domenica 15 dicembre 2013

Reincantare il mondo

melanconia

Grandezza e limiti del romanticismo rivoluzionario
di Anselm Jappe

Non è passato molto tempo da quando il mondo si divideva in due: da una parte, i "progressisti", dall'altra, i "conservatori", i "reazionari". Tutto quello che stava "a sinistra", quello che era rivoluzionario o, almeno, realmente riformatore, tutto ciò che si batteva per l'emancipazione delle classi oppresse e sfruttate, si poneva nella prospettiva del "progresso", di un'avanzata - generalmente considerata come ineluttabile - verso un futuro migliore; dall'altra parte della barricata, le classi dominanti si opponevano ad ogni progresso o volevano restaurare le vecchie forme di società di quando esse regnavano in maniera assoluta. Secondo tale visione, ogni distruzione di un elemento delle società ereditate dal passato costituiva un passo in avanti, un passo verso l'emancipazione. Questo "progresso sociale" trovava il suo fondamento e la sua garanzia nell'incessante progresso della scienza e delle sue applicazioni tecnologiche, e lo traduceva sul piano storico, secondo la teoria marxista per cui le forze produttive, alla lunga, finisco sempre per invertire i rapporti di produzione, quando questi non sono adeguati al loro sviluppo: alla fine, è il progresso stesso della tecnologia che fa trionfare la classe operaia sul borghese parassita. Il progresso era il figlio dei Lumi del XVIII secolo e della loro realizzazione parziale durante la Grande Rivoluzione francese, di cui tanto il marxismo quanto le altre correnti "progressiste", si sono proclamati continuatori - spesso con l'intenzione dichiarata di "portare a termine" il progetto emancipatore dei Lumi, che ritenevano tradito o lasciato incompleto dalla stessa borghesia che l'aveva iniziato.
Questa fiducia nella marcia della storia, spinta dalla scienza e dalla tecnica, è rimasta seriamente scossa nel corso di questi ultimi decenni. Inseguire lo sviluppo delle basi materiali del capitalismo, per cambiarne semplicemente il regime di proprietà, si è rivelata sempre più come una prospettiva desiderabile o semplicemente possibile (anche se questa convinzione, un po' riformulata, ha la vita dura, sia in seno alla "sinistra" riformista che in quella radicale). Il mondo non va affatto meglio e continua a suscitare il desiderio di cambiarlo profondamente. In tale contesto hanno cominciato ad emergere delle forme di opposizione al capitalismo che non si inseriscono facilmente nello schema concordato "progressista contro conservatore" - in particolare, l'ecologismo. E, parimenti, si è presa coscienza del fatto che la modernità capitalista ha generato, lungo il suo percorso, differenti critiche del progressismo, critiche spesso virulente che si nutrono della nostalgia di un passato suppostamente migliore e ne hanno tratto una condanna del presente; critiche che hanno messo in evidenza, accanto allo sfruttamento e all'oppressione, altre fonti di malessere, come la perdita di senso, il deterioramento dei rapporti umani, la deturpazione del mondo e l'impoverimento della vita quotidiana. Per lungo tempo, il marxismo, in pressoché tutte le sue varianti, ha guardato con disprezzo a quello che chiamava "anticapitalismo romantico": se a volte gli riconosceva la sincerità delle sue intenzioni, ed una certa perspicacia per quanto riguardava la descrizione di alcuni sintomi del capitalismo, il romanticismo restava, agli occhi dei sostenitori del "socialismo scientifico", solo un'ideologia "piccolo-borghese", tutt'al più sentimentale e impotente, oggettivamente reazionaria, e spesso perfino alla base delle ideologie fasciste. Non c'è niente di sorprendente in tale rigetto: secondo la visione progressista della storia, il romanticismo è nato come reazione all'illuminismo e alla Rivoluzione francese, come espressione di strati della società - aristocrazia fondiaria, borghesia renditiera - che aveva tutto da perdere nella ricerca del progresso. Elaborando un irrazionalismo aggressivo, fondato su dei concetti come "mito", "popolo", "sangue" e "destino", i romantici tedeschi in particolare hanno contribuito direttamente alla genesi del nazionalismo tedesco e, in fin dei conti, del nazismo; queste forme di anticapitalismo avrebbero tradito gli strati popolari, dirigendo la loro rabbia verso obiettivi sbagliati. György Lukács ha fornito una versione classica di questa identificazione del romanticismo con il pre-nazismo nel suo "La Distruzione della ragione", nel 1951. Una tale opinione è ancora del tutto comune in Germania, soprattutto in quella parte della sinistra tedesca che rimane assai vigilante a proposito di tutto quello somiglia - per esempio in alcune forme di ecologismo - ad una risorgenza dell' "ideologia tedesca" con il suo background sciovinista e antisemita.
Michael Löwy ha lavorato per oltre vent'anni, spesso in collaborazione con il sociologo ed anglicista Robert Sayre, per riscoprire il lato rivoluzionario ed anticapitalista del romanticismo. Oltre ai libri, o alla serie di articoli che Löwy ha esplicitamente consacrato alla questione, ci sono in proposito anche i suoi scritti su Walter Benjamin, su Franz Kafka o sui surrealisti, in cui espone la sua tesi centrale: il romanticismo, lungi da essere un movimento solo letterario, è una "visione del mondo" nata con l'inizio del capitalismo industriale, verso la metà del XVIII secolo. Esso è dunque contemporaneo dei Lumi, e non una reazione ad essi, e le due visioni possono essere compatibili - Come è dimostrato dal caso di Rousseau. Il romanticismo, come lo definiscono Löwy e Sayre, è coestensivo al capitalismo e dura fino ai nostri giorni.Essi fanno rientrare in questa categoria un gran numero di scrittori, di pensatori e di artisti, affermando che, nonostante la loro innegabile eterogeneità, hanno espresso un rifiuto almeno parziale della modernità capitalista ed industriale in nome di valori provenienti dal passato, rifiuto che acquista così una dimensione "utopica". Il tratto comune di tutti i romanticismi sarebbe dunque la loro opposizione alla borghesia, anche se quest'opposizione ha portato alcuni, soprattutto dopo la delusione subita in conseguenza della Rivoluzione francese, ad idealizzare il passato feudale e le sue sopravvivenze (Samuel Coleridge, Friedrich Schlegel, Novalis). Ma identificando il romanticismo con la reazione politica, come ha fatto una certa storiografia "marxista" a lungo egemonica anche in Francia, bisognerebbe dichiarare che  Friedrich Hölderlin o Georg Büchner non sono stati dei romantici, non più che Heinrich Heine o Victor Hugo. Alcuni romantici erano ardenti partigiani dei giacobini; altri, più tardi, hanno preso parte alla rivolta che ha scosso Parigi nel 1832.
La rivolta dei romantici è sempre stata tentata dalla malinconia, un sentimento di perdita di un mondo che è stato migliore, un sentimento di nostalgia. Una parte dei romantici considerava tuttavia che questa perdita fosse irreparabile; erano "anticapitalisti" in quanto erano inorriditi dalla società borghese che veniva istituita. Quindi, non si trattava di attribuire ad autori come Balzac delle virtù democratiche (come ha fatto Lukàcs), ma di ammettere che era proprio in quanto reazionario legittimista che Balzac coglieva così bene la bassezza della borghesia trionfante. Tutti i romantici, al di là delle loro differenze, tentano di ritrovare il paradiso perduto: nell'arte e nella bellezza, nel dandysmo, nei circoli di fraternità, nell'amore (il significato corrente più comune della parola "romantico"), l'infanzia, l'esotismo - o nella realizzazione collettiva di un futuro migliore, ispirato dal passato: è il "romanticismo rivoluzionario" in senso proprio. Tuttavia, se per la più parte dei romantici questa dimensione rivoluzionaria manca, o si limita ad una fase (sovente giovanile) del loro percorso, ciò non deve affatto, secondo Löwy e Sayre, farci dimenticare la loro forza critica: essi descrivono sempre la modernità capitalista come una situazione di esilio, di alienazione, di insufficienza.

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Il romanticismo non è unicamente un affare tedesco; esso sorge, nella seconda metà del XVIII secolo, anche in Francia e in Inghilterra. Ugualmente è stato presente in Italia, ed è increscioso che Löwy e Sayre non menzionino Giacomo Leopardi. In quanto, il poeta e filosofo di Recanati rappresenta l'esempio più compiuto di un "romanticismo razionale": materialista ed ateo, senza alcuna compiacenza nei confronti di un passato idealizzato o delle tendenze "progressiste" della sua epoca. Osservatore impietoso della modernità nascente, senza sentimentalismi, senza pose aristocratiche, aperto - malgrado la sua "mélancolia" e il suo "Weltschmerz" (fatica del mondo) - alla dimensione "utopica" di una felicità e di una solidarietà umana a fronte del niente, Leopardi non si posiziona al seguito dei Lumi, ma al di là, con delle anticipazioni che sembrano perfino anticipare quello che avverrà un secolo più tardi, per esempio con la Scuola di Francoforte o con i situazionisti.
Il romanticismo tedesco del primo periodo (la Frühromantik) occupa un posto centrale in questa storia. Ispirato dalle nuove idee di libertà, uguaglianza e fraternità, Schelling, Hegel e Hölderlin, i fratelli Schlegel e Novalis abbozzano una vasta ridefinizione dell'esistenza umana che a sua vota ispira, ancora fino ai nostri giorni dei tentativi assai simili, per esempio i surrealisti, o Annie Le Brun. Ma se concepiamo il romanticismo come un fondamentale rifiuto del "disincanto del mondo", della solitudine, dell'alienazione e della dissoluzione dei legami sociali, della quantificazione e della meccanizzazione, così come delle forme sociali "astratte", quali lo Stato e la burocrazia alle quali oppone la "comunità", allora si possono trovare un po' dappertutto tracce del romanticismo. Löwy e Sayre ne distinguono numerose sottospecie, dal romanticismo "restituzionista", che rifiuta del tutto l'industria e si entusiasma per un Medioevo immaginario (da Novalis fino a George Bernanos), alle tendenze conservatrici (Edmund Burke) e a quelle perfino fasciste e pre-fasciste (Evola, Gottfried Benn, Drieu de La Rochelle), passando per un "romanticismo rassegnato" che constata le devastazioni della modernità, ma le dà per irrevocabili, così come faceva la scuola tedesca di sociologia che, per bocca di Max Weber, parlava di "disincanto del mondo" e della "gabbia d'acciaio" della modernità, o di Ferdinand Tönnies,
che opponeva la "società" alla "comunità", o George Simmel, che vedeva scomparso l' "individualismo qualitativo" a vantaggio dell' "individualismo numerico".
Con il romanticismo "rivoluzionario" e/o "utopico", Löwy e Sayre arrivano a quello che interessa loro di più e qui operano una distinzione tra le diverse tendenze. Una tendenza giacobina e democratica comprende William Blake - che faceva seguire ai suoi famosi versi sui "mulini ombre del diavolo", quelli sulle fabbriche che deturpavano il paesaggio e l'esortazione a "costruire Gerusalemme in mezzo alle verdi campagne dell'Inghilterra" -, Shelley - uno dei primi ad avere espresso l'idea, più tardi divenuta cara a Benjamin, che non si tratta di ritornare al passato tale e quale, ma di realizzarne i germi - o ancora Heinrich Heine. L'economista Sismondi e i populisti russi ne rappresentavano la versione populista, così come una tendenza utopista, umanista e socialista, la possiamo trovare incarnata in Moses Hess, figura fondatrice tanto del socialismo quanto del sionismo, per il quale: "il mondo moderno delle merci, di cui il denaro è l'essenza, è peggiore della schiavitù antica", e perciò "compito del comunismo è quello di abolire il denaro ed il suo malefico potere, e di stabilire una comunità organica autenticamente umana". Gustav Landauer e la sua critica di Marx, "figlia della macchina a vapore", così come la sua esortazione a creare delle comunità socialiste in campagna, che possano esprimere una sensibilità libertaria. Si distinguono, infine, i romantici marxisti: William Morris, Lukàcs, Ernst Bloch, gli autori della Scuola di Francoforte, Henri Lefebvre e José Carlos Mariategui - il quale fu il fondatore del Partito Comunista Peruviano ed affermò, negli anni venti, che il comunismo agrario degli antichi Incas, e la sua persistenza nelle tradizioni dei popoli autoctoni dell'America latina, costituiva una base per il comunismo futuro.
Lowy tenta anche di dimostra che il romanticismo è una delle "radici dimenticate" del pensiero degli stessi Marx ed Engels, percettibile assai bene in quella che è stata la loro denuncia della disumanizzazione dell'operaio, a prescindere dal suo sfruttamento economico, e nel loro interesse per le forme precapitalistiche di produzione, come le antiche comunità dei villagi russi o la "marca" germanica, fondate sulla proprietà comune del suolo. Mentre il marxismo della Seconda Internazionale era totalmente evoluzionista, positivista e progressista, Rosa Luxemburg denunciava la barbarie colonialista e si occupava con interesse del "comunismo primitivo" presso gli Incas ed altri, sebbene giudicasse impossibile (a differenza dei populisti russi) la sua ricostruzione.
Löwy e Sayre esaminano velocemente altri capitoli della lunga storia del romanticismo e, in Inghilterra, si soffermano su Coleridge: il suo passaggio da un'adesione iniziale alla Rivoluzione francese all'elogio della feudalità inglese non è per loro motivo di shock, in quanto ci vedono comunque una critica del regno dell'egoismo borghese. I romantici inglesi, e soprattutto John Ruskin, hanno dimostrato l'importanza dei criteri estetici al fine di una condanna del capitalismo. Se, come contrappunto al suo odio virulento per il mondo che gli era contemporaneo, Ruskin trovava, infelicemente, il suo ideale nella religione, nell'ordine patriarcale, nelle antiche gerarchie e nella guerra medievale, rimane però ancora attuale la sua denuncia della divisione del lavoro nell'industria, la quale crea nell'operaio una miseria non solo materiale, ma soprattutto intellettuale. Il suo rifiuto della civilizzazione industriale trova con William Morris, il fondatore del movimento Art and Crafts, consacrato a ristabilire l'artigianato, una continuazione che poi ispirerà direttamente Marx.
Attraverso le differenti sfaccettature del simbolismo (J.-K. Huysmans, Oscar Wilde), l'espressionismo e quello strano "cristiano anarchico" che era Charles Péguy, Löwy e Sayre arrivano al surrealismo, nel quale vedono una manifestazione maggiore della persistenza dei temi romantici a tonalità rivoluzionaria. Voler reincantare il mondo e creare una civiltà fondata su "la poesia, la libertà e l'amore" (André Breton) esprime al più alto grado la dimensione utopica del romanticismo. Altrettanto si potrebbe dire della filosofia di Ernst Bloch che nel suo primo libro, "Lo spirito dell'utopia" (1918), ha voluto combinare gli argomenti delineati dal "pessimismo culturale" reazionario con una prospettiva ottimista e rivoluzionaria: il Medioevo di Bloch era Thomas Müntzer e non il signore feudale. Qualche anno più tardi, il suo amico Lukàcs scriverà, con "La teoria del romanzo", uno dei capolavori di questo rinovellato romanticismo che si fonda essenzialmente su una critica culturale della mercificazione, la nostalgia di un passato "pieno di senso" ed il ricordo come sorgente di utopia (un romanticismo che riappare periodicamente, secondo Löwy, in tutta l'opera posteriore di Lukàcs: per esempio nei suoi giudizi, oscillanti, su Dostoevskji). Gli anni venti del '900 sono stati l'apogeo del pensiero neoromantico. Löwy ha consacrato un libro intero alla dimensione utopica e libertaria degli autori ebrei della Mitteleuropa e alla "affinità elettiva" fra messianesimo ebreo e romanticismo tedesco. Non si tratta solo di Landauer, Bloch, Lukàcs, Ernst Toller ed Erich Fromm, tutti anarchici e comunisti; anche presso pensatori esplicitamente religiosi come Martin Buner, Franz Rosenzweig e Gerschom Scholem, così come in Kafka, Löwy scopre un anticapitalismo romantico ed il desiderio di costruire una società completamente altra, il cui orizzonte "messianico" oltrepassa di molto i progetti "razionali" del movimento operaio della loro epoca. Sarà Walter Benjamin a portare al suo più alto grado questa fusione di idee sovente contraddittorie. Per lui, la sorgente dell'utopia non risiede più nel passato effettivo, ma nelle sue possibilità non ancora dischiusesi. Secondo Löwy e Sayre, la storia del romanticismo non si è affatto arrestata con le società del dopo-guerra, e citano un po' alla rinfusa l'ecologia ed altri "nuovi movimenti sociali" nati dopo il 1968: Henri Lefebvre, i situazionisti, Marcuse, la teologia della liberazione, i romanzi di Christa Wolff, la storiografia sociale inglese di Raymond Williams e di Edward P. Thompson e gli sforzi di Fredric Jameson per scoprire elementi utopici nella "cultura di massa contemporanea".

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Löwy e Sayre hanno contribuito a scoprire un vero e proprio tesoro, sovente misconosciuto, perfino denigrato: la ricerca di un'alternativa qualitativa allo sviluppo capitalista, differente dal progetto che vuole appropriarsi dei risultati di questo sviluppo. L'entusiasmo per le "conquiste" della borghesia, espresse nel Manifesto del Partito Comunista, e per la "missione civilizzatrice del capitale" di cui parla lo stesso "Il Capitale", che ha rappresentato a lungo la parte dominante nell'opposizione anticapitalista - che retrospettivamente ci appaiono come movimento che andrebbero qualificati come "alter-capitalisti". Il lavoro di Löwy e Sayre testimonia un'apertura maggiore per le altre forme storiche di contestazione. A fronte di questo sforzo volto a dimostrare l'importanza del romanticismo per l'emancipazione sociale, rimane nondimeno un sentimento di ambiguità. Nel 1992, Löwy e Sayre provavano il bisogno di dimostrare la compatibilità del romanticismo con alcuni elementi del marxismo tradizionale, ivi compresa una sociologia della cultura che si proponeva di determinare per ciascun fenomeno culturale, la classe sociale di cui doveva essere l'espressione. Allo stesso tempo, avevano la necessità di porre in evidenza il fatto che il romanticismo non è sempre una manifestazione di "Contro-Illuminismo", come affermava il Lukàcs de "La distruzione della ragione" o Isaiah Berlin, e che Illuminismo e romanticismo si erano sovente fatto buona compagnia (per esempio, in Victor Hugo). Tuttavia, oggi, la critica deve andare più lontano: non appare più così evidente che i Lumi siano la sorgente di ogni pensiero di emancipazione; autori assai differenti, come Michel Foucault e Robert Kurz, hanno dimostrato che i Lumi segnano anche il passaggio alla "società disciplinare" e all'interiorizzazione dei vincoli del nuovo ordine capitalista.
Löwy e Sayre sostengono che "irrazionale" e "non razionale" non significano la stessa cosa, e che "romanticismo" non è necessariamente sinonimo di "irrazionalismo". Parimenti, tentano di dimostrare che il pensiero politico romantico non si riduce sempre all'evocazione di una "comunità" regressiva proposta come pseudo-alternativa al capitalismo, e fondata su un'opposizione dei valori "concreti" del sangue e del suolo a quelli "astratti" del "denaro" e del "commercio", concezione che conduce, pressoché inevitabilmente, ad un antisemitismo, latente o evidente. Può essere sorprendente, constatare l'importanza che concetti come "comunità" e "organico" hanno per i pensatori ebrei tedeschi dell'inizio del XX secolo. Ed il caso di Péguy, ardente "dreyfussardo", ben mostra che anche il romanticismo cattolico e mistico non debba necessariamente essere antisemita. La critica sociale di ispirazione romantica ha evidentemente valorizzato il ruolo dell'immaginazione, nel combattimento politico, ruolo sovente trascurato dal "materialismo" del marxismo ortodosso. Per Ernst Bloch, è stato cruciale non abbandonare l'immaginazione, la tradizione, i miti al nazismo - ma è anche vero che è sempre stato pericoloso cercare di battere l'estrema destra sul suo proprio terreno. Il progetto di creare dei nuovi miti, dei miti moderni, ha spesso costituito, secondo Löwy e Sayre, un aspetto essenziale del romanticismo. I primi a parlarne, Schlegel e Schelling, non pensavano allora a dei miti nazionali, "tedeschi", ma a dei miti universali. Questa proposta ritorna nei surrealisti e in Georges Bataille, i quali vedevano nel mito e nell'esoterismo un'alternativa alla religione, una forma più antica e profonda del sacro. Georges Sorel avanza l'idea di una concezione più politica della creazione di nuovi miti (lo "sciopero generale"), e Löwy consacra un intero saggio all'influenza di Sorel sul giovane Lukàcs. Ma con il tema del "mito" ci s'avventura senza dubbio su un terreno scivoloso dove si rischia di ritrovarsi in cattiva compagnia.
I libri di Löwy e Sayre sono delle vere e proprie miniere di informazione e delle ricche fonti di ispirazione. Il loro approccio suscita nondimeno qualche riserva. In primo luogo, il loro concetto di romanticismo è talmente vasto che alla fine ingloba praticamente tutti coloro che non sono positivisti e progressisti in senso stretto (addirittura, pretendono di far risalire le origini del romanticismo fino a La Bruyère e perfino ad Orazio, o semplicemente a coloro che cantavano le lodi della vita in campagna o dei bei vecchi tempi). Scelgono in ciascun autore quel che a loro sembra "anticapitalista", anche se questo non occupa che una piccolissima parte della sua produzione, e lo astraggono da tutto il resto. Cos'hanno in comune Franz von Baader e Büchner, Ruskin ed Heine, Péguy e ANdré Breton? Essi stessi ammettono che è impossibile isolare una "posizione comune", su qualsiasi cosa, a parte un certo riferimento positivo al passato. La loro maniera di "pescare a strascico" non ha solamente una dimensione metodologica, ma anche politica. Ci possono essere buone, come cattive, ragioni per detestare il capitalismo, o per dire che lo si detesta. I problemi cominciano quando la critica si limita ad un solo aspetto, come l'interesse monetario, il denaro o il commercio. Quello che la terminologia marxista definisce una critica della sola "sfera della circolazione", che non influenza la "sfera della produzione". La differenza è capitale, soprattutto per quanto riguarda le conseguenze. Gli attacchi che non si rendono conto che la circolazione (tipicamente, il solo capitale finanziario) conduce al proudhonismo, ma anche all'ideologia nazista che oppone così il buon "capitale creativo e lavoratore" (tedesco) al cattivo "capitale parassita" (ebreo). Tale genere di critica non è "un primo passo nella buona direzione", ma può, al contrario, portare al peggio.
Questo ci permette di fare una deviazione, e di ricordare che per la teoria di Marx bisogna afferrare: l'essenziale della società capitalista, la sua struttura nascosta, e non solo i fenomeni che saltano agli occhi. Essa mette l'accento sulla produzione: la sfera dove si crea il valore, e quindi anche il plusvalore - grazie al plus-lavoro non pagato all'operaio, e di cui il capitale si appropria. La circolazione ingloba tutto ciò che è necessario alla realizzazione del valore sul mercato: il commercio, le banche e la finanza, ma anche la pubblicità, ecc. Secondo la critica dell'economia politica di Marx, è la sfera della produzione a causare tutte le miserie, le ingiustizie e le crisi del capitalismo. La frode nel commercio, gli squilibri negli scambi commerciali, l'interesse monetario (e dunque tutta la sfera finanziaria) non sono altro che degli elementi derivati, ed il profitto che essi possono fare viene prelevato sul solo unico profitto, quello ottenuto dal capitale investito nella produzione.
Nella "coscienza quotidiana" degli attori economici, le cose si rappresentano ancora spesso all'inverso. La sfera della circolazione è molto più visibile della sfera della produzione, e gli individui hanno la tendenza a vedere solo la circolazione. Lo scambio fra lavoro e capitale viene allora considerato come una giusta ripartizione dei frutti dello sforzo comune, effettuato nella produzione, dal lavoratore e dal capitalista (che apporta il capitale e organizza la produzione), mentre il commercio ed il prestito monetario (che esiste con gli interessi) appaiono come un semplice furto da parte degli attori non produttori e non lavoratori. Nonostante Marx abbia dimostrato che il capitale commerciale e quello finanziario non fanno che condividere con il capitale industriale il profitto che questi ha ottenuto per mezzo dello sfruttamento dei salariati, si continua a credere spesso che il vero sfruttamento abbia luogo nella circolazione.
I primi critici del capitalismo, come i "socialisti utopici", avevano concentrato i loro attacchi sulla sfera della circolazione: il commercio e la finanza. Questo aspetto si può leggere in modo evidente in Fourier ed in Proudhon. Essi mancano perciò un aspetto essenziale - ma avevano l'evidenza dalla loro parte. La teoria di Marx è la sola ad andare sistematicamente al di là della circolazione, dunque al di là della superficie empirica. Tuttavia, all'interno stesso del marxismo si sono velocemente diffuse delle tendenze che ricadevano implicitamente nella critica della sola circolazione, facilitati in questo da un altro equivoco: la "produzione capitalista" di cui parla Marx, consiste nel fatto che il lavoro possiede un doppio carattere, concreto ed astratto, e che il lavoro astratto - cioè il lavoro considerato sotto il solo aspetto della sua durata - crea il valore della merce, il quale si esprime con una merce particolare, il denaro, che diventa a sua volta la vera finalità della produzione. Per moltiplicare il denaro, bisogna trasformarlo in capitale ed accumularlo, e questo non è possibile se non assorbendo plus-lavoro. Il marxismo tradizionale, anche nelle sue forme più sofisticate, generalmente ha considerato solo l'ultima parte di questa definizione. Considerando implicitamente il lavoro astratto ed il valore, la merce e il denaro come dati evidenti, eterni e neutri, ha concentrato la sua attenzione esclusivamente sulla lotta che conducono i portatori viventi di capitale e di lavoro intorno alla distribuzione del plusvalore: la lotta delle classi. Il marxismo tradizionale ha perciò ristretto la sfera della produzione al solo antagonismo di classe che, nei fatti, appartiene piuttosto alla circolazione, cioè alla distribuzione del valore - una volta che questo è stato prodotto - fra tutti gli attori che vi hanno concorso, in una maniera o nell'altra (compresa, per esempio, la banca che ha anticipato il capitale necessario al capitalista industriale).
Dopo aver accettato, implicitamente o esplicitamente, le categorie di base della società di mercato, non gli è rimasto che lottare per una distribuzione più giusta - lotte salariali, attuazione e difesa dello Stato-provvidenza. La sfera politica, prolungamento della circolazione, non è altro che la negoziazione permanente intorno alla distribuzione della ricchezza del mercato. Di conseguenza, le varianti socialdemocratiche, leniniste e di estrema sinistra del marxismo sono state assai poco capaci di comprendere i pericoli che comporta una critica incentrata solo solo sulla circolazione, e che attribuisce tutti i guasti del sistema capitalista a dei fattori derivati, strutture come la finanza, e ne personalizza poi tali strutture. Il passaggio all'anticapitalismo di destra, che pretende difendere l'onesto lavoratore contro "Wall Street" e che presenta i mali del capitalismo come la conseguenza di una cospirazione ebrea, diventa quasi logico e spiega, in parte, la facilità con la quale dei paesi con grandi movimenti operai si siano potuti convertire così facilmente al fascismo. Esiste un anticapitalismo di destra, un anticapitalismo falso e ingannevole, ma sempre pronto a venir fuori, ed oggi più che mai, i cui temi si possono diffondere anche all'interno della sinistra.

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Tutto ciò può sembrare lontano dal romanticismo, ma siamo ancora al cuore della questione. A fronte di un movimento operaio che non mette più in questione le basi della società di mercato - e i cui membri si identificano perfino con il loro ruolo di lavoratori (Lenin e Gramsci si rallegravano del fatto che la disciplina "fordista" potesse dare agli operai, nel socialismo, dei sani costumi) e con il loro ruolo di cittadini, limitandosi a chiedere un salario più elevato in cambio della loro rinuncia alla vita -, il romanticismo, il quale pone l'accento su un' "altra vita", ha implicitamente messo sotto accusa la stessa base produttiva della società moderna e la trasformazione di ciascun aspetto della vita in merce. Tuttavia, quando si tratta di indicare le cause dell'infelicità, la più parte dei romantici non faceva che rimandare alla sfera della circolazione: il denaro (inteso non come rappresentazione del lavoro astratto che viene accumulato, ma come vettore di avidità e di egoismo), il commercio, le banche. Spesso, il lavoro veniva esplicitamente santificato (Ruskin, Péguy, la "morale dei produttori" di Sorel), e non si denunciava lo sfruttamento esercitato dai proprietari dei mezzi di produzione, ma solamente quello perpetrato dal commerciante e dall'usuraio (le banche). Tale genere di critica, indipendentemente dalle intenzioni soggettive dei loro autori, ha sempre corso il rischio di cadere nell'antimodernismo reazionario. Questo non dà ragione a tutti coloro che vogliono mettere tutto l'anticapitalismo romantico in conto alla destra - ma Löwy e Sayre tirano via un po' troppo facilmente su queste obiezioni, che non provengono solamente dai marxisti "ortodossi". Senza niente togliere all'importanza delle descrizioni fornite dai romantici e alla simpatia che possono suscitare, e senza doversi allineare alle critiche malevole, si rende più giustizia ai romantici se si sottolinea questa dialettica - che fa sì che il romanticismo appaia, a volte al di sopra, a volte al di sotto della critica espressa dal movimento operaio (è un po' il rapporto tra la "critica sociale" di Boltanski e Chiapello, cui brevemente Löwy e Sayre si riferiscono).
Costruire una grande tradizione di tutti i pensatori romantici che, in un'infima parte della loro opera, hanno espresso qualche critica del capitalismo, per quanto limitata sia stata, sembra corrispondere alle visioni politiche contemporanee che sognano di riunire i malcontenti più contraddittori, e perfino quelli più discutibili, in una sorta di "Fronte popolare" universale della contestazione. Ma una buona parte di tale malcontento non concerne altro che la circolazione: senza mettere in dubbio i fondamenti produttivi del sistema, si vuole semplicemente occupare un posto più confortevole. Perciò, si tratta di guardare a quello che il romanticismo rivoluzionario, con le sue aspirazioni "utopiche", può contenere come magnifico antidoto a certe tentazioni - ma anche, per quello che ci concerne, di conservare un occhio attento a quelle che sono delle solide basi teoriche.

Anselm Jappe (novembre - dicembre 2011)

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