lunedì 27 febbraio 2012

Noia e Terrore

Don DeLillo, New York City, 1990s

Invece delle idee, meglio delle idee, come diceva Marguerite Duras: "Non ho idee; solo parole, e silenzi".
Così Don DeLillo.I suoi libri, memorabili, sono degli anni novanta. Si parlava di "fine della storia", ma forse si stava parlando della fine del mondo. Si aspettava che i computer impazzissero, per effetto del baco del millennio. Insomma, cose del genere. Fu solo l'inizio di una serie di fini del mondo. Il terrore. Adesso si può dire, senz'altro, che il terrore ha finito per annoiarci.  Per citare:

"Si dice che il terrore sia quello di cui ci serviamo per fornire alla nostra gente il loro posto nel mondo. Quello che una volta si era soliti conseguire attraverso il lavoro, adesso lo otteniamo per mezzo del terrore. […] Gli uomini vivono la storia come non avevano mai fatto prima. […] La storia non  sta dentro i libri, e neppure nella memoria umana. Facciamo la storia la mattina, e la cambiamo dopo pranzo".

Le trame dei suoi romanzi, francamente, interessano poco, assai poco. In fondo, le trame sono sempre, in qualche modo, delle bugie; riassunti maleducati delle storie. Di solito, dentro, c'è uno scrittore, magari uno scrittore che ha perso ... la fede. Non scrive più, non vuol farlo, è incapace di farlo. Magari ci mettiamo dentro una donna che fotografa gli scrittori e un editore con qualche problema alla prostata. Lo scrittore è uno di quelli senza volto; hai presente Pynchon, oppure Salinger? Magari conduce una vita da recluso: ché ha paura che gli rubino l'anima, oppure che qualcuno gli pianti un coltello in mezzo alle costole mentre sta facendo la fila alla cassa di un qualche supermercato. Ma non è lo scrittore, è proprio il romanzo, sono le storie che vivono recluse, assediate dal terrore. Ha perso il suo significato, sopravvive solo in una forma dedicata ai rassegnati nostalgici dell'avventura analfabeta che brandiscono i loro biglietti dentro le sale d'attesa degli aeroporti e delle stazioni.

"Le storie sono prive di significato se non riescono ad assorbire il nostro terrore".

DeLillo, oppure uno dei suoi personaggi, ma che importa, afferma che gli scrittori sono consumati dalle ... notizie, come da forze apocalittiche. Il romanzo serviva a soddisfare la nostra ricerca di senso. Ma la nostra disperazione ci ha condotto verso un qualcosa di grande e tenebroso, così, alla fine, facciamo ricorso alla notizia, e all'atmosfera costante della catastrofe di cui ci riforniscono. Un'esperienza emozionale impossibile da trovare altrove. Non abbiamo bisogno del romanzo. Certo, non abbiamo neanche bisogno dei disastri. E' delle cronache, delle previsioni, degli avvisi; ecco di cosa abbiamo bisogno.
Una domanda, però, rimane. E chiede se il romanzo sia uno strumento adeguato a sondare la vita, e l'uomo. Romanzo in quanto finzione, un altrove rispetto alla verità, una verità più ... possibile. DeLillo risponde con lo scrittore/terrorista. Ovviamente, non inteso come scrittore che fa uso della violenza, per raggiungere i suoi obiettivi, ma, piuttosto, uno scrittore che sta nell'ombra e susciti lo stesso genere di ammirazione che può suscitare il terrorista. Entrambi, coerenti fino all'estremo.
In ogni caso, lo scrittore protagonista delle storie, è sempre qualcuno che già non può scrivere. Contraddice l'idea di Kafka, del seminterrato come luogo ideale per la scrittura. Dal piano interrato si arriva solo ad un piano ancora più seminterrato! Una sorta di buco nero che inizia e finisce in sé stessi.A fronte del terrore non, c'è nulla in quel seminterrato che ci può interessare.
DeLillo crede nel romanzo, al di là della forma. Così, forse, il problema non è più di forma, ma, in altre parole, è un problema di fede. Quali voci vogliamo ascoltare. Forse solo la voce del testimone. Quello che ha letto, che ha visto o che ne ha sentito parlare. La voce dell'uomo che cita, il soggetto che teorizza, che insiste a proposito della regola su come può essere e su come non deve essere quella voce. Cose dell'ufficio; ma no, è più importante di quello. Proprio come Kafka, che in quella lettera a Oskar Pollak nel 1904:

"Ciò di cui abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una sciagura che ci addolori, come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come se fossimo proscritti, condannati a vivere nelle foreste, lontano dagli uomini, come un suicidio - un libro dev'essere l'ascia che rompe il mare di ghiaccio dentro di noi, Ecco come la penso."

E che libri sarebbero questi? Ci sono i giornali, che ci danno, un giorno sì e l'altro pure, l'eccitazione per la fine del mondo. Il terrore, il tanto detestato terrore, il necessario terrore. Prima colazione e terrore, risate e terrore. E lacrime, e la routine di tutti i giorni.
Già, niente riesce ad annoiarci quanto il terrore.

Nessun commento: