martedì 10 giugno 2014

L’ultimo arrabbiato della televisione

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Serling
di Jonathan Lethem (Gadfly, 1999)

Non ho mai visto una foto di Rod Serling che non fosse in bianco e nero. In realtà, dubito seriamente che esistano foto a colori di Rod Serling. Certo, ci possono essere stati scatti a colori di famiglia, ma lasciate che io sottoponga rispettosamente alla vostra approvazione l'idea che se si esaminassero gli album di fotografie della famiglia Serling, in mezzo a un numero imprecisato di persone colorate impegnate a fare un picnic, o bagnanti che indossano costumi da bagno sgargianti, si scoprirebbe, in piedi, una figura solitaria in uno schermo, grigio e nero, con in una mano una tazza di plastica con del caffè, e nell'altra una sigaretta. Come Edward R. Morrow ed Humphrey Bogart, altre icone di una mascolinità di stretta osservanza, Serling semplicemente non avrebbe voluto essere filmato a colori. Rod Serling è stato molte cose, e molte di esse sono difficili da mettere del tutto a fuoco: Maestro di una breve, compianta era di spettacoli in diretta televisiva, e figura paradigmatica delle potenzialità di quel mostruoso nuovo media e del suo declino. Ebreo assimilato, la cui visione dell'alienazione in flanella grigia è servita a definire lo scontento americano del dopoguerra, e scrittore così distratto dalla celebrità da non aver mai imparato il suo mestiere come avrebbe voluto. Alla fine, Serling, proprio come il suo modello del grande schermo, Orson Welles, era una persona appariscente e poliedrica il cui istinto per un'enfasi esagerata lo ha portato sempre più davanti alla telecamera, per finire tristemente i suoi giorni affittando il proprio carisma come ospite dei giochi a premi, narratore di documentari e testimonial commerciale per la Birra Schlitz e la Famous Writer's Correspondence School. Tutte queste identità sono state sussunte e dimenticate, non c'è bisogno di dirlo, a favore di quella grande e definitiva realizzazione di Serling, quella che comincia: "C'è una quinta dimensione oltre quelle che l'uomo già conosce ..." Me lo ricordo molto chiaramente, sebbene "chiaramente" non sia la parola giusta per dei ricordi così impregnati di paura, di presagi di un mondo adulto che non ero sicuro di voler scoprire - il mio primo assaggio di "The Twilight Zone". Negli anni 1970, il Channel Eleven, a New York, dava un'ora di "The Twilight Zone", a mezzanotte. Dovevo avere sette o otto anni e guardavo la televisione da solo, non so dire perché. L'episodio era "Mirror Image" - che ora so, in una lucida retrospettiva adulta, che era uno dei più puri, forti ed onirici di Serling. A quel tempo non avevo una tale prospettiva. non avevo nessuna prospettiva, di nessun tipo. In "Mirror Image" una nervosa Vera Miles - una delle attrici preferite da Hitchcock nello stesso periodo - cerca di farsi controllare il biglietto per poter prendere un autobus, quando viene informata che il suo biglietto è già stato controllato. La situazione è avvolta dalla notte e dalla malinconia, in un bianco e nero a basso budget, parsimonioso e rigoroso come una radiografia. Nello specchio del bagno la Miles vede riflesso il suo doppio che sta fuori, nella sala d'aspetto. Segue il suo doppio, che svanisce. Si confida con un altro viaggiatore, un uomo dapprima simpatico, che alla fine la tradisce, denunciandola alle autorità. La Miles viene trascinata in manicomio. Secondo la spietata etica paranoica della "Zone", questo tradimento suggella il destino dell'uomo: "il suo" doppio appare, per usurparlo. Allora Serling passa la mano magica della sua narrazione sulla vicenda: "Oscura spiegazione metafisica per coprire un fenomeno ... chiamateli piani paralleli o semplicemente follia ..." I miei otto anni lo chiamavano terrore, e ricordo la lotta per cacciarlo via dalla mia mente. Come poteva un'immagine essere così irrisolta eppure così assoluta? Certamente il mio doppio mi aspettava da qualche parte per scivolare nel mondo e rimpiazzarmi! E che terribile errore era stato aver guardato questo programma televisivo che era come una lettera nella notte, e che così, accidentalmente, avevo imparato la verità - ed ora avrei dovuto vivere con la certezza della rovina.

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Dopo divenne più facile, e un po' più divertente, guardare "The Twilight Zone".
In America, quando uno scrittore diventa famoso, non solo un po', ma veramente famoso, lui o lei somiglia sempre a qualcosa di diverso da uno scrittore. Nel caso di Serling, venne fuori che quando arrivò la fama egli sembrava qualcos'altro rispetto ad uno scrittore anche a sé stesso - un disastro per il suo morale. Certo, per gli adolescenti che abitano la replica di "Twilight Zone", come i miei amici ed io, Serling era tutto tranne che uno scrittore - era un tono di voce, un sopracciglio alzato, un atteggiamento di divertita tolleranza verso l'indiscutibile stranezza della vita, era ironia, e pericolo. Era una creazione quasi immaginaria, un'emanazione della sua stessa Zona, e abbiamo imparato a prendere in giro le sue cadenze per provare a noi stessi che eravamo a nostro agio come lo era lui, che eravamo anche in grado di permetterci di trovarlo un po' sciocco. Seguivamo solo una tendenza, in ritardo. The Twilight Zone, come le altre rivoluzioni pop-culturali degli anni '50 - metodo di recitazione, cultura beatnik, e rock and roll - aveva allo stesso tempo trionfato e fallito nel corso degli anni '60: aveva trionfato trasformando la cultura e fallito venendo assorbita e resa innocua per mezzo di sovraesposizioni e parodie. Più tardi saremmo arrivati a prendere meno per scontata la Zona, a riconoscerla - in parte con l'aiuto del rivoluzionario "Twilight Zone Companion" di Marc Scott Zicree e con le sublimi tavole delle "Visions From the Twilight Zone" di Arlen Schumer - come uno scoppio di invenzione surrealista in mezzo al blando centro della nostra cultura che resisteva alla fantasia, come un incrocio in cui Edgar Allen Poe ( per mezzo degli E.C. Comics) incontrava Film Noie e pulp science fiction per creare una sorta di urlo proto-Kubrickiano, nichilisticamente liberale, contro il conformismo compiaciuto dell'era Eisenhower. Forse avremmo dovuto mettere in pausa per domandare alla tragedia quest'ultimo riflesso suggerito dalle "serie antologiche" dell'era della televisione. Ma Serling era già morto, le sue prime opere ed il loro contesto da lungo tempo dimenticate. Sembrava ci fosse una leggera ironia nell'imparare che Serling fosse stato lo scrittore più onorato della televisione *prima* di Twilight Zone, e che quando egli annunciò la serie per la prima volta, la cosa venne vista come un disastroso compromesso artistico, come un segnale del crollo della sua ambizione. E' facile celebrare la Zone e pur tuttavia disprezzare l'idea che Serling fosse uno scrittore. Preferiamo vedere i nostri visionari come idioti sapienti o medium, vedere i loro doni selvaggi come un'esplosione dello spirito del tempo o come prodotti di un subconscio traumatico. Un paracadutista ebreo di Binghamton New York, che ha combattuto nella seconda guerra mondiale ha inventato The Twilight Zone? Somiglia molto ad un commesso tubercoloso di Praga che scrive Il Castello e La Metamorfosi, o ad un matematico di Oxford che ci ha spinto Oltre lo Specchio. Nella biografia di Serling, peraltro bella, scritta da Gordon Sander, questo salto immaginativo centrale non viene mai spiegato, mai messo in discussione. Ma dove arriva The Twilight Zone? Chi era questo tizio?
Ecco chi era: un ragazzo cresciuto ascoltando alla radio Orson Welles in "The Shadow of the Radio" e che poi andò in guerra e ritornò, come fecero altre migliaia, in un America forte, come era forte il suo bisogno di essere rassicurata contro l'orrore, sia del passato che del futuro. Un paese che cercava di trovare una normalizzante via di mezzo fra un identità neo-popolarizzata, dentro, ed una Bomba appena inventata, sopra. Serling non era un beatnik, nemmeno un po'. Era un lottatore con una moglie e dei figli a Cincinnati, quando cominciò a trovare la propria voce, con una visione chiara dal piano-terra del sogno suburbano - però ebreo e probabilmente sempre con quella sottile doppia coscienza dell'emarginato "di passaggio", sempre consapevole della possibilità del pregiudizio e dell'esilio. Cominciò dalla radio e ben presto passò alla televisione, Serling era fin dall'inizio uno di quei narratori di getto, con una passione per le questioni sociali controverse e con una sorprendente vena morbosa.

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Dopo "Patterns", la sua avvincente, scarna diagnosi della nuova spietata classe borghese che aveva fatto uscire il paese dalla tempesta - che, a grande richiesta, ebbe un remake (cosa senza precedenti) solo un mese dopo la trasmissione dell'originale (e la televisione dal vivo poteva solo essere rifatta, dal momento che non esistevano ancora videotape) - Serling entrò a far parte, insieme a Paddy Chayefsky e Reginald Rose, di quella pattuglia notturna simbolo del potenziale di un televisione seria. Fu allora che divenne l'idolo dalla mascella stretta che abbiamo conosciuto come anfitrione della Zona, che poi apparirà sulle copertine delle collezioni dei libri tascabili che pubblicavano le sue sceneggiature, raffigurato accigliato di fronte alla sua macchina da scrivere con una sigaretta fra le nocche: un intellettuale per l'epoca di McLuhan.

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Fra "Patterns" e "Requiem For  A Heavyweight"(Requiem per un peso massimo), i due vertici della sua carriera nella televisione dal vivo, vincitori di un Emmy, Serling dovette battersi contro censori e sponsor, a causa del contenuto di innumerevoli storie di razzismo, di prigionieri di guerra torturati che subivano il lavaggio del cervello, di neo-nazismo e di corruzione governativa - una lotta che puntava direttamente all'allegoria e procedeva in direzione della Zone. Si trovò anche a lottare contro la sua stessa propria tendenza ai discorsi esagerati, e al suo debole per lavorare troppo velocemente, dettando al suo registratore storie buone e storie cattive, per poi vederle gettate troppo velocemente dentro il piccolo schermo. Il meglio del suo lavoro, però, era sorprendentemente buono, in una maniera che Serling aiutava ad inventare sul posto  - televisione dal vivo, con la firma dei sudati primi piani di Serling, e una stupefacente mancanza di mezzi che voleva dire attori che passavano da un set all'altro nello spazio di quella che doveva sembrare un'ora passata in equilibrio su una corda tesa, schivando pallottole. Selling era famoso per la sua "microgestione" sul set delle produzioni - secondo i testimoni la sua dieta in quegli anni consisteva principalmente di "caffè e unghie".

Non fidatevi di quello che vi dico - trovate "Patterns" e "Requiem" se potete, non nella versione hollywoodiana, inferiore e imbottita, ma nella collezione della "Golden Age Television", su Laserdisc, che è sopravvissuta solo perché il network aveva conservato copia dei file puntando una videocamera a pellicola di sedici millimetri sullo schermo, durante la trasmissione in diretta. Soprattutto cercate il meno noto "The Comedian", che è forse il più grande capolavoro del Serling prima della Zone e della televisione dal vivo. I collaboratori di Serling, in "The Comedian" erano Ernest Lehman, che aveva fornito la storia originale, il giovane regista John Frankenheimer, e Mickey Rooney nel ruolo del protagonista - una rappresentazione di sadismo e crudeltà paragonabile, nella sua forza persuasiva, a quella offerta da James Cagney ne "La furia umana". Molto tempo dopo che il declino degli standard e la strisciante commercializzazione aveva allontanato i suoi colleghi scrittori dell'Età d'Oro della Televisione, spingendoli verso Hollywood, verso il teatro tradizionale e verso altre destinazioni, Serling continuava ad insistere - "Television's Last Angry Man" (l'ultimo arrabbiato della televisione) è stato il perfetto epitaffio, posto dal suo biografo. Forse era un connubio istintivo - c'era qualcosa nel temperamento di Serling e nel suo talento, che lo rendeva adatto alle scadenze e alle forme drammatiche brevi che erano tipiche della televisione. Alla fine, sarebbe stata anche la sua rovina, un mercato che avrebbe tirato fuori i suoi peggiori istinti e che li avrebbe prosciugati. Ma questo non prima che Serling, in un triennio di ascesa in un sol fiato seguito da due anni di faticoso declino, creasse il suo capolavoro, una parola definitiva svolta in 156 sguardi sull'incubo.
The Twilight Zone avrebbe potuto sembrare una capitolazione alle serie televisive, ma nei fatti la struttura antologica sfruttava perfettamente le forze di Serling, mentre gli risparmiava le continue battaglie per il controllo creativo che più volte era arrivato sul punto di fargli lasciare. E in una cultura che svalutava e marginalizzava l'elemento immaginativo e fantastico dovunque lo rilevasse - tolti forse un paio di quadri di Salvador Dali - la Zone sicuramente aveva colpito i critici come se fosse stato un passo indietro rispetto ai lavori rivelanti, seri e adulti. Lo spostamento sul terreno della fantasia aveva risparmiato a Serling le battaglie contro la censura che aveva sfregiato tutto il suo lavoro precedente, semplicemente per il fatto che ai censori con la loro mentalità letterale non riusciva facile analizzare il vocabolario metaforico della Zone. Ironicamente serlingiano, è il fatto che: esiste un forte parallelo con la Russia sovietica del dopoguerra, dove la critica incisiva dello Stato burocratico riusciva a scivolare sotto i radar della censura, sotto forma di storie di fantascienza o di cortometraggi animati.
La verità era che gran parte della scrittura realista di Serling era cupamente topica, zeppa di quel genere di lezione che può fare un film di Stanley Kramer o di John Sayles. Gli episodi di Twilight Zone non si rivelavano del tutto immuni a questa debolezza. Ma per mezzo del medium della fantasia, dell'allegoria e della parabola, Serling aveva trovato il modo di continuare ad ossessionare con i grandi temi del suo tempo - alienazione, la Bomba, il conformismo, il maccartismo, la censura, il razzismo - ma usando una voce senza tempo, una voce che catturava l'idealismo fatalista proprio di Serling in un modo che meglio di così gli era riuscito prima solo poche volte.
Era anche diventato un maestro dell'intrattenimento, un generatore di immagini e tonalità e frasi che si andavano ad incastonare nella cultura così completamente che la loro influenza può difficilmente essere propriamente distinta. Quello che Serling ha creato, sopra ogni altra cosa, è stato un gergo fatto in casa dell'alienazione, dello slittamento di identità e della paranoia, e lo ha fatto proprio quando ce n'era più bisogno, quando il suo pubblico era affamato di un vocabolario che potesse esprimere il proprio disagio - e lo ha fatto con una trasmissione televisiva settimanale. I tioli dei suoi migliori episodi possono essere letti semplicemente come una poesia ritrovata del terrore americano: Where Is Everybody? Walking Distance. People Are Alike All Over. Time Enough At Last. The Obsolete Man. Eye Of The Beholder. Nervous Man In A Four Dollar Room. The Monsters Are Due On Maple Street. The After Hours. E così via.
Certamente, Serling contrasse debiti a destra e a manca - Richard Matheson e Charles Beaumont, in particolare, scrissero alcune delle puntate più memorabili di Twilight Zone. E Serling stesso era una spugna, assorbiva tutto quello che gli serviva dalla fantascienza e dai film polizieschi e dalle storie brevi scritte nello stile di O. Henry, e poi li riversava nella sua visione. Ciò che era degno di nota era l'istinto dimostrato nel distillare la pura essenza comunicativa delle sue fonti e nello scartare gli orpelli - la sua fantascienza non annoia con calcoli di zero-G o qualsiasi altro gergo da iniziati, ma procede dritto verso gli effetti di straniamento dell'era spaziale. Ben prima di Ballard, gli astronauti di Serling tornano su una terra più strana ed infelice di quella che hanno lasciato. I confronti vengono fatti giustamente fra il nostalgico-orribile del Serling delle storie delle piccole cittadine dove tu-non-puoi-tornare-a-casa-di-nuovo e quelle di Ray Bradbury - e, a quanto pare, Bradbury si è accorto che la somiglianza era tale da doversi risentire. Serling regge meglio di Ballard, però - la ragione, penso, stia nel fatto che la retorica di Serling, a volte eccessiva e sentimentale, viene giocata contro lo scrupoloso, freddo occhio dell'immagine televisiva, laddove Bradbury gioca solo contro sé stesso.

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Le cause legali hanno perseguitato The Twilight Zone, ma, abbastanza stranamente, le accuse di plagio e di falso sembra abbiano tormentato Serling da molto tempo prima - sia in "Patterns" che in "The Comedian" c'erano chiari, ma non essenziali, motivi di plagio o quanto meno di credito autoriale contestato. E certamente, la stessa Zone ha dimostrato che la non autenticità sembrava essere, per Serling, un pericolo costante - bastava togliere via la striscia di pelle per scoprire l'androide nascosto sotto, e ogni ventriloquo era sempre sul punto di scambiarsi di posto con il suo pupazzo. La fiducia nel Serling scrittore era sempre stata fragile, eppure aveva resistito per anni dentro la movimentata routine della televisione. Ora che si era ritirato ad insegnare ad Antioch, l'università dove aveva studiato, non riusciva a spegnere il registratore, non sapeva smettere di dettare sceneggiature con quella sua voce da macchina da scrivere.
Serling non ebbe mai molto successo, come sceneggiatore, ad Hollywood, non ebbe mai veramente successo, nella sua vita, dopo The Zone, se non come un personaggio pubblico molto amato. La sua sceneggiatura di "Sette giorni a maggio", scritta per il suo amico e collaboratore John Frankenheimer, era un lavoro solido. (E' stato Frankenheimer ad andare più vicino di tutti nell'importare la visione della Zone in film come "Va' e uccidi" (The Manchurian Candidate) (1962) e "Operazione diabolica" (Seconds) (1966)). Fu Serling ad aggiungere il finale della famosa, e caratteristica, Statua della Libertà, al "Pianeta delle scimmie". Ma aveva perso, in qualche modo, il suo tocco durante gli anni di The Zone. Aveva trascorso il 1968 a fare ricerche sulla nuova cultura giovanile, per un film di Stanley Kramer, intitolato "Children's Crusade" (R.P.M. Rivoluzione per minuto (R.P.M.) (1970)), solo per poi vederselo rifiutare in favore di una riscrittura fatta da Erich "Love Story" Segal. Poi venne il ritorno alla televisione con le serie imbarazzanti - "The Loner", una serie western esistenziale che avrebbe potuto diventare una versione americana di "The Prisoner" se Serling ne avesse avuto la possibilità, e "Night Gallery", che degenerò velocemente nell'umiliazione di ospitare persone che facevano fotocopie di terza generazione della sua Zone. Quando morì, conseguentemente ad una serie di attacchi di cuore, all'età di cinquant'anni fu una tragedia, ma se si fa a meno di considerare le narrazioni dei documentari di Jaques Cousteau e le grandi bevute dei suoi ultimi anni, fu solo un atto di misericordia, credetemi.
Girate la clessidra, e vivrà di nuovo. Più avanti c'è un cartello stradale, e in piedi accanto ad esso, vestito di un abito nero, c'è l'autore incallito dell'alienazione americana, può rassicurarti circa il fatto che qualsiasi livello di separazione kafkiana tu stia soffrendo, lui ci sarà, alla fine, a tirartene fuori con poche frasi concise, dalla parte del suo ironico perenne sorriso.

- Jonathan Lethem -

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