venerdì 25 ottobre 2013

sceneggiature

Lang_interview_1974

«Il 30 Marzo 1933, il ministro della Propaganda in Germania, Joseph Goebbels, mi convocò nel suo ufficio [...] e mi propose di diventare una sorta di "Fuhrer" del cinema tedesco. Io allora gli dissi: "Signor Goebbels, forse lei non ne è a conoscenza, ma debbo confessarle che io sono di origini ebraiche" e lui: "Non faccia l'ingenuo signor Lang, siamo noi a decidere chi è ebreo e chi no!". Fuggii da Berlino quella notte stessa.»
A raccontarla così, è Fritz Lang, nella famosa intervista fattagli da William Friedkin nel 1974. Questo incontro - racconta sempre Lang - ebbe luogo conseguentemente alla proibizione di proiettare nelle sale tedesche il suo "Il testamento del Dr. Mabuse". La descrizione dell'avvenimento, nelle parole del regista, è assai vivida, cinematografica: corridoi interminabili, un salone immenso dove il ministro della propaganda nazista quasi appare, il colloquio kafkiano in cui, contro ogni previsione di punizione, si sente proporre il ruolo da cui scapperà la notte stessa, su un treno per Parigi, con successiva destinazione Stati Uniti.
Che sia vera o meno, questa "sceneggiatura", contraddetta dai visti sul passaporto e dai minuziosi diari di Goebbels, è assolutamente parte del personaggio. E finisce per essere più vera della realtà. Dove la realtà ha il nome di Thea Von Harbou,la donna incontrata quindici anni prima. Si erano conosciuti e si erano amati  mentre lui stava con un'altra che quando lo aveva saputo si era sparata in testa (ma forse anche questa è solo un'altra  "sceneggiatura"). E Thea, nel nazismo ci credeva! Su quel treno per Parigi, Fritz scapperà anche da Thea, forse soprattutto da Thea.
Magari, invece, era solo tutto un gioco. Un gioco, però, che andava giocato con regole precise e maniacali, come quelle che dettava nei suoi film. «Che pensa lei dell’espressionismo?», si sentiva domandare il Dottor Mabuse. «Non è che un gioco. E perché no? Tutto oggi è gioco.» Un gioco, serio, disciplinato, che continuerà negli Stati Uniti.
«Leggevo soltanto cose scritte in inglese,» — dice nella celebre intervista resa a Peter Bogdanovich  — «leggevo molti giornali, e i fumetti, da cui imparai moltissimo. Dicevo a me stesso: se della gente, un anno dopo l'altro, legge tanti fumetti, dovrà pur esserci qualcosa di interessante. E li trovai molto interessanti. Acquistai la capacità (e la possiedo ancora oggi) di comprendere il carattere americano; e imparai lo slang. Giravo per il paese in automobile cercando di parlare con tutti. Conversavo con ogni tassista, ogni benzinaio che incontravo, e guardavo i film. Naturalmente mi interessavo molto anche agli indiani, andai perciò in Arizona e vi rimasi per sei o sette settimane vivendo con i navajos. Fui il primo a fotografare la loro pittura su sabbia, cosa che, trattandosi di una cerimonia religiosa, di solito era proibita. In tal modo mi procurai, credo, una certa conoscenza, niente di più. E acquistai una certa sensibilità per ciò che chiamerei l'atmosfera americana.»

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