martedì 31 marzo 2015

GRINDHOUSE

Il capitale. Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano

1938. Nuestro culpable. El idolillo sagrado en venta y sus avatares. Spezzone del film di Fernando Mignoni. Film prodotto dalla CNT-FAI, Madrid, 1937. Fotogrammi tratti dalla copia depositata presso la Filmoteca Española attraverso la FAL (Fundación Anselmo Lorenzo) nel 1999.

1867. Il Capitale. Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano. Progetti basati sull’omonimo testo di Karl Marx. Appunti di Sergei M. Eisenstein a partire dal 1927. Fotogrammi dei film Ottobre (1927), Il vecchio e il nuovo (1928) e Il prato di Bezin (1937) nell’edizione FSF (Films Sans Frontières), 2002.

Terminata la guerra, si diceva alla Motion Picture Herald che anche gli studi cinematografici avevano subito, durante il conflitto, una sostanziale trasformazione: le macchine da presa e i proiettori erano stati portati, allo scopo di “proteggerli”, nei locali di partiti e sindacati. I furti e le appropriazioni rappresentarono sì un nemico per gli studi, ma non certo l’unico. Gli studi di Madrid produssero poco materiale narrativo e sopravvivevano in piena contraddizione. Su chi finanziava il tutto non c’era alcuna novità: si manteneva la base economica precedente, gli “elementi capitalisti” continuavano a fornire il denaro per l’utilizzo degli studi. Il maestro di musica Luis Patiño spiegava che il cinema doveva fare i conti con numerose incomprensioni: “la prima è quella del CAPITALE”. L’attore e produttore Antonio Portago, che aveva interpretato La bien pagada (Eusebio F. Ardavín, 1935), diceva che il capitale cominciava a dar segni di comprensione “seppure non nella misura necessaria”. I successi riscossi dalle pellicole della Filmófono o della Cifesa iniziavano a far superare le riserve a coloro che fornivano le risorse per fare cinema: “I film spagnoli cominciano a essere film di un certo successo, cominciano a dare soldi, per cui, sulla base di questi indiscutibili elementi, il cinema
spagnolo aprirà i suoi occhietti di avaro birbone e per cupidigia, per avarizia, si azzarderà a uscire dalla tana in cui è rinchiuso.” Gli “elementi economici” praticamente sparirono. Quale conseguenza di tale penuria, gli studi della CEA produssero un solo film in tre anni: Nuestro culpable. La guerra aveva messo in fuga il capitale.

Non era possibile capire il cinema sovietico senza comprendere i sottili meccanismi del suo sistema di produzione. Tutto il materiale apparteneva allo Stato, lo “studio era lo Stato”. Quanto più importante era un film, quanto più successo aveva riscosso il suo regista, più diretto e più alto era l’intervento politico dello Stato. L’idea più logicamente politica dei soviet, l’idea di Eisenstein di realizzare un grande affresco cinematografico sul Capitale di Marx fu espressamente bocciata dal responsabile numero uno dell’industria cinematografica sovietica e dallo stesso Stato. Un elemento interno, strutturale al nuovo progetto, ne avrebbe affrettato il fallimento. Senza capitale per Il Capitale. Stalin consigliò ad Eisenstein di non pensar più al Capitale, di cambiare aria, di lasciar perdere il progetto. Lo trattò da folle, contro ogni logica, ovviamente. Eisenstein pensò di vendere il progetto de Il Capitale ai nordamericani. Era folle, gli aveva detto Stalin, e logicamente, stando alle sue parole, folli sarebbero stati i capitalisti che avessero voluto imbarcarsi nel progetto di portare Il Capitale al cinema. Il loro sistema di produzione non lo avrebbe accettato. “Lo Stato era lo studio”, rassegnato ad abbandonare il proprio progetto sul Capitale.
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L’esistenza di film quali Aurora de esperanza, Barrios bajos o No quiero, no quiero è, in effetti, un’esperienza unica e insolita, date le circostanze. Così come lo è l’interesse specifico per la sperimentazione. Mentre le altre case con attività cinematografica si pronunciavano più o meno unanimemente a favore del documentario convenzionale, perché si riteneva prematuro e inopportuno dedicare energie a obiettivi che non fossero quello più urgente di vincere la guerra, la SIE Films e la FRIEP realizzavano ricostruzioni a carattere narrativo invece del limitato film elaborato a partire da spezzoni di reportage. Non era comune neanche che in tali circostanze belliche si girassero nelle strade e negli studi pellicole di “tematica sociale”, come Aurora de esperanza, o produzioni di intrattenimento come Nuestro culpable o Barrios bajos. Il cinema di propaganda, secondo questi stessi presupposti degli anarcosindacalisti, non poteva giustificare di per sé il 19 luglio, il sollevamento delle organizzazioni operaie contro la vecchia società reazionaria. Bisognava anche coltivare – come diceva Mateo Santos, uno dei suoi ideologi – “il cinema come arte”. L’esperienza dei marxisti fu completamente diversa da quella degli anarcosindacalisti, arrivano le due parti allo scontro in numerose occasioni, soprattutto per quanto riguardava la gestione dell’esibizione e il boicottaggio a determinati film. Le stesse contraddizioni politiche, che raggiunsero il momento più drammatico negli avvenimenti del maggio del 1937, si riprodussero in ambito cinematografico. Seppure i comunisti finirono per creare la propria casa di produzione e distribuzione, aggiungendo un ulteriore elemento alla pluralità di organizzazioni cinematografiche esistenti, il loro discorso durante la guerra fu sempre quello dell’unità e della direzione centralizzata, “con un criterio politico e ideologico unificato di tutte le masse antifasciste” come proclamava Juan M. Plaza, organizzatore dell’apparato di propaganda dell’Esercito del Centro.

Nel suo articolo “Al di là dell’interpretazione e della non interpretazione”, pubblicato su Kino nel 1928, Eisenstein annunciò il suo nuovo progetto cinematografico: Il Capitale di Karl Marx. “Essendo consapevoli dell’immensità in generale di questo tema, procederemo presto a selezionare in primo luogo gli aspetti che possono essere portati al cinema. Lo faremo avvalendoci della consulenza dello storico A. Efimov, lo stesso che ci ha affiancati nella stesura della sceneggiatura di Ottobre.” Come disse alla Sorbona nel 1930: “Non sarà una storia con un suo sviluppo, bensì un saggio, perché il pubblico analfabeta e ignorante possa capire e imparare il pensiero dialettico.” A suo giudizio, era questa la strada che in futuro avrebbe dovuto seguire la tematica cinematografica. “Un cinema puramente intellettuale che, libero dalle tradizionali limitazioni, adotti forme dirette per esprimere i pensieri, i sistemi e i concetti, senza transizioni né parafrasi. E che quindi possa diventare una sintesi di arte e scienza.” “Credo che solo il cinema sia in grado di realizzare questa grande sintesi, di fornire l’elemento intellettuale con le sue fonti vitali, sia concrete che emotive. Questa è la nostra funzione e questa è la strada che dobbiamo seguire.”

Il metodo di insegnare divertendo o di comunicare idee senza reprimere l’umorismo sembrano scoperte recenti, concomitanti con la rivalutazione della commedia, un genere ingiustamente denigrato fino a poco fa, mentre, in realtà, si è rivelato il cammino più efficace per introdurre nella società cambiamenti di usi e costumi, dato l’alto grado di permeabilità degli spettatori di fronte ad esso.

Credo che solo il cinema sia in grado di realizzare questa sintesi, riportando l’elemento intellettuale alle sue fonti vitali concrete ed emotive. È questo il nostro compito ed è questa la strada che stiamo seguendo. Questo è il punto di partenza del prossimo film che ho in mente di realizzare, che deve portare il nostro operaio e il nostro contadino a pensare in modo dialettico. Questo film avrà come titolo Il Capitale di Marx.

Penso che la FRICEP sia stata più intelligente della SIE, perché mentre le produzioni della casa barcellonese cercavano di arrivare allo spettatore per la via sentimentale e l’ambiguità ideologica, la realizzazione della centrale madrilena fu più diretta, utilizzò la via della commedia popolare, una semplice operetta, per far breccia sul pubblico. Alla Federazione Regionale della CNT importava poco che il suo film fosse di qualità cinematografica inferiore rispetto a quelli della SIE; di contro, si rivelò efficace l’impiego di un linguaggio che lo spettatore di quel tempo potesse capire, che risultasse a lui familiare. La pensa così anche parte della storiografia attuale che si occupa di Nuestro culpable. L’inglese Roger Mortimore, per esempio, ha scritto queste acute osservazioni: “La realizzazione in Spagna dei film del Fronte Popolare si fece attendere fino allo scoppio della guerra civile, quando la CNT, insieme ad altre due case, produsse Nuestro culpable (Fernando Mignoni, 1938), una commedia anarchica sullo stile di René Clair... Questi film rappresentano in un certo senso l’anello di passaggio tra quelli sulla classe operaia di Chaplin, Keaton e Clair e il Neorealismo italiano”.

Avrà inizio da qui il suo divorzio dalle teorie classiche del montaggio (Griffith, Koulechov, Pudovkin), che consideravano quest’ultimo una mera “somma” di piani (come mattoni messi uno sopra all’altro per costruire un muro, nelle parole di Koulechov) mentre Eisenstein lo concepirà come “scontro”, “conflitto”, “collisione” tra due piani che dà origine a un nuovo concetto irrappresentabile o astratto nella mente dello spettatore. Questo è, naturalmente, il punto di partenza del cosiddetto “cinema intellettuale” (o cinema di concetti), che lo avrebbe portato a dedicarsi a progetti di adattamento al cinema di opere difficili quali Il Capitale di Marx e l’Ulisse di Joyce.

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La determinante influenza del cinema nordamericano, del cinema di intrattenimento, era dovuta fondamentalmente alla convinzione che nella produzione di emozioni e nel divertimento si potevano trovare le brecce più adatte per inculcare le diverse trame ideologiche. La tecnica era al servizio del film e al servizio dello spettatore, e nel momento in cui entrambi abbassavano le proprie difese, al culmine dell’azione e del montaggio cinematografico, si facevano largo l’amore libero, l’uguaglianza giuridica dei lavoratori o il diritto a un salario degno. Così Fernando Mignoni, sceneggiatura in mano, riuscì a convincere i compagni della CNT, che esercitavano quali produttori di un cinema semi-professionalizzato e semi-politicizzato, in parti uguali, sullo sfondo dei momenti culminanti, e più duri per la causa repubblicana, della guerra civile. Un cinema di emozioni non si oppone necessariamente a un cinema di idee. Le emozioni sono il veicolo. Come disse Mateo Santos, “le emozioni sono comparabili alla colonna sonora, all’illuminazione, alla scenografia, mai alle idee o all’argomento”.

Senza lasciarsi intimidire, iniziò a entusiasmarsi all’idea di un discorso cinematografico che potesse mostrare argomenti e presentare completi sistemi di pensiero. Pensava al modo di poter utilizzare il montaggio per generare non solo emozioni ma anche concetti astratti: “Dall’immagine all’emozione, dall’emozione alla tesi” (1930). Cominciò a pensare a un film sul Capitale di Marx, a partire dalla sequenza Dio e Patria di Ottobre, che aveva tentato di criticare l’idea di Dio unicamente mediante la giustapposizione di immagini. Il film avrebbe creato una “attrazione intellettuale” che avrebbe “portato l’operaio a pensare in modo dialettico” (1927). Al tempo stesso aveva iniziato a leggere l’Ulisse di Joyce e in esso vide la possibilità di disaneddotizzazione, come pure particolari acuti e vivaci che provocavano “fisiologicamente” conclusioni generali (1928). Il Capitale avrebbe trattato della Seconda Internazionale, ma per “l’aspetto formale sarebbe stato debitore a Joyce” (1927). La pellicola non fu mai realizzata; Stalin bocciò questa idea nel loro incontro del 1929. Tuttavia, il romanzo di Joyce continuò ad esercitare un’influenza dominante su tutta la sua opera come regista.

Nuestro culpable ha comunque un finale che si presenta come un deus ex machina, un finale artefatto, in cui il regista ha perso il controllo sui conflitti. Le trame si sono talmente ingarbugliate che è impossibile una conclusione naturale, e sopraggiunge un finale forzato. Mignoni introduce il suo deus ex machina come faceva Jardiel Poncela nelle sue commedie: un finale rapido, invece di uno logico. El Randa dice di trovarsi benissimo in prigione, meglio che in qualsiasi altra parte. Lo lasciano solo nell’ufficio del giudice con la valigia e i due milioni di dollari. A questo punto ha tempo per giocare un piccolo scherzo alla giustizia, vestendosi con il cappotto e il cappello del giudice e prendendo in mano la sua pipa, e per fare un gesto simbolico espresso nella liberazione di un uccello dalla gabbia. Esce dalla finestra dell’ufficio, che casualmente si trova a un piano basso, e, mentre fugge, passa casualmente di là la macchina dell’amante di Urquina, che si ferma e lo fa salire. Lui e la ragazza si scambiano sorridendo un saluto e si allontanano. El Sol diceva che Nuestro culpable era “una vera disgrazia. Segna un cammino di vuota e inutile frivolezza, che può portare il cinema spagnolo solo a uno strepitoso fallimento”. Piacque invece al pubblico, e i suoi messaggi anarchici raggiunsero più persone.

Gli scritti di Eisenstein degli anni Venti ci trasmettono una concezione unica della forma e dell’effetto cinematografici. Il film deve essere assemblato – “montato” – come una macchina – a partire da stimoli. Dentro i piani e in mezzo ad essi, gli stimoli includono tutto, dalla misura e dal ritmo fino alla dominante e all’armonico, contenendo tutti in sé qualche possibilità di conflitto. Tali possibilità formali si configureranno a loro volta attraverso l’eventuale risposta suscitata nello spettatore, una risposta che suppone percezione, emozione e un certo grado di coscienza cognitiva. Concependo gli stimoli come “attrazioni” accentua la dimensione percettiva ed emotiva; concependoli come “segni”, ne mette in gioco gli aspetti intellettuali. In entrambi i casi, il film porta lo spettatore a un’esperienza che allude a conclusioni ideologiche: un’opera di agitazione, di propaganda o anche di dimostrazione astratta, come era l’intenzione del progetto sul Capitale. Tuttavia, Eisenstein insiste sul fatto che l’impatto percettivo ed emotivo deve essere presente anche nelle forme più intellettuali del discorso cinematografico.

La maggior parte di questi film avevano come tema centrale il motto “Lavora e lotta per la rivoluzione”. Nuestro culpable, per esempio, è una commedia musicale che ironizza sui rapporti tra la giustizia e la società borghese.

In una lettera a Léon Moussinac, il cineasta scrisse: “Le annuncio che mi accingo a fare un film su Il Capitale di Karl Marx non come trucco pubblicitario. Credo sia questa la strada che seguirà il cinema del futuro.”

Tralasciando i luoghi comuni, una visione attenta a Nuestro culpable ci porta a una serie di sfumature in cui l’ideologia che ci interessa si manifesta durante tutto lo svolgimento del racconto, nonostante il tono apparentemente trascurato della narrazione. Per esempio, dettagli significativi seppure minimi dell’esibizione di un quadro con la cornice d’argento, con un maiale per foto, fino al gesto anarchico, con l’onomatopea sprezzante “ppprrrff ”, come una beffa, del protagonista alla prigione, o il biglietto di auguri di Natale che esce dal portafoglio, nella scena della truffa, al posto delle banconote. Ma ancora più importanti sono le sequenze in cui i tre prigionieri chiedono l’uguaglianza con El Randa, dicendo “semos los amos” (‘siamo i padroni’), e quella del cabaret, dove in una canzone viene fatta un’esaltazione della figura del ladro.

Fino a che punto possiamo parlare di una messa in scena marxista. Il principale indice della composizione patetica è un delirio costante, un costante essere fuori di sé – un costante salto da una qualità all’altra di ogni elemento isolato o di ogni segno sintomatico dell’opera, e questo via via che aumenta quantitativamente, crescendo senza sosta, l’intensità del contenuto emotivo della sequenza, dell’episodio, della scena, dell’opera nella sua totalità.

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Ancora una volta, forze di oppressione come la polizia, i giudici, la banca o il sottoproletariato, se alleano per punire il diseredato, El Randa, e per sfruttare sessualmente sua moglie, Greta. Tuttavia, anche se i protagonisti ne escono vittoriosi, il messaggio è che l’ordine borghese può essere beffato solo con l’astuzia o con un colpo di fortuna, da cui l’importanza che viene data a un ferro di cavallo. Con questo “oggetto magico” il film difende una tesi così poco rivoluzionaria quale quella secondo cui la felicità dipende dalla sorte e non dall’azione degli uomini. Il feticismo per i dollari e per il lusso risultano parimenti poco ortodossi. In conclusione, come certi simpatizzanti senza formazione o poco convinti, il film confonde l’anarchia con l’anarchismo, la distruzione dell’ordine e l’ordine libertario.

Lo abbiamo già detto: poliziotti che preparano gli stivali, anch’essi capitalisti – incredibilmente simili l’uno all’altro, grassi uguali, vestiti uguali, tutti con  il collo tarchiato –, in riunione con il ministro e disposti a metter fine alle rivendicazioni operaie. Disposti, anche, a godersela. Il ministro toglie dal tavolo attorno a cui sono riuniti il manifesto operaio e fa un gesto con la mano per richiamare l’attenzione: il tavolo si apre dividendosi a metà, come se si trattasse dei ponti di San Pietroburgo, e dall’interno emergono bottiglie di liquore e bicchieri pieni, pronti da bere. C’è qualcosa di osceno in questo dispositivo che segna il passaggio dal lavoro al divertimento (i volti dei capitalisti lo rivelano senza pudore): ritirato il foglio – il discorso –, ciò che era nascosto si rivela, appare proprio dove deve stare: basta osservare attentamente la ripresa per percepirne la latenza sessuale.

Un piccolo idolo passa da un personaggio all’altro, meccanismo di una grande truffa messa in atto, poiché alla fine, quando la statuina viene aperta e il suo interno distrutto, si constata che non conteneva alcun tesoro, che era un inganno, come si può vedere dall’espressione da ebete rimasta sulle facce dei prigionieri.

Un cilindro sacro che passo da una mano all’altra. Un oggetto fallico che contiene promesse di salvezza. Per un momento il cilindro non dà segni, non lo possiamo identificare. Non sappiamo ancora se sarà di aiuto in chiesa o in fabbrica. Il funzionamento è lo stesso. Una promessa di salvezza lo contiene.

Anche qui Antonio Polo optò per la professionalità: “Decisi di fare il film e iniziai le riprese con i migliori interpreti e il miglior personale tecnico disponibile, a prescindere dalla tessera sindacale di ognuno.” Tuttavia il lavoro doveva essere sottoposto al controllo di una commissione di vigilanza che ogni giorno avrebbe visionato la proiezione avendo facoltà di modificare il copione o di fermare le riprese. Mignoni, celebre scenografo, autore, tra l’altro, della scenografia del film di Aznar, si rifiutò di lavorare, come racconta Polo, “sotto le pressioni di personale non idoneo”. Ma in seguito si raggiunse un accordo e il film poté arrivare in porto, vale a dire, nelle sale cinematografiche. Polo, invece, dopo le discussioni e i tiremmolla con la commissione di vigilanza, ci rimise il posto.

Stalin fece arrivare a Eisenstein e ai suoi due compagni dei suggerimenti su come cambiare il centro di attenzione de La linea generale e questi non poterono fare altro che accettare. Eisenstein chiese allora a Stalin il permesso di recarsi all’estero con Alexandrov e Tisse, per studiare le tecniche del suono occidentali, e disse che voleva fare lì un film sul Capitale. Stalin gli rispose: “Sei matto”, e nient’altro; e aggiunse che avrebbe riflettuto sulla richiesta del permesso per viaggiare.

Fu Rodiño, responsabile della CEA, a suggerire di adattare una commedia di Fernando Mignoni, che già precedentemente gli era stata offerta. La lettura davanti alla commissione di consulenza del sindacato non presentò problemi – il tema non presentava elementi ideologicamente rifiutabili –, quindi si approvò la sua realizzazione. Realizzazione che incontrò subito alcuni attriti, dal momento che, evidentemente, la produzione nel suo insieme era estremamente eterogenea. Successe con Nuestro culpable qualcosa di simile a quello che era successo con No quiero, no quiero, pellicola diretta da Francisco Elías per la CNT catalana, che fu l’ultimo progetto importante realizzato dalla centrale sindacale, in una direzione che significò un grande allontanamento dal budget di produzione iniziale preventivato (economico, artistico, ecc.).

Lasky propose vari temi, tra cui il caso Dreyfus, un film su Émile Zola e il grande best-seller di Vicki Baum Grand Hotel. Nessuna di queste proposte interessò particolarmente Eisenstein, il quale propose altre tre opere, che avevano il vantaggio di essere state offerte dai rispettivi autori: La guerra dei mondi di H. G. Wells, Ulisse di James Joyce e Il discepolo del diavolo di George Bernard Shaw (alla fine furono realizzate le versioni cinematografiche di tutte e tre le opere, ma non le diresse Eisenstein). Poiché Lasky stava già rischiando molto invitando un “pericoloso” bolscevico a Hollywood, Eisenstein rinunciò prudentemente a esprimere il desiderio di fare un film sul Capitale.

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I commenti e le critiche sottolinearono in modo unanime le difficoltà che si dovettero superare per portare a termine il film: “È stato, è e sarà un atto eroico” (Super-Filme del 10 aprile del 1938). E mentre alcuni si mostravano soddisfatti per lo sforzo che aveva significato il fatto di averlo girato in piena guerra in un studio madrileno, altri si interrogavano sulla validità di un film umoristico mentre sul fronte di Teruel si stava combattendo a 18 gradi sotto zero, definendo al tempo stesso Mignoni spregiativamente come apprendista di Perojo. L’attività di Fernando Mignoni, scenografo teatrale italiano stabilitosi in Spagna, si era orientata verso il cinema senza mai uscire dalla sua specialità – all’interno, appunto, del gruppo che lavorava abitualmente con Benito Perojo –, tranne in poche occasioni, come nel caso di Nuestro culpable, di cui dovremo considerarlo autore senza alcuna riserva, dal momento che argomento, sceneggiatura, dialoghi, scenografia e regia portano la sua firma. Il film si svolge interamente in una Madrid presumibilmente precedente alla guerra civile – è sorprendente osservare come uno straniero abbia rappresentato sin nei dettagli l’ambiente popolare, avvalendosi anche degli accenti e dei modi di dire locali –, con quattro personaggi che fanno da pilastri fondamentali, più qualcun altro che apporta ulteriori sfumature a determinate sequenze. In una fase previa alla narrazione, lo schema della situazione poteva essere definito mediante un triangolo: il povero, il ricco e il giudice, ognuno fedele al ruolo sociale che gli è attribuito e rispecchiante la massima che recita: “a rubar poco si va in galera, a rubar molto si ricevono onori”. Ma un personaggio esterno imprevisto – l’amante del banchiere – rompe l’equilibrio stabilito ribellandosi contro il suo signore ed entrando improvvisamente a far parte dell’aristocrazia del crimine, commettendo uno spettacolare furto su cui a nessuno conviene far chiarezza. A partire da questo momento, tutti gli interessati si vedono costretti a mentire – dico il contrario perché tu mi capisca –, la qual cosa potenzia lo sviluppo del film in chiave di commedia umoristica e permette di inserirvi canzoni con testi costellati di acuta ironia, dove il realizzatore dà libero sfogo ai suoi sperimenti visivi a base di sovrimpressioni, che se non sono perfettamente riuscite quanto a risoluzione tecnica è perché non hanno pretese estetiche ma si attengono a un proposito prestabilito di sintassi filmica.

Come tante volte nella sua carriera, il problema teorico sorge da un progetto cinematografico. Facendo il montaggio di Ottobre (1928) aveva sperimentato momenti di “cinema intellettuale”. Intercalando scene del campo di battaglia con scene del fronte interno, aveva materializzato delle metafore: l’aquila zarista che si lancia sulle truppe, il documento di un lacchè che scatena un bombardamento, un carro armato che esce da una catena di montaggio e “travolge” i soldati nelle trincee. Aveva mostrato Kerensky mentre passeggiava nel suo ufficio e, allo stesso tempo, saliva sulla scala dei titoli ufficiali. E nella sequenza più memorabile, Dio e Patria, aveva trasformato un gruppo di statue in emblemi di idee incompatibili sulla divinità. Dopo il montaggio di Ottobre a Eisenstein rimase il desiderio di fare un film sul Capitale e di spiegare teoricamente come si può utilizzare il cinema per generare concetti. Come categoria, il “cinema senza argomento” includeva film senza una trama romantica centrata su un personaggio, ma Eisenstein speculava sul fatto che il cinema potesse fare completamente a meno dell’argomento. “L’argomento è solo uno dei mezzi senza cui ancora non sappiamo come comunicare qualcosa allo spettatore.” Il film sul Capitale sarebbe dovuto essere un saggio in cui lo sviluppo delle idee avrebbe occupato il posto centrale. Secondo Eisenstein, questo cinema dal discorso intellettuale avrebbe superato la distinzione tra documentario e film di creazione narrativa. Mostrando fatti non inventati e avendo a che fare con la storia, si sarebbe presentato anche un argomento con valenza poetica sulle leggi astratte del cambiamento sociale.

Ma Nuestro culpable ricevette anche delle buone critiche. Luis Gómez Mesa diceva del film di Mignoni che era “la più fotogenica delle pellicole base” (cioè, dei lungometraggi come Aurora de esperanza, Barrios bajos, No quiero, no quiero), che non sembrava l’opera di un principiante, che aveva l’eleganza e lo spirito di un René Clair “ma tradotti in stile madrileno”. Da parte sua, Mi Revista sottolineava “la buona qualità del nuovo cinema spagnolo”, esemplificata da Nuestro culpable e da En busca de una canción, di Eusebio Fernández Ardavín. Non si può certo negare a Mignoni una notevole abilità nel trattamento della commedia, nonostante certe irregolarità nel ritmo – a volte un po’ troppo sfrenato –, alcune difficoltà nell’incatenamento delle situazioni e non poche gag infelici. Il tono frivolo che domina il film ha la sua ciliegina sulla torta in un “lieto” fine del tutto inusuale in quell’epoca (nella nostra cinematografia ma anche fuori di essa). Avviene, né più né meno, che El Randa e l’ex amante del milionario a cui sono scomparsi i due milioni di dollari si danno insieme alla fuga con il bottino, senza troppi alibi moralizzanti.

Che cosa può esserci di apparentemente più lontano dal regista che sognava di girare Il Capitale di questa paziente ricreazione in scene cinematografiche di un’azione teatrale unificata? Il concetto di unità di montaggio indica un’importante svolta nella pratica di un cineasta il cui stile nel cinema muto era noto per giustapposizioni di scene che avevano pochissima relazione tra loro e per disarticolati criteri di montaggio. Il nuovo metodo può forse essere visto meglio come il tentativo di Eisenstein di trovare uno stile rigoroso all’interno delle condizioni del grande boom del realismo socialista, basato su scene teatrali coerenti, incentrato su protagonisti individuali, unificato nello spazio e nel tempo drammatici, libero dalla dimensione “intellettuale” e “monumentale” del cinema “senza argomento”.

Le peripezie del Randa, molto bene interpretato da Ricardo Núñez, un delinquentello che si vede implicato nella scomparsa di due milioni di dollari, affrontate in tono di commedia, non piacquero a tutti. Un settore della critica giudicò duramente il fatto di aver trattato un “tema umoristico” a così pochi metri dal fronte di guerra. Su Nuevo Cinema (portavoce più o meno ufficioso dei comunisti) la recensione della prima sottolineava l’inopportunità della produzione confederale: “Un film realizzato a Madrid, a un chilometro dalle trincee. Sotto i colpi della mitragliatrice, Fernando Mignoni – eccellente scenografo e artista dal quale il cinema spagnolo può aspettarsi grandi cose – non ha avuto migliore idea che tracciare, in uno stile molto simile a quello di Benito Perojo, di cui Mignoni è stato efficace collaboratore, un tema umoristico sulle impronte di René Clair, di Lubitsch e di una farsa grottesca di Willy Forts di cui in questo momento non ricordiamo il titolo. Nuestro culpable non apporta al cinema spagnolo niente che possa essere degno di elogi. Prima del 18 luglio sarebbe stato ammissibile, oggi no.” Ciò nonostante, il critico di Nuevo Cinema riesce a scorgere nel film “qualche spunto felice”.

L’obiettivo è, come sempre, infondere nello spettatore idee con un peso emotivo. Tuttavia, ci si interroga adesso anche sulla stessa nozione di “idea”. Nel suo “montaggio intellettuale”, l’idea era uno slogan o una proposizione. Per esempio, il tema della sequenza degli Dei in Ottobre si sarebbe potuto formulare come “L’idea di Dio è culturalmente relativa e socialmente regressiva”. Dopo il ritorno di Eisenstein nell’Unione Sovietica, travolto da una valanga di critiche, rifiutò questa nozione di cinema intellettuale. Adesso l’opera d’arte doveva trasmettere concetti che fossero molto meno tendenziosi. Siamo di nuovo nel mondo dell’immaginità, della creazione di un’“astrazione espressiva”: per esempio, le qualità emotive significative di un’azione o di una situazione. Gli scritti di Eisenstein degli anni Trenta si basano su tre nozioni schematiche sulla formazione di concetti, che si ripetono più volte. La prima nozione è quella del monologo interiore, la seconda quella del pensiero sensuale e la terza quella della rappresentazione e dell’immagine. Il monologo interiore nasce dall’Ulisse. Eisenstein, che aveva letto il romanzo di Joyce nel 1928, lo considerava un esempio di come un testo poteva dar vita a conclusioni astratte con metodi “psicologici”. La disaneddotizzazione di quest’opera gli sembrò parallela al suo progetto sul Capitale. Ma all’inizio degli anni Trenta, forse sotto l’influenza di Axel’s Castle (1931) di Edmund Wilson e di James Joyce’s Ulysses (1932) di Stuart Gilbert, cominciò a considerare questo romanzo come un modello per il suo uso del flusso di coscienza.

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Si evidenza in particolare, invece, la frase pronunciata dal giudice, da cui è tratto il titolo del film e nella quale si riscontra una presa di posizione dell’autore riguardo alla questione: “Noi abbiamo già il nostro colpevole; perché ne vogliamo un altro?”, dice il magistrato alla ragazza quando questa confessa di essere l’autrice del delitto. È in questo preciso istante che si ricongiungono gli elementi sparsi in tutto il film e il discorso trova un ordine, perché non ci troviamo più di fronte a una serie di individui che agiscono per interessi privati (un banchiere che deve evitare lo scandalo, dei poteri pubblici che devono dimostrare la loro efficacia...), bensì di fronte a una classe dominante che si auto-protegge mediante l’apparato istituzionale e che pur di conservare la sua posizione di privilegio non si fa il minimo problema a lasciare dietro di sé una sfilza di vittime dell’ingiustizia, chiamata anche sfortuna. Perché, tranne per quelli che la possono comprare, tutto si ridurrà, in fin dei conti, a una questione di fortuna o sfortuna. Solo così si spiega che il povero ladruncolo – protagonista della pellicola, ma soggetto passivo degli avvenimenti – possa uscire vittorioso dal pasticcio: ha trovato il suo portafortuna... e ha trovato la sua ragazza, che è la forza motrice dell’azione; è l’insorta, la ribelle, il personaggio più dotato per gli affari. Lei sceglie il proprio compagno: prima lo coinvolge nelle sue azioni e poi ne pianifica la liberazione; e il suo modo di comportarsi appare assolutamente normale, la qual cosa mette in evidenza il fatto che nella Spagna del 1937 fosse un dato di fatto che la donna avesse ottenuto determinate conquiste sociali, lasciandosi alle spalle le posizioni rivendicative per intervenire in pieno nella presa di decisioni. Nonostante il breve periodo di proiezione commerciale, non v’è dubbio che Nuestro culpable poté compiere la sua funzione e adesso rimane quale testimone di un’epoca della vita spagnola così vivace e complessa come questa opera cinematografica che, in fin dei conti, era pensata per essere solamente un prodotto d’intrattenimento e che per questo conserva integro il suo potere di convinzione.

Sono evidenti i segni di interpellazione. Il montaggio spezza i discorsi dei personaggi in slogan. Le scritte-commenti sottolineano, sfidano o si fanno beffe delle immagini contigue. Anche quando l’indicazione è puramente visiva, Eisenstein usa spesso un’indicazione verbale a commento della narrazione. La scritta “La verità affoga” appare mentre affonda una copia della Pravda. Il desiderio di Kerensky di salire al potere si comunica mostrandolo su interminabili scale, facendo un gioco di parole con il termine “lesnitsa”, che indica salire sulla “scala del successo”. I soldati che si rannicchiano in trincea “sotto” il cannone sono letteralmente “oppressi” dalla guerra del Governo provvisorio. Queste astrazioni basate sul linguaggio sono proprie dell’arte sovietica di propaganda: manifesti e sfilate mostravano immagini di forbici che tagliano individui speculatori o di soldati bianchi ritorcendosi mentre friggono in padella. Il progetto sul Capitale, si prometteva Eisenstein, avrebbe utilizzato questo tipo di giochi come trampolini di generalizzazione didattica.

Non era abituale che in circostanze belliche si girassero nelle città e negli studi film di carattere sociale, come Aurora de esperanza, o produzioni di puro intrattenimento, come Nuestro culpable o Barrios bajos. La sola propaganda non poteva, secondo gli stessi punti di partenza degli anarcosindacalisti, giustificare la rivoluzione, il momento in cui le organizzazioni operaie avevano affrontato la vecchia società reazionaria. Si doveva coltivare anche il cinema come arte. L’esperienza dei comunisti era diversa da quella degli anarcosindacalisti, arrivando le due parti al conflitto in diverse occasioni, soprattutto per quanto riguardava questioni industriali, la distribuzione di film e il divieto di determinate pellicole. Gli avvenimenti del maggio del ‘37 portarono in ambito cinematografico le stesse tensioni e le stesse violenze, con l’imposizione delle tesi comuniste, e seppure i comunisti finirono per creare la propria casa di distribuzione e la propria casa di distribuzione, il loro discorso durante la guerra fu sempre quello dell’unità compatta e di una direzione centralizzata, sotto un criterio politico e ideologico unico per tutte le masse antifasciste, come reclamava il capitano Juan Plaza, militare propagandista.

A quanto pare, Eisenstein era d’accordo con i suoi critici sul fatto che Ottobre non riuscisse a mettere insieme il suo obiettivo ufficiale con le sue aspirazioni sperimentali. Ammise che la pellicola conteneva “un simbolismo maldestro, volgare e anche vergognoso”, ma al tempo stesso un passo come quello di Dio e Patria, “come i leoni de La corazzata Potëmkin, serve come accesso a un’idea del cinema completamente diversa”. Tale idea, come indicava in altro luogo, diventava popolare ne Il vecchio e il nuovo e sarebbe arrivata al limite ne Il Capitale. Tuttavia, ironicamente, l’influenza più forte del film sul cinema sovietico venne dal suo aspetto più “realista”. Consolidando un’immagine storica dell’insurrezione bolscevica, il romanticismo rivoluzionario di Ottobre influì più tardi sulle rappresentazioni degli avvenimenti di ottobre. Di fatto, innumerevoli documentari hanno utilizzato scene delle sequenze dei giorni di luglio e dell’assalto al palazzo come materiale di telegiornali.

Non possiamo lasciare inosservati diversi elementi che appaiono quali riflesso della situazione socio-giuridica della Seconda Repubblica e del momento delle riprese, come il riferimento esplicito al divorzio del banchiere dalla moglie in una delle loro conversazioni o il sogno del Randa, in casa con la ragazza in una cerimonia civile celebrata dal giudice. Evidenti istituzioni laiche della società liberale che per anni erano state campi di battaglia politica e religiosa tra gli allora insorti e la Seconda Repubblica. Risulta sorprendente anche l’assoluta assenza di simboli religiosi o dello Stato nello studio del giudice del Tribunale di primo grado numero 12, perché la giustizia non si amministra in nome di Dio o del capo dello Stato, ma è una virtù che risiede nel popolo.

Sul progetto di portare Il Capitale al cinema, Eisenstein scrisse su una cartolina dell’Aga Khan: “Sulla deità. Aga Khan – un materiale insostituibile – il cinismo dello sciamanismo portato al limite. Dio: un laureato presso l’Università di Oxford. Che gioca a rugby e a ping-pong e accetta le preghiere dei fedeli. E, sullo sfondo, le calcolatrici lavorano senza sosta per portare una contabilità ‘divina’, inserendo sacrifici e donazioni. La miglior esposizione del tema del clero e del culto.”

Antonio Polo si spinge oltre nel giustificare questa produzione: “Quando abbiamo avuto l’idea di Nuestro culpable, volevamo solo produrre un film commerciale, ameno, senza alcun insegnamento morale, purché l’argomento non presentasse aspetti reazionari, e ci siamo pienamente riusciti.” E aggiunge: “Alla fine del ’37, quando abbiamo girato il film, il pubblico era saturo di propaganda e trionfalismi, purtroppo smentiti dai bollettini di guerra, e desiderava solo trovare nelle sale cinematografiche un po’ di evasione da un ambiente sempre più pessimista per alcuni e pieno di speranza per altri. È logico che venissimo censurati da giornalisti che sembrava non leggessero i bollettini ufficiali per non aver fatto un film che sollevasse gli animi, ma il nostro proposito era quello di dare lavoro a una industria e, purtroppo, non siamo riusciti ad andare avanti per mancanza di mezzi.” Presupposti condivisi in linea generale dal secondo Comitato di Produzione della CNT barcellonese e respinti dalle altre organizzazioni politiche e sindacali, che isolarono le esperienze anarcosindacaliste dietro un muro di incomprensione e censura, cosa che forse accelerò la loro “riconversione” ultima verso obiettivi prioritariamente concepiti in termini di rendimento commerciale.

Un nuovo Eisenstein si stava formando. Gli articoli della rivista Cahiers du cinéma furono tradotti in tutti i paesi occidentali. L’accesso agli appunti di Eisenstein su un film che verteva sul Capitale, pubblicati in russo nel 1973 e fatti conoscere via via in altre lingue, confermarono l’idea che il cineasta volesse fondere l’impegno politico a sinistra con la tecnica sperimentale. Una conferenza tenutasi in Italia in questo stesso anno dedicò grande spazio al suo marxismo, mentre la rivista tedesca di sinistra Alternative dedicò un numero alle implicazioni politiche della sua teoria del montaggio. Man mano che si andava dissipando la politica rivoluzionaria, l’opera di Eisenstein cominciò a essere un punto di riferimento ironico. Il protagonista di Sweet Movie (1974) di Makavejev indossa un berretto da marinaio della Potëmkin; nel film di Marker Le fond de l’air est rouge (1977), una polemica riflessione sul fallimento dei movimenti di sinistra, si intercala la sequenza della scalinata di Odessa con materiale informativo del 1968.

fonte: Archivio F.X. - Pedro G. Romero

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