lunedì 22 settembre 2014

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Crisi e Critica
- Il limite interno del capitale e le fasi di avvizzimento del marxismo -
di Robert Kurz

Un frammento

Nota: Il 10 febbraio del 2010, Robert Kurz inviò per email alla redazione di EXIT! un testo, accompagnato dalle seguenti parole: "Insieme alla prima parte del progetto del libro più piccolo, Crisi e Critica, stralciato dal precedente progetto Lavoro Morto, per discuterlo nel prossimo incontro. Si può rimuovere dalla prefazione e dall'introduzione tutto ciò che si considera necessario". Dopo l'incontro, il testo è stato fatto oggetto di piccoli aggiustamenti da parte della redazione e non è stao mai modificato dal maggio del 2010. Come viene spiegato nella prefazione del suo ultimo libro, Denaro senza Valore, Robert Kurz aveva deciso di scrivere una serie di libri a partire dal progetto originale del libro di grandi dimensioni, Lavoro Morto. L'unico che ha potuto realmente terminare, è stato Denaro senza Valore, che è apparso nelle librerie pochi giorni dopo la sua morte. Crisi e Critica sarebbe stato un altro libro di questa serie. Dei 36 capitoli previsti - inclusi l'introduzione e l'epilogo - Robert Kurz ha avuto il tempo di scriverne 10.

* Prefazione * Introduzione * 1. La teoria della crisi nella storia del marxismo * 2. Il capitale va molto bene. Ignoranza situazionista della crisi come mancanza di dimensione storica del tempo * 3. Mitizzazione della teoria del crollo * 4. I cavalieri dell'apocalisse * 5. Psicologismo per i poveri * 6. Bisogna criticare il capitalismo solo per mancanza di funzionalità? * 7. Crisi ed emancipazione sociale * 8. Excursus: la dissociazione-valore fa del feticcio il creatore di un mondo di marionette? *  9. La crisi come rapporto soggettivo di volontà *

Altri capitoli previsti ma non scritti:

10. Il capitalismo come eterno ritorno dello stesso * 11. Empirismo storico: l'ammirevole flessibilità della logica di valorizzazione * 12. Ritorno alla brutta normalità? * 13. La crisi come mera "funzione di aggiustamento" delle contraddizioni della circolazione? * 14. Excursus: l'indebolimento e l'abbandono parziale "critico del valore" da parte della teoria radicale della crisi * 15. Sempre nuovamente il "problema della realizzazione" * 16. La crisi dev'essere piccola o grande? Il concetto ridotto del sistema * 17. Il percorso del biocapitalismo? * 18. Riduzionismo ecologico * 19. Capacità di sopravvivenza del capitale individuale ovvero un capitalismo di minoranza? * 20. Il carattere dell'economia postmoderna delle bolle finanziarie * 21. Excursus: critica riduttiva del mercato finanziario, anti-americanismo e antisemitismo strutturale * 22. L'ultima risorsa ovvero la fede nel miracolo di Stato * 23. Un'illusione democratica * 24. La questione della proprietà erroneamente collocata * 25. Keynesismo di sinistra ovvero la riduzione della teoria del sub-consumo * 26. La guerra come soluzione per la crisi? * 27. La crisi sposta solo i rapporti globali di potere? * 28. Il sesso della crisi * 29. La mancanza della critica categorica * 30. Sintesi sociale e socialismo * 31. Excursus: "Forma embrionale" - un grave malinteso * 32. Cos'è un mediatore? Criteri di immanenza sindacale * 33. Carnevale di "lotte" e pacifismo sociale da ideologia a alternativa * 34. Come Herr Biedermeier aggiusterebbe bene tutto * Epilogo *

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9. La crisi come relazione soggettiva di volontà

Difficilmente si può negare che ci sia realmente, in qualche modo, un certo limite alla valorizzazione che diventa visibile nelle crisi. Ma si pretende però che il limite non sia né assoluto né storico. Per questo, l'oggettività della crisi viene riconosciuta, in maniera più o meno contrariata, in una versione debole, come quella che si manifesta nelle fasi di avvizzimento dei vecchi dibattiti sulla teoria dell'accumulazione e della crisi, ridotta comunque al già detto movimento ciclico in sé inesauribile, o alle periodiche rotture strutturali. Ma questo non basta, sotto nessuna circostanza, ai post-marxisti della linea dura della dissoluzione soggettivistica della relazione di capitale, nella loro concezione della teoria dell'azione. Operaismo e post-operaismo hanno costruito una versione forte del rifiuto di un limite interno oggettivo, che corrisponde meglio alla falsa identificazione di crisi e critica. La crisi viene qui completamente inquadrata nella relazione di volontà immediata dei soggetti sociali costituiti nel capitalismo. La crisi non deve avere una qualche ragione oggettiva, né leggi di riproduzione feticista, ma dev'essere una crisi che viene "fatta" più o meno coscientemente.
Il "fare" non viene qui considerato come il costituire una forma a priori la cui matrice va spezzata, pena la rovina. Una volta cancellato il carattere trascendentale della forma di volontà - e con esso l'oggettività negativa di questa matrice - rimane solo la volontà senza i presupposti di stabilimento cosciente degli obiettivi, la cui relazione con la costituzione del feticcio dev'essere completamente oscurata; emergendo perciò, direttamente o indirettamente, come presupposto ontologico insuperabile. Si ignora la forma dell'azione, ma quest'azione immediata viene messa in corto circuito con le necessità materiali e sociali della vita, senza capire che la forma dell'interesse smentisce il suo contenuto. Detto secondo la teoria della dissociazione-valore, questo significa che a maggior ragione tale azione, nel senso delle necessità della vita, rimane rinchiusa nel "trattamento della contraddizione" formalmente immanente, rimanendo così imprigionata, senza via d'uscita, nell'oggettività negativa del contesto funzionale dominante.
In questo modo, però, si nasconde ampiamente anche il carattere di attività sociale nel capitalismo, come azione necessariamente competitiva. Ma è proprio la "coercizione muta della concorrenza" (Marx) che determina la forma di volontà, e delle sue azioni, nel capitalismo; ed in questo modo, non solo stabilisce le categorie capitaliste come "condizioni oggettive di esistenza", ma crea anche la determinazione cieca del limite della crisi, al di là dello stabilire volontariamente degli obiettivi.
E' caratteristico dell'ideologia (post-)operaista, nel peggior senso, che la determinazione della concorrenza universale, centrale per l'analisi marxiana del capitale, sarebbe completamente dissolta, o considerata un mero fenomeno subordinato, tale e quale come la crisi. Il carattere universale della concorrenza a tutti i livelli sociali viene soppresso; sia la concorrenza tra singoli capitali, tra i diversi settori, sia le economie nazionali, sia le regioni mondiali, ecc., così come la concorrenza tra gli stessi salariati, tra impiegati e disoccupati, tra giovani e vecchi, tra uomini e donne. E' proprio questa forma centrale di tutte le circostanze di relazionamento che non viene tematizzata, o viene menzionata solo marginalmente in formule fatue; lo stesso avviene per quel che riguarda il proseguimento della concorrenza lungo linee di demarcazione ideologica (ed anche etnica, ecc.). La relazione di concorrenza universale viene considerata in generale come non costitutiva delle "molteplici" relazioni e differenze sociali. Tale ignoranza non è solo teoricamente di basso livello; equivale anche ad un'ampia perdita di senso della realtà.
Resta la "relazione di classe", immediatamente ontologizzata, la quale in ultima istanza determina tutta la percezione; originalmente la relazione tra lavoro salariato (industriale) e la rappresentazione del capitale: una relazione fra un onnipresente moltitudine determinata "biopoliticamente" in modo diffuso, per mezzo delle categorie politico-economiche della relazione di capitale, che a loro volta sono state "ridefinite" senza alcun fondamento. Per questo anche la "relazione di classe", arbitrariamente gonfiata in termini concettuali e fenomenologicamente riduttivi, può essere riconosciuta come se non ci fosse un piano di concorrenza universale. Ma l'opposizione fra lavoro salariato e capitale (o meglio: l'opposizione fra la rappresentazione funzionale del capitale, tra lavoro astratto vivente e morto), nella sua esistenza immediata costituita nel capitalismo, costituisce essenzialmente una relazione di concorrenza capitalistica tra altri che, in virtù del carattere specifico della merce forza lavoro, ha assunto una sua forma istituzionale particolare nella relazione fra imprenditori e sindacati. Essa appartiene pertanto al movimento globale di concorrenza che sta inscritto nelle condizioni di esistenza vigenti, la cui dinamica essa ratifica, inclusa anche la determinazione oggettiva della crisi.
Mentre l'operaismo/post-operaismo elude in gran parte la concorrenza universale, al contrario l'opposizione fra lavoro riproduttivo suppostamente creatore universale di plusvalore e l'impero soggettivamente sfruttatore figura come relazione di volontà ontologica immediata. Così ancora una volta si ipostatizza il soggetto ontologico tradizionale "classe operaia". La confusa ontologia della moltitudine identifica questa "classe operaia", da un lato, semplicemente con i "poveri", e dall'altro lato, con la classe media delle tecnologie dell'informazione e delle analisi di sistema; ma apparentemente non è questo quel che qui importa: "I poveri incarnano una condizione ontologica non solo di resistenza ma, simultaneamente, anche di produzione della propria vita" (Hardt/Negri, 2004).
La formulazione della filosofia di vita nasconde una fattualità banale: in realtà i poveri, come tutti gli altri, "incarnano" nella loro essenza immediata solo un piano di concorrenza e di forma vigente di volontà. Non sono persone migliori, né rappresentano in alcun modo un principio ontologico buono, ma sono semplicemente poveri capitalisti e per questo spontaneamente obbligati a reagire alla loro propria impotenza nel contesto della concorrenza universale. Per questo, non c'è la minima garanzia che questi poveri capitalisti si comportino "come resistenti", o in maniera emancipatrice. In sé, non "incorporano" nient'altro che l'esistere nel capitalismo. La forma secondo cui si comportano, rispetto a questo, non può essere espressa per mezzo di qualsivoglia "incarnazione", ma solo come espressione di un'assimilazione riflessiva il cui contenuto, e la cui direzione di impatto, è in generale segnato a priori.
Se, per il marxismo tradizionale, nonostante la sua ontologia del lavoro, l'eliminazione della concorrenza, almeno parzialmente, all'interno del lavoro salariato, costituiva ancora un problema teorico e pratico centrale, per niente facile da gestire, il post-operaismo pretende ora di mobilitare un'ontologia della moltitudine senza alcuna mediazione. E se, per il marxismo tradizionale, ancora una volta nonostante la sua ontologia del lavoro, il problema della crisi stava anche in una relazione dialettica con l'oggettivizzazione della legge pseudo-naturale del processo di valorizzazione, per il post-operaismo, la crisi, corrispondentemente alla sua soggettivizzazione ontologica, è già solamente un'espressione immediata delle relazioni di volontà cosciente. La dialettica che nasce dalla contraddizione sociale soggetto-oggetto viene completamente sostituita dall'ontologia, la quale può solo essere designata come peccato capitale ideologico (16).
Questo non costituisce affatto una qualche "svolta copernicana" che va al di là del paradigma tradizionale (come al post-operaismo piacerebbe vedere sé stesso), ma semmai una ricaduta, non solo indietro sul marxismo del movimento operaio, ma indietro sulla stessa teoria di Marx. Una volta che Marx estende le determinazioni formali negative della sua critica dell'economia politica non solo come astrazioni teoriche (17), ma, simultaneamente, come forme reali dell'esistenza, egli riesce anche a spiegare a sufficienza l'esistenza reale delle leggi coercitive autonomizzate e della dinamica della crisi oggettivata. Per questo, già nel primo capitolo del Libro I del Capitale, dice che le determinazioni reali della produzione di merci si impongono come "legge naturale normativa", e di fatto "con violenza", "allo stesso modo della legge gravitazionale, quando a qualcuno crolla la casa sulla testa" (Marx). E in una nota a piè di pagina accentua quest'oggettivizzazione negativa per mezzo della citazione di una precedente frase di Engels scritta su "Un abbozzo di una critica dell'Economia Nazionale", del 1844": "Che si dovrebbe pensare d'una legge che può affermarsi soltanto attraverso rivoluzioni periodiche? Si tratta appunto d'una legge di natura che si fonda sulla mancanza di coscienza di quanti sono coinvolti nel processo." Questa determinazione del momento oggettivato di auto-contraddizione interna del capitale, viene accentuata in termini di teoria della crisi nel Libro II, nel corso dell'analisi del processo di circolazione capitalista: "Quanto più acute e frequenti diventano le rivoluzioni di valore, tanto più il movimento del valore autonomizzato, automatico (!), operante con la violenza di un processo elementare di natura, si fa valere"; e anche nel Libro III (sezione sulla caduta tendenziale del saggio di profitto) con la celebre formula: "Il vero limite della produzione capitalista è il capitale stesso ...".
Il concetto di "legge naturale" potrebbe, di fatto, essere facilmente interpretato positivamente - e lo è anche stato (perfino dallo stesso Engels); ma, dal punto di vista della critica del feticcio, tale oggettivazione viene creata dagli stessi esseri umani, e non è in alcun modo "necessaria per natura", e proprio per questo costituisce lo scandalo che dev'essere criticato. La soggettività ideologica della relazione e della sua crisi, tuttavia, non critica questi fatti negativi, ma lascia solo che scompaiano nello stabilire gli obiettivi, suppostamente calcolati, dei soggetti ontologizzati.
Antonio Negri è ovviamente convinto di aver consumato una rottura fondamentale con la critica dell'economia politica di Marx. Già nel suo libro del 1979, "Marx oltre Marx", aveva affermato di aver esposto il nucleo di un metodo "soggettivista materialista", che in verità si limitava ad assumere ancora una volta il riduzionismo del "marxismo occidentale", e a murare l'ultima porta di accesso al riconoscimento della dialettica feticista soggetto-oggetto nella modernità. Si pretendeva che il fatto del soggettivismo fosse solo il contrario dell'oggettivismo e che non risolvesse nulla che fosse posto fuori da qualsiasi possibilità di essere pensato. Negri naturalmente riveste la sua rottura completa con la critica dell'economia politica di Marx, con la formula della "continuazione dello sviluppo", cosa che rimane naturalmente un'affermazione gratuita senza fondamento alcuno, come tutte le altre "ridefinizioni": "Il metodo materialista - nella giusta misura in cui viene totalmente soggettivato (!), in un gioco completamente diretto, creativo - non può essere in nessun modo essere imprigionato dalla totalità dialettica o dall'unità logica" (Negri, 2005).
Ma il capitalismo è una totalità negativa proprio perché non viene assorbito nella costituzione volontaria degli obiettivi immediati dei suoi soggetti d'azione; e questa totalità è dialettica perché si muove su contraddizioni interne. Non porta a niente che Negri neghi semplicemente "l'imprigionamento" di questa totalità nel processo, invece di criticarlo. Quello che smentisce questo soggettivismo grezzo, è la crisi; e, proprio per questo, essa dev'essere controfattualmente soggettivata, e disperatamente reinterpretata in un atto di volontà coscientemente controllato, sul terreno della lotta eroica ontologica fra la moltitudine e l'impero. Un concetto di crisi capitalista come atto di volontà cosciente è tanto chiaramente idiota alla maniera illuminista (immediatamente dietro tutte le cose c'è sempre una volontà che fa i suoi calcoli), e tanto francamente infantile, che l'ideologia operaista e post-operaista a questo punto viene presentata ancora più audace e apodittica di quanto in ogni caso già sia.

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Il modello fondamentale appare in un modo per cui: o il proletariato, o la moltitudine, demoliscono coscientemente nella crisi la dominazione capitalista (questa inversione concettuale, o falsa identificazione nella relazione fra crisi e critica, già la si incontra nel marxismo del movimento operaio, come si è visto), oppure, al contrario, i capitalisti, o l'impero, messi in difficoltà dalle gloriose "lotte" del contro-soggetto ontologico, a loro volta "inscenano" coscientemente la crisi, strategicamente, per affermare il proprio dominio. Il presupposto, naturalmente, è che Negri e Co. cancellano tutto il contesto delle categorie oggettivate del capitale, dalla legge del valore alla caduta tendenziale del saggio di profitto (su questo ultimo punto anche Michael Heinrich, per esempio, trova punti di contatto con il post-operaismo). I tre volumi del Capitale rimangono in fondo senza oggetto e possono essere scartati; quello che resta è la pura relazione di volontà vista come pura relazione di potere politico. Così restano solo le relazioni di potere in quanto tale, che non ha nessuna ragione logica di formazione (18).
Non si può tacere del fatto che una tale soggettività di crisi - che verrebbe attuata come "messa in scena" cosciente - presti il fianco alle famigerate teorie della cospirazione, il cui nucleo storico consiste nella sindrome antisemita. Indicare un simile contesto, non ha niente a che fare con una denuncia a buon mercato; esso risulta, involontariamente, dall'ideologia di un preteso superamento della "contraddizione in processo", per mezzo della sua riduzione a relazioni immediate di volontà e di potere. Se "il capitale", per mezzo delle sue istanze centrali di potere e frazioni dominanti, inscena coscientemente una crisi, questo, in concreto, può essere pensabile solo se a tal fine c'è qualcuno a tirare i fili dietro le quinte: occorrono accordi segreti e si impongono decisioni di potere ben costruite, inclusa un'interpretazione mediatica anch'essa ordita clandestinamente (19).
Anche gli ideologhi "anti-tedeschi" hanno affinità con questa soggettivizzazione, sebbene evidentemente rifiutino al massimo grado le interpretazioni della teoria della cospirazione e la tematizzazione del suo antisemitismo più o meno mascherato. Se la critica dell'ideologia manca quasi del tutto nel post-operaismo (corrispondentemente alla sua transizione post-moderna), gli "anti-tedeschi", al contrario, come si è visto, perseguono un riduzionismo della critica dell'ideologia. Questo, tuttavia, comprende anche una soggettivizzazione; essendo un'elaborazione ideologica cosciente diventata un demiurgo delle relazioni e il cui lato oggettivo viene cancellato o, in ultima istanza, dissolto nell'ideologia. Così anche questo pensiero non tocca la dialettica soggetto-oggetto nella "contraddizione in processo".
Per cui si afferma: "La crisi ... non esiste indipendentemente dalla coscienza che le persone hanno di essa" (Scheit, 2001). Qui troviamo una riduzione, o confusione, decisiva. E' vero che la crisi risulta dalle azioni umane coscienti nella concorrenza universale, ma proprio per questo non intenzionali, in quanto oggettivizzazione cieca alle spalle degli agenti coscienti, e in riferimento alla loro particolarità atomizzata (come individui, gruppi, imprese, ecc.); e, in tal senso, il comparire della crisi è del tutto indipendente dalla coscienza degli esseri umani, e non include immediatamente una qualsiasi riflessione "sopra" le proprie relazioni. Quello che ne consegue, non può essere indipendente dalla coscienza, ma al contrario, sono le reazioni alla crisi e alle sue forme di sviluppo, a tenere una porta aperta verso l'uscita ("socialismo o barbarie"). Ma sono due cose differenti. Essendo, le due cose, messe in corto circuito, la crisi mostrerà la maschera del soggetto calcolatore, così come guarderà sempre, in ultima istanza, al pensiero dell'illuminismo. Anche a partire da questo, alla fine può venire distillata una sorta di teoria del complotto; in ogni caso, sarà la riduzione della contraddizione ad ideologia che impegnerà segretamente un tale pensiero.
Nell'operaismo/post-operaismo, al contrario, non si tratta di mere inconsistenze argomentative, ma piuttosto di una riduzione assoluta - che può essere definita solo grottesca - della crisi e del suo concetto come decisione del potere e della volontà cosciente ed immediata. Così, la vecchia rivista operaista "Wildcat" continua ad affermare: "L'operaismo ( e più tardi Bonefeld e Holloway) ha mostrato come la crisi economica mondiale degli anni trenta del secolo scorso sia stata il movimento di resistenza e di repressione contro la forza di classe resasi evidente all'inizio del secolo e nelle rivoluzioni alla fine della prima guerra mondiale. La crisi dopo il 1973 è stata caratterizzata dalle lotte di classe e da una nuova situazione storica" (Homepage di Wildcat, il 30/5/2009). Secondo quest'analisi, completamente soggettivata, la politica dell'allora presidente della Federal Reserve americana, Paul Volcker, "ha annunciato", a partire dall'autunno del 1979, "il lungo attacco (!) svolto dalla crisi neoliberista" (ibidem). La "crisi della crisi" (ibidem) a partire dall'autunno del 2008, avrebbe quindi la sua origine nel nuovo ed astuto piano di Alan Greenspan; o forse si potrebbe trattare del principe delle tenebre, Voldemort?
C'è solo un piccolo problema. Se la crisi avviene come volontà contro volontà (chi contro chi?), allora bisognerebbe dire chiaramente se ci sono ancora capitalisti veri e propri, o se sono solo i loro agenti che preparano ed attaccano, per mezzo della messa in scena della crisi: oppure se non sia piuttosto, al contrario, il proletariato, alias la moltitudine, che in una maniera o nell'altra sta dietro a tutto questo. La relazione tra sviluppo capitalistico e crisi, da un lato, e "lotte", dall'altro, era già poco chiaro nel vecchio operaismo, come ci avverte Gewährsmann: "Mario Tronti ha rappresentato la tesi, molte volte recepita, per cui le lotte del lavoro, ed in particolare il rifiuto proletario del lavoro, avrebbero obbligato il capitale, per mezzo dell'abbassamento del tasso di plusvalore, all'introduzione di salti sempre nuovi nella produttività. Al contrario, in Raniero Panzieri non si trova quasi mai un'indicazione del parallelismo fra militanza proletaria e sviluppo capitalista. Panzieri non si lascia mai convincere dalle affermazioni relative ad una possibile relazione di causalità. Laddove si incontrano tali affermazioni, egli tende verso un'affermazione diametralmente opposta a quella di Tronti: e cioè che la modifica del processo di produzione, introdotta dalla parte capitalista, porterebbe a nuove lotte, e non viceversa" (Henninger, 2008).
Relativamente al concetto di crisi, la mancanza di chiarezza tende ad aumentare, portando perfino verso l'idea favolosa secondo la quale "capitalisti" e "proletariato/moltitudine", alternativamente, gettino nella crisi tutta la società, in maniera cosciente e volontaria, di modo che ad ogni contrattacco della volontà contraria si arriva alla "crisi della crisi", così come essa era stata voluta dalla parte avversa. Quando non si riesce a pensare che la crisi pertiene alla dialettica soggetto-oggetto, e si produce come mera oggettività attraverso la concorrenza universale e del trattamento politico-economico della contraddizione alle spalle dei partecipanti, allora simili sciocchezze diventano inevitabili. Affermazioni analitiche serie, diventano del tutto impossibili da farsi (20).
Nessuna crisi storica del capitalismo può esser fatta derivare da "lotte volontarie" immediate; e la nuova crisi economica mondiale, iniziata nel 2008, ancora molto meno di quelle precedenti. Poiché qui, nemmeno superficialmente è possibile costruire una connessione causale reale con "lotte" o con "politiche" coscienti; o, nella migliore delle ipotesi, per mezzo di evidenti fantasmagorie. Lo scoppio delle bolle finanziarie, il fallimento di Lehman Brothers e ciò che ne è seguito, non è stato un complotto dell'impero, e nemmeno è stato dovuto alla benché minima "lotta sociale", sia negli Stati Uniti che altrove. Perciò, l'ideologia di crisi soggettivista, a fronte di questa situazione, deve ricorrere ad un appello puramente mistificatorio nei confronti di un "noi" ideologico, che difficilmente esiste nella realtà.
Questo è avvenuto soprattutto con John Holloway, che ha reintrodotto nuovamente il concetto marxiano di feticcio nel post-operaismo, solo per falsificarlo e minimizzarlo "alla maniera esistenzialista", come determinazione di un epifenomeno indebolito. La totale incapacità di spiegare la crisi ed il suo carattere storico, reinterpreta poi la propria impotenza di fronte all'oggettivazione capitalista, come una forza creatrice chiaramente divina: "La furia della dignità ci colloca al centro. Noi produciamo il mondo con la nostra creatività, con la nostra attività. Siamo anche noi a produrre il capitalismo che ci uccide: per questo sappiamo che possiamo smettere di produrlo. Siamo noi a produrre l'attuale crisi del capitalismo, o meglio siamo noi la crisi del capitalismo" (Holloway, 2008). Il fatto che "tutti noi" (il "noi" sarebbe quindi tutti i membri della società senza eccezioni) riproduciamo il capitalismo e produciamo la sua crisi, dal momento che "noi" conduciamo la nostra esistenza all'interno della sua costituzione, viene qui sottratto all'oggettivazione soggiacente e viene reinterpretato come fantasia di onnipotenza soggettiva immediata, che può essere definita infantile e che non produce alcuna conseguenza. Questo "noi" costituisce ovviamente un plurale maiestatis mistificante che merita di essere deriso. Se NOI così nella NOSTRA magnificenza produciamo il mondo, allora siamo anche NOI che produciamo il capitalismo e, ancora di più, la sua crisi, perché NOI, in ogni caso, già siamo, e facciamo sempre, tutto.
Dissolvere la dialettica feticistica soggetto-oggetto in una falsa identità immediata, può portare solo ad un kitsch concettuale di questo genere, la cui "furia della dignità" non è credibile nemmeno a livello sentimentale. Mentre la soggettività polare di impero e moltitudine - e perfino una spiegazione che ha come base la teoria del complotto - almeno indica ancora formalmente la contraddittorietà immanente (sebbene non compresa), la riduzione di Holloway riassume nel NOI unidimensionalmente esistenzialista, come soggetto della "produzione di crisi", tratti direttamente paranoici: " (Noi) siamo responsabili della crisi e noi dobbiamo fare la rivoluzione, in futuro, dal momento che già la facciamo e la crisi è un'espressione visibile di quello che già facciamo... Noi siamo la ribellione, vale a dire, la crisi del capitale ... il nostro essere ribelli, la nostra insubordinazione, la nostra dignità significa scuotere il sistema. La crisi del capitale è un'espressione della forza della nostra dignità. Dobbiamo intendere la crisi, non come collasso del capitalismo ma come irruzione della nostra dignità" (Holloway, ibidem). Se gli impiegati e i capi di Lehman Brothers, o della General Motors, lo avessero saputo ...
Ora, in cosa veramente consiste l'umiliazione di questa "dignità" fatta a pezzi? La soggettivazione della crisi corrisponde alla dissoluzione delle relazioni di feticcio in relazioni di volontà immediata. A prima vista, i portatori di volontà ontologizzati ed i loro obiettivi, sembrano essere esteriori gli uni agli altri, ed in un certo modo contrapposti; volontà contro volontà, lavoro contro capitale, classe contro classe, moltitudine contro impero, poveri contro ricchi; di modo che, fra golpe e contro-golpe, "facciamo" coscientemente "tutto", inclusa la crisi. La chiarezza suppostamente ottenuta, diventa incerta nel corso del passaggio post-moderno. Così anche nelle teorie post-strutturaliste la cosa non è poi così semplice; per l'ontologia del potere di Foucault, per esempio, la "produttività" del potere consiste proprio nel fatto che non rappresenta alcun rapporto di repressione esterna, ma include la volontà e l'esternalizzazione di tutti i partecipanti in un processo di mutazione permanente. Vi è, quindi, un "comune" ai "combattenti": il fluido del potere che a loro si estende, che però rimane, in quanto tale, indeterminato ed ontologico, mentre i suoi stati concreti nascono solo sul piano di una "microfisica del potere" (Foucault), in particolarità e forme di sviluppo immediato.
Questo tipo di determinazione di un contesto socialmente inclusivo, torna di nuovo indietro al concetto marxiano di feticcio, di una forma negativa comune della volontà, cioè, l'inquadramento, in modo funzionale e socialmente differente, di tutti gli attori, senza eccezione, nel medesimo contesto formale e funzionale del capitale; ossia, del soggetto automatico che è ugualmente presupposto da loro, e da loro messo in movimento. Una volta che nella teoria post-moderna, quello che è il comune inclusivo non solo viene presentato in forma riduttiva e diffusa, ma viene anche ontologizzato, esso rimane concettualmente inaccessibile, in quanto fondamentalmente incriticabile. In questa comprensione si possono verificare "dislocamenti" all'interno dell'ontologia del potere, mentre la determinazione della forma storica, come modo di produzione e di vita specifica, viene messa da parte. Tuttavia la percezione che assume oscuramente la forma di un "comune" ai "lottatori volontari" deve in un certo modo smentire l'immediatezza dei portatori di volontà, esteriori e contrapposti gli uni agli altri.
Ma, dal momento che non esiste alcun concetto critico della forma comune di volontà, la falsa immediatezza si trasforma in un costrutto assurdo, come si è già visto negli approcci di Hardt/Negri, e più chiaramente in quello di Holloway: i due soggetti di volontà che si battono l'uno contro l'altro si trasformano nascostamente in un unico, nel quale l'altro viene incomprensibilmente posto fuori di sé. Il soggetto creatore divinizzato veramente completo ("classe", "moltitudine", "NOI") è simultaneamente il suo proprio contrario, cosa che ci riporta implicitamente ai vecchi temi letterari del sosia o dell'ombra autonomizzata, e alla struttura schizofrenica della coscienza (21), il cui rimando immanente è costituito dal feticcio rimasto da tematizzare (e che viene esplicitamente rifiutato). Non vi è quindi alcuna soluzione analitica e concettuale dell'enigma, ma solo la mistificazione di un meta-soggetto di volontà paranoico, che indulge nell'adorazione elogiativa.
La relazione sociale e la sua crisi non possono essere pensate in altro modo quando il problema dell'oggettivazione viene fatto sparire. Non si critica, né si rompe una forma di volontà storica comune, ma si pretende che l'esistenza immediata di un NOI sia già una riproduzione affermativa della relazione, la sua crisi e la sua critica, tre in uno: "Noi siamo il capitale" (lavoratori metallurgici che manifestavano nel quartiere bancario di Francoforte); "Noi siamo il popolo" (cittadini della Repubblica Democratica Tedesca in occasione della loro trasformazione in cittadini della Repubblica Federale Tedesca); "Noi siamo l'Opel"; "Noi siamo la crisi"; il nostro fallimento è la nostra "dignità",  e solo un'espressione del fatto che "Noi facciamo la rivoluzione". NOI siamo pronti per il manicomio.

- Robert Kurz2012 -                                                                           FINE

(16) - L'ontologia si riferisce alla società e alla storia sempre in modo reazionario ed affermativo, dovendo pertanto, in questo contesto, essere sempre combattuta per principio. L'elaborazione ideologica della società borghese è, nell'essenziale, ontologica. Quello che dev'essere soddisfatto, prima delle contraddizioni laceranti, è la "necessità ontologica" (Adorno), la quale pretende di pervenire ad una rassicurazione senza la necessità di una critica radicale della forma storica. Tra la dialettica (negativa) e l'ontologia non vi può essere alcuna conciliazione; qui, fondamentalmente, le strade si dividono. Non a caso, tutta l'ideologia postmoderna si interessa più della "ontologia fondamentale" del filosofo nazista Heidegger che della dialettica di Marx nella critica dell'economia politica. Non è Marx a costituire il riferimento centrale, ma Heidegger. Si aspetta da molto tempo che venga nuovamente tracciata la linea di frontiera fra dialettica ed ontologia, e che la lotta venga condotta proprio contro i negristi e gli altri heideggeriani "di sinistra".

(17) - In questo caso si tratta di "modelli" mentali che si contrappongono esteriormente alla realtà e la descrivono, approssimativamente o meno, in quanto "cosa propria", in ultima istanza nel senso kantiano della "cosa in sé", che si sottrarrebbe alla conoscenza. Questo "metodo", proveniente dal positivismo, e che corrisponde alla relazione stessa del capitale, e perciò significa già elaborazione ideologica affermativa, non dev'essere confuso con la critica adorniana del concetto, che non nega le astrazioni teoriche della critica dell'economia politica o il loro contesto di realtà rispetto alla "cosa in sé". Questa critica del concetto dice che determinati momenti del mondo reale (materiale, sociale, naturale, ecc.) non vengono assorbiti dai concetti perché la relazione sociale corrispondente a questi concetti (appresi in modo negativamente critico) non riesce a coprire completamente questo mondo, sebbene sia totalitaria. Questo è qualcosa di completamente diverso dalla comprensione positivista che pretende di attribuire ai concetti un puro carattere riflessivo, ossia, non li estende come determinazione negativa del reale, e quindi assume la realtà negativa e totalitaria del capitalismo, agnosticamente, a partire dalla linea di chiusura, per poi accontentarsi di un acritico fissaggio nei fatti.

(18) - Si dissolve così la critica dell'economia politica nell'ontologia del potere di Foucault, per esempio. La radice di questo pensiero di ontologia del potere, si può già incontrare nel marxismo del movimento operaio, non in ultimo nella tendenza a dichiarare l'auto-contraddizione interna e le leggi del movimento del capitale sostenute dalle rivendicazioni del potere statale e dal controllo dello Stato. La teoria socialdemocratica del capitalismo organizzato (dallo Stato) (Hilferding) nasce anche nel comunismo di partito del dopoguerra e, diventata negativa, nella teoria critica di Adorno ed Horkheimer. Questa corrente di ideologia di un capitalismo emancipato dalle contraddizioni e dalle leggi oggettive, come pura relazione di potere, costituisce il fondamento dell'idea operaista e post-operaista di una "valorizzazione politica" immediata, come nelle tesi "anti-tedesche" del "capitale soggetto statale".

(19) - Un'involontaria vicinanza ai sospetti delle teorie della cospirazione abbraccia una parte considerevole dello spettro della sinistra, in corrispondenza con i diversi gradi di vicinanza alle soggettivizzazioni dell'ontologia del potere. Così, per esempio, la cosiddetta svolta neoliberista viene vista nei discorsi del marxismo residuale e del keynesismo di sinistra, meno come reazione alle contraddizioni oggettive nel processo di crisi mondiale della terza rivoluzione industriale, e più come una specie di putsch, da parte dei corifei e dei membri della linea dura del neoliberismo, nelle istituzioni capitaliste della scienza e della politica, che potrebbe anche semplicemente essere cancellato politicamente. Il legame sotterraneo col nucleo antisemita del pensiero della teoria della cospirazione, viene naturalmente negato con indignazione. Tuttavia è proprio il post-operaismo che, con la sua estrema soggettivazione e ontologizzazione delle relazioni, è particolarmente poco sensibile alla critica dell'ideologia. Non è solo l'antisemitismo, con le sue differenti forme di manifestarsi nel movimento globale di massa, a venire minimizzato come "lato oscuro della moltitudine". Bisogna anche vedere se, e in che misura, con il proseguio della crisi, vedano la luce dei sentimenti diretti di teoria della cospirazione, nella dissoluzione sia dell'ideologia post-operaista, sia del marxismo residuale, sia del post-marxismo in generale.

(20) - Ogni volta che gli operaisti o i post-operaisti descrivono i fenomeni di crisi, specialmente della crisi attuale, rimangono su un piano superficiale; ma anche in questo modo è possibile percepire la loro propria descrizione nel senso di una dinamica autonomizzata di fronte agli attori. In realtà, la spiegazione soggettivista della crisi viene esteriormente accresciuta nelle descrizioni: quest'ultime indicano sempre proprio il fatto che mancano a quest'ideologia i concetti per il proprio materiale.

(21) - Anche in filosofia questo tema incombe. Così in Hegel, già nei primi scritti di Jena, dove Io si decompone in una volontà generale, da un lato, e in una "esistenza particolare", dall'altro, di modo che la coercizione della legge avvenga all'interno del proprio Io: "... affinché la coercizione non riveli una mia sottomissione, lo sparire del mio Io contro un altro Io, ma sia piuttosto un me contro me stessi, di me come particolare contro il me stesso come universale" (Hegel).

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