venerdì 6 gennaio 2012

E’ finita!

kurz

A partire dal 2008, non possiamo più ignorare che il sistema finanziario internazionale (o mondiale) è in crisi, che questa crisi dura al di là delle promesse di "regolamentazione" e al di là dei piani di rilancio e di austerità. Quanto tempo può durare? Fino a quando le popolazioni delle nazioni cosiddette più sviluppate e democratiche accetteranno di perdere sempre di più e di lavorare di più e più a lungo? Chi sono i portatori di un'alternativa di emancipazione? A queste domande e a molte altre, prova a rispondere il libro di Robert Kurz, "Vita e morte del capitalismo". Le sue 224 pagine sono la traduzione di 25 articoli recenti (2008-2010) pubblicati in giornali e riviste di diversi paesi (Germania, Brasile, Portogallo). L'autore, nato nel 1943, è uno dei teorici della corrente tedesca chiamata "critica del valore". Sulla base di una rilettura delle opere "tarde" di Marx (soprattutto "Il Capitale"), esprime una critica duplice: la prima vede il capitalismo - o meglio, il modo di socializzazione capitalista - nelle sue contraddizioni interne, mentre la seconda guarda alle idee sbagliate di una sinistra impotente, divisa tra tradizione marxista e post-modernismo. Propone soluzioni alternative, per sfuggire alla "barbarie" che potrebbe seguire alla morte (prossima?) Del capitalismo.
Affinché le riflessioni di Robert Kurz portino i loro frutti, bisogna essere disposti a prendersi il tempo per assimilare le categorie di "valore", di "lavoro astratto", di "sostanza di valore", di "plusvalore", e così via. L'appropriazione di questi concetti è facilitata dalla diversità di angolazioni da cui l'autore procede per analizzare le origini sistemiche della crisi, il ruolo del lavoro nel capitalismo, il significato che assume questa categoria, ecc.
Pertanto, l'analisi proposta dall'autore persegue più obiettivi: produrre uno schema che possa spiegare globalmente la sequenza di crisi finanziarie ed economiche che si sono succedute, per decenni, in tutto il mondo; fondare questo modello esplicativo sulla contraddizione centrale insita nel capitalismo e che è quella che nasce nella sfera del lavoro; riformulare i principi dell'azione politica odierna; e mostrare a quali condizioni socio-politiche, si possono stabilire delle alternative nelle società del 21° secolo.

Come dice il titolo del libro, dal punto di vista di Robert Kurz, il capitalismo sta arrivando al capolinea. Si tratta di un'autodistruzione: la sua stessa dinamica l'ha condotto, a partire dalla fine degli anni '70, ad entrare in una fase critica, il capitalismo consuma la sua propria sostanza, alla maniera di una malattia autoimmune. Se noi siamo arrivati a questo, spiega Kurz, è dovuto ad una combinazione di diversi fattori che compongono le varie sfaccettature di una sola realtà. La "terza rivoluzione industriale" basata sullo sviluppo della microelettronica ha permesso un tale livello di produttività che, da ora in avanti, "ha reso impossibile creare lo spazio necessario ad un'accumulazione reale". Più precisamente, alle contraddizioni "classiche" della circolazione del capitale (scarto crescente tra il consumo e la produzione di beni), si è recentemente aggiunta l'accentuazione della contraddizione tra una produttività che rende sempre più superflua "la forza-lavoro" e le condizioni di valorizzazione del capitale. Finora, solo l'indebitamento (pubblico e privato) e le bolle finanziarie hanno prolungato lo sviluppo economico. Questo sviluppo è però sempre più illusorio, come opportunità di creare "plusvalore" (profitto): il sistema distrugge più lavoro di quanto ne crea. Le recenti misure di "uscita dalla crisi" non risolvono nulla: la crisi dei crediti di Stato, a livello mondiale, in effetti, non fa che sostituire (o integrare) la crisi finanziaria.
La critica non deve, quindi, essere portata sulla  faccia visibile dell'attuale crisi globale - le derive del capitale finanziario - ma sui meccanismi essenziali del capitalismo, e in particolare su come il sistema, per sua natura stessa, si impadronisce del lavoro, facendogli drasticamente perdere una parte radicale di contenuto.
Il capitalismo può, in effetti, essere definito come un tipo di società il cui motore consiste nel ricercare continuamente di aumentare la produttività del lavoro umano. Ora, "una produttività che aumenta significa che una minor energia crea più prodotti materiali". Ciò perché, la produttività non accresce mai il valore, ma lo diminuisce sempre". Questo ragionamento non va fatto a livello di questa o di quell'altra impresa, ma sull'intera economia, tenendo conto degli effetti complessivi della concorrenza. In questa prospettiva, "lo stesso processo che riduce incessantemente la quota relativa di forza-lavoro (l'unica, a produrre valore) dentro il capitale totale, riduce anche il suo valore". Da un certo punto in poi, raggiunto proprio con la "terza rivoluzione industriale" (microelettronica), l'aumento della produttività è tale che "la quantità di manodopera utilizzata in modo produttivo si abbassa talmente da farecrollare la quantità assoluta di plusvalore". In altre parole, la causa profonda, durevole, della crisi mondiale, non sta tanto nell'avidità dei banchieri e dei "traders", quanto nel "nuovo irreversibile standard di produttività". Dall'inizio degli anni '80, infatti, "le nuove opportunità di razionalizzazione hanno eliminato mano d'opera dal processo produttivo come mai prima. Da qui, una disoccupazione di massa globale e una sottoccupazione sempre più crescente di ciclo in ciclo".
Certo, in apparenza, nella maggior parte dei paesi sviluppati ed emergenti, la disoccupazione di massa è stata a lungo contenuta. Ma si è trattato di un'altra illusione: per una parte importante, la limitazione della disoccupazione ha procurato il conseguente aumento dell'occupazione nei settori "non produttivi" - in una prospettiva capitalista - il cui finanziamento dipende, in larga misura, dall'accrescimento eccessivo del credito, il "capitale fittizio". Kurz individua tre tipi di aree corrispondenti a questi lavori: a) il settore finanziario, b) i cosiddetti servizi alla persona, dall'industria della pubblicità, all'informazione e all'industria dei media, dello sport e della cultura, c) ed Infine, "un'aristocrazia operaia nelle industrie di esportazione" (p. 97).La crisi condanna a scomparire la maggior parte di questi lavori fondati su delle bolle finanziarie.
Per comprendere la portata di queste tesi, bisogna soffermarsi sul significato della categoria di "lavoro astratto". Robert Kurz precisa che il lavoro astratto è un termine critico, puramente negativo, in quanto "astrazione reale della produzione concreta di beni. Attraverso il processo di produzione e circolazione del capitale, l'attività produttrice (...) si riduce al consumo astratto di energia umana (...) e in una totale indifferenza al contenuto concreto, a ciò che lavoro crea". Questo "lavoro astratto", che costituisce la "sostanza del capitale", a causa della concorrenza, è oggetto di un continuo sforzo di razionalizzazione, che porta a ridurne sempre più l'importanza (volume d'impiego, aumento dei tempi di lavoro, livelli salariali, ecc).
Un'altra originalità del pensiero di Kurz sta nel sottolineare che, né il neoliberismo, né le recenti misure "per uscire dalla crisi" (sempre più riforme), messe in opera in molti paesi, fondamentalmente non si oppongono al keynesismo. Certo, i bilanci sociali vengono ridotti in modo più o meno drastico e le politiche pubbliche oggi ridistribuiscono la ricchezza collettiva in senso inverso (dai più poveri ai più ricchi). Ma precisamente questo, conferma che l'azione dello Stato non ha mai smesso di sostenere la "crescita", vale a dire "la produzione di plusvalore": "il neoliberismo è più keynesiano di quanto abbia fatto credere ".
Infatti, da una parte, bisogna contare sull'importante "keynesismo degli armamenti, che ha guidato il flusso di capitale monetario eccedente verso il rifugio negli Stati Uniti" ed ha promosso una "economia di guerra permanente" imponendo inesorabilmente "l'armamento del resto del mondo". Da un'altra parte, si promuovono "orge di deregolamentazione e di privatizzazione" che hanno aperto la strada alla "economia della bolla finanziaria". Questo è stato dapprima vero per gli Stati Uniti, il cui debito è enorme. Poi, "si è innescato un circuito globale di deficit divenuto visibile negli anni '90", prima di raggiungere l'attuale "surriscaldamento".Quanto ai nuovi investimenti, "sono diventati inutili, e questo si vede chiaramente nell'eccesso di capacità globale di produzione (in particolare nel settore automobilistico) e nelle battaglie fra OPA speculative".
Inutile cercare, nel libro di Kurz, la fede nell'esistenza di una sorta di popolo eletto grazie al quale si potrebbe arrivare a fare la grande festa. "Non esiste sotto il capitalismo alcun gruppo sociale investito di una qualche predestinazione ontologica trascendente. Tutti i gruppi sociali sono preformati dal valore, e dunque costituiti in maniera capitalista". Il "soggetto" di una possibile "uscita" dal capitalismo, i titolari di una alternativa alla società, non sono dati a priori, ma si devono costruire man mano, andando avanti, senza steccati."
Kurz critica anche una parte della sinistra marxista che non solo manca il suo bersaglio - il nemico non è più il neoliberismo quanto il capitalismo di stato o il keynesismo - ma pensa di poter contare sui sindacati per riattualizzare la "configurazione fordista del lavoro astratto." Come ci si può aspettare qualsiasi azione di emancipazione da parte dei sindacati "abituati, non più a basare le loro rivendicazioni sui bisogni dei propri membri, ma a presentare tali bisogni al momento queste esigenze, come contributo al miglior funzionamento del sistema"?
Parimenti, vengono squalificati l'"anti-industrialismo", la "critica della crescita", l'"economia solidale", l'associazione di "piccole strutture cooperative": tutti questi progetti sono "assolutamente insignificanti" nella prospettiva di una messa in discussione totale di ciò che è alla base dello sviluppo capitalistico, delle sue dinamiche, di questa sua propensione a voler scompaginare sempre tutto. Il post-modernismo, con il livellamento che propone, con la sua fede nella "moltitudine" non ha speranza. Il "vero lavoro" della teoria e dell'azione politica è quello di rimettere in causa "uno sviluppo incontrollato basato sul criterio universalmente astratto della 'razionalità dell'economia aziendale'", e che minaccia di portare ad una "fuga in avanti irrazionale dentro la guerra mondiale". Uno dei volti probabili della barbarie, insiemme al terrorismo post-moderno neoreligioso.

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