazione, la teoria di Marx, quindi, non propone uno schema di sviluppo lineare che va oltre la struttura e l'organizzazione del lavoro esistente (come fanno i teorici della società post-industriale); e non fa della produzione industriale e del proletariato, le basi di una società futura (come fanno gli approcci marxisti tradizionali). Al contrario, l'analisi di Marx afferma implicitamente che la forma di produzione industriale fondata sul proletariato, in quanto forma folle di crescita economia, sia modellata dalla forma merce, e mostra che le forme sia di produzione che di crescita sarebbero diverse in una società in cui la ricchezza materiale rimpiazzerebbe il valore come forma dominante di ricchezza. Il capitalismo stesso crea la possibilità di una simile società e di una strutturazione differente del lavoro, di una forma differente di crescita e di una forma differente di interdipendenza globale complessa - ma, allo stesso tempo, il capitalismo mina strutturalmente la realizzazione delle sue possibilità.
Per inciso, notiamo che, basando il carattere contraddittorio della formazione sociale sulle forme duali espresse dalle categorie della merce e del capitale, questa lettura di Marx suggerisce che la contraddizione sociale strutturalmente fondata sia specifica del capitalismo. Alla luce di quest'analisi, l'idea che la realtà ed i rapporti sociali in generale sarebbero essenzialmente contraddittori e dialettici appare come un'idea che forse può essere compresa metafisicamente, ma che non si spiega affatto. L'analisi di Marx rende implicitamente superflue le concezioni evoluzionistiche della storia, in quanto mostra come tutte le teorie che propongono una logica, in quanto tale, di sviluppo intrinseco alla storia (che tale logica sia dialettica o evoluzionistica) proiettano sulla storia in generale ciò che concerne soltanto il capitalismo.

Secondo l'interpretazione che ho delineato, la teoria di Marx va ben oltre la critica tradizionale dei rapporti borghesi di distribuzione (il mercato e la proprietà privata); non è una semplice critica dello sfruttamento e della distribuzione ineguale della ricchezza e del potere. Al contrario, essa cattura la società industriale moderna stessa in quanto capitalista, ed analizza in maniera critica il capitalismo soprattutto in termini di strutture astratte di dominio, di crescente frammentazione del lavoro individuale e dell'esistenza individuale, e di una logica di cieco sviluppo. Fa della classe operaia l'elemento di base del capitalismo, e non l'incarnazione della sua negazione, e concettualizza implicitamente il socialismo, non in termini di realizzazione del lavoro e della produzione industriale, ma in termini di possibilità di abolizione del proletariato e dell'organizzazione della produzione fondata sul lavoro proletario, così come nei termini della possibilità di abolizione del sistema dinamico di costrizioni astratte che costituiscono il lavoro in quanto attività di mediazione sociale.
Questa reinterpretazione di Marx, implica quindi il ripensare radicalmente la natura del capitalismo e la sua possibile trasformazione storica. Allontanando il fuoco della critica da una relazione esclusiva con il mercato e con la proprietà privata, essa permette una teoria critica di una società post-liberale in quanto capitalista, e permette anche una teoria critica dei paesi cosiddetti del "socialismo realmente esistente" in quanto forme alternative (e già fallite) di accumulazione del capitale, e non in quanto modi sociali che rappresentavano la negazione storica del capitale, seppure in forma imperfetta.
Anche se il livello d'analisi di grande astrazione logica qui delineato non affronta la questione dei fattori specifici alla base delle trasformazioni strutturali degli ultimi vent'anni, esso fornisce un quadro, all'interno del quale queste trasformazioni possono essere socialmente basate e storicamente comprese. Permette una comprensione della dinamica di sviluppo non lineare della società moderna, che potrebbe includere numerose importanti intuizioni della teoria post-industriale, evidenziando i limiti inerenti a tale dinamica e, di conseguenza, il divario fra l'organizzazione attuale della vita sociale ed il modo in cui essa potrebbe essere organizzata - in particolare, in considerazione dell'importanza crescente della scienza e della tecnologia.
Quest'approccio riconcettualizza la società post-capitalistica in termini di superamento del proletariato e del lavoro che il proletariato svolge - cioè a dire, in termini di trasformazione della stuttura generale del lavoro e del tempo. In tal senso, essa differisce dall'idea marxista tradizionale della realizzazione del proletariato e differisce anche dal modo capitalista di "abolizione" delle classi operaie nazionali attraverso la creazione di una sotto-classe nel quadro della distribuzione ineguale del lavoro e del tempo, nazionalmente e globalmente.
Nella misura in cui cerca di fondare socialmente - pur criticandoli - i rapporti sociali oggettivi, astratti, la natura della produzione, il lavoro e gli imperativi di crescita sotto il capitalismo, questa interpretazione permette anche di affrontare una serie di questioni, di insoddisfazioni e di aspirazioni attuali, in modo da fornire un punto di partenza fecondo per l'esame dei nuovi movimenti sociali degli ultimi decenni e dei tipi di visione del mondo storicamente costituiti che essi incarnano ed esprimono.
Infine, quest'approccio ha anche una ripercussione sulla questione delle condizioni sociali della democrazia, nella misura in cui non analizza soltanto le ineguaglianze del potere sociale reale che sono sfavorevoli alla politica democratica, ma rivela anche come socialmente costituite - e quindi come oggetti legittimi di discussione politica - le costrizioni sistemiche imposte dalla dinamica del capitale all'auto-determinazione democratica.
Le rotture ed i cambiamenti strutturali del recente passato, mostrano come la sola maniera adeguata di andare oltre il marxismo tradizionale, sia quella di formulare una migliore teoria critica del capitalismo; e mostrano anche come le teorie della democrazia, dell'identità, o le filosofie del non-identico che non tengono in alcun conto la dinamica della globalizzazione capitalista, abbiano cessato di essere adeguate. Senza un'analisi del capitalismo, in grado di affrontare una crisi strutturale che incide sulla vita della più parte degli abitanti del pianeta, seppure con delle differenze, senza tale analisi la sinistra avrà completamente abbandonato alla destra il campo politico.

- Moishe Postone - Conferenza tenuta a Berlino il 18 luglio del 2000 -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

mercoledì 29 luglio 2015

Lavoratori di tutto il mondo, riposatevi!

Brasile

La critica del valore in Brasile
- Intervista di Clément Homs e Vincent Roulet a Robson de Oliveira, marzo-aprile 2015 -

In Francia, abbiamo cominciato a conosce la critica del valore soprattutto a partire dalla metà degli anni 2000 e, a parte la summa che ne ha fatto Anselm Jappe in "Les Aventures de la marchandise" e la traduzione di gran parte dell'opera di Moishe Postone, la situazione della ricezione della WertKritik in Francia è ancora ai suoi inizi, soprattutto perché non è ancora stata tradotta alcuna opera maggiore di Robert Kurz. E' stato solo nel 2015 che abbiamo potuto leggere la traduzione di "Der Kollaps der Modernisierung" di Kurz, che è stato scritto nel 1992... Se guardiamo al Brasile ed al Portogallo, c'è da essere invidiosi per la situazione della ricezione di questa critica, che appare essere molto più avanzata! E' straordinario il numero di traduzioni che vi appare. Com'è avvenuta questa ricezione, nel mondo lusofono, a partire dagli anni 90 e, a tuo avviso, quali sono le ragioni di questo interesse?

Robson de Oliveira: La critica del valore arriva in Brasile nel momento in cui il paese vive la turbolenza degli anni successivi alla dittatura militare. Negli anni 90, risuona ancora quello che viene chiamato "il decennio perduto". Alla turbolenza brasiliana degli inizi degli anni 90, si aggiunge la caduta del socialismo dell'Est. Ho come l'impressione che, in seno alla sinistra ed agli intellettuali di sinistra, abbia chiamato alla riflessione - che non significa necessariamente una riflessione radicale. Con questo non voglio dire semplicemente che la critica radicale del valore debba il suo inizio in Brasile ad un tale contesto, ma sappiamo che in diversi luoghi, come San Paolo e Fortaleza, c'erano delle persone che si ponevano delle domande. In ogni caso, "Der Kollaps" è stato tradotto in Brasile un anno dopo la sua pubblicazione in Germania, e ci sono state numerose riedizioni. A mio avviso, chi ha servito da innesco per introdurre Kurz in Brasile, è stato Robert Schwarz, un intellettuale molto rispettato sia in seno alla sinistra che nel mondo accademico. E' stato lui a pubblicare un articolo su Folha de São Paulo (è in questo giornale che Kurz scriverà dei lunghi articoli a metà degli anni 2000), in cui faceva l'elogio del libro che era stato pubblicato in Germania. Quest'articolo è poi diventato in qualche modo la prefazione alla traduzione brasiliana. Questo non vuol dire affatto che l'elogio da parte di Schwarz sia stato sufficiente a fornire le credenziali a Kurz. Le polemiche sollevato dal libro non potevano lasciare indifferente la sinistra intellettuale, e Kurz è stato oggetto di molti dibattiti universitari ed è stato anche bersaglio di molti attacchi. In ogni caso, il libro è stato letto, e i docenti, anche quelli che lo criticavano, hanno diffuso il libro. Direi che in un certo modo Kurz è penetrato rapidamente nei circoli universitari - nei movimenti sociali, non sempre è il benvenuto. Simultaneamente agli sforzi di Schwarz - che ancora non si richiamavano alla critica del valore - bisogna sottolineare anche gli sforzi di Dieter Heidemann in seno al Laboratorio di Geografia Urbana dell'Università di San Paolo, che ha giocato un ruolo fondamentale nella traduzione, nella diffusione e nella discussione dell'opera di Kurz, così come, più tardi, quello delle persone che hanno costituito un gruppo a Rio de Janeiro, denominato Antivalor. Bisogna sottolineare anche il ruolo maggiore giocato oggi dalle persone che ruotano intorno al sito Obeco, portoghese, che traducono e diffondo molti testi online. In un quadro non accademico, il gruppo Critica Radical di Fortaleza ha giocato un ruolo altrettanto importante nella riflessione e nella diffusione della critica del lavoro in quella regione. Oggi, le discussioni intorno alla critica del valore si svolgono ovunque. Forse l'interesse accademico è minore, ma, oltre ai gruppi storici (come a San Paolo, a Rio e a Fortaleza), ne sorgono altri. Credo che oggi, ad aver letto Kurz, ci sia più di una generazione. C'è chi sostiene che sia stata solo una moda passeggera, ci sono quelli che mescolano gli approcci della critica del valore ai resti del marxismo tradizionale, soprattutto per quel che concerne la lotta di classe, e c'è anche chi vuol fare una critica del valore adattata al contesto brasiliano. Ma ci sono anche quelli, soprattutto dopo il breve sviluppo del Brasile in questi ultimi anni, che vogliono mettere in discussione la teoria della crisi sviluppata da Kurz a partire dal Marx esoterico. In realtà, oggi Kurz rimane un autore essenziale nel dibattito di sinistra - anche se non è sempre ben compreso. Lo sviluppo degli ultimi dieci anni in Brasile, sostenuto dal boom delle materie prime, ha comportato l'arrivo delle relazioni di mercato ovunque prima erano poco sviluppate, oppure mescolate ad altre relazioni non di mercato. Va sottolineato che il dualismo civiltà e barbarie non è più applicabile al contesto dei paesi del Terzo Mondo, soprattutto al Brasile. Sviluppo della civiltà significa barbarie - è questo il contesto brasiliano attuale. E le tesi della Critica del valore hanno molto da dire sulla dialettica fra lo sforzo di sviluppo sostenuto dal capitale fittizio - insieme al pompaggio delle materie prime e alla trasformazione rapida ed atroce dell'agricoltura in agroindustria - e la barbarie che significa allo stesso tempo la continuazione della forma sociale della merce.

Se non sbaglio, anche tu sei originario di Fortaleza, ed avrai costeggiato le attività del gruppo Critica Radicale che si basa, da molti anni, sulle analisi, soprattutto, di R. Kurz. Qaul è l'origine di questo gruppo e per mezzo di quali attività e di quali lotte si organizzano i nostri compagni brasiliani?

Robson de Oliveira: Il gruppo Critica Radical è nato dai movimenti sociali in seguito alla lotta contro la dittatura. All'inizio, si trattava di persone che partecipavano alla lotta contro la dittatura provenendo dai partiti politici. Penso che qui la cosa più importante sia raccontare l'inizio della rottura con il marxismo tradizionale. Il gruppo è sempre stato molto attivo nei movimenti sociali operai - ad un certo momento, aveva anche il controllo di importanti sindacati - ma anche nei movimenti degli insegnanti, dei senzatetto e delle persone nella provincia, affamate in seguito alla siccità. Non bisogna dimenticare le azioni in seno all'Unione delle donne - tema tabù per la sinistra dell'epoca, per la quale non esisteva una questione femminile, ma soltanto una questione operaia. Il gruppo ha partecipato a qualche dozzina di occupazioni di terreni urbani, cosa che faceva arrabbiare i proprietari che aspettavano l'aumento dei prezzi. In queste occupazioni, il gruppo ha cercato, oltre a tentare di organizzare le persone per la rivoluzione, di creare degli spazi propizi alla discussione intorno alle forme di auto-organizzazione e di solidarietà, per poter andare oltre la lotta limitata per un alloggio individuale. Ma non è stato per niente facile. Appena le persone si sistemavano, la discussione perdeva il loro entusiasmo e la vita mercificata riprendeva il predominio sulle altre preoccupazioni. Ma la vittoria proveniva dalla lotta, quindi bisognava sperare. Un modo di sperare è stato quello di presentarsi alle elezioni. E' stato così che il gruppo (che partecipava ai partiti, ma che si organizzava anche in partiti clandestini) ha ottenuto dei deputati, dei consiglieri municipali, fino a conquistare, nel 1985, il comune, in un'elezione che ha visto un'enorme partecipazione popolare, e in cui la prima donna di sinistra è stata eletta a capo dell'amministrazione di un capoluogo di provincia. A quel tempo, il gruppo era iscritto al Partito dei Lavoratori  ed era organizzato dentro un altro partito, però clandestino. Il Partito dei Lavoratori voleva, già all'epoca, gestire la citta in maniera moderata per dare prova di responsabilità e vincere così le elezioni presidenziali. Ma il gruppo, al contrario, voleva approfittare della situazione di grande mobilitazione e fare una gestione radicalmente popolare. Questa visione delle cose venne ferocemente attaccata dai media, dalla destra, dai ricchi, dagli imprenditori che volevano dei vantaggi, ed anche dagli altri partiti di sinistra. Come si poteva immaginare che l'amministrazione realizzasse una campagna in cui raccontava la storia delle persone che si rivoltavano contro il servizio cittadino dei trasporti in rovina, affollato, sempre in ritardo e molto caro? Era qualcosa di inimmaginabile. La destra, i media e le imprese private che controllavano i trasporti ci vedevano un'incitazione alla rivolta. Come poteva lo Stato incitare alla rivolta? L'esperienza amministrativa fu traumatica a causa dei conflitti con i padroni e con il Partito dei Lavoratori, che alla fine espulse tutto il gruppo, ma anche a causa della presa di coscienza rispetto alla pratica di quel che significava la politica. Anche mentre era in municipio, il gruppo continuava a fare delle occupazioni di terreni ed a partecipare ai sindacati, soprattutto a quelli del settore metallurgico. E' a partire dai dubbi, sopraggiunti a fronte dell'impossibilità di creare un governo popolare che gestisse il capitalismo, dopo la caduta del muro di Berlino e dopo l'esperienza sindacale che il gruppo cominciò una svolta. A quel tempo, era la fine degli anni 80, l'industria metallurgica nella nostra città aveva dovuto adattarsi agli standard di produttività mondiale per poter esportare. La conseguenza diretta: il licenziamento. L'arrivo della tecnologia aveva estromesso dalle imprese un numero considerevole di operai. Quelli che restavano divennero più reticenti a scioperare. Tutto questo contesto, alla fine aveva portato a scuotere le certezze del gruppo. La strada scelta per cercare di comprendere quel contesto storico della fine della dittatura per mezzo della conciliazione, della disillusione nei confronti della politica, della disillusione nei confronti del socialismo e dei cambiamenti nel processo di produzione che economizzavano il lavoro in quei settori in cui il gruppo aveva una presenza sindacale, la strada è stata quella di tornare ai testi di Marx. In questa rilettura, è stato il testo di Grundrisse a colpire in particolare uno dei pilastri del gruppo, Jorge Paiva. A quel tempo, quel libro era praticamente sconosciuto in Brasile (la traduzione brasiliana uscirà solo nel 2011), soprattutto in una città provinciale come la nostra. C'erano perfino dei vecchi comunisti che dicevano che quel libro non esistesse affatto, che era un'invenzione del gruppo per far passare delle idee come se fossero le idee di Marx. E' stato proprio il frammento sulle macchine a catturare l'attenzione. L'idea di una contraddizione interna al capitale, la comprensione quindi di una crisi in seno alla forma di produzione della ricchezza capitalista, il valore, via via e nella misura in cui il lavoro morto si sostituisce al lavoro vivente, e la comprensione di questa sostituzione come ultimo atto della società delle merci ha scosso le certezze del gruppo, che ha dovuto abbandonare la sua interpretazione di Marx, abbandonare il marxismo quindi. Come interpretare il fatto che invece di una rivoluzione imminente portata avanti dalla classe operaia, è il capitalismo stesso che, per la sua logica interna, entra in crisi? Questo non era ovvio. C'è voluto qualche anno per digerire questa scoperta. Ma la pubblicazione de "Il crollo della modernizzazione" ha accelerato le cose. La lettura di quel libro fu difficile, i concetti apportati da Kurz erano abbastanza estranei alla cultura marxista. A titolo di aneddoto, in una riunione di studio del libro, era stata prevista la presentazione degli argomenti avanzati dall'autore, ma il gruppo responsabile della presentazione si rifiutò di presentare quelle idee considerate come esplosive nei confronti della comprensione del capitalismo che aveva il gruppo. Dopo questo libro di Kurz, è venuto il periodo in cui i testi di Kurz venivano pubblicati nel giornale Folha de São Paulo, degli articoli assai densi e molto teorici. Gli anni 90 sono stati gli anni della maturazione di quest'idea. Il gruppo ha stabilito dei contatti con persone del Labur de São Paulo e, nel 1999, si è fatta la presentazione del "Manifesto contro il lavoro". Dopo, abbiamo invitato Anselm Jappe a venire a presentare il suo "Guy Debord" e, nel 2000, si è organizzato un seminario internazionale dal titolo "La teoria critica radicale, il superamento del capitalismo e l'emancipazione umana", cui hanno partecipato Kurz, Jappe, Postone, Heidemann, Trenkle e Lohoff. E più di duemila fra curiosi ed interessati. Da allora, il gruppo ha conosciuto più rotture. L'uscita dalla politica è avvenuta nel 1998, e dopo il 2000 non siamo stati più dentro alcun sindacato. Tutte queste rotture hanno comportato anche un diminuzione considerevole del numero di partecipanti. Molti non hanno accettato l'uscita dalla politica o dai sindacati. All'inizio degli anni 2000 c'è stato un momento di radicalizzazione teorica e la revoca di una prassi diretta. Da allora, si è investito sulle discussioni teoriche insieme alle persone dei sindacati, delle comunità create sui terreni che avevamo aiutato ad occupare, nelle università, ecc.. Abbiamo fatto delle presentazioni di libri, dei seminari, dei dibattiti in luoghi pubblici. Ultimamente, è "Denaro senza valore, ad essere oggetto delle nostre discussioni. La domanda in qualche modo è la seguente: che fare di questa teoria che apparentemente non ha niente a che vedere con la prassi sociale immediata? Il nostro sforzo è volto a far sì che questa teoria critica dica la sua parola su dei problemi della società, che essa partecipi, nella misura del possibile, al dibattito, senza mai perdere la sua radicalità. Non possiamo immaginare che le persone non possano capire, che sia troppo complicato e che abbiano solo bisogno di vitto e alloggio. Bisogna che la critica del valore crei una tensione con questa società. E' per questo che si cerca sempre più di discutere con i movimenti sociali, senza voler fare opera di mediazione movimentista. Si cerca di contribuire ad un cambiamento della base teorica dei movimenti sociali, che rimane sempre marxista tradizionale, sempre dentro il solo quadro della lotta di classe. Si partecipa agli scioperi, quando c'è uno spazio possibile di discussione, si partecipa a dei movimenti ecologisti, anche, si anima allo stesso tempo un movimento di sciopero degli elettori. Quando si partecipa ai movimenti, si fa di tutto affinché la nostra posizione sia chiara per quel che concerne la critica del capitalismo. In ogni caso, è diventato pressoché impossibile sentire oggi, nei movimenti, una parola d'ordine contro il capitalismo. O è contro la finanza, o è semplicemente contro i ricchi, oppure contro una "élite". Al momento, siamo anche impegnati in un progetto di fattoria comunitaria. Il fine, è quello di produrre delle cose insieme e di distribuire le cose prodotte insieme. L'idea, è che questa fattoria contribuisca in pratica ad una riflessione sulle relazioni di mercato, senza che sia un esempio di come superare il capitalismo. L'idea, è che un movimento che sostiene la rottura ontologica con la forma sociale di merce possa anche avere uno spazio per condividere altro che non sia la discussione teorica. Quindi, diversamente dalle fattorie già esistenti nel mondo, si vuole che si guardi all'orizzonte della critica radicale, invece di voler vivere in maniera più sana nel quadro di una società malata.

Tu hai citato "l'idea di una contraddizione interna al capitale, la comprensione del capitale in quanto contraddizione permanente in processo", come se fosse una novità introdotta dalla scoperta dei Grundrisse. Ora, questa è un'idea che si trova già nel cuore del Capitale. Quindi non è stata affatto una novità in sé. Non si è trattato allora di un modo un po' differente di capire questa contraddizione? Nel contesto francese della fine degli anni 70, i Grundrisse - e soprattutto il suo "Frammento sulle macchine" - sono stati molto in voga, dal momento che sembravano fornire una base più positiva all'attività politica. In un'epoca in cui la lotta di classe perde il suo lustro, sembra possibile giocare sulla contraddizione interna al capitale, invertendo in qualche modo il polo della "ricchezza materiale". Questo approccio, inaugurato in Italia dopo la più forte contestazione del lavoro che si sia mai conosciuta, in seguito si è evoluta, soprattutto sotto l'influenza dei vecchi operaisti come Negri, verso l'affermazione di un polo radicale che sembrava stare dentro il rapporto sociale capitalista, quello del General Intellect. Questo investimento che evolverà verso una posizione quasi pro-capitalista ha conosciuto degli equivalenti in Brasile negli anni 90 e successivi? E questo orientamento non incontra qualche risonanza con certi dibattiti e scelte di attività pratiche in seno al gruppo di cui parli?

Robson de Oliveira: Va detto che in Brasile non c'è stata una vera e propria discussione intorno ai Grundrisse e al suo famoso Frammento. Il testo è stato considerato un abbozzo interessante, ma un abbozzo. Ho l'impressione che - ma ho potuto seguire il dibattito soltanto a partire dagli anni 2000 - l'interesse per i Grundrisse non sia mai stato sistematico. Si possono trovare degli articoli persi in mezzo ad un mucchio di altri temi ritenuti più urgenti, dei riferimenti in qualche libro, dopo gli anni 1990. La traduzione brasiliano/portoghese è uscita solo nel 2011, cosa che dimostra l'importanza attribuita al testo. Non sono uno specialista e non posso dire di aver letto tutte le riviste dei gruppi della sinistra dell'epoca, ma se si dà un rapido sguardo su qualcuna, la tematica dei Grundrisse non sempre appare, e quando appare vi si trova il tema dell'emancipazione basata sulle forze produttive liberate dal giogo del capitale, l'apologia del General Intellect, ma anche la messa in guardia contro l'idea che il capitalismo operi per la sua propria distruzione, che esso possa collassare senza la lotta operaia. Anche quando ci si appassiona in relazione allo "sviluppo delle individualità" grazie allo sviluppo delle macchine, ciò normalmente avviene in rapporto alla lotta di classe. Non ho affatto l'impressione che quest'aspetto abbia giocato un ruolo nel cambiamento dell'approccio svolto dalla pratica politica. La sinistra tradizionale non ha mai ammesso il declino della lotta di classe, dal momento che per essa la lotta di classe è un conflitto che la storia ha sempre conosciuto. Inoltre, il contesto brasiliano rimane un contesto di lotta, è la fine della dittatura, ed il ritorno dei partiti nella democrazia che nasceva era un segno della fede nell'azione popolare - le preoccupazioni teoriche di fondo rimanevano secondarie. E l'azione politica portata avanti dal gruppo di Fortaleza è stata anche un segno di questa fede nel movimento - malgrado i sospetti riguardo alla democrazia di mercato. Penso che il merito del gruppo di Fortaleza, se ne ha uno, sia stato quello di leggere, a partire dall'inizio degli anni 1990, i Grundrisse, soprattutto il celebre Frammento sulle macchine, come una riflessione sulla contraddizione interna al capitale, sul suo limite interno. Se si guarda un po' alle tematiche affrontate in certe riviste brasiliane di sinistra dell'epoca, si può notare come i soggetti prediletti siano piuttosto l'imperialismo, il dominio della classe borghese, il significato storico della rivoluzione d'ottobre, il sindacalismo, ecc.. Anche le tesi operaiste sono state oggetto di critica da parte dei marxisti brasiliani, ma sempre dal punto di vista di una critica marxista. Ciò che spaventa i marxisti, è la possibilità che venga messo in discussione il lavoro. Secondo un marxista tradizionale piuttosto famoso in Brasile, Ricardo Antunes - feroce difensore dell'ontologia del lavoro -, la cosa più importante nei Grundrisse è che Marx abbia previsto la possibilità di emancipazione attraverso le macchine, dal momento che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe potuto rendere il lavoro[!] meno penoso, meno faticoso e sempre più libero, autonomo. Quel che esprime la sua idea, più che il romanticismo del lavoro autonomo grazie alle macchine, è il desiderio inespresso di fondare la società sulle basi dello sviluppo capitalista, soltanto liberata dalla sua gestione irrazionale. Vediamo come l'ontologia del lavoro divenga molto velocemente ontologia del valore, quando dice, in un'intervista a proposito dei Grundrisse, quando vengono pubblicati in Brasile, che la scienza e la tecnica non pregiudicano la produzione di valore da parte del lavoro. Un altro celebre marxista, Ruy Fausto, in un'analisi dei Grundrisse datata 1989 - la differenza fra le analisi è sempre sorprendente -, ha il merito di riflettere sulla crisi del limite interno, ma sempre dal punto di vista dell'ideologia marxista. Il punto di partenza del suo articolo è la crisi, cosa abbastanza notevole per quel periodo, ma egli non sfugge ad una visione politica della crisi che analizza. Per lui - senza voler ridurre il suo articolo soltanto a questo aspetto - i Grundrisse annunciano l'emergere di un uomo che non è più un semplice sorvegliante del processo di produzione, ma ne è il padrone. Per lui, è la fine della sottomissione del lavoro [!] al capitale. Non a caso considera la ricchezza concreta come prodotto del lavoro concreto, e la ricchezza astratta come prodotto del lavoro astratto. Per quel che riguarda lo sviluppo dell'auto-contraddizione, è vero che la si può cogliere nel Capitale, e non si può sostenere che siano soltanto i Grundrisse a contenere l'analisi della crisi del limite interno. Evidentemente, piuttosto ho voluto sottolineare i Grundrisse per dire come si sia cominciato a scoprire la critica del valore in un processo che ha richiesto del tempo. Kurz, per esempio, diceva che per lui non c'era in testo di partenza, ma che era piuttosto l'insieme. Ma per il gruppo di Fortaleza, i Grundrisse sono il punto di partenza. E' a partire da questo testo che si è riletto il Capitale da un punto di vista diverso e si è potuto osservare come lo sviluppo della contraddizione fosse già dentro il Capitale, sebbene in maniera differente. Quindi, in effetti, è un modo diverso di apprendere le cose. Ma non si deve immaginare che i Grundrisse siano stati una rivelazione. Per molti anni, la nostra critica del valore è rimasta mescolata a dei resti di marxismo tradizionale e, come ho detto riguardo alla domanda precedente, sono stati necessari anni di maturazione, e lo sono ancora. Perché i Grundrisse sono stati la porta d'ingresso? Forse perché la ricerca ha avuto inizio a partire dai testi sconosciuti o misconosciuti, fra cui i Grundrisse. Ma potrebbe anch'essere, ed io scommetto su questa possibilità, per il fatto che il Frammento di Mar è stato molto più chiaro sul potere della contraddizione di far saltare il modo di produzione capitalista. Come ha detto Kurz, in Denaro senza Valore, il Marx del Capitale è meno incisivo, il limite interno (terminale) appare in maniera più irregolare di come appare nel Frammento. Forse ci sono nel nostro gruppo delle persone per le quali il ruolo delle forze produttive, un soggetto assai problematico anche nei Grundrisse, non è un soggetto criticamente superato. Ma questo lato, diciamo, politico dei Grundrisse non viene considerato come una base per una prassi sociale. Bisogna anche dire che il punto comune, quest'idea per cui la logica interna del capitale mina la sua propria esistenza, è l'analisi impressionante e diretta di quest'implosione capitalista contenuta nei Grundrisse. Ed è ugualmente interessante constatare che gli intellettuali brasiliani in generale non hanno assunto i Grundrisse secondo questo prisma della crisi del limite interno assoluto. Apparentemente, credevano molto di più, e credono ancora, alle controtendenze come compensazione. Si può immaginare che parlare del limite interno, di auto-decomposizione della forma sociale capitalista, potrebbe smobilitare i movimenti dei lavoratori destinati a farla finita col capitalismo cos' compreso come eterno e che può perire soltanto se un attacco dall'esterno arriva a demolirlo. Molti critici, fra cui alcuni marxisti tradizionali brasiliani, hanno cercato, in rapporto al concetto di crisi della critica del valore, di rimproverarle l'abbandono dell'idea di rivoluzione a vantaggio di una concezione della crisi volta a smobilitare la classe operaia. Quello che più infastidisce nella critica del valore - e questo salta agli occhi per quanto riguarda molti intellettuali brasiliani - è la mancanza del soggetto rivoluzionario, è il fatto che la critica del valore sottolinea degli aspetti che non hanno sbocchi pratici immediati, secondo gli intellettuali movimentisti. Vedono una pratica possibile soltanto nella lotta per la spartizione della ricchezza delle merci, soltanto nella lotta per appropriarsi della ricchezza della classe dei capitalisti. Per loro, è la pratica la vera teoria - a volte, non importa quale pratica sia - è la pratica a dare il sigillo di autenticità ad ogni teoria. La critica radicale del valore, col suo concetto di crisi e la sua critica della forma soggetto, smobilita, secondo i movimentisti.

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

martedì 28 luglio 2015

Inutili

jappe

Critica del valore e società globale
- Intervista con Anselm Jappe -
( L'intervista è apparsa nel 2015 sul sito "Philosophie, Science et Societe")

PJ: Anselm Jappe, lei è un filosofo e si è interessato alla questione economica, politica e sociale. Ho letto con interesse il suo ultimo libro, del 2011, "Crédit à mort", edito in francese per le Nouvelles Éditions Lignes. Mi piacerebbe farle delle domande sul suo lavoro riguardo la critica del valore, sviluppatasi negli ultimi vent'anni. Quello che proponete è una nuova lettura dell'opera di Marx che permetta una critica dell'economia politica assai diversa rispetto a quella del passato. Una tale riflessione propone un approccio teorico che riserva un'attenzione particolare al carattere feticista della produzione di merci, così come agli effetti sociali del lavoro astratto.

Anselm Jappe: La critica del valore è stata elaborata a partire dalla fine degli anni 80 dalle riviste tedesche Krisis ed Exit!, e dall'autore principale di queste riviste, Robert Kurz. Essa si inscrive nel pensiero di Karl Marx, ma rompe con quasi tutto quello che è conosciuto come "marxismo", e perfino col "marxismo critico". Riprende, piuttosto, le categorie centrali della critica dell'economia politica di Marx: il lavoro astratto, la merce, il valore, il denaro ed il feticismo della merce. Per Marx, queste categorie non sono né "neutre" né "sovra-storiche", ma costituiscono il carattere specifico della società capitalistica. Spiegandone così il carattere distruttivo. E' soprattutto il concetto di lavoro astratto a rivelarsi centrale per comprendere la crisi attuale della società delle merci: nel lavoro astratto - le cui origini si situano pressappoco alla fine del Medioevo - l'attività umana non viene presa in considerazione per le sue qualità reali e per il suo contenuto, ma solamente in quanto dispendio indifferenziato di energia, misurato dal tempo. Questo implica un'inversione fra l'astratto ed il concreto: ciascuna attività, ciascun prodotto conta solamente in quanto quantità determinata di un lavoro senza contenuto - il suo lato astratto. Il lato "concreto" - ciò che interessa realmente gli esseri umani - non ha alcun diritto all'esistenza se non in quanto "portatore" dell'astratto. Questo lo vediamo a partire dal fatto che il prezzo in denaro decide del destino di ogni oggetto, di ogni attività: tuttavia, ciò non è affatto dovuto alla "avidità" di una classe sociale, particolare, ma è un fatto strutturale. Il marxismo tradizionale, al contrario, ha sempre accettato, quanto meno implicitamente, l'esistenza del lavoro, della merce, del denaro e del valore e si è battuto essenzialmente per la loro distribuzione più "giusta", non per la loro abolizione. La "lotta di classe", sebbene reale, non è andata oltre l'orizzonte formato dalle categorie di base del capitalismo.

PJ: L'esclusione di una parte della popolazione, da parte del sistema capitalista, così come si sviluppa, appare ormai evidente, con il perdurate della disoccupazione di massa, con l'aumento del lavoro precario e con una parte della popolazione che è marginalizzata o in prigione, come negli Stati Uniti dove questo fenomeno investe un gran numero di persone. Quest'esclusione non produce solamente un disagio materiale, ma anche un disagio psicologico: perdita della stima di sé e senso di inutilità dovuta al fatto di essere escluso dalla comunità.

Anselm Jappe: Si tratta di una situazione storica assolutamente inedita. Lo sfruttamento ed il dominio dell'uomo sull'uomo hanno una lunga storia. Ma lo sfruttatore ed il dominante avevano bisogno dello sfruttato e del dominato, e questi occupavano un posto nella struttura sociale, per quanto misero fosse tale posto. Potevano organizzare una resistenza a partire dalla loro situazione comune. Da qualche decennio a questa parte, masse sempre più grandi di persone vengono espulse dal mondo del lacoro, senza alcuna possibilità di reintegrazione. Sono "inutili", "in sovrannumero" dal punto di vista dell'accumulazione del capitale. Allo stesso tempo, il lavoro continua ad essere il principio della "sintesi sociale", e ciascuno "vale" la quantità di lavoro che rappresenta (o che non rappresenta). Gli esclusi - che ben presto finiranno per essere la stragrande maggioranza della popolazione mondiale - non hanno soltanto grandi difficoltà ad assicurarsi la sopravvivenza materiale. Soffrono anche perché non hanno più alcun posto in un mondo che li esorta implicitamente ad uscire di scena, dato che non ha più bisogno di loro. Spesso li tratta come parassiti o come criminali, soprattutto quando vengono obbligati a cambiare paese o quando sono discendenti di persone che sono state obbligate. Tutti sanno  confusamente che saranno "superflui" a medio termine, anche quelli che hanno ancora un lavoro. Questa minaccia permanente crea la sorda rabbia populista che, attualmente, si sta diffondendo dappertutto. "Essere superflui" viene visto praticamente come un destino individuale, come una mancanza di adattamento ad un'evoluzione vista come inevitabile. Ciò rende assai difficile adottare delle strategie collettive e favorisce piuttosto la ricerca di capri espiatori. Ma la risposta non potrà consistere in una "integrazione" degli esclusi: il sistema capitalista è in forte declino ed ha esaurito le sue possibilità di integrazione. Inoltre, non è affatto desiderabile venire integrati. Ancor meno si tratta di un problema di ordine puramente psicosociale o simbolico che possa essere risolto riscoprendo dei "valori". La questione (che rimane aperta) è piuttosto quella di sapere  se quest'epoca di convulsioni sfocerà in una società profondamente differente dove il lavoro (il lavoro astratto) non costituirà più il legame sociale e dove sarà possibile una forma di concertazione sociale meno feticista.

PJ: Vorrei criticare un punto fondamentale della teoria critica del valore. Essa ammette che il valore è dato dalla quantità di lavoro, valore che dipende dalla media del livello di produttività della società. Ora, il costo di produzione dipende anche dal capitale costante (investimenti). Inoltre l'offerta e la domanda fanno variare il valore al di sotto o al di sopra del costo di produzione. Esistono numerosi esempi in cui il valore di un bene non ha alcun rapporto con la quantità di lavoro richiesto per produrlo.

Anselm Jappe: Il capitale costante - come ha dimostrato Marx - non fa altro che trasmettere il valore che è stato speso per la sua stessa produzione. Le macchine non creano alcun valore, non aggiungono affatto del nuovo valore. Solo la forza lavoro umana ha un tale potere (non per una sua qualità naturale, ma in quanto proiezione feticista implicitamente accettata dai membri della società delle merci). Questo fatto viene oscurato dall'esistenza del prezzo: pur avendo la sua base sul valore, il prezzo, sottomesso all'offerta ed alla domanda, se ne può differenziare. Non si può determinare il valore di una merce particolare, ed ancor meno misurarla empiricamente. La coincidenza fra valore e prezzo non esiste che a livello di massa globale di valore. Gli attori economici - e la scienza economica borghese - si interessano solamente al prezzo, che forma la realtà quotidiana. Ma il valore non è una categoria puramente speculativa: esso è realmente costituito dal lavoro produttivo (produttivo di capitale, beninteso!) effettivamente speso. E grazie alla sostituzione permanente della forza lavoro da parte delle tecnologie, questa massa di valore da tempo diminuisce. Questo processo compare solo indirettamente nelle statistiche economiche, ma spiega la crisi attuale e le sue conseguenze in tutti i settori.

PJ: Il profitto proviene dal valore aggiunto da parte dell'imprenditore al momento della vendita del bene, e che risulterebbe dalla differenza fra il valore di acquisto del lavoro ed il valore dato al bene prodotto da tale lavoro. Una verifica empirica sarebbe possibile. Basterebbe comparare il costo del lavoro ed i profitti e mostrare che questi ultimi sono proporzionali alla quantità di lavoro. Non conosco nessun lavoro degli economisti che lo abbia provato.

Amselm Jappe: Ovviamente, si può misurare il tasso di profitto di un capitale investito, a tutti i livelli, dal capitale particolare fino al capitale globale. Il tasso di profitto, secondo la teoria marxista, coincide col tasso di plusvalore, dal momento che la sola fonte del profitto è il valore che il lavoratore aggiunge al capitale lavorando più a lungi di quanto sia necessario per ricostituire il valore del suo salario. Inoltre "l'imprenditore" non compra affatto il lavoro, ma la forza lavoro, e questo è un punto cruciale. Normalmente lo compra ad un prezzo "corretto": il prezzo della sua propria produzione, cioè a dire il prezzo necessario a "produrre" un lavoratore - il suo costo della vita, che può variare secondo il contesto sociale e culturale. Ma dopo quest'acquisto, il capitalista è libero di far lavorare l'operaio oltre il tempo necessario a ripagare il suo acquisto. Questo meccanismo di base non deve assumere necessariamente la forma dell'operaio dalle mani callose che crepa di fame nel suo tugurio, anche se è spesso così, soprattutto nelle "economie emergenti", ma c'è bisogno che da qualche parte nel mondo abbia luogo una produzione di plusvalore attraverso delle persone che lavorando più del necessario valorizzino il capitale iniziale (possono essere dei lavoratori high-tech ben pagati). In realtà, questo è sempre più difficile, a causa del peso delle tecnologie (del capitale costante), Ciò costituisce la ragione profonda, e che viene da lontano, della crisi che ha colpito il sistema capitalista mondiale negli ultimi decenni.

PJ: Tenuto conto dell'evoluzione tecnica, ci dovrebbe essere un abbassamento costante del tasso di profitto. Se così fosse, il capitalismo cercherebbe (per mantenere i suoi profitti) di mantenere la quantità di lavoro, evitando la concorrenza (per mezzo di accordi, cartelli, monopoli, conglomerati, quote di mercato, ecc.). Ora, ci troviamo in un capitalismo concorrenziale che lo proibisce e la diminuzione della mano d'opera è la costante ossessione delle imprese. E' curioso che degli attori economici seghino il ramo sul quale sono seduti. Il capitalismo mantiene volontariamente (politicamente) una concorrenza che contro la valorizzazione del capitale.

Anselm Jappe: Questa è la metafora che uso sempre: il capitalismo sega il ramo su cui è seduto. Ciò dimostra il suo carattere intrinsecamente irrazionale, distruttivo ed autodistruttivo. Il capitalista individuale deve imporsi nella concorrenza se non vuole essere schiacciato da essa. Quindi, deve produrre con meno manodopera possibile per poter vendere a buon mercato. Tuttavia, questo interesse del capitalista individuale si oppone in maniera assoluta all'interesse del sistema capitalista nel suo insieme, per il quale l'abbassamento del tasso di plusvalore, e alla fine della massa di plusvalore, rappresenta una minaccia mortale, a lungo termine. Ciò che caratterizza la societò capitalista è proprio quest'assenza di una vera istanza che assicuri l'interesse generale, non esiste altro che l'interesse capitalista. Il capitalismo si basa sulla concorrenza e sull'isolamento degli attori economici. Laddove regna il feticismo della merce, non può esistere la coscienza a livello collettivo. Ogni tentativo storico di "regolazione", che sia fatto attraverso lo Stato o attraverso dei cartelli, accordi fra capitalisti, ecc., ha funzionato solo temporaneamente. Per un lungo periodo, fra gli anni 1930 e 1970, si è parlato spesso di "capitalismo monopolistico" o "regolato": l'interesse generale del sistema capitalista avrebbe dovuto trionfare sugli interessi dei capitali individuali, si diceva, per mezzo di Stati molto forrti ed attraverso la concentrazione di capitale sotto forma di monopoli. Molti teorici marxisti, anche fra i migliori, come la Scuola di Francoforte, Socialisme ou Barbarie o i situazionisti, vi hanno visto uno stadio definitivo del capitalismo, segnato dalla stabilità. Poi, in seguito, il trionfo del neoliberismo ha smentito un simile pronostico. La concorrenza selvaggia ha fatto il suo ritorno su uno sfondo di crisi, e la deriva autodistruttiva del sistema è divenuta visibile. Nell'economia come nell'ecologia, così come nel disordine sociale, ciascun attore contribuisce, per garantirsi la propria sopravvivenza immediata, ad una catastrofe globale che alle fine li colpirà sicuramente.

PJ: La discussione che concerne l'evoluzione socio-storica non si limita affatto all'economia, riguarda anche la dimensione filosofica ed ideologica propria alla nostra civiltà occidentale. Dany-Robert Dufour parla di "delirio occidentale", a causa della nostra ideologia dell'eccesso, che riunisce la volontà di potenza, la fame di conquista e la fascinazione per la tecnologia, Potrebbe essere interessante, come fa Norbert Elias, legare insieme il culturale, il politico-economico, con l'organizzazione psichica degli individui.

Anselm Jappe: La critica del valore non è affatto una teoria puramente economica. Essa considera la società moderna nella sua totalità: il valore è una forma di pensiero e di azione che si è imposto, direttamente o indirettamente, su tutti gli ambiti della società. La dittatura dell'economia non è un problema economico, ma è ciò che assoggetta l'insieme delle forme di vita a questa unica pseudo-necessità di trasformare un capitale in un capitale più grande per mezzo di un lavoro senza contenuto. Dobbiamo quindi porre mano ad un cambiamento di civiltà. Non si tratta di combinare delle analisi relative, che avrebbero ciascuna una propria logica, a delle differenti sfere sociali. Ma bisogna piuttosto descrivere e combattere il totalitarismo reale della merce, del valore, del denaro e del lavoro, totalitarismo che non lascia più alcuno spazio aperto verso altre logiche di vita. Attualmente, vi sono degli autori che prendono atto di una tale necessità di cambiare la civiltà; ma spesso trascurano la critica dell'economia politica e si perdono nel moralismo o nella semplice psicologia, e di conseguenza si limitano ad opporre la presente epoca neoliberista a delle fasi precedenti del capitalismo che ritengono essere più "sane".

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

lunedì 27 luglio 2015

La morte e l'economia

cannoncharge

Cannoni e capitalismo
- La rivoluzione militare come origine della modernità -
di Robert Kurz

Ci sono numerose versioni della nascita dell'era moderna. Neanche sulla data gli storici hanno trovato un punto di accordo, Alcuni ne situano l'inizio già a far tempo dal 15° e dal 16° secolo, con il cosiddetto Rinascimento (un concetto che è stato inventato solamente nel 19° secolo da Jules Michelet, come ha dimostrato lo storico francese Lucien Febvre). Altri vedono la vera rottura, il decollo della modernità, soltanto nel 18° secolo, quando la filosofia dell'Illuminismo, la Rivoluzione francese e l'inizio dell'industrializzazione scossero il mondo. Ma qualunque sia la data preferita dagli storici e dai filosofi moderni pe la nascita del loro proprio mondo, su una cosa concordano: quelli che vanno assunti come impulsi originali sono quasi sempre risultati positivi
Vengono considerate come cause principali dell'ascesa della modernità, sia le innovazioni artistiche e scientifiche del Rinascimento che i grandi viaggi di scoperta a partire da Colombo, tanto l'idea protestante e calvinista circa l'auto-responsabilità dell'individuo, quanto la liberazione illuminista dalla superstizione irrazionale e la nascita della democrazia moderna in Francia e negli Stati Uniti. In ambito tecnico-industriale, viene anche ricordata l'invenzione della macchina a vapore e del telaio meccanico, inteso come "sparo di partenza" dello sviluppo sociale moderno.
Quest'ultima spiegazione è stata sottolineata soprattutto dal marxismo, dal momento che si armonizza con la dottrina filosofica del "materialismo storico". Il vero motore della storia - afferma tale dottrina - è lo sviluppo delle "forze produttive" materiali, le quali entrano ripetutamente in conflitto con i "rapporti di produzione" divenuti molto ristretti e che obbligano ad una nuova forma di società. Perciò, per il marxismo, il punto decisivo della trasformazione è l'industrializzazione: la macchina a vapore - così dice la formula semplificata - sarebbe stata la prima cosa a rompere la "corrente dei vecchi rapporti feudali di produzione".
Qui, salta agli occhi una gigantesca contraddizione nelle argomentazioni marxiste. Poiché nella sua opera, nel famoso capitolo sulla "accumulazione primitiva del capitale", Marx si occupa di periodi che risalgono a secoli precedenti alla macchina a vapore.Non è forse questa un'auto-confutazione del "materialismo storico"? Se la "accumulazione primitiva" e la macchina a vapore sono così distanti in termini storici, le forze produttive dell'industria non possono essere state la causa decisiva della nascita del capitalismo moderno. E' vero che il modo di produzione capitalistica si impone definitivamente soltanto con l'industrializzazione del 19° secolo, ma, se cerchiamo le radici dello sviluppo, allora dobbiamo scavare più a fondo.

E' anche logico che il primo germe della modernità, o il "big bang" della sua dinamica, doveva nascere in un ambito che fosse ancora in buona parte premoderno, in quanto, diversamente, non avrebbe potuto essere una "origine" nel senso rigoroso del termine. Perciò, la "prima causa" molto precoce e il "pieno consolidamento" molto tardivo, non rappresentano una contraddizione. Se è vero anche che per molte regioni del mondo e per molti gruppi sociali, l'inizio della modernità si estende fino al presente, è altrettanto certo che il primo impulso dev'essersi verificato in un passato remoto, se si considera l'enorme estensione temporale (dal punto di vista di una generazione, o anche da quello di una persona isolata) dei processi sociali.
Qual è stato alla fine, in un passato relativamente distante, il nuovo, che successivamente ha generato in maniera inevitabile la storia della modernizzazione? Si può pienamente concedere al materialismo storico che l'importanza maggiore e principale non attiene al semplice cambiamento di idee e mentalità, bensì allo sviluppo sul piano dei fatti concreti materiali. Però, non è stata la forza produttiva, ma al contrario una clamorosa forza distruttiva, ad aprire la strada alla modernizzazione, ossia, l'invenzione delle armi da fuoco. Sebbene tale relazione sia nota da molto tempo, nelle più celebri e conseguenti teorie della modernizzazione (ivi incluso il marxismo), le è sempre stata assegnata poca importanza.

E' stato lo storico tedesco dell'economia, Werner Sombart, che, significativamente poco prima della Prima Guerra mondiale, nel suo studio, "Guerra e Capitalismo" (1913), ha minuziosamente affrontato tale questione; naturalmente, solo per offrire un'esaltazione della guerra, come tanti intellettuali tedeschi dell'epoca. Solo negli ultimi anni, sono tornati alla ribalta le origini tecnico-armamentistiche e bellico-economiche del capitalismo, come nel libro "Cannoni e Peste" (1989), dell'economista tedesco Karl Georg Zinn, e nel saggio "La rivoluzione militare" (1990) del storico nordamericano Geoffrey Parker. Ma nemmeno queste ricerche hanno avuto il risalto che meritavano. Ovviamente, il mondo occidentale moderno e i suoi ideologhi accettano poco la visione secondo la quale la base storica ultima dei loro sacri concetti di "libertà" e "progresso" possa essere trovata nell'invenzione dei più diabolici strumenti di morte della storia umana. E questa relazione vale anche per la democrazia moderna, dal momento che la "rivoluzione militare" è rimasta fino ad oggi un motivo segreto della modernizzazione. La stessa bomba atomica è stata un'invenzione democratica dell'occidente.
L'innovazione delle armi da fuoco ha distrutto le forme di dominio pre-capitalistiche, dal momento che ha reso militarmente ridicola la cavalleria feudale. Già prima dell'invenzione delle armi da fuoco, si percepivano le conseguenze sociali delle armi da lancio, visto che il Secondo Concilio Lateranense proibì, nell'anno 1129, l'uso della balestra contro i cristiani. Non a caso, la balestra, importata dalle culture non europee intorno all'anno Mille, era considerata come un'arma speciale dei ladri, dei fuorilegge e dei ribelli, incluse figure leggendarie come Robin Hood. Quando entrarono in voga le molto più efficaci armi a distanza con "canne da fuoco", venne segnato il destino degli eserciti a cavallo e rivestiti di armature.

Però, l'arma da fuoco non era più nelle mani di un'opposizione "dal basso" che faceva fronte contro il dominio feudale, ma aveva portato innanzitutto ad una rivoluzione "dall'alto" innescata da principi e re. Poiché la produzione e la mobilitazione dei nuovi sistemi di armi non era possibile sul piano delle strutture locali e decentralizzate, che prima avevano segnato la riproduzione sociale, ma esigevano un'organizzazione interamente nuova della società, su diversi piani. Le armi da fuoco, soprattutto i grandi cannoni, non potevano più essere prodotti in piccole officine, come le armi bianche o da lancio premoderne. Per questo si sviluppò un'industria specifica degli armamenti, che produceva cannoni e moschetti in grandi fabbriche. Allo stesso tempo, sorse una nuova architettura militare di difesa, nella figura di giganteschi bastioni che dovevano resistere alle cannonate. SI arrivò ad una disputa innovatrice fra armi di offesa e di difesa, nell'ambito di una corsa agli armamenti da parte degli stati, che continua fino ai nostri giorni.
Ad opera delle armi da fuoco, cambiò profondamente la struttura degli eserciti. I belligeranti non potevano più equipaggiarsi da sé soli e dovevano essere provvisti di armi da parte di un potere sociale centralizzato. Per questo l'organizzazione militare della società si separò dall'organizzazione civile. Al posto dei cittadini mobilitati, caso per caso, dalle campagne o dai signori locali con le loro famiglie armate, sorsero gli "eserciti permanenti": nacquero le "forze armate" come gruppo sociale specifico, e l'esercitò si trasformò in un corpo estraneo alla società. Il corpo degli ufficiali, da prodotto del dovere personale dei cittadini ricchi, divenne una "professione" moderna. AL pari di questa nuova organizzazione militare e delle nuove tecniche belliche, anche il contingente degli eserciti crebbe vertiginosamente: "Le truppe armate, fra il 1500 ed il 1700, aumentarono di dieci volte" (Geoffrey Parker).

L'industria degli armamenti, la corsa agli armamenti e la manutenzione degli eserciti organizzati in maniera permanente, divorziati dalla società civile e allo stesso tempo in forte crescita, dovevano portare necessariamente ad una sovversione radicale dell'economia. Il grande complesso militare svincolato dalla società, esigeva una "economia di guerra permanente". Questa nuova economia di morte si stese come un sudario sulle strutture delle vecchie società agrarie basate sull'economia naturale. Dal momento che l'armamento e l'esercito non potevano più appoggiarsi alla riproduzione agraria locale, ma dovevano essere riforniti con risorse ottenute anonimamente in grandi spazi, passarono a dipendere dalla mediazione del denaro. Produzione di merci ed economia monetaria come elementi di base del capitalismo ricevettero un impulso decisivo all'inizio dell'era moderna per mezzo dello scatenarsi dell'economia militare ed armamentista.
Questo sviluppo produsse e favorì la soggettività capitalistica e la sua mentalità dell'astratto "fare di più". Il disavanzo finanziario permanente dell'economia di guerra portò, nella società civile, all'aumento dei capitalisti finanziari e commerciali, dei grandi fornitori di denaro e dei finanzieri di guerra. Ma anche la nuova organizzazione dello stesso esercito creò la mentalità capitalista. I vecchi belligeranti agrari si trasformarono in "soldati", ossia, in persone che ricevevano il "soldo". Essi furono i primi "lavoratori salariati" moderni che dovevano riprodurre la propria vita esclusivamente per mezzo del reddito monetario e del consumo di merci. E per questo non lottavano più per obiettivi idealizzati, ma solamente per il denaro. Era loro indifferente chi dovessero uccidere, in quanto "contava" solo il soldo, in qusto modo divennero i primi rappresentanti del "lavoro astratto" (Marx) nel moderno sistema produttore di merci.
Ai capi e ai comandanti dei "soldati" interessava acquisire risorse per mezzo dei bottini e convertirli in denaro. Pertanto, il reddito dei bottini doveva essere superiore al costo della guerra. E' questa l'origine della razionalità economico.imprenditoriale moderna. Nella loro maggioranza, i generali ed i comandanti di eserciti dell'inizio dell'era moderna investivano il prodotto dei loro bottini e diventavano soci del capitale monetario e commerciale. Quindi non è stato il pacifico venditore, il diligente risparmiatore ed il produttore pieno di idee, a segnare l'inizio del capitalismo, ma proprio il loro contrario: allo stesso modo in cui i "soldati", come artigiani sanguinosi dell'arma da fuoco, sono stati i prototipi del salariato moderno, così anche i comandanti di eserciti ed i "condottieri" moltiplicatori di denaro sono stati i prototipo dell'imprenditore moderno e della sua "disponibilità al rischio".

In quanto liberi imprenditori di morte, i "condottieri" dipendevano però dalle grandi guerre dei poteri statali centralizzati e dalla loro capacità di finanziamento. La versatile relazione moderna fra mercato e Stato, ha qui la sua origine. Per poter finanziare le industrie dell'armamento ed i bastioni, i giganteschi eserciti e la guerra, gli Stati dovevano spremere la popolazione al massimo grado e questo, corrispondentemente all'obiettivo, in una forma altrettanto nuova: al posto delle vecchie imposte in natura, la tassazione monetaria. Le persone vennero così obbligate a "guadagnare denaro" per poter pagare le loro imposte allo Stato. In questo modo, l'economia di guerra forzò non solo in forma diretta, ma anche indiretta, il sistema dell'economia di mercato. Fra i secoli 16° e 18°, la tassazione delle persone nei paesi europei crebbe fino al 2.000%.
Ovviamente, le persone non accettarono di venire introdotti in maniera volontaria nella nuova economia monetaria ed armamentista. Una tale costrizione avvenne solo per mezzo di una sanguinosa repressione. L'economia di guerra permanente delle armi da fuoco fronteggiò per secoli l'insurrezione popolare permanente e, sulla sua scia, la guerra intestina permanente. Per poter estorcere i mostruosi tributi, i poteri statali centralizzati dovettero costruire un apparato altrettanto mostruoso di polizia e di amministrazione. Tutti gli apparati statali moderni provengono da questa storia dell'inizio dell'era moderna. L'auto-amministrazione locale venne sostituita dall'amministrazione centralizzata e gerarchica, a carico di una burocrazia il cui nucleo era formato dagli apparati di tassazione e repressione interna.

Le conquiste positive della modernizzazione portano da sempre il marchio d'infamia delle loro origini. L'industrializzazione del 19° secolo, tanto nel suo aspetto tecnologico quanto nei tratti storici delle organizzazioni e delle mentalità, è stata un'erede delle armi da fuoco, della produzione di armamenti all'inizio della modernità e del processo sociale che ne è seguito. In tal senso, c'è poco da meravigliarsi che il vertiginoso sviluppo capitalistico delle forze produttive a partire dalla Prima Rivoluzione Industriale potesse avvenire soltanto in forma distruttiva, nonostante le innovazioni tecniche apparentemente innocenti. La moderna democrazia occidentale è incapace di nascondere il fatto di essere erede della dittatura militare ed armamentista dell'inizio della modernità - e questo non solo nella sfera tecnologica, ma anche nella sua struttura sociale. Sotto la sottile superficie dei rituali del voto e dei discorsi politici, si trova il mostro di un apparato che amministra e disciplina in maniera continua il cittadino apparentemente libero, nel nome dell'economia monetaria totale, e dell'economia di guerra ad essa finora vincolata. In nessuna società della storia c'è mai stato una così grande percentuale di funzionari pubblici ed amministratori di risorse umane, di soldati e di polizia; nessuno ha mai dissipato una parte così grande delle proprie risorse in armamenti ed esercito.

Le dittature burocratiche della "modernizzazione tardiva" dell'Est e del Sud, con i loro apparati centralizzati, non sono state agli antipodi, ma sono stati gli agenti recidivi dell'economia di guerra della storia occidentale, senza tuttavia essere in grado di raggiungerla. Le società più burocratizzate e più militarizzate sono ancora, dal punto di vista strutturale, le democrazie occidentali. Anche il neoliberismo è un figlio tardivo dei cannoni, come ha dimostrato il gigantesco programma armamentista della "Reaganomics" e la storia degli anni 90. L'economia della morte rimarrà l'inquietante retaggio della società moderna fondata sull'economia di mercato fino a quando il capitalismo-assassino non distruggerà sé stesso.

- Robert Kurz -  Pubblkicato su "Folha de São Paulo" del 30 Marzo del 1997 -

fonte: EXIT!