domenica 3 maggio 2015

Perdenti globali

global

La fine dell'economia nazionale
- La globalizzazione e il lungo addio del mondo delle nazioni -
di Robert Kurz

La scienza economica si trova in una crisi profonda. Di fatto, i suoi concetti non corrispondono più alla realtà. Lo dice già lo stesso nome della disciplina: "economia politica" o "economia nazionale". Oggi la parola d'ordine è "globalizzazione" - globalizzazione dei mercati, del denaro, del lavoro. E' chiaro che il mercato mondiale esiste fin dal XVI secolo. Ma la moderna economia del mercato è cresciuta soprattutto dentro lo spazio funzionale delle "nazioni" create nel XVIII secolo: gli Stati nazionali sono sorti sulla base di una scorta di capitale nazionale contiguo, dotati di sistemi giuridici nazionali, infrastrutture, ecc.. Il mercato mondiale era visto come "commercio esterno" ed era limitato ad un piano secondario. Tale processo, che ha segnato il sorgere delle nuove nazioni e delle economie nazionali, si è esteso a tutto il XX secolo.
Anche se le nostre idee sociali ed i nostri "sentimenti politici" fanno ancora riferimento allo spazio storico delle nazioni, questa è una realtà che appartiene al passato - quanto meno in termini economici. A partire dal decennio 1980, con una rapidità impressionante, è nato un nuovo sistema di riferimenti, trainato dai satelliti, dalla microelettronica, dalla nuova tecnologia di comunicazioni e trasporti, e dalla caduta dei costi energetici: al di là dei confini nazionali, è sorto un mercato unico e globale. Tutto ha cominciato ad essere negoziato, in qualsiasi momento e ovunque: il debito del Terzo Mondo (brandy bonds), i ricambi auto, la mano d'opera a buon mercato, gli organi umani. La globalizzazione ha prodotto fatti nuovi, ma tanto la politica quanto la scienza economica sono rimasti attaccati ai loro vecchi concetti e teorie: lo studio della "economia mondiale", o "economia globale", non fa ancora parte del curriculum universitario.
Ma, in realtà, qual è stato il cambiamento fondamentale? Il mercato mondiale è penetrato nelle viscere dell'economia nazionale e la sua lingua ha raggiunto, per così dire, l'ultimo villaggio ai confini del mondo. Fin dall'inizio del XX secolo, l'esportazione di merci è stata incrementata in maniera crescente dall'esportazione di capitale. La Ford non ha esportato soltanto automobili dagli Stati Uniti alla Germania, ma ha anche costruito, in questo paese, una fabbrica per il mercato tedesco. La Volkswagen, a sua volta, ha investito negli Stati Uniti per soddisfare la domanda interna nordamericana. Così, sono nate le imprese multinazionali, ma non per questo è stata messa in questione la coesione delle economie nazionali. Nella forma del mercato di scambio europeo, il sistema creditizio si è emancipato dal controllo esercitato dalle banche nazionali. Questo è avvenuto solamente grazie alla nuova qualità della rivoluzione microelettronica: ora, sia le transazioni monetarie così come anche i processi di produzione materiale possono essere condivisi a livello globale. Il sistema creditizio si è emancipato dal controllo delle banche di emissione nazionale , sotto forma di euromercati monetari. Uno speculatore tedesco può operare in Giappone facendo uso di dollari; un'impresa giapponese può ottenere prestiti in marchi tedeschi, negli Stati Uniti. Lo stesso vale anche per la produzione: un prodotto venduto da un'impresa tedesca sul mercato tedesco, può essere elaborato in parte in Inghilterra ed in parte in Brasile, montato ad Hong Kong e spedito nei Caraibi.
A partire dagli anni '60, il commercio mondiale si è espanso con maggior rapidità di quanto abbia fatto la produzione mondiale, e l'apparente autonomizzazione del commercio ha guadagnato nuovo slancio all'inizio degli anni '80. Un tale fenomeno è stato il risultato della globalizzazione: così, per esempio, la produzione in America Latina ed in Europa degli "impianti di montaggio" giapponesi - dove l'unico compito è quello di montare componenti semi-pronti, con un utilizzo minino di "prodotti locali" - figura come esportazione del Messico verso gli Stati Uniti o dall'Inghilterra verso la Spagna. In questi casi, in realtà, non si tratta di esportazione o importazione di beni di consumo, o di investimenti fra diverse economie nazionali, ma di una nuova divisione del lavoro dentro le proprie imprese multinazionali. La ripartizione delle funzioni produttive non è più concentrata in un unico luogo, ma si diffonde in vari paesi e continenti. Tutti i componenti del processo produttivo e del sistema finanziario vagano per il mondo. Anche il mercato del consumo deve espandersi per tutto il mondo, poiché quanto maggiori sono gli investimenti in tecnologia avanzata e quanto maggiore è la razionalizzazione per mezzo della "produzione snella", tanto maggiore è la disoccupazione e tanto minore è il valore della forza lavoro e del potere nazionale d'acquisto.
La concorrenza, quindi, esige allo stesso tempo sia il global marketing che il "global outsourcing", sempre in cerca di costi più bassi e di maggiori vendite - non importa in quale regione del mondo. La rivista tedesca specializzata "Wirtschaftswoche", ha formulato un simile pensiero nei seguenti termini: "Produrre dove i salari sono bassi, fare ricerca dove le leggi sono generose e guadagnare profitti dove le tasse sono minori". In questo modo, anche gli amministratori delle medie imprese si trasformano poco a poco in "global players". Il capitale delle imprese non integra più le scorte di capitale nazionale, ma si internazionalizza. E questo è solo l'inizio di un tale processo. Secondo dichiarazioni dell'impresa di consulenza McKinsey, circa il 5% del capitale "tedesco" è globalizzato, cifra che si prevede che in breve raggiungerà il 25 o il 30%. Con questo, si modifica anche l'orientamento strategico. L'economia d'impresa e l'economia nazionale si separano. Non c'è più alcuna strategia di sviluppo economico.
La direzione della società tedesca Siemens, per esempio, riunitasi recentemente a Singapore, ha deciso che le sua più recente generazione di chip non verrà prodotta, com'era previsto, nella città di Dresda (ex Germania Est), ma in Scozia. La Deutsche Bank, con dispiacere della Banca Centrale Tedesca, ha trasferito il suo settore d'investimento da Francoforte a Londra. La Mercedes-Benz non pubblica più il suo bilancio a Stoccarda, ma a New York, e l'ultimo suo modello automobilistico non verrà montato nel sud della Germania, ma in Francia. Le stesse industrie fornitrici trasferiscono la loro produzione in Portogallo o in Polonia, nella Repubblica Ceca o nel Sudest Asiatico; nei paesi di origine, rimane solo il settore finanza, ma ben presto la stessa contabilità verrà svolta da qualche impresa indiana. Anche la filosofia del marchio di qualità si muove fuori dai limiti economici nazionali, verso un livello più globalizzato: non  più "Made in Germany", bensì "Made in Mercedes".
Indubbiamente, le conseguenze sono assurde e pericolose. L'economia delle imprese oltrepassa tutte le frontiere, ma lo Stato resta - secondo la sua natura - limitato al territorio nazionale. Lo Stato è sempre meno il "capitalista collettivo ideale" (Marx), con un'attiva voce in capitolo circa le scorte di capitale nazionale. La vecchia "economia politica" si è trasformata in "politica economica". Quando la politica vuole imporre dei limiti all'azione sfrenata del mercato, le imprese globalizzate subito rispondono minacciando una "Fuga dall'Egitto". Questo vale anche per le imposizioni ecologiche. Proteggere le riserve idriche? Inquinamento del suolo? Perché non andate a fare queste domande in Messico, dove si permette che il bestiame muoia sulle montagne, senza che i politici diano a questo la minima importanza? Poi torneremo a parlare della questione dei costi di produzione...
Con la diminuzione della competenza statale, viene meno anche la contraddizione fra "libertà nazionale" ed "imperialismo". La maggioranza dei regimi fondati sull'accumulazione nazionale è fallita, poiché è stata incapace di finanziare i costi del capitale inerenti ad uno sviluppo industriale autonomo, sotto la pressione della globalizzazione. Gran parte di queste industrie, considerate poco lucrative secondo gli standard internazionali, sono state disattivate o privatizzate, cioè, in genere comprate da imprese globalizzate. A breve termine, forse sarebbe possibile, in questo modo, sanare i conti pubblici. Ma il capitale straniero non intende più lo sviluppo del paese come un tutto e dev'essere attratto per mezzo della riduzione di tasse e di altri incentivi. Il risultato, però, è la diminuzione del numero di occupati, causato dalla razionalizzazione, l'evasione dei profitti e l'assenza di garanzie per gli investimenti.
Dall'altra parte, i vecchi Stati imperialisti non dimostrano più interesse per l'annessione territoriale o per le "zone d'influenza". In fin dei conti, a che servono le enormi regioni assolate dalla povertà, la cui popolazione non può più essere utilizzata? Una "zona di influenza" nazionale rappresenta un divoratore improduttivo di risorse. Le "zone di redditività", tuttavia, che cambiano quasi quotidianamente, sono distribuite come un eczema per tutto il globo, e neppure gli Stati potenti sono in grado di esercitare un controllo effettivo su una simile economia diffusa. In questa maniera, le differenze tra i paesi poveri e quelli ricchi vengono lentamente livellate, ma non in termini di benessere generale. Dappertutto si impone la mentalità rivolta all'esportazione, ossia, all'integrazione diretta e senza ostacoli nel mercato mondiale, mentre, simultaneamente, un numero sempre minore di persone riescono ad integrarsi economicamente in questo stesso mercato. Zone di libero commercio, come il Nafta, la Comunità Europea o il Mercosur, tendono solo ad aggravare il problema, in quanto, generalmente, accelerano la disintegrazione dell'economia nazionale e promuovono un'unione multinazionale di piccole isole di sviluppo. Dalla teoria del Caos ci proviene il "principio di auto-somiglianza": determinate strutture si ripetono su scala globale. Il sistema di mercato globale è "auto-somigliante": in un futuro prossimo, in ogni continente, in ogni paese, in ogni città, esisterà una quantità proporzionale di povertà e di baraccopoli in contrasto con le piccole ed oscene isole di ricchezza e di produttività. Gli Stati, a causa della mancanza di risorse finanziarie, abbandonano alla loro sorte una quota sempre maggiore di popolazione, derubandola del diritto alla cittadinanza. Le autorità, alla fine, cercano soltanto di mantenere il controllo militare sui settori "extra-territoriali" di miseria e di barbarie. Tuttavia esiste già una "security guide" per gli uomini d'affari della globalizzazione, dove viene indicato dove si trovano le "situazioni fuori dalla legge".
E' evidente che il risultato di questo tipo di globalizzazione non è per niente di buon auspicio. Un'economia globale limitata ad una minoranza sempre più ristretta è incapace di sopravvivere. Se la concorrenza globalizzata rende "non redditizia" una quota sempre maggiore di produzione industriale, e travolge in proporzione sempre più crescente l'economia delle regioni, ne consegue logicamente che il capitale mondiale minimizza il proprio raggio d'azione. Nel lungo periodo, il capitale non potrà insistere nell'accumulazione su una base talmente ridotta, dispersa per tutto il mondo, allo stesso modo per cui non è possibile danzare su un tappo di birra. Inoltre, la globalizzazione porta con sé una nuova contraddizione strutturale fra mercato e Stato. Di fatto, per mezzo dell'internazionalizzazione delle scorte di capitale, il capitale sfugge al controllo statale e diminuisce le entrate pubbliche. Da un altro lato, il capitale globalizzato dipende più che mai da un'infrastruttura funzionale (porti e aeroporti, strade, sistemi di trasporto e comunicazione, scuole, università, ecc.), che, come prima, devono essere organizzate dall'iniziativa statale. La globalizzazione, possiamo concludere, sottrae allo Stato i mezzi finanziari imprescindibili per lo sviluppo della globalizzazione stessa.
Tuttavia, sono soprattutto le reazioni disperate delle persone "sputate" dal mercato che scatenano la crisi del nuovo sistema mondiale. I costi della "sicurezza" crescono in proporzione astronomica. I vecchi paesi imperialisti, in un'economia globalizzata, non possono più dichiarare guerra gli uni agli altri, ma sono costretti a mobilitare congiuntamente una "politica mondiale" contro gli sconfitti globali, al fine di garantire condizioni per gli affari nelle isole di ricchezza. Forse questa nuova guerra sarà ancora più dispendiosa di quanto lo è stata la vecchia "Guerra Fredda". Dovunque, la mafia comincia ad usurpare gli attributi di sovranità statale. Dittature truculente, una volta in via di sviluppo, come il regime di Saddam Hussein, diventano imprevedibili. Il fondamentalismo religioso inonda il mondo con il suo terrorismo. In vari paesi nascono movimenti militanti senza alcuna prospettiva, denominati, in generale, "nazionalisti", ma che, in realtà, sono "etnicisti" e, nella maggior parte dei casi, separatisti. Al contrario dei movimenti nazionalisti borghesi, dalla Rivoluzione francese al Terzo Reich, non si tratta ora di integrazione, bensì di disintegrazione delle nazioni o delle economie nazionali. La globalizzazione di una "economia della minoranza" ha come conseguenza diretta la "guerra civile mondiale", in tutti i paesi ed in tutte le città.
Possiamo solo chiedere con voce soffocata cosa bisogna fare per fermare una simile evoluzione. Un ritorno al mondo delle economie nazionali è improbabile. Paradossalmente, tuttavia, lo spazio pubblico della politica rimane ancora consegnato allo Stato nazionale. Sulla base di questa contraddizione, sarà possibile superare le nazioni in modo non solo negativo? E' fattibile la creazione di territori "post-nazionali" e di campi operativi al di là del mercato e dello Stato?
Sotto il giogo dell'economia nazionale, a livello locale e regionale, alcuni paesi hanno sviluppato nuove forme cooperative autonome di amministrazione e di approvvigionamento, capaci di sopperire alle necessità umane di base. Ma le risorse per questo sono assolutamente insufficienti. Come esempio, possiamo citare il movimento guidato da Betinho, in Brasile, le ONG ed alcune associazioni di fama mondiale, come Amnesty International e Greenpeace, che non hanno finalità commerciali né solo legati allo Stato. Tuttavia, nessuno di questi gruppi possiede oggi competenza sociale od economica; si occupano soltanto delle conseguenze negative della globalizzazione, senza mettere in discussione il sistema economico come un tutto.
E qual è la funzione della teoria, del pensiero critico internazionale? La "pace eterna", proclamata da Kant alle soglie dell'età moderna, come pace fra le nazioni indipendenti, è stata tanto incapace di mantenere la sua promessa quanto lo è stato "l'internazionalismo proletario" dei movimenti socialisti. Al giorno d'oggi, sembra che la filosofia avvia definitivamente capitolato davanti alla barbarie del mercato totale. La comunicazione internazionale finirà per riassumersi, alla fine, nelle scritture contabili dei mercati finanziari globalizzati? Il pensiero non conformista deve essere in grado di diventare tanto agile quanto lo è il denaro inafferrabile. Infatti, quello che manca è la globalizzazione di una nuova critica sociale.

- Robert Kurz - (Pubblicato su "Folha de S. Paulo" del 01/10/1995 col titolo "Perdedores globais".) -

fonte: EXIT!

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