giovedì 31 ottobre 2013

Rifiuto

rifiuto saintjust

«In Unione Sovietica, le “confessioni” dei processi staliniani erano frutto di violenza e di torture o erano tragiche recite di un supremo servizio alla causa. Non così in Cina; o non sempre; non istituzionalmente; non giustificata in sede teorica o morale. Dunque, tanto più straordinario l’oggettivo insinuarsi nella Cina del dopo Mao l’eccezione a questa regola: la vedova del Presidente che contrattacca ed accusa. Il dirigente operaio di Shangai, uno dei Quattro, processato, invece non parla. Questo rifiuto di «stare al gioco» (chi rammenta il silenzio di Saint-Just dopo Termidoro?) è l’atto politico di chi sa che a quel silenzio è affidata una eredità, quando che sia. Una verità, di cui «non si può dare testimonio se non morto», come disse un eretico toscano del ’400 sulla via del rogo.»

da "Risposta a un ragazzo di oggi. Su Mao" (Franco Fortini, 1986)

mercoledì 30 ottobre 2013

scavando

benjamin

Dissotterrare e ricordare

“Il linguaggio ci ha fatto inequivocabilmente intendere che la memoria non è uno strumento per l'esplorazione del passato, ma piuttosto il luogo in cui si annida. È il substrato del vissuto come il suolo terrestre è il substrato in cui giacciono sepolte le città antiche. Chi si sforza di avvicinarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi come un uomo che scava. Soprattutto non deve temere di continuare a ritornare ad un solo e medesimo fatto - di disperderlo come si disperde la terra, di rivoltarlo come si rivolta il terreno. Perché i ‘fatti’ non sono altro che gli strati che consegnano alla ricerca più meticolosa solamente quello per cui vale la pena di scavare. Vale a dire le immagini, che, liberate di tutti i contesti precedenti, risiedono come oggetti preziosi nelle stanze sobrie della nostra comprensione successiva - come i torsi nella galleria del collezionista. E certo è utile, quando si scava, procedere secondo un piano, ma è indispensabile un colpo di vanga cauto, a tentoni, nella terra oscura. E ci si priva del meglio, se si effettua solo l'inventario dei reperti e non si riesce a designare nel suolo attuale il luogo in cui esso custodisce l'antico. Così i veri ricordi devono procedere molto meno per resoconti che designare con precisione il luogo in cui il ricercatore se ne impossessa. Quindi bisogna che il ricordo reale dia al contempo nel senso più stretto epicamente e rapsodicamente un'immagine di colui che si ricorda, come una buona descrizione archeologica non deve solo restituire gli strati da cui originano i reperti, ma prima di tutto gli altri strati attraverso cui si è dovuto precedentemente penetrare.”

- Walter Benjamin -

martedì 29 ottobre 2013

il borseggiatore

marker gatto
Si nascondeva dietro il sorriso di un gatto. Non si lasciava fotografare e la sua ultima intervista l'ha rilasciata su "Second Life", un mondo virtuale di cui era devoto abitante. Diceva di tenersi informato attraverso Al Jazeera e ascoltando il canto degli uccelli del 20° arrondissement di Parigi. Le sue opinioni venivano rese pubbliche sui giornali parigini attraverso le strisce dei fumetti del gatto Guillaume, che aveva seguito il maggio francese e le elezioni di Obama, la rivoluzione egiziana e le rivolte a Londra, dove si era anche fermato ad assistere al matrimonio reale.
Christian François Bouche-Villeneuve, conosciuto come Chris Marker, era questo ed altro, e preferiva il silenzio alla parola ed il fotogramma nero all'immagine poco interessante.
Non si considerava un regista, a dispetto dell'Orso d'oro vinto al Festival di Berlino per Description d'un combat nel 1960. Lo aveva girato insieme a Godard e a Resnais, ed affermava che erano loro i veri registi. Ancor meno era disposto a definirsi fotografo, come il suo amico Henri Cartier-Bresson.

Forse era riuscito a dire tutto in "Sans Soleil", un film del 1982 che aveva spinto il documentario fino ai suoi limiti, dividendo il mondo in una serie di ... liste. Le cose eleganti, le cose tristi, le cose che non vale pena filmare e le cose che fanno battere forte il cuore. I suoi attori si muovevano per la strada, dove li trovava volgendo la fotocamera. Nelle manifestazioni della gioventù parigina del 1968 o nell'Islanda del 2002, nella Guinea-Bissau come a Tokio. Si riteneva un borseggiatore, veloce, in grado di scappare con la refurtiva. La refurtiva era il "volto della solitudine". Era "quella frazione di secondo in cui l'operaio cileno intuisce che la fabbrica nazionalizzata era una sua proprietà, quello in cui il pugile tailandese si rende conto che ha perso l'incontro e il tedesco di sinistra capisce che il suo partito è stato sconfitto nelle urne".
marker maggio
Scattò immagini delle prime elezioni in Germania, subito dopo la caduta del muro di Berlino, foto di attivisti brasiliani, istanti dell'inizio della Perestroika a Mosca. Non era politica. "La politica non mi interessa, mi interessa la storia". Lui, che nel 1970 aveva girato "Carlos Marighella"!
Regista lo stesso angolo di Parigi, prima nel 1961, poi nel 2001, per far vedere come c'è cresciuto un albero, mentre invece tutto il resto del mondo non è cambiato. "Non ricordiamo niente, ricreiamo attraverso la memoria, così come ricreiamo la storia." Come questo avviene, lo dirà mirabilmente con "La Jetée", il suo cineromanzo del 1962, spiegandoci che è necessario che la fine sia una festa, che l'addio abbisogna di una sua cerimonia.

lunedì 28 ottobre 2013

L'errore di Tolstoj

tolstoj mao

«Quello che chiamiamo “maoismo” prende nome, è vero, da un personaggio morto dieci anni fa e ora mummificato in uno squallido mausoleo del suo paese; ma dietro a quel nome c’è uno sconvolgimento ed un conflitto che ha impegnato per decenni un essere umano ogni quattro e che ha mutato la sorte di più generazioni e si è posto come esempio alla parte più oppressa e più umiliata del mondo. Certo, nessuno è costretto a riconoscerne la grandezza; ma l’errore di Tolstoj non è quello di avere la scorta dell’umile mugik russo e di contrapporlo alla rinomanza di Napoleone, ma di avere avuto bisogno, per questo, di rappresentarci Napoleone quale non fu davvero, ossia un vanitoso imbecille».

- Franco Fortini, da "Risposta a un ragazzo di oggi. Su Mao" – 1986 -

domenica 27 ottobre 2013

Partigiani

giorgio

Dedicato al mio vecchio amico Giorgio, che a volte mi manca, forse gli sarebbe piaciuto, chissà ...


Comandante - Lo si diventa per meriti, non per titoli di studio. Conosco un mungitore che ha ai suoi ordini un colonnello di Stato Maggiore. Di solito si affermano quando scoprono per la guerriglia un'autentica vocazione. Fanno sempre di testa loro, e raramente sbagliano. Quando sbagliano pagano di persona.

Nome di battaglia - Serve a mascherare la nostra identità e di rimando a tradire il nostro carattere. Esso rivela infatti le nostre ambizioni, o le nostre letture, oppure i limiti della nostra fantasia.

Partigiani - Ce ne sono di tutti i tipi: comunisti e cattolici, socialisti e liberali, anarchici e trotzkisti, giellisti e monarchici, leali e opportunisti, coraggiosi e vigliacchi, decisi e attendisti, generosi e scaltri, onesti e ladri, giovani e vecchi, eroi e doppiogiochisti, consapevoli e no, con scarpe e senza scarpe, vestiti come soldati e come pagliacci. Combattono una delle diecimila guerre che l'uomo ha scatenato su questa terra e pensano di essere dalla parte della ragione.

Politica - I giovani non amano e non sanno farne. I più anziani la preferiscono alle azioni di guerra.

Scarpe - E il nostro dramma; si consumano in un amen. Chiediamo scusa ai morti se li spogliamo, ma noi dobbiamo continuare a camminare e loro hanno finito.

Spia - Nel Paese in cui viviamo, diviso dalla guerra civile, tutti lo possono essere. Un tale che veniva da noi a mendicare pane, ha venduto per duecento lire la vita di quindici nostri compagni. Per questo siamo spietati con le spie, anche a rischio di cadere in errori.


le voci sono tratte da"Un uomo ordinato, un dizionario del partigiano anonimo" - in "Storie della Resistenza" (a cura di Domenico Gallo e Italo Poma), Sellerio editore, Palermo, 2013 -

sabato 26 ottobre 2013

La storia nella rete

storia original

"Una chance rivoluzionaria nella lotta per il passato oppresso"; questo, per dirla con Walter Benjamin, dovrebbe essere ... la storia, comunque la si declini. Non importa che prenda l'aspetto del romanzo o dell'autobiografia, purché riesca a ... "far balenare un ricordo, nell'istante di un pericolo". Un ricordo di cui ci si possa impadronire. Forse sta in questo il senso per cui le storie ... si oppongono alla storia. Nessuna "immagine eterna del passato", ma "esperienza unica" del passato, insieme al passato, per "far saltare il continuum della storia", per liberare il passato, come il presente, dalla sua oppressione. Per "far saltare un’epoca determinata dal corso omogeneo della storia; come per far saltare una determinata vita da un’epoca, una determinata opera dall’opera complessiva."
Parlando qui, del passato che non passa, uno rischia di fare ... autobiografia; e l'autobiografia è essenzialmente un atto di confessione, qualcosa che qualcuno non riesce a cominciare e che qualcun altro non riesce a smettere. Meglio evitarla!
Poi ci sono quelli che la Storia (la maiuscola è d'obbligo) la scrivono per fare l'autocritica degli ... altri. E, nel farlo, devono ovviamente nascondere tutti quei fatti che magari potrebbero risultare superflui, se non antagonisti, al fine che si erano preposto. E sono loro, la Storia, se la raccontano e se la sistemano al meglio. Qui, niente Storia, nemmeno la Storia degli storici che a farla verrebbe fuori un verminaio, da Masini a Cerrito ad Antonio Cardella ( Cardella lo storico! : uno che scrive (a pag.69) che la Rivoluzione del 1917 coglierà di sorpresa gli stessi teorici della rivoluzione sociale, tra i quali, in prima fila, lo stesso Marx!!!).

storia amapola

Le storie, come l'oro della prima internazionale, si trasformano in carbone, non appena cadono nelle mani del nemico. Non c'è verso. Così mi è capitato tempo fa, di prendere un libro che mi aveva incuriosito, a leggerne la quarta di copertina. "La Amapola di Alberto. Spagna 1957: l'ultimo viaggio di un bandolero anarchico", il titolo; Daniele Repetto, l'autore; pubblicato per i tipi di un piccolo editore, Memori. Il racconto, a tratti quasi onirico, sembra ripercorrere un periodo in cui l'autore, nato nel 1949, è solo un bambino di otto anni. C'è da dire che nella storia si muovono persone che ho conosciuto tempo fa, Aldo e Anna, qualche tempo dopo il periodo raccontato nel libro, quando erano praticamente la redazione di Umanità nova, settimanale anarchico. Non ne conservo un buon ricordo. Ad ogni modo, credo, l'intento dell'autore, e del libro, sia quello di contrapporre una figura "romantica" - almeno nei suoi ricordi di bambino - come quella di Facerias ad altre figure, più recenti, che usurperebbero il suo ricordo da "anima bella", che ci viene venduto al costo del prezzo del volumetto.
Curioso come sono, parecchi mesi dopo aver finito di leggere e messo da parte la novella, ho voluto fare una ricerca in rete a proposito dell'autore. Ho trovato un paio di cose, e confesso che nessuna delle due mi ha stupito. La prima è una sorta di articolo da lui firmato (che potere leggere qui), in cui viene stigmatizzata la gambizzazione, avvenuta a Genova, ai danni di Adinolfi, dirigente dell'Ansaldo, da parte della federazione anarchica informale. E, ahinoi, dopo aver attribuito ad Alfredo Bonanno la "responsabilità" di essere l'ideologo del mucchio degli "anarco-insurrezionalisti", non riesce ad esimersi dal contestare a Bonanno stesso la sua pretesa di ispirarsi ad un personaggio "puro" come Facerias. Nel farlo, indugia a chiamare lo spagnolo per nome, Alberto, mentre si scioglie a ricordare il padre che militava nella federazione anarchica ligure. Poi, dopo aver affermato, a proposito sempre di Facerias, di conoscerne la storia ed il pensiero (certo, ad otto anni si è come delle spugne, si assorbe e si impara tutto!!), si lancia nella professione di becchino, ovvero dell' "io so cosa penserebbe il morto!", asserendo che ad "Alberto" non piacerebbe venire accostato all'autore della gioia armata. Ché l'anarchia di Bonanno, somiglia troppo - sempre ai suoi occhi di bambino invecchiato - alla parodia di Forza Italia e del suo  “facciamo un po’ come cazzo ci pare” di guzzantiana memoria.
Ah già, ho detto che ce n'è una seconda, di cose che ho trovato nella rete. Niente di che, parla solo di un altro libro del puro Repetto. Il libro si intitola "Rosso di sera", e a quanto leggo parla degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, e dell'impegno dell'autore nel 1968, a partire da prima e fino a dopo. Lo scopo, vorrebbe essere quello di "liberarli", quegli anni. Ah, dimenticavo, la prefazione al libro è di Ignazio La Russa!!!

venerdì 25 ottobre 2013

sceneggiature

Lang_interview_1974

«Il 30 Marzo 1933, il ministro della Propaganda in Germania, Joseph Goebbels, mi convocò nel suo ufficio [...] e mi propose di diventare una sorta di "Fuhrer" del cinema tedesco. Io allora gli dissi: "Signor Goebbels, forse lei non ne è a conoscenza, ma debbo confessarle che io sono di origini ebraiche" e lui: "Non faccia l'ingenuo signor Lang, siamo noi a decidere chi è ebreo e chi no!". Fuggii da Berlino quella notte stessa.»
A raccontarla così, è Fritz Lang, nella famosa intervista fattagli da William Friedkin nel 1974. Questo incontro - racconta sempre Lang - ebbe luogo conseguentemente alla proibizione di proiettare nelle sale tedesche il suo "Il testamento del Dr. Mabuse". La descrizione dell'avvenimento, nelle parole del regista, è assai vivida, cinematografica: corridoi interminabili, un salone immenso dove il ministro della propaganda nazista quasi appare, il colloquio kafkiano in cui, contro ogni previsione di punizione, si sente proporre il ruolo da cui scapperà la notte stessa, su un treno per Parigi, con successiva destinazione Stati Uniti.
Che sia vera o meno, questa "sceneggiatura", contraddetta dai visti sul passaporto e dai minuziosi diari di Goebbels, è assolutamente parte del personaggio. E finisce per essere più vera della realtà. Dove la realtà ha il nome di Thea Von Harbou,la donna incontrata quindici anni prima. Si erano conosciuti e si erano amati  mentre lui stava con un'altra che quando lo aveva saputo si era sparata in testa (ma forse anche questa è solo un'altra  "sceneggiatura"). E Thea, nel nazismo ci credeva! Su quel treno per Parigi, Fritz scapperà anche da Thea, forse soprattutto da Thea.
Magari, invece, era solo tutto un gioco. Un gioco, però, che andava giocato con regole precise e maniacali, come quelle che dettava nei suoi film. «Che pensa lei dell’espressionismo?», si sentiva domandare il Dottor Mabuse. «Non è che un gioco. E perché no? Tutto oggi è gioco.» Un gioco, serio, disciplinato, che continuerà negli Stati Uniti.
«Leggevo soltanto cose scritte in inglese,» — dice nella celebre intervista resa a Peter Bogdanovich  — «leggevo molti giornali, e i fumetti, da cui imparai moltissimo. Dicevo a me stesso: se della gente, un anno dopo l'altro, legge tanti fumetti, dovrà pur esserci qualcosa di interessante. E li trovai molto interessanti. Acquistai la capacità (e la possiedo ancora oggi) di comprendere il carattere americano; e imparai lo slang. Giravo per il paese in automobile cercando di parlare con tutti. Conversavo con ogni tassista, ogni benzinaio che incontravo, e guardavo i film. Naturalmente mi interessavo molto anche agli indiani, andai perciò in Arizona e vi rimasi per sei o sette settimane vivendo con i navajos. Fui il primo a fotografare la loro pittura su sabbia, cosa che, trattandosi di una cerimonia religiosa, di solito era proibita. In tal modo mi procurai, credo, una certa conoscenza, niente di più. E acquistai una certa sensibilità per ciò che chiamerei l'atmosfera americana.»

giovedì 24 ottobre 2013

riformismo infantile

Modern Times (1936)

A proposito della … “de-crescita”, va detto che nel termine “de-crescita” continua a starci la crescita. E questa è cosa per niente acconcia. Il capitalismo dev’essere de-costruito, ma non attraverso la de-crescita, la quale continua a rimanere sullo stesso piano d’ombra del capitalismo stesso. Una sorta di riformismo infantile, detto in due parole. E questo per il semplice motivo che non riesce ad invertire – come pretenderebbe a partire dal suo significante – la macchina della produzione. Non riesce a fare quello che fa Chaplin, con la macchina fordista, facendo uscire dalle scatolette di carne, ruminanti in carne ed ossa.

mercoledì 23 ottobre 2013

blues

patton2

I’m goin’ where the southern cross the dog” . Sto andando dove il sud attraversa il cane. Ma non era il sud, e non era il cane; si trattava di due linee ferroviarie che si incrociavano, un crocevia fra la linea ferroviaria della Southern (tuttora in attività) e la vecchia Yazoo Delta, soprannominata Yellow Dog in forza delle sue iniziali, Y.D.. Ed era lì, verso quel crocevia, verso Moorhead, verso Dockery, che era diretto l'uomo, seduto in attesa, nella notte, alla stazione di Tutwiler, che continuava a cantare quel verso, ripetendolo, mentre si accompagnava con la chitarra sul cui manico faceva scorrere una lama di coltello. Ma tutto questo W.C. Handy non lo poteva sapere, mentre aspettava il suo treno che lo avrebbe portato da qualche parte, forse a Cleveland, a dirigere un'orchestra specializzata nell'eseguire marce ed inni. Si sorprende ad ascoltare quella strana musica, con quelle strane parole ricamate sopra, sempre più stupito e catturato, e annota qualche parola sul suo diario a proposito di un negro magro che aveva cominciato a suonare la chitarra mentre lui dormiva. Non sa chi sia, quel negro - se sia reale o se sia un fantasma - né, tantomeno, sa che lo strano incontro lo porterà, immeritatamente o meno, a diventare il "padre del blues".
Un'altra storia, la solita storia, fatta di stazioni di notte, di crocevia, di anime vendute al diavolo. Chi sarà mai stato quell'uomo che ha inventato il blues? Un uomo? Un fantasma? Il diavolo stesso? Oppure, come molti dicono, Henry Sloan. Lo stesso che anni dopo insegnerà a suonare la chitarra a Charley Patton. No, forse era Ben Maree, che si dice abbia ispirato il famoso "Pony Blues".
La stazione di Tutwiler doveva essere parecchio affollata in quella notte del 1903, la notte che inventarono il blues.

martedì 22 ottobre 2013

populismi

pop

Populismo isterico
di Robert Kurz

La caccia al colpevole è di gran lunga il passatempo preferito nella nostra società. Se qualcosa non va per il verso giusto su larga scala, nella stragrande maggioranza dei casi non si mette in questione la cosa in quanto tale; piuttosto la responsabilità dovrà ricadere su qualcuno. Non sembra opportuno o comunque possibile considerare responsabili, obiettivi discutibili, relazioni sociali distruttive o strutture contraddittorie, invece le colpe saranno attribuite ad individui che mancano di risoluzione o che peccano di incompetenza, o che rivelano perfino intenti malvagi. E’ assai più facile far rotolare teste invece di sovvertire la situazione vigente e modificare la dinamica sociale.
La tendenza spontanea della coscienza non riflessiva a liquidare i problemi gettando la colpa sugli individui, si accorda con l’ideologia liberale: il liberalismo ha individualizzato, in ultima analisi, le cause dei problemi sociali. L’ordine vigente del sistema sociale viene elevato alla dignità di dogma, al punto da divenire una legge di natura e con ciò reso irraggiungibile, intoccabile da qualsiasi valutazione critica. Quindi le esperienze negative devono essere riferite agli individui in quanto tali, nella loro esistenza immediata. Disagi personali o fallimenti sono colpa dei singoli, così come crisi sociali e disastri sono generati da persone e gruppi soggettivamente colpevoli. In nessun modo il sistema in quanto tale può essere chiamato in causa, sono sempre gli individui ad agire in modo errato o addirittura criminoso.

pop animal
Questo modo di pensare è profondamente irrazionale ma rappresenta un sollievo per la coscienza, perché esenta chiunque dall’interrogarsi criticamente sulle condizioni della propria esistenza. Problemi impersonali della struttura sociale e del suo sviluppo vengono identificati essenzialmente in particolari individui, gruppi sociali ecc., oppure incanalati verso di essi simbolicamente. Nell’Antico Testamento questo meccanismo viene formalizzato come creazione di un “capro espiatorio” su cui la società simbolicamente scarica i suoi peccati e che viene poi scacciato nel deserto. Questa tecnica di superficiale personalizzazione di problemi e disastri può seguire due strade. La prima consiste nel mettere in questione taluni individui all’interno di gruppi o istituzioni. Leader o organi dirigenti possono essere tacciati di incapacità dal corpo sociale oppure i primi, rigirando la frittata, possono accusare la massa di incompetenza, di scarsa dedizione ecc. Tale meccanismo di attribuzione delle colpe è alla base del funzionamento della moderna politica. Il popolo se la prende con i politici e i politici bistrattano il popolo. Come tutti sanno i partiti d’opposizione non individuano mai le cause dei problemi sociali nel sistema politico e nella sottostante struttura di riproduzione sociale ma, al contrario, affermano che tali problemi sono il risultato delle pessime iniziative dei loro avversari attualmente al potere. Il secondo metodo è ancora più irrazionale e rischioso. I problemi sociali vengono genericamente proiettati su un singolo o su più gruppi di persone, che vengono identificati come il male assoluto e quindi servono alla stregua di un'icona del “nemico universale”. Tutte le ideologie, che secondo Marx vanno intese come falsa coscienza, immagine distorta della realtà, pongono in atto in un modo o nell’altro questo concetto personalizzato di nemico pubblico. Se il liberalismo come moderna "arche-ideologia" centrale è relativamente pragmatico nella sua ricerca di colpevoli ed orientato su alcuni caratteri mutevoli (“i desideri irragionevoli”, la pigrizia dei poveri, la “cattiva educazione” dei criminali ecc.), si deve fare i conti col fatto che la sua progenie ideologica è assai compromessa con il concetto unidimensionale di nemico universale. Il più malvagio e importante “nemico” sorto dal grembo della società è l’antisemitismo che culminò con lo sterminio di massa degli ebrei nella Germania nazista. Il contrario di una ricerca irrazionale di colpevoli, sarebbe una critica sociale emancipatoria che non mirasse a particolari gruppi di individui, ma cercasse di trasformare le forme dominanti di relazioni e riproduzione sociali. Indubbiamente è ancora la teoria di Marx che ha le migliori potenzialità in questo senso. E’ vero che le idee del movimento operaio, che hanno raggiunto nel frattempo i loro limiti, furono in fondo personalizzate, nella misura in cui ascrivevano le contraddizioni sociali ad una sorta di “volontà di sfruttamento” da parte dei “proprietari dei mezzi di produzione”, piuttosto che alle leggi cieche e alle forze del moderno sistema produttore di merci. Ironicamente, proprio questo approccio teoretico riduttivo può essere ricondotto all’eredità liberale del movimento operaio, particolarmente l’idea che ogni problema possa essere interpretato in termini di relazioni di volontà. Tuttavia la teoria di Marx fornisce un approccio assai più penetrante ad una “critica del sistema” degna di questo nome, che non confonda le crisi strutturali con le “cattive intenzioni” di uomini o gruppi sociali. Dopo il collasso del “socialismo reale” e la trionfale avanzata dell’ideologia neoliberale, la critica sociale non solo non fu più elaborata secondo questa linea ma finì per tacere del tutto. Il sistema sociale e la sua struttura sono divenuti un tabù, più arcano che mai. Ma quando la forma dominante di relazione sociale non è più oggetto di critica i problemi sociali si aggravano e le teorie della cospirazione proliferano.

POP Conspiracy

Non c’è da meravigliarsi che negli ultimi 20 anni, parallelamente al declino del marxismo, rispuntino razzismo ed antisemitismo a spiegare la miseria per mezzo di varie personificazioni del male. Perfino nelle società occidentali i politici cercano capri espiatori. In Germania, un libro dal titolo Nieten in Nadelstreifen scritto dal giornalista economico Gunter Ogger e divenuto un best-seller, accusa gli imprenditori di essere dei falliti, la cui incompetenza collettiva è la causa del disastro socio-economico crescente. Gli eroi e i redentori di oggi sono i perdenti e gli imputati di domani. Alcuni media pubblicano le tabelle con i “vincenti ed i perdenti della settimana” nella politica, negli affari, nello showbiz. La giostra gira sempre più veloce per amministratori e leader politici: crisi, catastrofi e bancarotte segnano la fine della carriera di uomini “personalmente responsabili”, destinati ad essere rimpiazzati da altri che tuttavia non potranno fare di meglio. Ma il sacrificio di pedoni o regine non soffoca la tetra sensazione di una sorta di universale minaccia; sforzandosi di trovare espressione, questa sensazione genera fantasmi. Le società occidentali, incapaci di riflettere su se stesse da lungo tempo, liberano figure mitiche per simbolizzare il Male intrinseco alla propria struttura. Una di queste mitiche apparizioni del negativo è il terrorista. Quanto più oscuri e arbitrari appaiono gli attacchi di confusi e frustrati crociati, guerrieri di Dio o mafiosi, tanto più essi rassomigliano al cieco e impersonale terrore dell’economia. Da molto tempo però, i confini tra gruppi terroristici, amministrazioni statali e servizi segreti, si sono fatti assai confusi. La società democratica percepisce l’immagine del terrorista quando si guarda allo specchio. Questa losca e ambigua figura si presta bene a rappresentare il male insito nella società dell’onesto borghese, come minaccia astratta. Il meccanismo di proiezione è speculare. Come il terrorista ideologizzato vede il male del capitalismo, incarnato nelle sue élites funzionali, così il politico democratico, a sua volta, spiega l’insicurezza sociale con la minaccia terrorista. I due lati, sia i terroristi, sia gli apparati di sicurezza, usano il metodo della “caccia spietata” agli individui per presentare i loro corpi come trofei al pubblico, inscenando il “terrore della virtù” (Robespierre). Nel frattempo l’esistenza dei terroristi, reali o fantastici, è diventato il presupposto legittimatore per le democrazie di mercato di tutto il mondo.
Pressoché la stessa cosa si verifica con il mito dello speculatore, che iniziò a prendere corpo negli anni ’90 parallelamente all’espansione della bolla finanziaria mondiale. Come tutti sanno, la rozza presa di posizione contro i guadagni speculativi non è troppo lontana dall’antisemitismo, che in ultima analisi identifica gli ebrei con il lato negativo del denaro. Con George Soros il mito assume le sembianze di un individuo che al tempo stesso riassume una minaccia anonima: la società capitalista del lavoro, sospettando di essere alla soglia del declino, proietta il problema su un Male personalizzato che si appresterebbe a distruggere il “lavoro onesto”. Quanto più ovvio diviene il fatto che il sistema del lavoro è autodistruttivo, e che l’era della speculazione ne è un derivato, tanto più impellente diviene la necessità di un soggetto mitico che sia apparentemente responsabile. Che questa spiegazione irrazionale si generi nella coscienza di chi ha scommesso gli ultimi quattrini nei mercati finanziari, è di fatto la precondizione per l’incarnazione della proiezione.

POP GRECIA

Dopo il fallimento del mercato tecnologico, i media sono smaniosi di descrivere il “povero investitore ingannato” come vittima dei sinistri poteri finanziari che agiscono dietro le quinte. Negli ultimi anni mentre la crisi giungeva al culmine un’altra proiezione guadagnava terreno, accanto al terrorista e allo speculatore: il pedofilo è la più recente incarnazione del Male. Nessuna invocazione magica del demonio è scevra da componenti sessuali. Parallelamente al preteso “abuso dello stato sociale” ad opera di parassiti (meglio se stranieri), anche l’abuso sessuale diviene un soggetto in voga. Si potrebbe trovare con estrema difficoltà un terapista che non cerchi di convincere i suoi pazienti di essere stati vittime, nell’infanzia, di molestie sessuali. Fino ad ora la classificazione dello “zio cattivo” è piuttosto incerta, ma è impossibile non avvertire la sua relazione con l’antisemitismo: i nazisti asserivano che i Giudei avevano trasformato gli uomini in merce e allo stesso tempo li rappresentavano come demoni lascivi nell’atto di perseguitare fanciulle innocenti e bambini dell’alta borghesia. Una volta di più la società ufficiale deve esternalizzare e personificare uno dei suoi aspetti strutturali come un simbolo del Male. La maggior parte degli abusi sessuali ha sempre avuto luogo tra le confortevoli mura domestiche. Non si dovrebbe dimenticare che l’assassino belga Dutroux introduceva le sue piccole vittime presso i circoli più altolocati, per soddisfare la loro bramosia. La società capitalista è da sempre nemica dei bambini. Allo stesso tempo, questa forma di società è anche nemica del piacere. Lo slogan della “liberazione sessuale” usato dal movimento studentesco degli anni ’60, che non fu mai in grado di sovvertire le forme sociali dominanti, ha solo condotto verso la sessualizzazione dei media e della pubblicità, mentre la vita sessuale dell’attuale individuo consuma-merci è più miserabile che mai. La manifestazione dei crimini sessuali, come irrazionale simbolizzazione delle contraddizioni sociali, si fa perfino più odiosa e malvagia. Ogni differenza nella personalità viene livellata, per risvegliare i demoni della persecuzione. Nel dibattito sessual-politico degli anni ’70, il trasporto erotico tra individui maturi e giovani (così come venne descritto letterariamente da autori come Vladimir Nabokov nel romanzo Lolita, o Thomas Mann nel racconto Morte a Venezia) veniva considerato come una variante nello spettro dei comportamenti sessuali, come si riscontrava in molte culture, purché nel quadro di un sentimento amoroso e senza violenza. Oggi la messa in scena del “sano sentimento popolare ” da parte dei media, equipara questo aspetto della sfera erotica alla prostituzione infantile, allo stupro o all’assassinio da parte di maniaci. Il proposito legittimo di denunciare e combattere la violenza maschile contro donne e bambini - un problema che si è aggravato con l’avanzare della crisi mondiale - si è rovesciato nel suo opposto, e si è trasformato in uno strumento per demonizzare il fenomeno, invece di analizzarlo criticamente per impedire l’operato dei bruti.

POP bambini

La mania di proiezione arriva a bollare anche bambini come pedofili: negli Stati Uniti, un giovane di 18 anni, che fuggiva con la sua ragazza di 14, è finito davanti a un tribunale. Lo stesso è accaduto ad un ragazzo di 11, osservato da una vicina un po’ tocca, mentre giocava al dottore in modo del tutto innocuo, con la sorellina di 5. La mitiche figure del Male sono necessarie per scaricare le energie negative della crisi sociale in modo irrazionale e antiemancipatorio. Il terrorista, lo speculatore ed il pedofilo hanno in comune il fatto di agire nell’ombra – come le forze anonime della concorrenza. Potrebbero essere chiunque o nessuno. Il regista Fritz Lang, negli anni’20, con il suo classico "M - Il mostro di Düsseldorf",  ambientato a Berlino sullo sfondo della crisi economica mondiale, ha illustrato in modo angoscioso come la caccia ad un misterioso assassino sessuale si fonda con una sindrome psicologica di massa che genera un’atmosfera di sospetto, delazione e violenza furiosa. La società mostra un volto abietto non meno terrificante di quello dell’assassino. Oggi la medesima sindrome si fa sentire in misura ben maggiore, grazie ai mezzi di comunicazione di massa. Politici e media battono la strada del populismo isterico, sino alle soglie del linciaggio. Quando i tabloid in Gran Bretagna pubblicarono nomi ed indirizzi di presunti pedofili la folla rabbiosa ne indusse alcuni al suicidio e, per giunta, distrusse il consultorio di una pediatra, non avendo compreso la differenza tra il concetto di “pediatria” e quello di “pedofilia” (eloquente indizio della qualità delle scuole inglesi). Questi episodi dimostrano come stia montando in grande stile la paranoia sociale. Una società che non ha interesse ad analizzare criticamente i suoi lati più reconditi, è destinata solo a scatenare la caccia alle streghe.

lunedì 21 ottobre 2013

la caduta

FOTO UOMO CADE

«Le fotografie con immagini sgradevoli verranno pubblicate solo quando aggiungono informazione». Questo è quando viene riportato, con piccole varianti, sulla stragrande maggioranza dei "manuali di stile" degli organi di stampa internazionali. Si tratta di una preoccupazione, per così dire, moderna. Nel 1928, nello "style-book" del Manchester Guardian (il predecessore di "The Guardian") il termine fotografia non veniva nemmeno menzionato. La cosiddetta età dell'oro del fotogiornalismo sarebbe arrivata solo dopo qualche anni, con Robert Capa, Dorothea Lange, Tony Vaccaro. In realtà, la frase in apertura riportata, non dice assolutamente niente. Per dirla con il Conte di Romanones, "Voi fate le leggi che io faccio il regolamento". Cos'è sgradevole? E cosa non lo è? E lo sgradevole, va misurato con criteri estetici, ideologici, umanitari o religiosi? E quando possiamo asserire che sta aggiungendo informazione? E a cosa starebbe aggiungendo informazione? Al testo? Alla conoscenza media del lettore medio, a proposito della situazione fotografata? Perché? Esiste forse una sola foto al mondo che non può essere descritta con delle parole?
Una frase di sei parole può contenere generalmente più di sei bugie. La foto sopra, The Falling Man di Richard Drew, venne scattata quindici secondi dopo le 9:41 della mattina dell'11 settembre 2001, ora di New York. L'uomo non era caduto, si era lanciato. Però non si era suicidato. Una distinzione sottile, ma importante: il suicida sceglie fra la vita e la morte, l'uomo che cade, nella foto, sceglie fra due tipi di morte. In questo caso, venne giudicata preferibile la morte sull'asfalto a quella per fuoco. Inoltre, l'uomo non fu il solo a compiere tale scelta; altri la fecero insieme a lui, o lo seguirono, qualche secondo dopo. Ma anche: le fiamme non erano un incidente, bensì la conseguenza di un attentato terroristico e l'edificio non era un edificio qualsiasi, ma uno dei simboli del potere finanziario degli Stati Uniti.
Tutto questo, la fotografia non lo spiega, ed il fotografo ignora il nome dell'uomo che cade. Lo ignora nel momento in cui scatta la foto, e continuerà ad ignorarlo anche giorni dopo. Sarà l'editore del Toronto Globe and Mail ad incaricare uno dei suoi giornalisti, Peter Cheney, di scoprirne l'identità. Cheney si rivolge ad uno studio fotografico, per ingrandire e rendere più chiara e definita l'immagine. L'uomo che cade non è un nero, anche se la sua pelle non è chiara, si tratta probabilmente di un latino. Indossa una specie di giacca bianca, tipo quella dei camerieri in alcuni ristoranti. Alla fine, Cheney screma tutti i nomi, e trova un candidato: Norberto Hernández. Si reca ai Queens e parla con Tino e Milagros, i fratelli di Norberto, che confermano: si tratta proprio di lui. Il giornalista poi cerca di parlare con la moglie e con le tre figlie di Norberto, che, però, si rifiutano di farlo. Il cadavere potrebbe essere identificato solo attraverso l'esame del DNA, in quanto ne è rimasto solo un braccio e il tronco. Cheney si presenta al funerale con la foto, ma Jacqueline, la figlia maggiore, afferma «quel pezzo di merda non è mio padre». Ed in realtà, i vestiti non corrispondono: né Norberto, né gli altri suoi colleghi, vestivano quel genere di uniforme il 20 settembre. No, l'uomo che cade sarebbe Jonathan Briley; come spiega l'inchiesta fatta da Tom Junod e pubblicata su Esquire.
In una foto si può mentire, tale e quale come si può mentire in un testo. Ma per funzionare, la bugia fotografica, si appoggia alla sospensione dell'incredulità dello spettatore. Si appoggia alla sua complicità. E questo avviene perché la foto sembra riflettere la realtà, mentre il testo la rappresenta. La foto offre allo spettatore un appiglio (quello della sua propria esperienza della realtà) che il testo invece gli nega. Per smascherare un'immagine bugiarda è sufficiente chiedersi chi o che cosa ci sia due centimetri oltre i suoi margini.
Non sempre un'immagine vale più di mille parole. Sicuramente, però, una buona fotografia giornalistica ha bisogno di assai più di mille parole per poter essere descritta con precisione chirurgica.
Alla fine, il giornalismo è sempre più una scelta morale; del giornalista, ma anche del lettore. Analizzando, uno per uno, tutti i pixel della foto dell'uomo che cade, non si trovano scritte in nessuno di essi parole come terrore, claustrofobia, indignazione, dolore, odio, disperazione, compassione. Tutte queste sensazioni soggiacciono nello spettatore, ed aspettano di affiorare in risposta alo stimolo giusto. 

domenica 20 ottobre 2013

perso nella traduzione

LOST brigadistas-int

Guardando indietro, si tende a semplificare e a ridurre a semplici etichette le motivazioni sottese ad avvenimenti storici come la partecipazione alle Brigate Internazionali nel corso della Guerra civile spagnola. "Erano militanti sindacali, comunisti", evita così di rivolgersi a guardare il contesto sociale di mutamenti in cui maturò e si consolidò una scelta simile. L'Europa degli venti e trenta, è assai più lontana di quanto possa suggerire il trascorrere del tempo. Il presente ha dissolto quell'Europa, impedendo alla comprensione attuale la "traduzione" di termini come "attivista" o "comunista", e stravolgendone il significato di altri. Il loro passato - che non è il nostro - parla della guerra del 1914-18, della Grande Guerra; un movimento sismico che interessò tutto il continente europeo, e che andò a sommarsi al vertiginoso processo di urbanizzazione ed industrializzazione, dando così luogo ad un panorama sociale del tutto nuovo per quell'epoca. I cambiamenti in atto, avevano già mobilitato milioni di uomini e donne, ed avevano trasformato la loro vita quotidiana, i loro luoghi ed i loro strumenti di lavoro, già dapprima che il conflitto li mobilitasse verso il fronte e verso le fabbriche. Poi, la consapevolezza dell'ondata di morte che si era abbattuta, senza precedenti, su di loro, ebbe l'effetto di rafforzare e diffondere, in una maniera mai vista prima, quelle idee che chiedevano voce per tutti i membri della società. Certo, erano finiti i grandi imperi europei, ma non era stato distrutto il vecchio ordine, né, tantomeno, le rigide gerarchie sociali. Nel 1918 finì la guerra, ma cominciarono intensi conflitti sociali. Dappertutto si combatteva per vedere chi avrebbe avuto "voce politica", e anche per vedere chi sarebbe stato autorizzato ad appartenere a queste "nuove nazioni" emerse dalla guerra. Anche la Spagna, che non aveva partecipato militarmente al conflitto, era coinvolta. In Europa centrale venne messo in campo il nazionalismo etnico, insieme al suo compagno inseparabile, l'antisemitismo, con l'intento di ricostruire i precedenti sistemi anti-democratici, che facessero da base alle nuove nazioni. Non fu solo l'etnia, il criterio di inclusione od esclusione. Ci furono molti, soprattutto giovani, che provenivano dalle aree di nuova urbanizzazione - e che dopo l'esperienza bellica non erano più disposti a chinare il capo - che si sentirono traditi nelle loro speranze di cambiamento. Il risultato fu un'ondata migratoria che spargerà per l'Europa decine di migliaia di migranti.
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Le loro traiettorie, le loro storie, come quella di Mario, operaio e storico antifascista italiano, o come quella di Yankel, un ragazzo giudeo di diciannove anni che, partendo da Cracovia, attraverserà sette paesi, fino in Francia, in cerca di lavoro. E sempre in Francia, in un campo di concentramento, nell'ottobre del 1939, insieme a Mario, stringerà amicizia con Arthur Koestler. Yankel non sopravvivrà alla sua ulteriore deportazione in un campo nazista.
Come Manès Sperber, scrittore e psicologo, nato nel 1905 in una famiglia chassidica di Zablotów (allora parte della Galizia austriaca , oggi Ucraina), che scappò con la sua famiglia a Vienna, con l'avanzare della guerra. L'esilio nella capitale austriaca, influirà decisamente sulla sua successiva adesione, a Berlino, nel 1927, al partito comunista. Arrestato dai nazisti, poi rilasciato grazie al suo passaporto polacco, andrà in Yugoslavia e, di lì, a Parigi, prima di approdare alla Spagna in guerra. Una storia simile, la sua, a quella di un adolescente ribelle di Budapest, il quale, nelle prigioni del paese che Horthy governava con mano di ferro, realizzò che non aveva altra scelta che quella di cercare di farsi una vita migliore a Parigi, e che poi finì per diventare, in Spagna, il famoso fotografo conosciuto col nome di Robert Capa.
Era stata la conseguenza di un mondo che stava cambiando, la marea migratoria. E finì per accelerare ancora di più quel processo storico che metteva in discussione e mutava tutte le norme sociali precedentemente stabilite.
Nella Londra del dopoguerra, anche se il voto era stato esteso a tutti, uomini e donne, nel 1928, la politica e la vita pubblica rimanevano privilegio di un élite sociale molto ristretta. Ma Patience Darton, che esercitava il mestiere di levatrice nei sobborghi e che litigava tutti i giorni per proteggere i poveri dalle autorità intransigenti del suo ospedale, la pensava diversamente. Con il bagaglio di queste esperienze, unite al suo credo religioso, partì come infermiera per il fronte spagnolo con la convinzione che bisognava lottare per ridurre le differenze sociali.
Questa lotta per il cambiamento sociale si estese anche fuori dall'Europa, fra gli immigranti di prima e seconda generazione in Nord America. Istintivamente, sapevano che la difesa della Repubblica spagnola era una lotta per una maggior eguaglianza sociale, e sebbene non conoscessero i dettagli di quel genere di dispotismo, molti lo identificarono nel suo equivalente: il "poormaster", il funzionario municipale che aveva il potere di concedere sussidi ai più poveri. Qualcuno era già stato in Spagna, come l'avvocato Channa Tanz de Hoboken, del New Jersey, che era stata inviata nella Spagna repubblicana dal Comitato per la Protezione dei Nati all'Estero, per investigare sulla riforma penitenziaria e sui progressi nella politica sociale; o altri, come Sam Levinger, il figlio di un rabbino dell'Ohio che per porre fine alle atrocità e alle ingiustizie che avvenivano in Europa, finì per andare a combattere e a morire per la Repubblica, a soli vent'anni.
E le centinaia di afro-americani che si arruolarono nel Battaglione Lincoln, la prima unità militare statunitense non segregata, considerato che l'esercito americano avrebbe continuato a praticare la segregazione razziale anche nel corso della seconda guerra mondiale; oppure anche Evelyn Hutchins, esperta guidatrice che non venne autorizzata a guidare l'ambulanza durante la guerra in Spagna perché era una donna. Tutti loro, erano "esiliati di un tempo futuro", come scrisse il poeta Sol Funaroff, Nato a Beirut nel 1911, da un'umile famiglia di esiliati ebrei russi, la cui odissea sarebbe terminata a New York. Anche Funaroff prese parte ad azioni di solidarietà con la Repubblica spagnola, nonostante fosse infermo dalla nascita.

LOST SPAGNA

Ciascuna di queste persone, vide la lotta per l'uguaglianza sociale della Repubblica spagnola come se fosse la propria, però sempre in un modo molto più complesso e variegato di quanto le etichette politiche riescano a suggerire. Furono militanti, perché vissero un'epoca in cui l'attivismo politico dava ai più deboli la possibilità di agire, offrendo loro anche uno scudo al clima ostile che spesso dovevano affrontare. Tutte queste guerre sociali europee continuarono durante la guerra totale del 1939-45. Gli eserciti alleati ed i movimenti di resistenza era o in gran parte entità multiculturali e multinazionali, così come lo erano state le Brigate Internazionali nella guerra di Spagna. Questi fatti vennero messi in ombra, dopo il 1945, dalla logica della Guerra fredda, che intendeva ristabilire, tanto ad ovest quanto ad est, nazioni omogenee etnicamente, culturalmente e socialmente. In tal modo, la complessa storia sociale delle Brigate Internazionali si è come ... "persa nella traduzione". Così come si è persa la memoria che la realtà europea del XX secolo è stata plasmata dalla migrazione interna ed esterna. Una memoria che, curiosamente, è molto più attinente al presente ed al futuro, che al passato.

LOST LIBRO

fonte: - Helen Graham - La guerra y su sombra: Una visión de la tragedia española en el largo siglo XX europeo -

sabato 19 ottobre 2013

Le classi e le lotte

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Oltre la lotta di classe
di Robert Kurz

Quando si parla di "classe" e di "lotta di classe", ai marxisti tradizionali viene una lacrima all'occhio. La loro identità di critici del capitalismo è inseparabilmente legata a questi concetti. Ma di fronte a condizioni quali sono, all'inizio di questo XXI secolo, quelle della terza rivoluzione industriale (microelettronica), quelle della globalizzazione dell'economia aziendale e dell'atomizzazione sociale, il paradigma classista del "proletariato" appare stranamente polveroso. Più i veterani marxisti insistono sull'idea che "viviamo sempre in una società di classi", meno ci si trova a muoversi in queste condizioni, nonostante o, per meglio dire, proprio a causa dell'aggravarsi delle contraddizioni del capitalismo, e di una crisi socioeconomica di un tipo nuovo che scuote il pianeta. Deprivato di qualsiasi fondamento sul terreno della critica dell'economia, il discorso sul "ritorno delle classi" è del tutto impotente e superficialmente sociologico. Perciò non è di alcuna utilità al nuovo movimento di massa contro la globalizzazione capitalista, la guerra e la distruzione sociale.
L'apparato concettuale della critica radicale necessita di una spolverata. La "classe rivoluzionaria" di Marx è stato chiaramente il proletariato industriale del XIX secolo. Unito ed organizzato dal capitale stesso, di cui doveva diventare il becchino. I gruppi sociali costituiti dai salariati dei settori derivati (servizi pubblici e commerciali, infrastrutture, ecc.) non potevano essere connessi al proletariato se non come forze di appoggio, e questo solamente perché quest'ultimo, come nucleo della massa della vita sociale, dominava le fabbriche produttrici del capitale. Questo schema tradizionale delle classi e della rivoluzione non poteva sopravvivere al capovolgimento del rapporto numerico che cominciò a diventare percettibile fin dall'inizio del XX secolo (e che venne affrontato solo in maniera superficiale dal vecchio marxismo, per esempio nella discussione a proposito delle tesi di Bernstein).
Gli impiegati dei servizi pubblici e di altri settori secondari, che, poco a poco, sono andati a costituire la maggioranza in seno alla riproduzione capitalista, sono sociologicamente ed economicamente differenti dal vecchio "proletariato". I loro costi di riproduzione vengono prelevati dalla produzione di plusvalore industriale, così come tutti i costi del loro settore d'attività nel suo insieme. Ma, nella misura in cui il rapporto si inverte dal punto di vista numerico, il "finanziamento" di questi settori non può più provenire dalla produzione reale del plusvalore; ma dev'essere simulato, in anticipo, su un plusvalore futuro, a venire, cosa che avviene soprattutto per mezzo dell'indebitamento pubblico e attraverso la creazione di liquidità da parte dello Stato, ma anche per mezzo dell'indebitamento privato e attraverso l'"economia delle bolle finanziarie". La teoria del "capitalismo finanziario" elaborata da Hilferding va intesa in rapporto a questo contesto (senza che l'autore ne fosse cosciente). In realtà, ci indica semplicemente che il capitale, pressato dalla necessità strutturale e dal peso sempre più schiacciante dei servizi pubblici ed altri settori secondari, genera un gradò di socializzazione che da solo non è in grado di sopportare.
Con la terza rivoluzione industriale, questa contraddizione si aggrava. Il capitale distrugge la propria base con un movimento a tenaglia: da un lato, si assiste all'espansione di quei settori che , nella riproduzione del capitale totale, appaiono come "spese straordinarie"; dall'altro lato, la rivoluzione microelettronica fa restringere il nucleo produttore di capitale di produzione industriale - e questo ad un livello mai visto prima. La marginalizzazione del proletariato industriale coincide con una crisi del capitalismo, una crisi fondamentale di tipo nuovo. Si possono certamente trasformare formalmente i settori pubblici secondari in capitale commerciale, privatizzandoli, ma dal momento che questo non cambia niente nel loro carattere economico di settori derivati, vengono smantellati o distrutti.
Incapace di mantenere - nelle sue forme - il grado di socializzazione raggiunto, il capitale desocializza la società.
lotta pc

Il risultato è una sociologia della crisi, costituita da masse di disoccupati e di cassaintegrati, di pseudo-lavoratori indipendenti e di "piccoli padroni" miserabili, di madri nubili e di precari flessibili, ecc., per non parlare del terzo-mondo piombato in un'economia di sussistenza primitiva e di saccheggio.
Dentro questa crisi appare il vero volto della concorrenza, insita nel concetto stesso di capitale. La lotta di concorrenza non oppone più solamente il lavoro al capitale, ma anche il lavoro al lavoro, il capitale al capitale, i settori economici tra di loro e le nazioni tra di loro, ed ora anche un sito industriale contro un altro, un blocco economico contro un altro, l'uomo contro la donna, l'individuo contro l'individuo, perfino il bambino contro il bambino.
La lotta delle classi è diventata parte integrante di questo sistema di concorrenza universale e si è rivelata essere in sé solo un caso particolare di questo sistema, del tutto incapace di trascendere il capitalismo. Per essere in concorrenza, competitivi, bisogna darsi delle forme comuni. Fondamentalmente, il capitale ed il lavoro sono solo delle concrezioni differenti di una sola, e medesima, sostanza sociale.
Il lavoro è costituito da capitale vivente, ed il capitale è costituito da lavoro morto.
Ma la nuova crisi è caratterizzata dal fatto che lo sviluppo stesso del capitalismo scioglie la sostanza del "lavoro astratto" contenuto nella base produttiva del capitale. In tal modo, l'idea di "lotta di classe"  perde la sua aura metafisica, pseudo-trascendente. I nuovi movimenti non possono più definirsi in modo "oggettivo" e formale per mezzo di un'ontologia del "lavoro astratto" e per il loro "ruolo nel processo di produzione". Oramai, possono definirsi solo nel merito, per quello che vogliono.
Cioè a dire per quello che vogliono impedire: la distruzione della riproduzione sociale a causa della falsa oggettività degli imperativi dettati dalla forma capitalista. E per il futuro che desiderano: l'utilizzo comune e razionale delle forze produttive, a partire dai loro bisogni e non dai criteri assurdi della logica del capitale. La loro comunità non può essere che la comunità degli obiettivi di emancipazione, e non quella di una reificazione dettata dal capitale. Questa pratica oggi viene portata avanti a tentoni. La teoria deve ancora essere formulata concettualmente. Solo allora, i nuovi movimenti potranno diventare radicalmente anticapitalisti in un modo nuovo, andando oltre la vecchia lotta di classe.

Robert Kurz

venerdì 18 ottobre 2013

I santi di papa Francesco

CURAS HACIENDO INSTRUCCIÓN 620

Juan Julián, parroco di San Ildefonso, a Valladolid, frequentava il carcere "las Cocheras de Tranvias", per catechizzare con le buone o con le cattive chi si trovava lì detenuto, per quanto si dichiarasse ateo, agnostico o protestante. Assisteva agli arresti, volendo essere visto dagli arrestati, i quali, vista la sua presenza, intuivano che ci sarebbe stato un omicidio. Insieme a due o tre preti filippini, era solito accompagnare le pattuglie falangiste nel corso delle loro azioni. Indossavano camicie azzurre e giravano armati. Arrivò ad essere ben conosciuto, e lo si riconosceva dalla sua tonsura e dalle sue medaglie. Inoltre, erano incaricati di catechizzare i nuovi detenuti de Las Cocheras. Si chiamavano padre Tirso e padre Baladròn. Le sue omelie erano minacciose. Una frase che ripeteva continuamente e che restava impressa nella memoria dei detenuti era: «Siete passati attraverso un setaccio largo; ora passerete per un altro più stretto, e alla fine non ne rimarrà nessuno.» C'erano persone che ne avevano paura, e prendevano la comunione, pensando che così i preti avrebbero fatto delle buone segnalazioni e avrebbero potuto uscire, però si sbagliavano di grosso, perché quei preti volevano davvero che non rimanesse nessuno.
(Testimonianza di J.P.R., detenuto a Las Cocheras)

Padre Cid, aggregato al Cárcel Nueva, celebrava la messa obbligatoria, infamava e umiliava i detenuti e li obbligava a ricevere i sacramenti quando stavano per fucilarli. Più tardi fondò un Padronato per i minori, dove finirono molti figli di quegli stessi fucilati, che lui intendeva "rieducare". Quel luogo, «Cristo Rey», venne finanziato con il lavoro schiavistico dei detenuti.

Rufino Caldevilla, parroco de La Magdalena e nipote del canonico Valero Caldevilla, partecipò in un attacco di patriottismo alla presa dell' Alto del León, secondo la testimonianza di J.L. Galindo, un falangista che stava lì insieme a lui; girava armato. Era un allegro chierico ... me lo immagino mentre spara fucilate e l'immagine non mi sconvolge ... Quando tornò a Valladolid e riprese a farsi carico della parrocchia, denunciò i vicini che dal suo punto di vista erano "indesiderabili". Già prima si era mostrato belligerante contro i settori della sinistra, e quando ci fu il golpe collaborò efficacemente: denunciò personalmente la famiglia di Heraclio Conde, che venne fucilato insieme ai suoi due figli.
(Testimonianza di Conde Conde)

Eladio Tejedor Torcida, parroco di Barcial de la Loma en 1936, era contro la gente di sinistra dopo l'avvento della Repubblica. Quando ci fu il golpe, il sindaco imposto dai golpisti fu Vicente Vázquez de Prada, che era un favorevole a che quelli di sinistra venissero arrestati e consegnati, ma che era contrario a che venissero ammazzati. Il prete insistette sulla necessità di «ripulire il villaggio, come si sta facendo in tutti i villaggi qui intorno», e alla fine si fece così. Questo prete, dopo aver indotto all'omicidio del sindaco eletto, Modesto Rodriguez, obbligò la vedova a battezzare il figlio di questi e di cambiargli il nome che il padre gli aveva imposto (Besteiro). Un'altra azione di questo prete fu quella di sposare, in extremis, Florencio Sinde, distrutto per le torture che aveva ricevuto, con le braccia e le gambe spezzate, e incosciente nei sotterranei del municipio di Barcial; l'uomo si era sposato col rito civile, e prima che morisse, chiese che venisse portata lì la moglie e li sposò con il rito religioso.
(Testimonianza della moglie)

Florentino, curato di Bocigas, accompagnava le pattuglie di assassini, secondo lui per confessare le vittime.

Lorenzo Pérez González «Lucilina», è stato uno dei massimi responsabili dei fatti di sangue avvenuti nel villaggio di Villabáñez. Aveva un confronto diretto con gli abitanti che avevano idee di sinistra e con la Corporazione Municipale; interveniva nelle questioni politiche e sui temi economici, come la gestione del patrimonio comunale; diede vita ad un sindacato cattolico, con il quale interveniva alla Casa del Popolo ... Il suo arcivescovo, Gandásegui, arrivò a dire che «aveva avvelenato il popolo». Nel 1936 denunciò le vittime e non mosse un dito per fermare la repressione scatenata contro gli abitanti del villaggio, sebbene salvasse coloro che gli sembrava opportuno, dimostrando che avrebbe avuto il potere di fermare il massacro.

José de Rojas Martín, esercitava come parroco a Castrillo Tejeriego, dove firmò la lista di quelli che dovevano essere eliminati. La madre di questo prete andava dicendo per il villaggio che «bisognava fucilare i figli dei detenuti, perché avrebbero preso la stessa strada dei loro padri».

Sergio Martín Martín, originario di Medina de Rioseco, dove collaborò a stilare le liste di quelli che dovevano morire, era parroco a Castromonte. Nel luglio del 1936 andò nelle Asturie, da dove ritornò a metà del mese di settembre, e fu allora che si scatenò la repressione a Castromonte. Molti testimoni gli attribuiscono responsabilità diretta nelle morti avvenute a Rioseco e nella zona di Santa Espina, oltre a quelle verificatesi a Castromonte.

Ictinio, parroco di Tiedra, aiutò a stilare le liste delle vittime; collaborò con i falangisti della cittadina, e fu direttamente responsabile dell'assassinio di David Criado, un suo concittadino che era tornato a casa dopo la guerra.

Bibiano di Campo Mucientes, originario di Villalba de los Alcores. Era parroco a Wamba, al momento del golpe. Collaborò, stilando liste, ed anche materialmente: portando le corde per legare i prigionieri.

Pablo Rojo era parroco a Mojados. Nei locali del municipio si trovavano detenuti una cinquantina di abitanti. Il 25 luglio, i falangisti decisero di ammazzare molti di loro. Il prete si recò nella prigione e cercò di confessarli con inganno e minacce. Nonostante gli appelli dei familiari, di fronte alla prospettiva di un gran numero di orfani, e nonostante il fatto che il prete sapesse che erano tutti innocenti e che gli omicidi sarebbero avvenuti senza giudizio e senza nessuna difesa legale; Pablo Rojo collaborò con gli assassini finché l'ultimo detenuto non salì sui camion. Poi vennero portati al ponte che segnava il confine della cittadina, e lì vennero fucilati. Qualcuno non morì e cadde nel fiume ancora vivo. Ma venivano finiti. Uno di loro, J.N., arrivò ancora ferito, trasportato dalla corrente, a Coto del Cardel, dove una guardia del campo lo finì con il suo fucile.

Andrés del Amo, di Saelices. Fu il mandante principale dei crimini commessi a Villacarralón, dove era parroco, dove segnavala i concittadini che secondo lui erano pericolosi. Anni dopo la guerra, arrivò in città il nuovo prete. Uno dei figli di Petra Cimas, assassinata da una pattuglia proveniente da altri villaggi davanti agli occhi dei suoi due figli, lo riconobbe come membro della pattuglia. Il prete si chiamava Jesús Ceinos Casero, e venne riconosciuto da altri abitanti del villaggio come uno degli uomini che andavano a prendere la gente nelle loro case nell'estate del 1936, vestito di azzurro e armato di fucile.

Teodosio era il nome del parroco di Quintanilla de Abajo. Quando venne chiesto l'indulto per i condannati a morte, disse, davanti alla porta della chiesa davanti a molti abitanti, che se fosse stata commutata la pena, avrebbe bruciato la sua tonaca.

giovedì 17 ottobre 2013

La Brigata dei Toreri

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Una lettura interessante, quella di Manuel Chaves Nogales sulla guerra civile spagnola e sulla difesa di Madrid. Nel prologo di "A sangre y fuego" parla degli uomini portati frettolosamente in trincea, della loro mancanza di coperte e di come la stampa rivoluzionaria ovviò a questo fatto, usata in grande quantità ed avvolta sui petti  e sulle schiene, assicurata con corde. Avevano l'aspetto di marionette di stracci, quei soldati, forse i più miserabili del mondo, con asciugamani annodati al collo come fossero foulard. Passa poi ad elencare i vari raggruppamenti. No, non quelli politici, ma quelli - come dire - di mestiere. C'erano "Los Figaros", il battaglione dei barbieri e parrucchieri, e "Los leones rojos", composto dai dipendenti di commercio, commessi e banconisti. Non manco nemmeno un "Batallón Deportivo" formato da giocatori di calcio, pugili ed arbitri: la sua sede si trovava negli uffici dell'attuale Real Madrid. E poi - siamo in Spagna, cazzo - c'era il Battaglione dei Toreri!

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Di questa formazione ne parla anche un libro di Javier Pérez Gómez, "La brigada de los toreros, historia de la 96 Brigada Mixta del Ejército Popular". L'unità era comandata da tre matadores: el Litri II, capo della brigata, Fortuna Chico, comandante di un battaglione, e Parrita, capitano di una compagnia. Fra di loro, non c'erano figure di spicco dell'ambiente dei toreri. La maggioranza era costituita da subalterni, da giovani che facevano fatica, scendendo nell'arena, ad arrivare a fine mese. A tal proposito, c'è il fatto della famosa corrida in favore della Repubblica che si svolse a Madrid il 10 agosto del 1936, di cui esiste la famosa foto in cui si vedono Antonio García Bustamante «Maravilla», Cayetano Ordóñez «Niño de la Palma», Juan Rodríguez Ortega «Cagancho», Luis Gómez «Estudiante» e Félix Colomo procedere verso il centro dell'arena con il pugno alzato.

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Beh, c'è da dire che dopo essere apparsi in questa foto, Maravilla, Cagancho ed el Estudiante, alla chetichella, passarono nella zona franchista. La spiegazione è semplice e logica, dal momento che la maggioranza di questi personaggi erano proprietari terrieri, che erano arrivati in alcuni casi, come quello di Marcial Lalanda, ad uccidere il fratello per appropriarsi delle sue aziende. Questo appropriarsi dei tori, in punta di fucile, era cosa abbastanza abituale, e controversa, anche per gli stessi repubblicani. Se legge il titolo che campeggia sopra la foto della corrida per la Repubblica, si vede che c'è un appello perché non vengano uccisi i tori nelle aziende (da parte dell'illegalità rivoluzionaria), in modo da mantenerli vivi per le "fiestas", durante il conflitto.
"Una sola preoccupazione inquieta adesso i toreri: che possano mancare i tori da combattimento. £ per evitarlo, chiedono che si faccia un appello a quanti oggi lottano dal lato del popolo. Che non si uccidano, per motivi di approvvigionamento, i tori da combattimento nelle aziende. La carne è la stessa ed è per il popolo; però se un toro coraggioso muore in un campo, per una fucilata, invece di combattere, in una plaza, fa una differenza dell'ordine di molte migliaia di pesetas, a favore del pubblico"
Ma i personaggi erano questi. Mentre si facevano la passeggiata con il pugno alzato, in mente loro pensavano di andare nella zona franchista quanto prima. Nel frattempo, però, la Asociación de Matadores de Toros y Novillos chiedeva ufficialmente armi alla  Agrupación Socialista de la calle Piamonte e promuoveva il reclutamento dei suoi membri. Quello che era il "Sindacato professionale di tutti i lavoratori della tauromachia", si allineava decisamente dalla parte della Repubblica. Subito, le milizie da loro formate partirono verso il fronte di Guadarrama, agli ordini di Luis Prados «Litri II», il quale, in qualità di segretario del sindacato, era stato posto al comando dell'unità. Quelle che seguono, tratte dal libro, sono le storie di alcuni di loro.

ole chico piccola.

Luis Prados Fernandez (detto Litri II) era nato nel 1902 a Madrid, cominciò ad esibirsi come giovane aspirante torero nella prima adolescenza, anche se dovette poi cominciare a guadagnarsi da vivere facendo il barbiere. Dopo una lunga gavetta, all'età di 25 anni riuscì ad accreditarsi tanto da comparire in esibizioni di una certa categoria e nel 1929 debuttò finalmente a Madrid come torero. Un giornalista dell'epoca evidenziò in lui un coraggio impressionante e una certa qual modestia nei mezzi.Forse proprio per questo venne relegato ben presto nel circuito delle novilladas minori: a Robledo de Chabela (Madrid) proprio in occasione di una di queste corse di paese, capitò che uno dei tori riuscisse a fuggire, raggiungendo addirittura la piazza del villaggio dove seminò panico e terrore. Litri II lo raggiunse e lì, nel centro del paese, gli diede due passi e lo fulminò con una stoccata perfetta. Gli anni successivi lo videro galleggiare nelle feste popolari, toreando fino a un massimo di dodici o tredici corse per stagione. Nel 1936, alle prime avvisaglie, non esitò e si arruolò volontariamente: il suo incarico civile di segretario dell'Associazione dei Toreri, e il coraggio smisurato che trasferì dalle arene al campo di battaglia favorirono la sua ascesa: arrivò a integrarsi nel Battaglione Galan, che confluì successivamente nel 5° Reggimento. Alla creazione della 96° Brigata, nella quale chiamò a combattere i colleghi toreri, Prados divenne presto maggiore comandante della formazione. Affiliatosi al PCE durante la guerra, fu in seguito catturato e sottoposto ad un lungo e discusso processo.
Tornò libero nel 1943, e riprese una seconda carriera taurina come subalterno in alcune cuadrillas, fino al giorno del ritiro. Si dedicò quindi alla sua attività commerciale: Litri II possedeva due bar a Madrid, il Bar Casa Litri sul Paseo de las Delicias, e il bar El Alcachofo in calle Francisco Silvela. Morì nel 1959.

Di origine basca, Juan Mazquiaran toreò con il soprannome di Fortuna Chico nella provincia di Madrid: debuttò nella capitale il 19 marzo del '26, e negli anni successivi alternò cornate e sfilate in arene come Bilbao, Alicante, Valencia, Madrid. Nel 1933 la sua carriera si impantanò, forse per le tante cornate ricevute negli anni. Si incorporò volontario nel Quinto Reggimento pur senza aver avuto nessuna militanza politica prima della guerra, e affascinato dalla figura del suo comandante Litri, ben presto raggiunse la 96° Brigata, del cui Battaglione 383 divenne quasi subito capo. Fu con questo incarico che partecipò a tutte le azioni fino alla fine della guerra: in questa stessa brigata combattevano anche suo fratello Raimundo, che era banderillero e faceva parte della sua squadra, e Cirilo, il fratello minore. Fortuna Chico fu catturato insieme a Litri, in provincia di Murcia. Dopo sette anni di carcere, il ritorno alla libertà: il suo tentativo di reinserirsi nel circuito delle novigliade fu piuttosto effimero e durò lo spazio di due brevi stagioni. I suoi studi di ragioneria gli guadagnarono un posto di lavoro in una fabbrica, dove rimase fino alla pensione: continuò a frequentare il bar di Litri, sul Paseo de las Delicias.

Rafael Barberan, Guillermo Martin Bueno e Luis Mera Sanchez passarono dalle spade con cui finivano i novigli nelle arene di provincia ai fucili che usavano al fronte. Luis Mera Sanchez, novigliero e banderigliero originario di Badajoz, entrò volontario nella 96°. Finita la guerra, rientrò nella capitale e riprese subito a toreare, formando parte della cuadrilla di Luis Diaz Madrilenito. Fu arrestato il 7 maggio del 1939, sulla Gran Via, poco prima di iniziare una corrida, accusato da un collega di essere un torero rosso.

Silvino Zafòn Colomer nacque a Estrella, nel 1908. Emigrò a 12 anni a Barcellona dove lavorò come garzone in una panetteria. Debuttò come novigliero nel 1928, toreando quell'anno 16 novigliade nel nord della Spagna e in Francia: si presentò a Madrid nel 1930. Le stagioni successive lo videro protagonista di una buona carriera con il soprannome di El Niño de la Estrella: arrivò a toreare 31 corse in un anno, e frequentò arene come Siviglia, Saragozza, Barcellona, Valencia, Madrid. Nel 1933 il suo nome era conosciuto in tutta la penisola spagnola, il maestro Jaime Teixidor scrisse un pasodoble per lui e la distilleria di Gregorio Fuertes imbottigliò un anice con il suo nome. Poco prima della guerra, si dava per certo il suo passaggio alla categoria superiore che avvenne nel maggio del '37 a Barcellona, in piena guerra civile. Fu poco dopo questa data che raggiunse la 96° Brigata, con ogni probabilità contattato da Litri, raggiungendo il grado di commissario di guerra. La sua carriera risentì molto della sua militanza nell'Esercito Popolare, e non ritrovò mai più lo slancio che aveva negli anni prima della guerra. Nel 1946 El Niño fu arrestato e imprigionato. Inviso alle autorità franchiste, decise di trasferirsi in Francia e installarsi a Orange: qui allacciò presto nuovi contatti con l'ambiente taurino della regione, riprendendo a toreare e cominciando a organizzare eventi. Morì nel marzo del '63 in uno sfortunato incidente in moto, ed è sepolto nella taurinissima città di Arles.

Saturio Toron, El Leon Navarro, fu un torero valoroso e un ottimo banderigliero: un giornalista dell'epoca scrisse una volta che Saturio Toron con il suo atteggiamento addirittura spaventava i tori, e perfino dava loro delle testate sulla fronte. Non esitò un solo secondo e si arruolò nelle file repubblicane: morì sul fronte di Madrid, il 1° gennaio del 1937, per l'esplosione di una granata.

Enrique Torres Herrero, di Valencia, debuttò nel 1927 e poco dopo fece una tournè in Messico. Tornò a Madrid l'anno successivo: ma dopo alcuni anni a pieno regime, la sua carriera bruscamente si arrestò e nel 1935 decise di ritirarsi. Il 26 settembre del 1936 ci riprovò, a Valencia. Poco dopo si unì alle milizie repubblicane, e al termine della guerra si trasferì in Sudamerica dove riprese la carriera taurina. Nel '49 una grave cornata rischiò di togliergli la vita.

ole grande Fortuna Chico

mercoledì 16 ottobre 2013

comunità alcoliche

alcol spike

La storia raccontata da Joseph Roth, in "La leggenda del santo bevitore", reca in sé grandi possibilità di essere proprio quello che dice di essere, una leggenda, l'allucinazione di un alcolizzato. Gli elementi magici e fantastici abbondano, così come le visioni religiose, le coincidenze e gli incontri inesplicabili. Tutto quanto all'interno di una struttura narrativa di finzione impeccabile, tipica di Roth, dove i fatti, i dati, le immagini e le svolte narrative stanno sempre al posto giusto.
"In una notte di primavera del 1934, un signore già maturo negli anni scende gli scalini di pietra che, da uno dei ponti della Senna, portano alla riva del fiume. Lì, come quasi tutti sanno - ma che merita di essere rammentato in quest'occasione - sono soliti dormire o, per meglio dire, accamparsi i senzatetto di Parigi".
Il delirio dell'ubriaco si mescola ad una locazione geografica adatta al proliferare dei deliri e delle allucinazioni; il ponte sulla Senna ed i suoi angoli scuri, vere e proprie porte che si aprono sul mistero e sul degrado. E Roth insiste a lungo, nel corso della sua storia, a dimostrare come l'ubriaco sia vicino al narratore, a come l'alcol possa facilitare l'accesso alla narrazione; come se si formasse una sorta di comunità intorno al bere, uno spazio magico di ricezione della narrativa, come i poeti arcaici intorno al fuoco, come Omero, prima della scrittura.
Come ne "La confessione di un assassino", il «romanzo russo» di Roth, del 1936, dove tutta la storia si sprigiona a partire da un incontro al bar, e diventa sempre più complessa ed intricata via via che aumenta la quantità di alcol nelle vene del narratore. Il "santo bevitore" di Roth è una specie di sciamano del periodo fra le due guerre che costruisce la sua propria mitologia in quanto la vive (o in quanto ripassa tutta la sua vita nel breve delirio che precede la sua morte).

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George Orwell, in un testo del 1931 (The Spike), assai vicino alle vicissitudini, sia di Roth che del "santo bevitore", parla di questo potente vincolo tra gli individui, il bere e la narrazione. Anche nella sobrietà, l'alcol viene evocato come propizio alla narrazione, gli ubriachi evocano la bevuta e la sua assenza, e nel farlo evocano anche la narrazione che l'accompagna, che ne viene facilitata e, addirittura, creata.
"Bill l'impiccione, quello messo meglio fra noi tutti, un mendicante erculeo che continuava a puzzare di birra anche dopo dodici ore di ospedale, raccontava storie di furti, e di pinte di birra tracannate nelle taverne, e di un prete che aveva fatto la spia con la polizia e gli aveva fatto fare sette giorni di cella. William e Fred, due giovani ex-pescatori di Norfolk, cantavano una canzone triste che parlava di un'infelice di nome Bella che era stata tradita ed era morta nella neve. L'imbecille cianciava a proposito di un damerino immaginario che una volta gli aveva dato duecentocinquantasette sovrane d'oro."
Orwell non è generoso come Roth e colloca quest'immaginario nel bel mezzo del racconto - cosa che invece Roth, da parte sua, lascia in sospeso per tutta la storia del santo bevitore, senza mai chiarirla del tutto.

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martedì 15 ottobre 2013

Muse

asja

In una delle sue note sulla letteratura, Riccardo Piglia, parla di Asja Lacis. "Nel 1923, a Berlino, Brecht conosce la regista teatrale sovietica Asja Lacis, ed è lei che lo mette in contatto con le teorie e le esperienze dell'avanguardia sovietica". Molte cose avvennero a partire dalla conoscenza di Asja Lacis! "Tramite Asja Lacis, Brecht viene a conoscenza della teoria dell'estraneità, elaborata dai formalisti russi, e da lei tradotta come effetto dello straniamento (...) E' notevole lo spostamento operato da Brecht per mostrare l'origine russa della sua teoria dello straniamento, affermando che la sua scoperta è del 1926, grazie ad Asja Lacis". Asja è importante per Brecht, anche sul palcoscenico: fa parte del cast dell'"Edoardo II" tratto da Marlowe, ed il suo tedesco con accento russo finisce per essere un benvenuto miglioramento alla tattica brechtiana di mettere a nudo i procedimenti. Come scrive Piglia, "questa inflessione russa che persiste dentro la lingua tedesca sta, come dislocata dentro un sogno, nella storia della relazione tra l'estraneità e l'effetto di straniamento". Lacis, ha fatto molto di più che limitarsi a far conoscere Brecht e Walter Benjamin!
"Possiamo apprezzare l'altezzosa e bellissima figura di Asja Lacis immortalata in una sequenza dell'Opera da Tre Soldi, filmata da Pabst nel 1931" - scrive Piglia, alla fine della sua nota. Certo, sarebbe bello poter vedere Asja che si muove sul palcoscenico, ma sembra che Piglia abbia ... preso un abbaglio. Asja mancò all'appuntamento con la macchina da presa. Così come non si incontrarono mai, Brecht e Asja, con Nabokov che lavorava come comparsa, e collaborava con Ivan Lukash alla stesura di sceneggiature, nel mondo del cinema della Berlino degli anni '20:
"mi dirigevo verso la periferia per lavorare come comparsa nei film che venivano girati in una tenda di un parco divertimenti, dove la luce si irrorava con un sibilo mistico da due enormi proiettori, puntati come due cannoni sopra una moltitudine di figuranti, riducendoli ad una lividezza cadaverica".

lunedì 14 ottobre 2013

la tomba dell’amore

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Si sa, la religione - così come dio - è amore, soprattutto quella cristiana. Almeno così ci dicono, e sicuramente lo dicevano anche in Olanda, nella seconda metà dell'800. Solo che l'equazione sembrava funzionare assai meno quando - come nel caso del colonnello van Gorkum e della signora van Aefferden - si trattava dell'amore fra un protestante ed una cattolica. I due, nonostante tutte le controindicazioni dell'epoca, riuscirono a rimanere sposati per qualche decennio, dal 1842 fino al 1880, anno in cui il colonnello passò a miglior vita e venne seppellito nel luogo cui era destinato: un cimitero vicino alla cittadina di Roermond. Nella sezione protestante del cimitero, ovviamente, considerato che all'epoca vigeva la cosiddetta "pilastrizzazione": ciascuna delle due comunità  cristiane aveva le sue scuole e i suoi cimiteri, oltre che le rispettive chiese, e non erano ammesse deroghe.
Quando otto anni più tardi, toccò alla van Aefferden, di morire ed essere sepolta, le venne negata la possibilità di riposare accanto al corpo dell'amato: c'era la sezione cattolica, ad aspettarla, dall'altra parte del muro. Solo che la defunta, da viva, aveva lasciato disposizioni assai chiare di non voler essere sepolta nella tomba di famiglia, ma di voler giacere il più vicino possibile al proprio marito.
La soluzione, è quella che si può vedere nella fotografia, con le due tombe separate da un muro e dalla religione, ed una pietosa scultura che permette alle due mani di unirsi, sopra il muro.

domenica 13 ottobre 2013

Marciare sulle teste dei re!

Tersite

Uno dei caratteri più interessanti dell'Iliade non è né un dio né un eroe, ed appare solo nel corso di un alterco. Se escludiamo Dolone, Tersite è l'unico soldato comune che appare nel poema ed inoltre può essere considerato come il primo esempio in assoluto, in tutte le letterature, di agitatore politico. I marxisti, e lo stesso Marx, hanno sempre avuto un interesse particolare per la figura di Tersite. Nel secondo libro dell'Iliade, Agamennone raduna le truppe sulla spiaggia, in una sorta di test per il loro coraggio, facendo finta di voler porre fine alla guerra e tornare a casa. I soldati, esausti dopo nove anni di guerra, immediatamente corrono verso le loro navi. Ma Ulisse, imbeccato dalla dea Athena, si rivolge loro e, con la sua arte oratoria, riesce a capovolgere il loro stato d'animo. Solo un soldato non si lascia fregare dalle parole del figlio di Laerte. Tersite, uno che come si suol dire ... parla troppo, solito rivolgersi impudentemente agli "ufficiali" dell'esercito di Agamennone. L'unico "critico sociale" di tutto il mondo omerico. E l'unico di tutti i soldati ad avere il coraggio di alzarsi in piedi e sfidare, da pari a pari, l'Atride.

"Così gridava a gran voce e insultava Agamennone: «Atride, di che mai ti lagni? cosa ti manca ancora? Hai le baracche piene di bronzo, hai tante donne nei tuoi alloggiamenti, il fior fiore. E siamo noi Achei a offrirle a te prima che ad altri, ogni volta che prendiamo una città. Di’, hai bisogno ancora di oro? e te lo dovrebbe portare qualcuno dei Troiani da Ilio per riscattare il figliolo, legato e condotto qui da me o da un altro acheo? O vuoi una ragazza fresca fresca da farci l’amore e da tenere tutta per te? Oh, non è proprio giusto che un tale condottiero cacci nei guai i figli degli Achei! O voi poltroni, miserabili vigliacchi! Donnicciole siete, non guerrieri achei! Via, torniamo con le navi a casa e lasciamo lui qui, nella terra di Troia, a digerire i suoi privilegi! Vedrà così se anche noi gli siamo, sì o no, di aiuto."

L'analisi che fa Tersite della situazione è perfettamente sensata. Perché mai le truppe non dovrebbero lasciare gli aristocratici a risolversi da soli le loro beghe coniugali? La guerra è stata dichiarata dalla classe dominante, a causa di una controversia su Elena, e non ha la minima rilevanza, o il minimo interesse, per quegli uomini, pastori e contadini, che dovrebbero stare a casa loro, al sicuro, a lavorare la loro terra. Non c'è niente di cui stupirsi, se questi uomini sono stanchi di nove anni di guerra che li ha tenuti lontani dalle loro famiglie, che li ha mutilati, che li ha uccisi, a migliaia. E non sono nemmeno lì per trarre gloria da tutto questo, dal momento che il loro ruolo nel combattimento è del tutto anonimo.  Con buona eloquenza, Tersite afferma ad alta voce quello che la stragrande maggioranza dell'esercito pensa. Sarà con questo stesso ruolo che Tersite apparirà nel Troilo e Cressidra di Shakespeare, dove con linguaggio grossolano denuncia e mette a nudo l'ipocrisia.
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Comunque, Omero mette subito in chiaro la sua disapprovazione del personaggio, da subito, calcando la mano sulla descrizione insolitamente lunga dei suoi tratti. Per descrivere la sua voce usa il verbo "sbraitare", "ciarlare", forse "abbaiare", ma poi anche "guaire".Mettendo in atto un equazione fra deformità fisica e deformità dello spirito, lo rappresenta come "il più brutto guerriero che fosse venuto sotto Ilio: sbilenco era, zoppo da un piede. Aveva le spalle curve, ripiegate in avanti, e per di più, in cima, la testa a pera: una scarsa peluria vi spuntava sopra." Un furente Ulisse lo affronta:

"Ma una cosa ti voglio dire e si avvererà, sta’ pur certo! Fatti trovare un’altra volta a far l’insensato qui come adesso! Mi auguro allora che non mi resti - sì, a me, Odisseo - sulle spalle la testa, e che non sia più chiamato il padre di Telemaco, se non ti afferro con queste mie mani e ti levo di dosso le vesti - mantello, tunica, e il resto che ti copre le vergogne - e ti scaccio via dall’assemblea fin alle navi in pianto, con una scarica di botte umilianti."

Odisseo, poi batte Tersite sul corpo e sulle spalle, con il suo scettro, fino a quando l'uomo non scoppia in lacrime, mentre lividi sanguigni compaiono sulla sua schiena. Un comportamento che, da parte degli aristocratici cantati e celebrati nell'Iliade, si ritiene essere appropriato. Già prima, nel libro II, si vede un marcato contrato nel modo in cui Ulisse tratta il soldato comune e quello che usa per rivolgersi ai membri dell'élite.

"Ma quando vedeva uno del popolo e lo sorprendeva a urlare, lo picchiava con lo scettro e lo strapazzava: «Disgraziato, fermo lì, al tuo posto, e sta’ a sentire la parola degli altri, di quelli che sono da più di te. Tu sei un imbelle e un vigliacco, e non conti niente né sul campo né in Consiglio. No, non faremo, è chiaro, tutti il re, qui noi Achei! Non è un bene aver tanti capi. Uno solo deve essere il sovrano, uno solo il re: chi ebbe dal figlio di Crono lo scettro e le norme sacre della tradizione per provvedere alle sue genti.»"

La colpa di Tersite è quella di aver sfidato l'autorità del re e, quindi, per estensione, il sistema di classi. Omero, che si identifica con l'ideologia di classe dei nobili, non ammette che la truppa possa essere d'accordo con Tersite.

"Gli altri là, pur nella loro delusione, si misero a ridere di gusto. E qualcuno diceva volgendo gli occhi al vicino: «Oh, sì, di buone imprese, Odisseo ne ha fatte tante, con le sue brave proposte in Consiglio e col ravvivare la lotta in campo. Ma questo qui è il più bell’atto che ha compiuto in mezzo agli Argivi: ha chiuso la bocca a un calunniatore insolente! No, di certo, non avrà più voglia, lo sfrontato, un domani, di inveire così contro i re con parole oltraggiose.»"

Eppure, Tersite ha espresso un punto di vista condiviso da molti dei suoi compagni. Queste sono le stesse truppe che poco prima erano felici di poter salire sulle loro navi e tornare a casa, sapendo che la guerra era finita. Il loro non è certo il comportamento di uomini determinati a servire alla gloria dei loro padroni ad ogni costo. Strutturalmente, nell'impostazione del poema, l'episodio vuole mostrare quanto i greci siano vicini alla sconfitta, in questo dato momento, che è all'inizio del poema ma è anche verso la fine della guerra. Un motivo in più per non stupirsi del fatto che Tersite sfidi un Agamennone nei confronti del quale le truppe sono furiose. Ma è Ulisse a salvare la situazione - anche per mezzo del trattamento che riserva a Tersite - dirottando l'irritazione degli uomini e convogliandola verso il "capro espiatorio". L'episodio, vuole essere comico per il lettore/ascoltatore (l'umorismo greco è di solito molto crudele) che viene spinto a ridere del "calunniatore insolente" mentre viene ripristinata la normale gerarchia del potere. L'esercito greco si raccoglie intorno ai suoi leader e, dopo qualche discorso e dopo aver fatto un sacrificio agli dei, Omero ci regala una lunga (e noiosa) votazione per appello dei guerrieri e dei popoli che partecipano alla guerra.
Ma la domanda, allora che può venire spontanea, considerato l'atteggiamento di Omero, è: perché, dopo tutto, Omero dà voce a Tersite?
Sicuramente, ci si muove sul terreno della speculazione, e una delle risposte, altrettanto ovvie, è che la punizione riservata a Tersite possa servire da monito agli ascoltatori/lettori, nel quadro di un loro eventuale risentimento nei confronti della classe dirigente. Ma forse Omero ha solo trovato il modo per renderci partecipi di una voce alternativa. Rendendolo brutto e ridicolo, ha voluto prendere le distanze da ogni intenzione sediziosa. Rimane il fatto che - per dirla con Hegel - il Tersite di Omero, che rampogna i re, è una figura presente in ogni epoca.