martedì 11 febbraio 2014

Accelerando

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Una recensione del libro di Hartmut Rosa, "Accélération. Une critique sociale du temps"
scritta da Anselm Jappe

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Il libro di Hartmut Rosa, molto voluminoso, ben tradotto, è il rimaneggiamento di una tesi di abilitazione all'insegnamento. Ne porta i segni: molte considerazioni metodologiche, numerosi riferimenti ad una vasta letteratura sociologica, qualche ripetizione e qualche schema, un linguaggio preciso ma spesso un po' pesante, ed un desiderio costante di rimanere "equilibrato" ed "oggettivo" che non gli permette un po' di slancio e di passione, se non nelle ultime pagine. Se le parti empiriche, che rimandano ad altre fonti, non sono originali, permettono non di meno al lettore di comprendere che i problemi di organizzazione del loro tempo nel quotidiano non hanno niente di "personale", ma derivano dalla struttura della vita attuale. L'autore consacra una buona parte di ciascun capitolo a passare in rivista una letteratura oramai abbondante su ciascun aspetto della questione. Ma la sua ambizione si situa altrove: egli vuole dimostrare che lo stato di accelerazione permanente è stato descritto dai padri fondatori della sociologia (Karl Marx, Max Weber, Émile Durkheim ed in particolare Georg Simmel), ed i loro successori in seguito hanno trattato quest'accelerazione come una dimensione certo importante di ciascun aspetto della vita, ma non tuttavia come un principio autonomo, non come un elemento capace di determinare di per sé le altre sfere della vita, dalla produzione materiale alle relazioni familiari, dalla politica alla gestione della vita individuale, dalla finanza all'ecologia. Rosa non si accontenta di analizzare solo l'accelerazione nei tempi, ma analizza anche l'accelerazione del tempo nella modernità, che costituisce una vera e propria trasformazione "delle strutture e degli orizzonti temporali". La forza del libro non risiede nelle sue osservazioni e nelle sue analisi particolari, che in generale non riescono a sorprenderci, ma nel vigore con cui afferma che l'accelerazione universale ha finito per imporsi sui contenuti e sulla struttura stessa degli avvenimenti e delle pratiche che accelera. L'accelerazione continua, ed essa stessa soggetta ad accelerazione, non è solo il quadro entro cui si è svolta la modernità "classica", ma è essa stessa che spiega largamente le forme di tale modernità. Il tempo è, come per definizione, un fattore tanto oggettivo quanto soggettivo, e la sua gestione rappresenta un punto di sutura fra l'individuo ed il collettivo, tra la struttura data e la possibilità di agire (in gergo sociologico, tra il "sistema" e gli "attori"). Gli "attori" prendono in ogni momento delle decisioni sull'utilizzo del loro tempo, e pertanto il tempo si presenta ad essi come una fatalità che impone loro le sue leggi. Sappiamo che la concezione del tempo varia fortemente secondo la cultura e l'epoca; ugualmente si sa che la sensazione per cui il tempo "non basta" mai, è tipica della modernità, e che si è aggravata in questi ultimi decenni. Con la modernità, più si ha tempo "libero", più aumenta la sensazione di stress e di urgenza, dal momento che il numero di cose da fare aumenta ancora più rapidamente. Ma l'accelerazione non è solo un vincolo che i soggetti subiscono: vivere più velocemente, è spesso anche ciò che essi vogliono.

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Storicamente, l'accelerazione è sempre stata tecnologica: l'accelerazione dei trasporti e delle comunicazioni, a partire dal XX secolo, ha "ridotto il mondo", ed il tempo ha annullato lo spazio. L'accelerazione dei processi produttivi permette di produrre di più nella medesima unità di tempo. Ma Rosa sottolinea che l'accelerazione non può essere ridotta al solo sviluppo tecnologico: quello, in quanto tale, dovrebbe piuttosto portare ad un rallentamento del ritmo della vita, dal momento che permette di impiegare meno tempo per ottenere gli stessi risultati. Se invece l'effetto è inverso, ciò avviene perché l'accelerazione va di pari passo cin una crescita perpetua, che corre anche più veloce dell'accelerazione dei processi e che fa sì che le risorse di tempo degli individui e della società diminuiscano.
Bisogna, dice Rosa, spiegare le cause strutturali e culturali dei questo processo di crescita quantitativa, senza il quale l'accelerazione non avrebbe le conseguenze che effettivamente ha. Il denaro è una delle cause: "Il tempo, è denaro", afferma un assioma ben noto del capitalismo. Oltre Marx, è stato soprattutto Simmel che lo ha considerato: per questo sociologo tedesco, esploratore della "vita moderna", il denaro costituisce non solo la causa, ma anche l'espressione dell'accelerazione sociale. Alla fine, Rosa sembra preferire una spiegazione di tipo weberiano: nell'etica protestante, il denaro sostituisce Dio; promette la sicurezza ed offre un baluardo contro la morte. Ciò ci permette di concludere che oggi quest'ultimo fine viene aggiunto "approfittando ad un ritmo accelerato delle diverse opportunità del mondo, vivendole più velocemente". "Il principio di accelerazione è inerente a quest'idea di sfruttare tutte le possibilità del mondo e del soggetto, nella misura in cui la dissociazione del tempo della vita e del tempo del mondo appare come una sproporzione fra le opzioni praticamente inesauribili che ci offre il mondo, e la quantità limitata delle possibilità effettivamente realizzabili nel corso di una vita individuale". Le opzioni realizzabili aumentano molto più velocemente delle opzioni realizzate. Il "tasso di esaurimento" delle opzioni diminuisce, nonostante tutti gli sforzi per accelerare il ritmo della vita e per fare più scelte in un tempo dato, eseguendole più velocemente, dalle e-mail allo "speed dating" (appuntamenti lampo per conoscere l'anima gemella), fino al tentativo di giocare più ruoli alla volta, e perfino di vivere più vite dentro una vita sola (la donna che è madre e tuttavia continua la sua carriera professionale, sarebbe il caso più comune secondo Rosa).
Anche l'accelerazione del cambiamento sociale accelera a sua volta: i cambiamenti si succedono sempre più velocemente e si impongono in dei lassi di tempo sempre più brevi. Per prenderne coscienza, basta paragonare la velocità a cui si è diffusa prima la radio, poi la televisione, poi Internet. Si constata allora un aumento del ritmo di obsolescenza delle esperienze e delle aspettative che dirigono le azioni ed un restringimento dei periodi suscettibili di essere definiti come facenti parte del presente, ed una compressione del presente definibile come "la diminuzione generale della durata nel corso della quale regna una sicurezza dei tentativi per quanto concerne la stabilità delle condizioni dell'azione". Tutto ciò che esiste viene sempre percepito come "troppo lento", mentre la separazione fra "spazio d'esperienza" ed "orizzonte di attesa", caratteristica della modernità, si approfondisce: il passato non è più di alcuna utilità al fine di saper affrontare il futuro, che è sempre più imprevedibile.
Nella società premoderna, i cambiamenti si producevano sulla scala di più generazioni; nella modernità classica, i cambiamenti si producevano da una generazione all'altra (non si faceva più necessariamente il mestiere dei propri genitori, non si condividevano più le stesse attitudini religiose o politiche, ci si andava frequentemente a stabilire lontano dal proprio luogo di nascita, ecc.); nella tarda modernità (termine che l'autore preferisce a quello di postmodernità) si vivono spesso più cambiamenti maggiori nel corso di una vita, quindi di una generazione (non si è più fornai, si fa il fornaio, non si è più sposati a X, ma si vive con lei, non si è più parigini, ma si abita momentaneamente a Parigi, si vota questa volta a destra, ecc., ma tutto può sempre cambiare) Poco importa, dice il sociologo, che questo modo di vivere in un presente perpetuo non riguardi tutto il mondo: esso è diventato il modello di riferimento, la forma più tipica. La stessa identità è soggetta al cambiamento ed ai tempi; non è più l'elemento stabile che persiste in mezzo ai cambiamenti. I soggetti hanno delle difficoltà crescenti a pianificare la loro vita nel mezzo di una contingenza che aumenta sempre più e in cui la data di scadenza di tutte le cose - lavoro, legami intimi, residenza, opinioni, situazione politica, metodi produttivi, merci - è sempre più breve. La vita nella modernità "liquida", come la chiama Z. Bauman, non è più una serie di eventi che si succedono secondo una sequenza stabile: formazione, lavoro, pensionamento, oppure incontro, matrimonio, bambini. "I componenti dell'identità, quelli centrali come quelli periferici, sono oramai pressoché liberamente combinabili e tendenzialmente soggetti a cambiamento, e le evoluzioni biografiche sono sempre meno prevedibili."
La concatenazione degli avvenimenti non si trasforma più, con l'aiuto dei modelli narrativi, in un'autentica esperienza vissuta, ancorata al passato e proiettata verso l'avvenire. Somiglia - come aveva già osservato Walter Benjamin - al tempo del "giocatore, il quale consiste in una concatenazione non cumulativa di shock vissuti, non connessi fra di loro, dai quali non risulta nessuna esperienza, ma che i soggetti tendono a ricordare, più tardi, grazie a dei souvenir (all'occorrenza, sotto forma di fotografie)".

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Ma tutto questo, fino a quando? Secondo Rosa - e questo è l'aspetto più interessante della sua argomentazione, aspetto che egli stesso sottolinea particolarmente - l'accelerazione si è trasformata fino a diventare pietrificazione: sembra che niente di essenziale cambierà più. Egli cita qui, a più riprese, l'espressione "immobilità folgorante" di Paul Virilio, criticandone l'enfasi unilaterale che questi mette sull'accelerazione tecnica. Le stesse strutture create per poter facilitare l'accelerazione nell'epoca della modernità classica (lo Stato moderno, l'esercito, la democrazia, lo Stato sociale, le carriere assicurate) si dimostrano, nella tarda modernità, altrettanti ostacoli al proseguimento di quest'accelerazione, e sono per conseguenza schiacciati sovente da questo stesso cieco movimento di accelerazione che li aveva creati - con delle prospettive potenzialmente fatali, secondo Rosa, nei confronti degli aspetti emancipatori del "progetto della modernità" e nei confronti della coesione della società contemporanea. Le esigenze di standardizzazione della prevedibilità, del controllo e della centralizzazione, che hanno permesso l'accelerazione per tutto il corso della modernità classica  sono oramai, all'epoca della flessibilità, divenute disfunzionali, controproducenti, e e vengono spesso, puramente e semplicemente, abbandonate. Ne risulta che oggi "lo Stato appare come un agente acceleratore solo laddove è impegnato nella distruzione pianificata delle strutture istituzionali e delle misure regolatrici che lo avevano definito finora". Ugualmente, assistiamo ad una nuova de-differenziazione del lavoro e della vita (mentre la modalità classica aveva instaurato un dualismo fra lavoro e "tempo libero" sconosciuto nella società premoderna). La scomparsa degli orologi e della disciplina esteriore in molti luoghi di lavoro lo testimonia. Assai più degli antagonismi di classe, sono oggi i vincoli e le promesse di accelerazione e di crescita che segnano la vita.
In questa tarda modernità, si diffonde l'impressione che siamo obbligati a ballare sempre più velocemente per restare nello stesso posto: la pressione temporale provoca sempre più frenesia pur di non restare indietro. Ci troviamo su un precipizio che si sbriciola, mentre marciamo sui "tapis roulant degli istituti di fitness". La necessità di adattarsi "per mantenere le opzioni e le possibilità di connessione" hanno sostituito gli obiettivi a lungo termine e l'idea della vita come "progressione" verso un fine che conferisca un senso a tale vita. La "politica" in senso tradizionale si è ridotta all'impotenza. La democrazia appare superata dal momento che i suoi processi decisionali sono troppo lenti. I sotto-sistemi (politica, economia, vita privata, ecc.) hanno delle logiche temporali sempre più differenti, evolvono a velocità diverse, e quelle più rapide esercitano una forte pressione sulle altre. Cosa che implica alla fine la "perdita dell'auto-direzione politica" della società. "Nella modernità avanzata, il bisogno di pianificazione cresce al ritmo stesso con cui si riduce il campo potenziale di pianificabile", l'orizzonte temporale delle decisioni da prendere - individuali e collettive - si riduce sempre più. Allo stesso tempo, "la portata temporale degli effetti delle decisioni politiche aumenta", per esempio nel caso del nucleare o della manipolazione genetica. "Lo sforzo di risincronizzare la politica che evochiamo viene perciò associato ad una retorica, onnipresente, del "vincolo oggettivo", che si nasconde sotto concetti come "mondializzazione", "concorrenza globale" o "modernizzazione", retorica che, all'inizio del XXI secolo, ha soppiantato pressoché totalmente la semantica del progresso che aveva accompagnato tutte le spinte modernizzatrici precedenti. (...) I processi di accelerazione, la cui crescita è stata trainata dalle speranze utopiche quando vennero messi politicamente all'opera, si sono autonomizzati al punto che oggi perseguono le loro traiettorie proprio a detrimento di quelle politiche e quelle speranze di progresso."
L'accelerazione, dunque, produce come ultimo risultato la fine della storia nella totale immobilità (anche da un punto di vista fisico, come conseguenza dei mezzi di trasporto e di comunicazione) e può suscitare solo la speranza di una catastrofe finale, che alla fine sembra preferibile.
Ci troviamo allora in "una situazione storica davvero paradossale, nella quale le condizioni tecniche e sociale di un'organizzazione politica della società (...)sembrano più favorevoli che mai, mentre le possibilità di organizzazione reali, per delle ragioni che attengono alle strutture temporali, sembrano ancora più ridotte di quanto lo fossero in epoca premoderna".
La nuova versione della teoria critica proposta da Rosa, vuole porre l'accento su una diagnosi critica delle strutture temporali, che punti il dito contro "la rottura della promessa di autonomia da parte della modernità". Criticare la "sorda violenza normativa" delle strutture temporali, permette di riprendere uno dei concetti chiave della Teoria critica originale della Scuola di Francoforte, ed in seguito abbandonato: quello dell'alienazione, e dell'opposizione all'abbandono, sostenuto dal pensiero postmoderno, di ogni riferimento alla "profondità" e alla "autenticità".
Nelle ultime pagine del suo libro, Rosa giudica poco probabile che delle riforme possano portare a conciliare "il progetto della modernità con le velocità della modernità avanzata". Giudica irresponsabile l'altra soluzione possibile, quella di lanciarsi a corpo morto in un'iper-modernità che assicuri il trionfo definitivo dell'accelerazione, così come esso viene preconizzato per mezzo del concetto di "moltitudine" da parte di Hardt e Negri. Giudica ugualmente poco probabile, a causa del suo costo elevato e della sua radicalità, il "freno di emergenza" di cui parlava Benjamin, cioè a dire il "salto salvatore fuori dalla modernità". Non sorprende perciò che Rosa offra come soluzione più probabile il perseguimento della "corsa frenata al ribasso", sociale ed ecologica.
Coraggiosamente, Rosa non finisce il suo studio con l'abituale ottimismo forzato e con l'appello rituale a "reinventare" una politica capace di imporre i suoi limiti all'accelerazione. Tuttavia, l'impressione di smarrimento che trasmette la sua opera, potrebbe anche provenire dalle sue evidenti difficoltà a comprendere le cause dell'accelerazione, alle quali dedica la terza delle quattro parti del suo libro. Non riesce a spiegare in modo convincente l'inversione di una modernità che ha finito per divorare il proprio progetto originale. Quando ne analizza le cause storiche, evoca - molto rapidamente - il ruolo del denaro e del capitalismo. Ma il suo desiderio di evitare "l'unilateralità del materialismo" gli impedisce di riconoscere - malgrado qualche fugace riferimento a "Tempo, lavoro e dominazione sociale", di Moishe Postone, il quale analizza in dettaglio questi collegamenti - la consustanzialità fra accelerazione e capitalismo: essenzialmente temporale, definita dalla sua temporalità e precisamente da una temporalità che è necessariamente, strutturalmente, dinamica ed accumulatrice.
E' solo nella società capitalista che il tempo costituisce, esso stesso, la "ricchezza" sociale, dal momento che il valore di una merce non è definito dalla sua utilità, ma dal tempo di lavoro necessario alla sua produzione. Così, la società capitalista è la sola nella storia che rende la dimensione temporale vuota di ogni contenuto concreto, il legame sociale. Quest'osservazione non ha niente a che vedere con il "riduzionismo economico" che Rosa teme così tanto, perché questo mettere sul trono il tempo avviene tanto sul piano economico che su quello culturale e normativo: la diffusione degli orologi e di una disciplina temporale nei monasteri del XIII secolo, ha preceduto ed accompagnato l'inizio della produzione delle merci. Rosa, al contrario, sembra ridurre il rapporto tra la logica capitalista e l'accelerazione allo sforzo di voler ridurre i tempi di distribuzione del capitale al fine di aumentare il profitto e la ricerca permanente con accresciuta efficacia. Il capitalismo, nella sua dimensione strettamente "economica", è perciò per Rosa il "motore ultimo" dell'accelerazione tecnica, ma sarebbe secondo lui insufficiente a spiegare l'aumento dei ritmi della vita e del cambiamento sociale nella modernità. La loro spiegazione necessita, secondo Rosa, il ricorso alle tesi di Weber sul ruolo del protestantesimo. Così, invece di vedere nella società capitalista, una "forma sociale totale", Rosa presuppone l'esistenza di fattori storici indipendenti, alimentati da fonti diverse. Non c'è allora da stupirsi se Rosa ponga la merce nella categoria analitica della "domesticazione della natura", mentre Marx ha sempre sottolineato che la forma-merce è un rapporto esclusivamente sociale, un modo di trattare socialmente l'oggetto d'uso. La definizione marxiana del valore come pura quantità di lavoro astratto, dunque come semplice durata di un tempo senza contenuto, ma condannato a creare il suo plusvalore di tempo, non viene analizzato da Rosa come fondamento dell'accelerazione di tutta la sfera dell'era moderna. Si ha l'impressione che questa lettura un po' superficiale di Marx - di cui allo stesso tempo viene fatto un grande elogio - sia necessaria a Rosa per arrivare alle sue conclusioni secondo le quali non si avrebbe sviluppo delle forze produttive, "ma accrescimento della velocità che costituisce il vero motore della storia (moderna)". Un vero peccato che un'opera così ricca non sia riuscita ad uscire da un simile circolo vizioso su cui è stata fondata.

- Anselm Jappe -

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