mercoledì 27 febbraio 2013

noir

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Viktor Sklovskij, nel suo saggio sullo scrittore russo Rozanov, afferma che Dostoevskij "promuove il processo narrativo poliziesco ad un vero e proprio standard letterario". L'assunto di Sklosvskij rimane parziale, ed anche frettoloso, ma continuando a leggere, ci si accorge che raggiunge piano piano il suo obiettivo; quello di affermare come la restrizione canonica, la suddivisione fra letteratura di genere e non, sia controproducente al fine di una dinamica della storia letteraria, dal momento che in Dostoevskij la materia prima che va a formare i suoi complessi romanzi di idee è impura e di dubbia origine.
Non a caso, un lettore del calibro di John Maxwell Coetzee sceglie un taglio da storia poliziesca che faccia da filo conduttore per il suo libro su Dostoevskij, con tutta la sua attenzione ai dettagli trascurati e alle lacune della storiografia tradizionale. Dentro "Il maestro di Pietroburgo", risuonano tutte le noti forti della poetica di Dostoevskij; la religiosità tormentata, con il suo supplemento di estasi epilettica, l'anarchismo, la colpa e l'agonia esistenziale. Ma il filo conduttore è - come deve essere - il crimine, la morte del figliastro. E il crimine, il delitto, è inestricabilmente legato alla città, alla modernizzazione degli spazi, al fruscio della soggettività che si muove fra la moltitudine.
E' tutto, ed è anche tutto quello che lega Baudelaire alla poetica poliziesca di Edgar Allan Poe, ma è anche la lettura che fa, della modernità, Walter Benjamin. La modernità come scena del crimine, come luogo del delitto. A partire da Eugène Sue per arrivare alle fotografie di Eugène Atget.
L'indagine procede: crimine, corpo, moltitudine, città, paranoia. A Parigi, a Baltimora, a San Pietroburgo.

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