lunedì 23 settembre 2013

Noi, Zombie

dayofthedead

Nous les morts-vivants
di Claus Peter Ortlieb

Quando un giornalista famoso, quale è il redattore capo e direttore del Frankfurter Allgemeine Zeitung, pubblica un nuovo libro, il battage mediatico è inevitabile, a partire dagli stretti legami che uniscono l'autore ai suoi colleghi incaricati di recensirlo. In occasione della pubblicazione di "Ego. Das Spiel des Lebens" di Frank Schirrmacher, nel febbraio del 2013, si è cominciato, su Der Spiegel dell'11 febbraio, con un articolo di quattro pagine dove l'autore presenta le tesi principali del libro, per poi rispondere in un'intervista di due pagine. Lo stesso giorno, un ditirambo firmato da Jakob Augstein è apparso sul sito Der Spiegel online; Schirrmacher viene qualificato « il giornalista più emozionante del paese » e «innegabilmente, di sinistra ». Quest'ultimo punto viene confermato da Thomas Assheuer, che ci regala su Die Zeit del 14 febbraio una recensione che non poteva essere più benevola. Come si può vedere, in un primo tempo, le uniche critiche serie sono arrivate dalla « destra », per la penna di Cornelius Tittel, sulla versione online di Die Welt del 17 febbraio. A quanto pare, le valutazioni su Schirrmacher sembrano dipendere dal posizionamento politico di ciascuno. In realtà, tutto questo entusiasmo ha avuto come risultato quello di spingere il libro, nello spazio di due settimane, in cima alla lista dei best seller stilata da Der Spiegel, e mostra semplicemente fino a che punto sia caduto in basso il concetto di « sinistra ».
Il libro gioca sul senso - tanto inafferrabile quanto largamente diffuso nei centri capitalisti - del vuoto e dell'eteronomia, della perdita di senso e di scopo che oggi caratterizza in egual misura la vita privata e quella pubblica. Chiunque cerchi di andare oltre la semplice intuizione per far realmente luce sulla «alienazione» in questione dovrebbe immergersi nelle opere di Marx, Lukács, Adorno e qualche altro classico. Schirrmacher, invece, ci mostra involontariamente come si può fare a meno di tutto questo retroterra teorico; ci fa vedere a cosa rassomiglia una «critica del capitalismo» che non sa cosa sia il capitalismo. Il suo libro ci racconta la seguente storia:
Sessant'anni fa, dei militari, degli economisti e dei fisici americani avrebbero inventato la teoria dei giochi, un modello matematico per le situazione di conflitto, dove ciascuna delle parti in gioco si sforza di massimizzare il suo profitto individuale, con tutti i mezzi e senza alcun riguardo per gli altri. Questo strumento, e la sua implementazione nei computer, avrebbe permesso di vincere la guerra fredda contro l'Unione Sovietica. Poi, finita questa, numerosi fisici implicati nel progetto sarebbero andati a lavorare per Wall Street e, da lì, avrebbero imposto la logica della guerra fredda alla società civile. Ne sarebbe risultata, non solo l'automazione dei mercati, ma anche quella degli uomini e, di conseguenza, la creazione di una nuova specie - il libro gli conferisce il nome di "numero due" - focalizzata esclusivamente sul proprio interesse personale e perfettamente conforme all'ideologia neoliberista. La trascrizione di questa logica automatizzata sugli individui sarebbe avvenuta per mezzo del Personal Computer, che ha messo in rete uomini e mercati.

ego

Questo racconto costituisce il tipico esempio di una critica borghese della tecnica, cioè a dire una critica che fa astrazione dei rapporti di produzione dominante, e che pretende di vedere, all'occorrenza, nella teoria dei giochi e nell'informatizzazione la causa di tutti i mali che si sono abbattuti su di noi dopo il 1989 e la causa del neoliberismo. Oltretutto, la teoria dei giochi è adatta a questo ruolo solo fino ad un certo punto: essa si applica, in effetti, esclusivamente alle situazioni di conflitto dove ciascuna delle parti in causa conosce sia le possibilità d'azione (le regole del gioco) che gli obiettivi prediletti dagli altri giocatori; non funziona quando le preferenze non sono note e devono essere scoperte. Parimenti, va considerato un impasse, la concezione che sottende alla dottrina economica neo-classica, per cui tutti gli uomini condividono un principio soggettivo di profitto che li porterebbe sempre a cercare di massimizzarlo: non solo questa concezione non riesce a dar conto di tutte le situazioni, ma inoltre non può essere dimostrata empiricamente, né essere tradotta, a fortiori, in equazioni o in un modello informatico.
Se la teoria dei giochi si è potuta dimostrare di una qualche utilità, nel corso della guerra fredda, è stato perché ciascuno dei due campi seguiva la medesima logica elementare che consisteva nel volere, sia vincere un'eventuale guerra nucleare, sia impedirla in forza di una dissuasione reciproca. Ma nessuno può dire - come Schirrmacher lascia intendere - che l'Unione Sovietica sia stata vinta, a questo gioco; sappiamo, al contrario, che essa è caduta per altri motivi, notamente economici. L'idea di spiegare il dominio crescente dei mercati finanziari, a partire dagli anni 1980 - una categoria professionale minacciata di licenziamento avrebbe deciso di abbandonare le organizzazioni militari e di andare a lavorare per Wall Street - è un'idea del tutto stravagante: inoltre, ls necessità delle loro competenze avrebbe dovuto farsi sentire già da molto prima. La teoria dei giochi, in effetti, poteva essere esercitata nel dominio dell'automazione del traffico di borsa, dove tutte le parti in gioco hanno delle possibilità di azione conosciute (comprare e vendere titoli finanziari di ogni tipo) e cercano invariabilmente di massimizzare il loro profitto personale. Tuttavia, applicare questa teoria ad altri mercati, dove almeno qualcuno dei partecipanti persegue degli obiettivi non quantificabili, potrebbe rivelarsi problematico; dal momento che la nozione di « automatizzazione degli uomini » rimane del tutto vaga. A tale proposito, si invocano - anche se non hanno niente a che fare con la teoria dei giochi - gli algoritmi di cui si servono Google, Amazon ed altri per studiare i comportamenti di ricerca e di consumo degli utilizzatori, al fine di proporre loro delle offerte pubblicitarie personalizzate. Ma chi ci obbliga ad accettare tali offerte?

errore

Sembra che il libro di Schirrmacher abbia sedotto più di un commentatore, a partire dalla sua invettiva contro l'economizzazione neoliberista dell'insieme della società e contro l'« homo oeconomicus » che si sarebbe imposto nella realtà per mezzo della figura del «numero due », ma anche contro il deficit che si traduce in termini di perdita sia di sovranità politica - l'arringa della Merkel per una "democrazia conforme al mercato", per esempio, ne fissa bene i contorni - che individuale, per cui gli individui perdono il controllo della propria vita. Un'altra attrattiva del libro, risiede nello status del suo autore; in quanto redattore in capo associato della FAZ, viene giudicato in grado di mettere in atto una « critica del capitalismo dal cuore stesso del capitalismo ». Il fatto che la spiegazione che viene data nel libro per l'avverarsi di questa situazione manchi sia di logica che di fatti storici, non ha, per chi la propone, la minima importanza.
In tutto quest'affare, bisogna ricordare che interesse personale e ricerca del profitto - come tutti sanno - non sono affatto delle invenzioni del neoliberismo; in quanto motori dell'attività economica, l'uno e l'altra sono, al contrario, vecchi quanto il capitalismo. Adam Smith ne vantava già i meriti nella sua opera principale, nel 1776, sperando che, contro ogni ragione, attraverso il meccanismo del mercato « guidato da una mano invisibile » questi due principi contribuissero alla felicità universale. Quanto al ruolo dello Stato moderno, dotato o meno di una costituzione democratica, esso stesso esiste fin dalle origini per assicurare le condizioni necessarie alla valorizzazione del capitale. Non si è mai posto il problema di una democrazia non conforme al mercato. E il margine di manovra, lasciato alla politica all'interno di questo quadro, si riduce sempre di più sotto l'effetto della crisi.
Il neoliberismo costituisce la risposta alla crisi di sovraccumulazione che colpisce in modo inarrestabile dopo gli anni 1970. Anche se non può vincere, ha trovato il modo di compensare, per un certo tempo, l'esaurimento di produzione del plus-valore reale: abbassamento dei salari reali, agevolazioni fiscali per i redditi da capitale, deregolamentazione del settore finanziario e, soprattutto, integrazione degli ultimi domini rimasti della vita sociale dentro il processo di valorizzazione capitalista. Tutto ciò non ha molto a vedere con la teoria dei giochi, e l'automatizzazione (parziale) dei mercati stessi, se contribuisce indubbiamente a questo processo, non ne è affatto la causa. Non riusciamo a capire come il « numero due » di Schirrmacher sia arrivato «ad abbandonare il laboratorio e a soppiantare nella realtà quotidiana la vecchia umanità rimasta allo stato naturale» (Assheuer), dal momento che in nessun punto del libro si tratta di lavoro, quel lavoro di cui il capitalismo non può semplicemente fare a meno.

Dead Man Working

Le cose vanno in modo assai diverso nel libro "Dead Man Working" di Carl Cederström e Peter Fleming che comincia con un'osservazione del tutto pertinente: «Anche i suoi più ardenti sostenitori, riconoscono che il capitalismo ha reso l'anima in un momento più o meno precisato degli anni 1970. Tutti gli sforzi per rianimarlo hanno fallito. Eppure, stranamente, adesso che è morto, sembra diventato (...) più potente e più influente che mai. Questo libro tratta di quello che significa vivere e lavorare in un mondo morto.» Si concentra in particolare sul seguente strano fenomeno: benché l'«era del lavoro» stia volgendo al termine, la lotta per dei posti di lavoro sempre più precari e privi di senso diventa sempre più feroce e adotta delle forme sempre più aberranti. Di fronte alla sparizione del lavoro e, con esso, della «sostanza del capitale» (Marx), il capitalismo sembra incapace di reagire in modo adeguato, per esempio condividendo in modo equo il lavoro che è rimasto. Al contrario, in nome del vantaggio di poter conservare una concorrenza sempre più crescente, si estrae da coloro che hanno ancora un lavoro fino all'ultima briciola di plus-lavoro. Detto ciò, lo sfruttamento del lavoro non è certo una novità, dal momento che senza di esso non ci sarebbe affatto capitalismo. La novità, è che è scomparsa la divisione fra lavoro e tempo libero, fra produzione e riproduzione: « Il capitalismo attuale ha di particolare che la sua influenza si estende ben al di là dei luoghi di lavoro. Il fordismo lasciava ancora i fine-settimana e il tempo libero relativamente intatti. Il suo ruolo era quello di sostenere indirettamente il mondo del lavoro. Oggi giorno, invece, il capitale cerca di sfruttare perfino la nostra socialità, in tutte le sfere della vita. Nel momento in cui ci trasformiamo tutti in "capitale umano", non ci si può più accontentare di dire che abbiamo o facciamo un lavoro. Noi siamo il lavoro. E anche quando la giornata di lavoro sembra essere finita. » Secondo Cederström e Fleming, il risultato è la specie dei « dead men working », i morti viventi che lavorano, incapaci di vivere ed in attesa di una fine che non arriva. Questa nuova specie di uomini ha innegabilmente una spiccata somiglianza con il « numero due » di Schirrmacher, ma essa ha origine da un'evoluzione sociale assai più plausibile.
L'estensione del lavoro a tutte le sfere della vita si accompagna ai tentativi di "gestione liberatrice del personale" (liberation management), volti a far entrare la « vita » nel lavoro, e di cui Cederström e Fleming descrivono le manifestazioni concrete, sovente grottesche. Queste comprendono gli « esercizi per entrare in equipe » a livello delle feste di compleanno dei bambini, dove si invita a mostrarsi « autentici » in ogni circostanza, ad assumere il luogo di lavoro come una sala di soggiorno, a divertirsi, o perfino a dare libero sfogo al proprio odio per il capitalismo in generale, e della propria impresa in particolare. Si cerca in tal modo di far sì che gli impiegati si investano completamente nel loro lavoro e si rapportino, così, molto di più all'impresa.
Solamente che l'equazione  « il lavoro è la vita, e la vita è il lavoro » non regge: le interruzioni di lavoro a causa di malattie psichiche sono aumentate in proporzioni drammatiche, e solo il consumo di psicofarmaci riesce a preservare la capacità lavorativa; esaurimento e depressione vengono oramai considerati come malattie della società, insieme, perfino, al suicidio.
Detto secondo la terminologia della critica del valore: una vita votata esclusivamente al lavoro, senza la più piccola possibilità di rifugiarsi nella sfera della riproduzione - una sfera dissociata, con connotazioni femminili e svalorizzate, che obbedisce ad un'altra logica - chiaramente non è più vivibile, La conclusione che se ne deve trarre, "Dead Man Working", ce lo indica da subito:  « Essere un lavoratore non ha niente di glorioso. Una politica dell'occupazione degna di questo nome non dovrebbe avere più come obiettivo un lavoro più giusto, un lavoro migliore o più o meno un lavoro, ma la fine del lavoro.»
Per questo bisognerebbe - e qui le cose si complicano - mettere fine, allo stesso tempo, al patriarcato capitalista.

- Claus Peter Ortlieb - apparso sulla rivista "Exit!", marzo 2013 -
fonte : http://palim-psao.over-blog.fr

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