lunedì 31 ottobre 2011

Il canto del silenzio

kafka ulisse

Il silenzio delle Sirene (Das Schweigen der Sirenen)

Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono servire alla salvezza.
Per difendersi dalle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si lasciò incatenare all'albero maestro. Naturalmente tutti i viaggiatori avrebbero potuto fare da sempre qualcosa di simile, eccetto quelli che le Sirene avevano già sedotto da lontano, ma era risaputo in tutto il mondo che era impossibile che questo potesse servire. Il canto delle Sirene penetrava dappertutto e la passione dei sedotti avrebbe spezzato ben più che catene e albero. Odisseo non ci pensò, benché forse lo sapesse. Confidava pienamente in quel poco di cera e in quel fascio di catene, e, con innocente gioia per i suoi mezzucci, andò direttamente incontro alle Sirene.
Ora, le Sirene hanno un'arma ancora più terribile del canto, cioè il silenzio. Non è certamente accaduto, ma potrebbe essere che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Al sentimento di averle sconfitte con la propria forza, al conseguente orgoglio che travolge ogni cosa, nessun mortale può resistere.
E, in effetti, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantarono, sia che credessero che solo il silenzio potesse vincere quell'avversario, sia che, alla vista della beatitudine nel volto di Odisseo, che non pensava ad altro che a cere e a catene, si dimenticassero proprio di cantare.
Ma Odisseo tuttavia, per così dire, non udì il loro silenzio, e credette che cantassero e di essere lui solo protetto dall'udirle. Di sfuggita vide sulle prime il movimento dei loro colli, il respiro profondo, gli occhi pieni di lacrime, le bocche socchiuse, ma credette che questo facesse parte delle arie che non udite risuonavano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò appena il suo sguardo fisso nella lontananza, le Sirene sparirono davanti alla sua risolutezza e, proprio quando era più vicino a loro, non seppe più niente di loro.
Quelle - più belle che mai - si stirarono e si girarono, fecero agitare al vento i loro tremendi capelli sciolti e tesero le unghie sulle rocce. Non volevano più sedurre, volevano solo carpire il più a lungo possibile lo sguardo dei grandi occhi di Odisseo.
Se le Sirene avessero coscienza, quella volta sarebbero state annientate. Ma sopravvissero, e solo Odisseo sfuggì a loro.
A questo punto, si tramanda ancora un'appendice. Odisseo, si dice, era così astuto, era una tale volpe, che neppure la Parca del destino poteva penetrare nel suo intimo. Egli, benché questo non si possa capire con l'intelletto umano, forse si è realmente accorto che le Sirene tacevano e ha, per così dire, solo opposto come scudo a loro e agli dèi la suddetta finzione.

- Franz Kafka -

venerdì 28 ottobre 2011

Viaggiare e mangiare

viaggio calvino

«…il vero viaggio, in quanto introiezione d’un “fuori” diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura […] facendolo passare per le labbra e l’esofago.
Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona».

Italo Calvino - Sotto il sole giaguaro, Milano 1995.

giovedì 27 ottobre 2011

Tracce

fienga

Per trovare argomenti di cui parlare (cosa a proposito della quale, qualcuno mi ha chiesto), mi avvalgo di strumenti banali come google reader, usato come una volta si usava un prezioso servizio giornalistico, com'era quello dell'Eco della Stampa. Detto questo, seguendo questo genere di tracce, qualche giorno fa mi sono imbattuto in uno strano personaggio su cui, curiosamente, le notizie racimolate sul web contribuiscono ad una certa confusione. La traccia di partenza mi è stata data da un blog spagnolo, di Santiago Mata che qui voglio ringraziare. In poche parole, il blogger in questione, effettuando una ricerca sul generale José Miaja, che era a capo della Giunta di Difesa di Madrid durante la guerra civile spagnola, ha trovato notizie su un libro, di cui il generale ha scritto la prefazione, firmato da Dino Fienga. "La settimana portentosa della difesa di Madrid". Con presentazione del generale José Miaja, Chicago, Edizioni Clemente & Sons, 1954.
Giocoforza, a questo punto, seguire le indicazioni del blogger, e andarsi a leggere la biografia, di questo Fienga, e anche un piccolo estratto dal libro in questione, un paragrafo non troppo rilevante che pecca di un po' troppa retorica ***.
Fulvio Tuccillo, l'estensore della biografia, lo riassume in una frase: "Partire è vivere, restare è morire". Andando avanti a leggere, si scopre che da giovane aderì al socialismo e, nel 1921, fu fra i fondatori del Partito Comunista, a Livorno. Nella guerra civile spagnola, si trova arruolato come capitano medico.
La cosa curiosa però è che, in quest'altra biografia, firmata da Alberto Petrucciani, si dica che era arruolato in una brigata del POUM (cosa parecchio difficile, a Madrid!). A rincarare la dose, arriva Andy Duran che, su Libcom, scrivendo delle milizie del POUM, si trovi a nominarlo e arrivi addirittura a precisare che era "bordighista". A questo punto, non si capisce se era già in rotta con Mosca, quando arriva nel 1936 in Spagna. La prima biografia non dice niente in proposito, e non c'è niente che sembri provare che avesse qualcosa a che vedere col POUM. Bisognerebbe andare a cercare la risposta nelle sue opere, che sono una cospicua mole. Tuccillo, che a quanto pare le ha lette, dice solo che fu proprio nella guerra civile spagnola che Fienga prese le distanze dallo stalinismo. D'altro canto, anche il battaglione 11 Ottobre, a proposito del quale, una foto pubblicata sul settimanale "Gente", afferma che fosse appartenuto (e che non aveva niente a che fare col POUM, visto che il capo era un socialista italiano, Fernando Da Rosa), nel sito che ne fa la cronologia non appare mai il nome di Fienga.
Ad ogni modo, dopo l'esilio messicano, che lo avvicinerà a Trotsky, nel 1947 si farà terziario francescano e arriverà a scrivere un libro su San Francesco d'Assisi che gli darà fama mondiale, sull'argomento.

Fonte: http://www.intereconomia.com/blog/paracuellos36/dino-fienga-orwell-italiano-20111025

*** «Una fila di camions entra da Las ventas del Espirtu y Santo; li occupano soldati bene armati che parlano lingue straniere. Chi sono? Il grido che lanciano di quando in quando è la loro risposta: U.H.P. (u.acce. pè). Sono los hermanos proletarios venuti a difendere Madrid, faro della libertà, che ha ormai superato i suoi tre giorni di solitudine. Sono il fiore dell’antifascismo mondiale [...] Sono 3500 leoni così verranno chiamati più tardi che vanno ad affrontare, poche ore dopo il loro arrivo, i mori ed il Tercio a Casa de Campo, al Parco dell’Ovest, alla Città Universitaria [...] Arrivarono a Madrid nell’ora decisiva, mentre il nemico bussava alle sue porte con furia implacabile; sfilarono per le strade della città in pericolo, fra l’amore e l’entusiasmo del popolo madrileno. Da dove venivano? Da tutti gli angoli d’Europa: polacchi, tedeschi, francesi, austriaci; lasciamo la parola a Zugazagoitia, che fu testimone oculare di quell’ora (e fu poi fucilato dai falangisti). Ribelli egli commenta espulsi dalla loro patria, lavoratori senza nazionalità, uomini dal passato pieno di dolore e dall’avvenire incerto. Gente tutta dun pezzo, dalle braccia robuste, dal cuore senza paura. Tremila cinquecento fucili. Si sparpagliarono per la Casa de Campo e la Città Universitaria. La guerra li accolse con tutta la sua pirotecnica mortale. Dopo qualche ora il loro numero era già diminuito. Era il prezzo d’ingresso: una dozzina di morti. Non si turbarono: erano venuti a Madrid proprio per questo: a farsi uccidere per difenderla. Sapevano solo una cosa: che la Capitale aveva bisogno di loro. La loro presenza nelle posizioni minacciate ravvivò la passione dei madrileni. Era dunque vero che arrivavano i rinforzi? Il miliziano si fece insolente con la morte e tornò a disprezzarla; però i suoi nuovi compagni, chiusi per l’esperienza e la disciplina nella loro condizione di soldati, gli risultavano strani. Si interponevano violentemente quando il miliziano si spingeva un po troppo. Gl’insegnarono precauzioni e difese elementari e la maniera di combattere con maggiore efficacia. Il miliziano imparava. Si faceva soldato, senza accorgersene, ogni internazionale diventò un maestro» (da D. Fienga, La settimana portentosa della difesa di Madrid. Con presentazione del generale José Miaja, Chicago, E. Clemente & Sons, 1954, pp. 31-32)

mercoledì 26 ottobre 2011

Algebra

algebra

In termini semplici, i leader europei si stanno sbattendo per rattoppare un buco di 4.000 miliardi di euri(1.000 miliardi di euri da ricapitalizzare nelle banche più 3.000 miliardi da debito) per mezzo di una pezza fatta di € 250.000.000.000 (i fondi europei)) . In termini algebrici, il loro compito consiste nel risolvere un sistema di due equazioni a tre incognite. Qualunque sia l'alchimia che impiegheranno, a meno che non aggiungano i numeri mancanti, oppure l'equazione mancante, non riusciranno ad arrivare ad una soluzione senza violare le regole della matematica che si insegna alle scuole primarie.
Il compito dei nostri leader è reso ancora più difficile da due assiomi che insistono sui paesi in surplus, timorosi davanti al rischio di "importare", dai paesi in deficit, una maggiore inflazione e tassi di interesse più elevati:

    Assioma n° 1: nessuna parte dei 4mila miliardi che mancano verrà stampato dalla BCE.
    Assioma n° 2: non proverranno da una qualche forma di unione fiscale che porti ad un eurobond solido garantito dagli stati membri.

Sulla base di questi due assiomi, l'Europa è chiamata a risolvere due equazioni a tre incognite. Un'equazione fissa il debito esistente (in primo luogo quello di Italia e Spagna), mentre l'altra fissa le perdite potenziali del settore bancario. Per quanto riguarda le tre incognite si ha:

    X = percentuale dei tagli da attuare in Grecia
    Y = la somma impegnata per aiutare Italia, Spagna ed altri.
    Z = il capitale complessivo da pompare nel settore bancario.

Non sorprende che questo 'sistema' di equazioni non può essere risolto, ameno di non fissare arbitrariamente una delle variabili. La Germania ha cercato di fissare il taglio greco, X, al 60% circa. Purtroppo, la BCE e la Francia hanno cominciato ad urlare (contro-proponendo che venga invece fissata una grande Y), mentre gli americani e il FMI (memore di come le banche europee abbiano minacciato di scatenare un altro 2008 sul settore finanziario globale) hanno insistito su un più ampio Z. In breve, la determinazione di ognuna delle tre variabili ha portato ad un impasse politico.
Dopo aver fallito la loro prova di algebra, i nostri leader si sono dedicati a cercare dei modi per "stirare" l'aritmetica. L'idea più luminosa che è venuta fuori è stata quella di trasformare la EFSF (Careers - Organisation - Operations - Key figures
European Financial Stability Facility) in un'agenzia che assicuri gli acquirenti delle nuove obbligazioni (presumibilmente emesse da Italia e Spagna) contro le perdite pre-specificate (ad esempio 20%; in modo che 20 centesimi di assicurazione possano "convincere" gli investitori, che temono un 20%  di taglio al debito italiano, ad acquistare felicemente un 1 € obbligazionario italiano).
Il primo problema con questo trucco è che non si aumentano a sufficienza i fondi dell'EFSF (lasciando intatti i due terzi del monte debiti). In secondo luogo, poiché gran parte dei fondi EFSF sono garantiti da Italia e Spagna, questo regime assicurativo avrebbe chiesto alle "vittime dell'incidente" di auto-assicurarsi ex post. (Un po' come Dexia, quando presta ai suoi azionisti i soldi per comprare ... parti della Dexia!)
C'è una soluzione? Sì, c'è. Basta introdurre un'equazione supplementare. Esempio: aggiungere un piano di riconversione del debito, sotto l'egida della BCE.
La BCE non stampa i soldi (rispettando così l'assioma n° 1) e, invece, prende in prestito dai mercati internazionali delle obbligazioni a 20 anni, a proprio nome (rispettando così l'assioma n° 2). Poi, utilizza il denaro preso in prestito al servizio del debito esistente della zona euro e, contemporaneamente, crea il meccanismo con cui gli stati membri provvedono a far fronte a questo debito (entro i prossimi venti anni). Nel frattempo, all'EFSF, liberato dalla sua funzione di salvataggio, viene assegnato il solo compito di ricapitalizzare le banche. Se necessario, può essere rinforzato a piacimento in quanto, proprio come per TARP America, i contribuenti tedeschi possono stare tranquilli che l'EFSF pagherà tutti i suoi conti, con gli interessi, una volta che le azioni delle banche (che verranno date in cambio delle iniezioni di capitale dell'EFSF) verranno rivendute al settore privato (dopo il recupero delle banche).
La soluzione esiste. Ma solo a condizioni di scegliere l'algebra, al posto dell'alchimia.

- Yanis Varoufakis -

 

fonte: http://yanisvaroufakis.eu/2011/10/24/fixing-europes-impossible-algebra/

Suoniamogliele!

Dinant-statue-dAdolphe-SAX

Adolphe Sax se ne sta seduto, il sax in grembo, nella via che ora porta il suo nome. Sta seduto su una panchina davanti al numero 37 dove è nato quasi due secoli fa. Il suo aspetto severo contrasta con lo strumento che lo accompagna. Il sassofono, a sua volta, rende meno grave la figura.
«Il timbro di un suono sia determinato dalle proporzioni della colonna d'aria piuttosto che dal materiale del corpo che la contiene»  - così teorizzava il trentenne Antoine-Joseph Sax, detto Adolphe, inventore del sassofono. Qualche decennio più tardi, Charlie "Bird" Parker avrebbe meglio espresso il concetto con le parole: «Non suonarlo, lascia che sia lui a suonare te». A suonare te, e a cambiarti, magari. Brutta gente, i sassofonisti; almeno a stare alla scusa che accampa Jack Lemmon/Dafne, in "A qualcuno piace caldo", per liberarsi dall'insistente Osgood: «Ho un passato terribile - dice - ho vissuto per tre anni con un sassofonista».

martedì 25 ottobre 2011

clandestino

manuel cortes

"30 anni di oscurità"! Un documentario che mescola e fonde l'utilizzo dell'animazione al ricorso ai documenti storici, alle testimonianze. In un gioco di parole, "30 anni di oscurità" riporta alla luce la storia e una storia del dopoguerra. La storia è quella di Manuel Cortes, "el topo" di Mijas.
Una storia sconosciuta che racconta come, in Spagna, molta gente abbia vissuto in clandestinità - a volte ai limiti della follia - pur di sfuggire alla repressione franchista. Il termine "topo", usato in riferimento a queste persone, è preso pari pari dal lavoro di due giornalisti, Manuel Leguineche e Jesús Torbado. Un libro pubblicato nel 1977 che racconta la storia di 24 persone.
"La storia di Manuel Cortes" - ha dichiarato il regista Manuel H. Martin - "è davvero incredibile, stupefacente, umana ed universale. E' una storia unica, ma riflette la storia di molti. La segregazione di Cortes non è solo un racconto singolare a proposito di un prigioniero politico che si nasconde nella sua propria casa, ma è anche una storia di paura che parla della capacità di sopravvivenza umana".
   Inoltre, la storia di "30 anni di oscurità" "va oltre quella dei cosiddetti topi, e si incontra con le storie di padri che soffrono nel vedere i propri figli,  con le storie di donne in grado di fare di tutto per portare avanti la propria famiglia e con le storie di bambini che devono celare segreti più grandi di loro per evitare che i loro genitori vengano uccisi. Al di là di guerra e del dopoguerra, al di là dei vincitori e dei vinti, questa storia parla di paura, parla di libertà e, soprattutto, parla del buio e di come questo condizioni le menti ed i cuori delle persone".
   "30 anni di oscurità" non è un documentario sulla guerra civile spagnola, dal momento che parla degli anni successivi alla guerra. La cosa peggiore delle guerre non risiede solo nel numero delle vittime che causa, ma nelle conseguenze che provoca. Come altri paesi, la Spagna visse un periodo di dittatura che calpestò i diritti umani. E, mentre, in faccia al mondo mostrava di vivere un processo di modernizzazione, all'interno del case dei "topos" si viveva il dramma autentico della perdita della libertà.

lunedì 24 ottobre 2011

Proprietà

frances-llorando


E' il 14 giugno del 1940, e la faccia di questo parigino ce lo racconta tutto, la capitale è caduta in mano alle truppe naziste che marciano, ancora una volta, vittoriosi in Francia, come i prussiani nel 1871, dopo aver sconfitto Napoleone III.
"Sopra la città sconfitta cala un velo tetro e silenzioso, rotto solo di tanto in tanto da esplosioni lontane, via via che i francesi distruggono le loro fabbriche di munizioni L'unica resistenza opposta dai francesi, è quella di alcuni operai, vicino alla Porta d'Aubervilliers, che fischiano i soldati tedeschi, i quali li ignorano.
I tedeschi piazzano nidi di mitragliatrici nei punti chiave, man mano che attraversano le strade deserte mentre un ufficiale si dirige in auto dal capo della polizia di Parigi per comunicargli che rimarrà in carica fino a nuovo avviso con l'incarico di mantenere l'ordine pubblico. La bandiera con la croce uncinata sventola sulla Torre Eiffel e sul quartier generale tedesco a Parigi, insediato in uno dei più lussuosi alberghi, l'Hotel Majestic, al 29 di rue Dumont d'Urville".
Una foto, un'immagine che ci parla del caos che stava dilagando per tutta l'Europa, sulle gambe della travolgente avanzata nazista.
Molto si è detto della resistenza francese durante l'occupazione tedesca, ma assai poco delle molte viltà collaborazioniste con le forze di occupazione.
Dopo la guerra, il generale Charles de Gaulle avrà delle parole, riferendosi all'occupazione ed al governo di Vichy:
"... È dal momento che quasi tutti erano proprietari. Potevano scegliere tra le loro proprietà, la loro piccola casa, il piccolo giardino, il piccolo negozio, il loro piccolo laboratorio, il piccolo campo, i loro pochi buoni del tesoro e la Francia. Scelsero le loro proprietà".

domenica 23 ottobre 2011

Incontrollati

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Sinceramente, all'attività dello scrivere preferisco quella di leggere, e non tanto perché non mi passino per la mente pensieri che richiederebbero di essere fissati su un foglio, anche al fine di poterli meglio considerare, i pensieri. Altrettanto sinceramente, mi viene anche da aggiungere che l'attività del leggere dipende, in larga misura, da un senso di distacco e di impotenza. Mi spiego, quando sei nel fuoco dell'azione, quando nei sei parte e motore, non vai certo ad indugiare a informarti a leggere circa quello che avviene, circa le posizioni, i modi di vedere; hai una tua idea e la persegui, anche scrivendola e scrivendolo. Preferisco le storie, alla storia. E così accade che cerco le storie, dentro a quel che leggo. E ce ne sono!
Leggo, per esempio, che Erri De Luca, intervenuto al "Bartleby" di Bologna a presentare il suo ultimo libro, dopo aver espresso considerazioni per me condivisibili circa gli ultimi avvenimenti di Roma, si è lasciato andare a raccontare una storia che parlava del servizio d'ordine di Lotta Continua che, sue testuali parole, "serviva contro le aggressioni della polizia e dei fascisti non per arrestare le persone dentro al corteo”. Tralasciando la battuta, che insorge spontanea, circa il "piccolo diverbio" avuto con le femministe, le quali non rientravano certamente in nessuna delle due categorie citate da De Luca, giova ricordare come i "servizi d'ordine" di quegli anni (esclusi quelli del p.c.i. e dei sindacati) attendessero agli stessi compiti - con altri mezzi e con altra tattica - che a Roma, giorni fa, hanno svolto gli "incontrollati" che vengono denominati dalla stampa "incappucciati" o "black bloc". Solo negli ultimi tempi della sua esistenza, il servizio d'ordine, di cui De Luca stesso fu uno dei responsabili, si provò a misurare su un terreno "poliziesco". Praticamente, cercò, senza che la fortuna gli arridesse, di mettere in pratica quel che leggo vorrebbero poter fare i signori che perseguono la "costruzione di istituzioni sociali incentrate sulla democrazia dei beni comuni" e che vorrebbero definire, a proposito del movimento, "una capacità di autodeterminarsi" e di "stabilire i suoi criteri di legittimità". Insomma, per dirlo in soldoni, si tratta di stabilire quale pratica abbia capacità di modificare lo stato di cose presenti, e quale non l'abbia. Stabilito questo - ovviamente, da parte loro - si procede a mettere in condizione di non agire chiunque non sia disposto e disponibile alla loro "democrazia dei beni comuni". Chiunque non sia disposto - e non si diverta - a restare fuori dal teatro occupato di turno per aspettare, fiducioso e in piedi, il secondo concerto fatto nella stessa sera, per dare modo a tutti di partecipare. Partecipare, già; ma a quanto pare c'è qualcuno, finalmente, che non intende più partecipare. Anche perché, alla fin fine, si tratta di partecipare sempre allo stesso gioco. Il gioco di quelli che stanno sui palchi, da una parte, e quelli che ascoltano, dall'altra. A quanto pare, il gioco, se non comincia a finire, inizia quanto meno a mostrare i suoi punti deboli. O sei parte del problema o sei parte della soluzione. Era un vecchio slogan delle Pantere Nere, oggi è una sorta di rasoio di Occam che consente di capire. Da un'altra parte leggo di un certo Pitsoulis, un professore di matematica, un greco che considera che "Dobbiamo cambiare questo sistema, ma non è possibile finché esiste. E' come un computer infestato dai virus; abbiamo bisogno di fare un reboot da un supporto esterno, poi fare una formattazione a basso live dell'hard disk, e alla fine installare un altro sistema operativo. Politicamente, non vedo una via d'uscita." Ecco, fra i virus sono da comprendere le rappresentanze, e tutto ciò che è politico. Sono parte del problema, sono parte del capitalismo. Come i sindacati, sono fatti della stessa sostanza di cui è fatto il fumo delle ciminiere. Sono parte del problema, e continuano a ripetere che fuori di loro non c'è soluzione al problema, ed esisteranno finché esisterà il problema. E' giocoforza, per il problema, asserire che sia la soluzione, il vero problema. E si impegna tanto a dimostrarlo che alla fine riesce nel compito, altrimenti difficile, di mostrarsi per quel che è. E' già accaduto, ed è sempre andata a finire male. Perché il problema è bravo a spacciarsi per qualcos'altro e ad invocare alti principi morali, come l'unità, ed un nemico comune la cui sconfitta dovrebbe essere una priorità, assolta la quale poi si potrebbe passare a scannarci fra noi (che loro di voglia di scannarci ce n'hanno sempre avuta, e ce n'hanno, tanta!). Ma forse è ora di arrivare davvero ad assumere la constatazione di Orwell a proposito del fatto che "la divisione reale non è quella fra conservatori e rivoluzionari, bensì quella fra autoritari e libertari".

venerdì 21 ottobre 2011

Prefazione

protesta

Questo appello, lanciato da uno sconosciuto miliziano anarchico che faceva parte della famosa "Colonna di Ferro", sembra essere - ancora oggi - il testo più vero e più bello che la rivoluzione proletaria spagnola ci ha lasciato. I contenuti di quella rivoluzione, le sue intenzioni e la sua pratica sono qui sintetizzati, freddamente e con passione. Vi sono denunciate le cause principali del suo fallimento: quelle che procedevano dalla costante azione contro-rivoluzionaria degli stalinisti, a conforto delle forze disarmate borghesi sotto la Repubblica, e le concessioni costanti dei dirigenti della CNT-FAI (amaramente evocati con l'aggettivo "nostro") dal luglio 1936 al marzo 1937. Coloro che hanno orgogliosamente rivendicato il titolo, poi diventato un insulto, di incontrolado [incontrollabile] hanno dimostrato di avere grande senso storico e strategico. Era stata fatta una rivoluzione a metà, dimenticando che il tempo non si ferma mai.
"Ieri, eravamo i padroni di tutto, oggi, sono loro, ad esserlo." A quel tempo, i libertari della "Colonna di Ferro" non potevano più "continuare fino alla fine" insieme. Dopo aver vissuto un così grande momento, non era più possibile "separarci, lasciarci l'un l'altro, per non rivederci più." Ma tutto il resto è stato ripudiato e sperperato.
Questo testo, di cui solo Burnett Bolloten fa menzione, venne pubblicato a puntate da Nosotros, un giornale anarchico di Valencia, il 12, 13, 15, 16 e 17 marzo del 1937. Il 21 marzo, la "colonna di ferro" venne integrata nel "Esercito Popolare" della Repubblica sotto il nome di 83.ma Brigata. Il 3 maggio, la rivolta armata degli operai di Barcellona venne sconfessata dai suoi leader, che, il 7 maggio, riuscirono a soffocarla.
A quel punto, sarebbero rimasti due poteri statali della contro-rivoluzione, il più forte dei quali avrebbe vinto la guerra civile.

Guy Debord
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Il testo completo, in italiano di " Protesta davanti ai libertari del presente e del futuro sulle capitolazioni del 1937"
di un "Incontrolado" della Colonna di Ferro può essere letto QUI!

giovedì 20 ottobre 2011

Voodoo

jobu2

Si dice che ad Haiti, gli dei circolino per le strade. Anche in jeans e in canottiera! Legba, ad esempio, solitamente lo trovi agli incroci. Ghede, conosciuto anche con i nomi di Baron Samedi e di Papa Midnight, veste bene - del resto, è il signore dei defunti - tight nero, sigaro in bocca e occhiali scuri, cui però manca la lente destra. Ché l'occhio destro, diversamente dal sinistro che guarda l'universo intero, ha da controllare che nessun ladro gli porti via il cibo. Né può mancare, in un'isola, un dio del mare, Agwè; ma ci sono anche, Ogoun per la guerra e Azacca per l'agricoltura. Un pantheon piuttosto affollato, quello voodoo! E non c'erano solo gli dei! C'erano anche i "Loa", divinità intermedie che potevano manifestarsi prendendo possesso del corpo di chiunque. Una religione complessa, quella voodoo, che affonda le radici nell'Africa degli schiavi. Solo che ad Haiti i diversi culti si fusero, e fra loro e insieme ai culti di quegli indios che avevano preso la strada della montagna ben prima dell''arrivo dei primi schiavi, nel 1510. Non ci misero molto questi africani, convertiti a forza al cattolicesimo, a seguirli lungo quella strada. Era il 1522, quando i Bambara, "ladri e insolenti", i Congolesi, "sempre pronti a fuggire", i Mondongo, "crudeli e cannibali", gli Ibo, "miti e inclini al suicidio", cominciarono un'epopea di fughe. Nel 1720 i fuggiaschi erano un migliaio, nel 1751 saranno diventati 3.500.
E sarà sulle montagne che, il 14 agosto 1791, un "houngan" ("capo degli spiriti") di nome Boukman celebrerà una cerimonia voodoo. Una vecchia, cavalcata da un Loa, un coltello brandito sopra la testa, si scatena in una danza selvaggia che ha per coronamento l'uccisione e lo scannamento di un grosso maiale nero. Sul sangue del maiale, dopo averlo bevuto, tutti giurarono che avrebbero seguito Boukman. E lo seguirono, quando una settimana dopo, ad Haiti, scoppiò quella rivoluzione che avrebbe portato l'isola ad essere, 13 anni dopo, la prima repubblica nera indipendente. Nera, come quel maiale di cui si racconta che ci fosse, a Port-au-Prince, una statua di ferro, a ricordare "il giuramento di Boukman". Non è più tempo di voodoo, la statua è sparita, forse dopo l'ultimo terremoto, e non sono riuscito nemmeno a trovarne una fotografia, in rete. Solo racconti. Forse, il voodoo, così come ha scritto la storia, ora la cancella.

mercoledì 19 ottobre 2011

occhi veloci come il vento

Gitano

Da oltre 500 anni,in territorio iberico, la partecipazione dei Rom ai vari eventi storici rimane un vero mistero. Nonostante il cospicuo numero di testi, memorie, filmati e documenti vari sulla guerra civile avvenuta in Spagna negli anni 1936-39, è una vera e propria sfida  trovare prove certe del loro coinvolgimento. Una sfiducia generale nei loro confronti, insieme alla reputazione di rubare bestiame, ha fatto sì che durante il conflitto siano stati perseguitati sia dai repubblicani che dai franchisti.
Pertanto, non sorprende che la stragrande maggioranza abbia deciso di rimanere fuori del conflitto, rispettando la tradizione apolitica ereditata dai loro antenati, anche se ci sono diverse eccezioni da entrambe le parti, soprattutto in campo repubblicano.
Si evidenzia, per importanza, l'artista Helios Gómez, di formazione anarco-sindacalista. Nato a Siviglia nel 1905, va in esilio durante la dittatura di Primo de Rivera. Tornan in Spagna nel 1930 e si dissocia dal movimento anarchico per entrare a far parte del PCE. Ma come è comune a tutti i comunisti con un passato anarchico, com'è evidenziato da Abel Paz in molte delle sue opere, la sua educazione libertaria gli impedisce di accettare i dogmi e la disciplina del partito. Così Gòmez spara al capitano stalinista Arjona. quindi viene espulso dal partito e perseguito con l'accusa trotskismo. Torma nella CNT nel 1938. Verrà ucciso dal regime di Franco nel 1956 per le sue attività rivoluzionarie e antifranchiste.
Sull'altro fronte deve essere ricordato il noto zingaro Ceferino Gimenez Malla , meglio conosciuto come "El Pelé", di recente beatificato da Giovanni Paolo II. Considerato da molti come un astuto commerciante che aveva fatto fortuna durante la prima guerra mondiale, anche se spesso accusato di furto. Fervente cattolico, partecipò alla Guerra Civile in maniera indiretta, ma il suo ricordo è strettamente legato al conflitto, perché sarebbe stato fucilato dai repubblicani per essersi rifiutato di rinunciare alla fede cattolica, secondo fonti episcopali, anche se ci sono diverse ipotesi circa la vera ragione della sua morte, probabilmente relativa all'arresto di un sacerdote associato con i franchisti.
Una menzione merita il caso del segretario generale della CNT dal 1936 al 1939, il giovane Mariano Rodríguez "Marianet". Viene ricordato come una figura chiave della resistenza anarchica nei campi francesi, dove è morto annegato in un fiume. Arrivò all'anarchismo in prigione, dove si trovava detenuto per reati communi.
Infine, quasi come un aneddoto, va ricordato il caso di Jose Palma Leon "Osolito", un famoso atleta di etnia gitana che pochi giorni prima delle "Olimpiadi Popolari", in seguito alla rivolta militare,decide di unirsi alla milizia e di combattere per "la libertà del popolo".
A parte questi brevi ricordi relativi agli individui, si rende necessaria un'analisi completa della loro partecipazione al conflitto, perché pur essendo una piccola punta di un grande iceberg, costituiscono un aspetto poco conosciuto che merita di essere studiato in profondità, per una lettura della situazione dei rom oggi. Va pertanto conosciuta la confusione che veniva fatta fra maquis repubblicani e zingari nomadi, e questi ultimi a causa di tale confusione venivano fucilati in nome del franchismo. Essi sono stati duramente puniti per il loro pensiero apolitico, e severamente puniti dopo la guerra per la loro crescente perdita di prestigio sociale.
Furono, dopo tutto, vittime del genocidio fascista che ha devastato la Spagna dal 1936-1939 . Per lo più non erano repubblicani coscienti, ma hanno pagato a caro prezzo la loro mancanza di lealtà al regime.

fonte: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=137447

martedì 18 ottobre 2011

Avanti

makno
Gli insorti di Makhno erano in fuga da settimane. praticamente senza ormai più provviste e rallentati dai propri feriti. Inseguiti, lontano oltre 600 chilometri dalla loro base, dai "Bianchi" di Denikin, che alla fine erano riusciti a circondarli completamente vicino al villaggio di Peregonovka, nell'Ucraina centrale. La mattina del 26 settembre 1919, Denekin lanciò un attacco a tutto campo: gli ordini contemplavano il completo annientamento dei ribelli ucraini. I contadini-soldati erano esausti e senza alcuna via di fuga. Di fronte a loro i reggimenti di cavalleria d'elite. Gli uomini di Machno potevano fare ben poco più che prepararsi a morire. Ma proprio nel momento in cui tutto sembrava perduto, una bandiera nera apparve dal nulla, dietro una collina. Pochi istanti dopo, Nestor Makhno - insieme a 200 dei suoi migliori cavalieri - travolse i fianchi del nemico. Il contrattacco fu una tale sorpresa che gli uomini di Denikin furono presi dal panico. Anche gli insorti rimasero ugualmente sorpresi dal quella "cavalcata delle valkyrie", ma si affrettatorono a reagire, raccogliendo qualsiasi arma venisse abbandonata dal nemico nella sua fuga precipitosa. Incapace di reagire, l'armata bianca fu costretta a ritirarsi. La maggior parte sarebbero morti mentre cercavano di fuggire attraversando a nuoto il fiume Sinyukha. Alla fine della giornata, la rotta, tanto improbabile, da sembrare impossibile, era completa, e il corso della guerra civile era stato alterato.







 Fra il 1917 ed il 1921, il villaggio di Guliai Polie, a est dell'Ucraina, fu al centro di un movimento contadino rivoluzionario che combatté prima contro l'occupazione austro-ungarica (dopo la firma del patto di Brest-Litovsk), poi contro i bianchi e contro l'Armata Rossa guidata da Trotskij, con il quale in precedenza era stato alleato. La figura emblematica di questo movimento era Nestor Makhno, nato a Gulyai Polie e morto in esilio in Francia
.

lunedì 17 ottobre 2011

Memoria e Oblio

francofortini

“Sappiamo come si fa a dimenticare e a far dimenticare. Il controllo dell’oblio, ci dice Le Goff, è uno dei più spietati strumenti del potere. Ne sanno qualcosa anche gli odierni cittadini degli imperi. Il processo di asservimento, generalizzato mediante l’attenuazione, la scomparsa delle garanzie giuridiche, non sarebbe possibile se non ci fosse l’oblio indotto che appoggia e, come può, fomenta la resistenza “naturale” del figlio a conoscere la storia sua e dei suoi.
Non è un caso che nelle grandi e vere rivoluzioni padri e figli combattano fianco a fianco. Né che in tanti miti la rivelazione della storia prenatale faccia scattare nell’eroe il passaggio alla autocoscienza e alla maturità.”

- Franco Fortini - Da "Memoria ed oblio"

sabato 15 ottobre 2011

Benvenuti nella realtà!

romaottobre2011

Cronaca di una giornata:

-  Draghi è molto dispiaciuto per gli scontri, ed è anche triste!

- i pacifisti protestano con la polizia "basta con questi violenti, spacchiamo loro la testa!!"

-  Vendola è molto deluso: primarie per decidere i manifestanti!

venerdì 14 ottobre 2011

Leghisti?!?

lost-state-of-jefferson

L'immagine dell'opuscolo, sopra riprodotto, invita a recarsi in Jefferson, il 49° stato dell'unione. A quanto pare, i proponenti di questo stato che avrebbe dovuto essere (costituito dalla parte nord della California e da un pezzettino di Oregon) credevano fermamente nella "strategia del fatto compiuto". Recitava l'opuscolo che "se conserverete questa mappa, acquisirete un pezzo della storia americana da trasmettere ai vostri discendenti. E' una delle prime mappe del nuovo 49° "Stato di Jefferson" che 45.000 secessionisti dell'Oregon e della California contano di ritagliarsi."
Ma il "fatto" di Jefferson" non si compì mai. Malgrado i secessionisti, il corso della storia gli si volse contro. Assai presto. Se leggete la data in calce, 6 Dicembre 1941, potete accorgervi che solo il giorno dopo si sarebbe verificato l'attacco giapponese a Pearl Harbour. La cosa avrebbe sancito, fra l'altro, che non era tempo per frivole questioni di secessionismo. E così l'idea di uno stato dal nome del presidente Thomas Jefferson venne fatta fuori. E non era la prima volta.
Quello dello stato perduto di Jefferson è un progetto nato sotto una cattiva stella, assai persistente nella storia americana, tant'è che ci sono stati, dalla metà del 19° secolo, almeno tre progetti di fondare un tale stato. Tutti senza successo.
*    Il primo risale al periodo fra il 1859 ed il 1861 e parla di un "Territorio di Jefferson", un rettangolo di selvaggio west che occupava tutto l'attuale Colorado e parti dello Utah, del Wyoming, del Nebraska e del Kansas. Questo territorio non venne mai riconosciuto dal governo federale, che invece lo sostituì con il Colorado.
*    Nel 1870, durante la ricostruzione dopo la guerra civile, venne presentato al Congresso un disegno di legge che intendeva suddividere il Texas in due territori che dovevano essere ammessi nell'Unione come due stati separati: Jefferson (a est del fiume San Antonio) e Matagorda (ad ovest del fiume Colorado). Ma il disegno di legge morì sul nascere ed il Texas rimane indiviso. (Esiste una norma curiosa che concerne l'annessione del Texas dagli Stati Uniti nel 1845, la quale stabilisce che possono essere stralciati fino a quattro nuovi stati, dal Texas, che poi potrebbero ottenere l'ammissione negli Stati Uniti automaticamente. Nel corso degli anni, sono stati discussi diversi piani in tal senso, ovviamente senza alcun effetto, ancora).

La proposta relativa alla zona disegnata in questa mappa venne formulata per la prima volta nel mese di ottobre 1941. Come spesso accade con le aree di confine, il nord della California e il sud dell'Oregon si erano sentiti trascurati dai loro rispettivi governi statali. Furono le cattive condizioni della strada statale su entrambi i lati del confine che spinse Gable Gilbert, sindaco della piccola città costiera di Port Orford, ad annunciare la creazione di un nuovo stato.
Il secessionismo di Gable sviluppò una dinamica tutta sua. La città di Yreka, sede del Siskiyou County in California, era stata proclamata la 'capitale provvisoria' del futuro Stato. Nel mese di novembre, si tenne in città un 'assemblea costituente' che doveva dare al progetto secessionista sia un nome(fra gli altri, vennero proposti Orofino, Bonanza e Discontent) che un governatore (John C. Childs, giudice di Yreka). Lo stato nascente si dotò anche di una bandiera.
Il 27 novembre 1941, il movimento prese le armi.
Un 'Comitato dei cittadini', armato di fucili da caccia, occupò un tratto della US Route 99, distribuendo volantini in cui si proclamava 'l'indipendenza' di Jefferson.
L'incidente, di natura bonaria  - i ribelli promettevano "secessione ogni giovedi fino a nuovo ordine" - venne registrato dal principale cinegiornale locale.
La terza incarnazione di Jefferson non aveva una circoscrizione molto fissa. La 'secessione' venne presa sul serio solo a metà dalla contea (dell'Oregon) di Curry e dalle contee (della California) di Del Norte, Siskiyou e Trinity (non inclusi in questa mappa). La mappa comprende anche gli assai riluttanti  secessionisti delle contee di Modoc e di Lassen. Altre proposte estendevano i confini di Jefferson sia più a sud che più a nord.


Fonti:
http://bigthink.com/ideas/21511?page=all
http://www.flickr.com/photos/loststates/
http://www.facebook.com/#!/pages/Lost-States/218558357919?ref=ts
http://loststates.blogspot.com/

giovedì 13 ottobre 2011

L’ultima lezione

unamuno

Auditorium dell'Università di Salamanca, 12 ottobre 1936. Si celebra il "Día de la Hispanidad" (denominato anche "Día de la Raza"). La guerra civile è appena cominciata, e Salamanca è diventata la capitale del franchismo, con i gerarchi acquartierati nel palazzo episcopale della città. Quel giorno, i sostenitori di Franco hanno riempito l'ateneo. Sono venuti per ascoltare i discorsi del Professore di Storia José María Ramos Loscertales, del professore di Scienza Scolastica Vicente Beltrán de Heredia, di José María Pemán, scrittore, e del professore Francisco Maldonado. Seduti, attenti, al tavolo della presidenza, Millán Astray, il fondatore della legione, Carmen Polo, la moglie di Francisco Franco, il Vescovo Pla i Deniel e Miguel de Unamuno, il rettore dell'Università, il quale, poche settimane prima aveva indirizzato un "Messaggio alle Accademie e Università del mondo circa la guerra civile spagnola", dove si giustificava la rivolta dei militari, chiedendo solidarietà internazionale e sostegno, e si condannava la Repubblica.
La celebrazione si svolgeva secondo il programma, segnata dalla costante lode dell'idea di Spagna, finché, arrivato il turno di Maldonado de Guevara, questi, nello stesso stile, non decise di fare un ulteriore passo e, rivolgendosi ai baschi e ai catalani, li descrisse come "cancro nel corpo della nazione, che il fascismo, che è il guaritore della Spagna, saprà sterminare, incidendo la carne come fa un chirurgo scevro da qualsiasi sentimentalismo". Alla fine dell'intervento, dal pubblico emerse una voce che gridò: "Viva la morte!"
Col progredire della cerimonia, il volto del rettore, inizialmente sereno, aveva cominciato a tramutare. Immediatamente dopo queste parole, cambiò del tutto. All'improvviso, Unamuno si alzò dal suo posto e si rivolse al pubblico.
"Voi state aspettando le mie parole"-  cominciò - "Mi conoscete bene, e sapete che non sono capace di restare in silenzio" dichiarò, per giustificare l'infrazione del protocollo stabilito, perché "A volte tacere equivale a mentire, perché il silenzio può essere interpretato come acquiescenza". Fu allora che iniziò la sua risposta al discorso - "per chiamarlo in qualche modo" - del professor Maldonado, premettendo che avrebbe ignorato "l'offesa personale insita nella sua repentina esplosione contro baschi e catalani". Unamuno, nativo di Bilbao, ne era rimasto addolorato, così come l'insulto era rivolto anche al vescovo di Salamanca, "catalano nato a Barcellona". Il rettore, però, preferiva concentrarsi sul "grido necrofilo ed insensato" proveniente dal pubblico. Quel "¡Viva la muerte!", secondo Unamuno che aveva passato la vita "a scrivere di paradossi che scatenavano la rabbia di quelli che non li capivano", era un "paradosso repellente".  
Gli animi cominciavano a scaldarsi, i comandanti militari riuniti presso l'auditorium non riuscivano a credere a quello che sentivano, e l'atmosfera divenne ancora più tesa quando il rettore ricordò che Millán-Astray era un invalido di guerra "così come lo era Cervantes". Il militare portava una benda dove c'era l'occhio destro che il 4 marzo 1926 gli era stato strappato da una fucilata durante la guerra in Marocco, una guerra che gli era costata anche l'amputazione del braccio sinistro, e cicatrici varie per ferite da schegge alle gambe. Unamuno continuò, lamentando che "purtroppo, in Spagna, ci sono attualmente troppi mutilati e, se Dio non ci aiuta, ben presto ce ne saranno molti di più." In questa stessa ottica, osservò che, quella spagnola, era "solo una guerra incivile"; argomento che sottolineò, assicurando che "vincere non è convincere, e bisogna convincere, soprattutto, e non si può convincere con l'odio che non lascia spazio alla compassione". L'indignazione della rappresentanza militare si trasformò in furia quando sentì il rettore dire che egli era tormentato dal "pensiero che il generale Millán-Astray potesse dettare le regole della psicologia di massa", in quanto, a suo parere era "un mutilato che manca della grandezza spirituale di Cervantes, si aspetta di trovare un terribile lenimento nel vedere come i mutilati si moltiplicano intorno a lui".
Il fondatore della Legione, che faceva anche le veci di direttore dell'Ufficio della radio, stampa e propaganda del corpo dei mutilati di guerra, si alzò dalla sedia, incapace di trattenersi, per reclamare la parola, interrompendo il rettore, e lanciare un grido passato alla storia: "Muera la intelectualidad traidora". Unamuno non si spaventò e rispose, rivolgendosi ai militari: "Questo è il tempio dell'intelligenza, ed io ne sono il suo sommo sacerdote. Voi state profanando il suo sacro recinto. Vincerete, perché avete sufficiente forza bruta. Ma non convincerete. Per convincere bisogna persuadere, e per persuadere si necessita di qualcosa che vi manca: ragione e diritto nella lotta."
Quello che accade, a partire da quel momento, si può solo sintetizzare con le parole "tumulto" e "violenza contenuta". Il pubblico era infuriato contro Unamuno e gridò ad alta voce ogni genere di insulti. Alcune cronache raccontano che alcuni ufficiali estrassero le pistole e, curiosamente, se non ci furono conseguenze, per Unamuno, fu per l'intercessione della moglie del Caudillo, Carmen Polo, che lo salvò trascinandolo via per un braccio. L'evento si chiuse, con Unamuno che lasciava l'auditorium e l'Università circondato da una folla che alzava il braccio nel saluto falangista. La moglie di Franco si fece da parte e Unamuno, accompagnato dal vescovo, arrivò come poté all'auto che era in attesa per portarlo a casa, dove rimase agli arresti domiciliari fino alla sua morte, avvenuta solo due mesi e mezzo dopo.
Un'ora dopo quegli eventi, il consiglio comunale di Salamanca - di cui il rettore faceva parte - si riunì segretamente ed espulse Unamuno "per la Spagna, proditoriamente pugnalata dalla pseudo-intellettualità liberal-massonica". Fino al 31 dicembre 1936, il giorno in cui morì improvvisamente mentre si trovava con i suoi amici, Unamuno aveva ricevuto tutta una serie di giornalisti stranieri di cui si era avvalso per chiarire la sua posizione sulla guerra civile. Lo scrittore aveva osservato che, dopo averla vista con speranza in un primo momento, aveva cominciato a percepire una deriva di crudeltà che non condivideva, e della quale entrambe le fazioni erano complici.

mercoledì 12 ottobre 2011

L’Internazionale

despedida de las brigadas Internacionales

Era un mercoledì, quel 14 ottobre del 1936, quando ad Albacete cominciarono ad arrivare i primi contingenti delle Brigate Internazionali che in breve avrebbero trasformato la città in una "Babele della Mancia", come titolava un quotidiano locale. Arrivavano da più di 50 paesi, ed erano un esercito internazionale unico nella storia, sia per il numero sia per la sua natura volontaria, non mercenaria. La loro organizzazione ed il reclutamento, erano stati decisi dal Comintern, con l'appoggio di Stalin, ma in capo a poco più di un anno il sempre maggior disinteresse da parte dell'Unione Sovietica - in vista di una crescente tensione internazionale - avrebbe fatto decidere, nell'agosto del 1938, il presidente del governo repubblicano, Negrin, ad annunciare il ritiro unilaterale dei combattenti stranieri. A sorpresa, durante la riunione annuale della Società delle Nazioni, con lo scopo di mostrare all'opinione pubblica la disponibilità a fare a meno degli aiuti internazionali, sperando in tal modo di costringere il nemico ad imitare tale comportamento, e a farlo rinunciare all'apporto italiano e tedesco. Una pia illusione.
Ma quel giorno, ad Albacete, arrivarono in treno e sui camion i primi 500 volontari, con tutto quello che ne derivava su un piano sociale e logistico. Il piccolo albergo locale era decisamente insufficiente, e dovettero essere occupati gli edifici pubblici disponibili, compresa l'arena per la corrida. Ne sarebbero arrivati, in totale e fino alla ripartenza del 1938, 59.380, di cui almeno 10.000 francesi, per lo più della zona di Parigi. Moltissimi di loro erano operai. Una buona parte erano veterani della prima guerra mondiale. Ne sarebbero morti, in terra spagnola, oltre 15.000.
Pioveva, quel giorno ad Albacete. La pioggia continuò per tutto il giorno, bagnando quegli uomini, stanchi per il viaggio, durante la cerimonia di presentazione. L'insieme, a colpo d'occhio, era piuttosto variopinto. Una massa eterogenea di divise e costumi. Ci furono molti discorsi, una banda attaccò "La Marsigliese" e poi l'inno nazionale spagnolo. Continuò suonando "L'Internazionale", proprio mentre i brigatisti sfilavano per le strade del centro della città, dove un pubblico fra il curioso ed il sorpreso era accorso in gran numero per vederli.

martedì 11 ottobre 2011

Malaya Dmitrovka

BlackGuard

Molti anarchici russi si opposero con fermezza all'istituzionalizzazione delle guardie rosse, unità combattenti che erano state create dagli operai, nelle fabbriche, durante le due rivoluzioni, di febbraio e di ottobre. I rapporti tra anarchici e  bolscevichi avevano cominciato a deteriorarsi dopo la Rivoluzione d'Ottobre, e i delegati anarchici al 2 ° Congresso dei Soviet, nel dicembre 1917, accusarono Lenin ed il suo partito di "militarismo rosso". Come risultato, a Mosca, a Pietrogrado e negli altri centri principali, venne messo in atto un tentativo concertato di formare libere unità di combattimento denominate "la Guardia Nera". Nel 1917, distaccamenti di guardie nere vennero formate in Ucraina, incluse quelle di Makhno. Nikolai Zhelnesnyakov, dopo essere sfuggito a Pietrogrado ad un tentativo di arresto da parte dei bolscevichi, arriva in Ucraina e crea un grande gruppo di guardie nere. Altri distaccamenti, sempre in Ucraina, erano guidati da Mokrousov, da Garin con il suo treno blindato, da Anatolii Zhelesnyakov, il fratello minore di Nikolai, e infine il distaccamento, guidato da Seidel e Zhelyabov, che difendeva Odessa e Nikolaev.
A Vyborg, vicino a Pietrogrado, gli operai anarchici dello stabilimento russo Renault formarono una Guardia Nera, ma ben presto questa si fuse con la Guardia Rossa che era stato creata contemporaneamente nella stessa fabbrica.
"Burevestnik", il foglio della Federazione degli Anarchici di Pietrogrado, avverte che ".. quei signori si sbagliano se pensano che la vera rivoluzione sia finita ... No, una vera rivoluzione, una rivoluzione sociale, che liberi i lavoratori di tutti i paesi, è appena cominciata".
Nell'aprile del 1918 a Mosca ci sono già 50 unità della Guardia Nera. Peters, vice presidente della Ceka, si dichiara particolarmente preoccupato per la loro crescita. "Ricordo che dopo il mio arrivo alla Ceka di Mosca, mi resi conto che c'erano due poteri: da un lato, il Soviet di Mosca, e dall'altro il quartier generale della Guardia Nera con sede nell'ex Club dei Mercanti in Mallaya Dmitrovka, che agiva organizzando raid per le strade, portando via armi e oggetti di valore, requisendo appartamenti ... "
La Federazione di Mosca aveva già espropriato 26 case, già dimore dei ricchi, che venivano utilizzate come basi. Alcune di queste case erano in posizione strategica nella città. In esse venero installati nidi di mitragliatrice, c'erano dormitori, biblioteche, aule, arsenali e scorte di cibo.
Maksimov fa notare: "A causa del suo potere e alla sua influenza, la Federazione è riuscita a sequestrare i locali del "Kupechesky Club" (Club dei Mercanti) che si trova in  Malaya Dmitrovka, una casa enorme e magnifica, lussuosamente arredata e con una biblioteca e un teatro. I locali sequestrati sono stati rinominati in "Dom Anarchia" - "Casa dell'Anarchia" - , e si sono rivelati particolarmente adatti per l'attività anarchica più ampia e variegata. A quel punto, la Federazione si è accordata con una delle più grandi tipografie di Mosca, che le ha permesso di pubblicare un quotidiano, in luogo dell'ex settimanale.
Nel marzo del 1918, la Federazione decide di organizzare una forza militare propria, le cosiddette "Guardie Nere". Un'altra casa viene sequestrata e trasformata in caserma per i contingenti della neonata "Guardia Nera". A Kaydanov, una figura attiva nel movimento anarchico e un compagno di lunga data, viene affidata l'organizzazione e la leadership di questa formazione militare, che diverrà ben presto la causa formale di inimicizia con i bolscevichi, porterà alla diffusione di vili calunnie e di false accuse rivolte al anarchici, fino alla totale distruzione delle organizzazioni anarchiche.
Le attività del MFAG (Federazione Moscovita dei Gruppi Anarchici) si erano intensificate dopo che il Soviet dei ministri si era trasferito a Mosca. Nelle file del MFAG lavoravano i fratelli Gordin, Alexander Karelin, Vladimir Barmash, M. Krupenin, Piotr Arscinov e Kazimir Kovalevich. Nel mese di aprile 1918 a Mosca vi erano già più di 50 gruppi e distaccamenti della Guardia Nera che contavano circa 2.000 militanti. Da un rapporto del KGB sappiamo che anche un distaccamento anarchico  di Samara era arrivato in città.
Secondo la Ceka, gli anarchici stavano pianificando un'insurrezione prevista per il 18 aprile e quindi venne deciso di mettere in atto un attacco preventivo per disarmare le truppe della Guardia Nera. La pianificazione di una tale insurrezione è sempre stata strenuamente negata dagli anarchici. Per il 14 di Aprile era prevista un'assemblea generale della MFAG, ma questo era tutto.
La notte del 11-12 aprile la Ceka convoca una riunione di emergenza, instaura un quartier generale diretto da Dzerzhinsky e da inizio alle operazioni per disarmare i distaccamenti armati degli anarchici. Dzerzhinsky sottolinea: "Abbiamo avuto alcune informazioni a proposito di elementi criminali, raggruppati intorno ad un gruppo della Federazione, che vogliono agire contro il potere sovietico" (Izvestia 75, del 16 aprile, 1918). Già l'8 aprile, il comandante del Cremlino P. Malkov e il comandante dei mercenari lettoni E. Berzins avevano condotto ricognizioni per valutare la forza della Federazione .. Era stato approvato un piano per eliminare la "contro-rivoluzione anarchica". L'operazione ha coinvolto le unità militari della Ceka, (il 1° Distacco Mitraglieri) e dil 4° reggimento dei fucilieri lettoni, nonché parte della guarnigione di Mosca. Le operazioni sono cominciate a mezzanotte con le case anarchiche circondate da queste truppe.
Molte delle unità anarchiche mancavano di esperienza di combattimento e resistenza, ma in alcuni posti i bolscevichi trovarono una strenua resistenza armata, ad esempio, in Malesia Dmitrovka presso la Casa dell'Anarchia. Qui la Guardia Nera aveva occupato tutte le case circostanti ed era riuscita a mettere un pezzo di artiglieria leggera sul tetto. Il cekisti presero d'assalto l'edificio, sostenuti da fuoco di artiglieria che fece a pezzi il cannone posto al primo piano dell'edificio. Tuttavia i cekisti riuscirono a prendere lo stabile solo grazie all'arrivo dei fucilieri lettoni. L'ultima roccaforte della Guardia Nera a cadere, fu la Dimora Zeitlin che venne presa prima di mezzogiorno, e in generale la lotta tra le forze della Ceka e gli anarchici cessò alle due del pomeriggio.
Come risultato di questa operazione, i bolscevichi uccisero 40 anarchici, alcuni fucilati sul posto, mentre una dozzina, fra cekisti e soldati, morirono nei combattimenti. Il corpo del veterano anarchico Michail Khodounov venne buttato in mezzo alla strada.
Ricordando questi eventi ,Volin scrive nel suo libro "La rivoluzione sconosciuta":
"... La notte del 12 aprile sotto un falso e assurdo pretesto [i quartieri di] tutte le organizzazioni anarchiche a Mosca - e principalmente quelli della Federazione dei gruppi anarchici in quella città - sono stati attaccati e saccheggiati dalle truppe e dalle forze di polizia . Per diverse ore la capitale ha assunto l'aspetto di una città in stato d'assedio. Anche l'artiglieria ha preso parte all'azione ".
Questa operazione serviva da segnale per dare inizio alla distruzione delle organizzazioni libertarie in quasi tutte le città importanti della Russia. E come sempre le autorità provinciali superarono nello zelo quelli della capitale.
Leon Trotsky, che per due settimane aveva preparato il colpo, e che aveva effettuato di persona, tra i reggimenti, un'agitazione sfrenata contro gli "anarco-banditi", ebbe la soddisfazione di poter fare la sua famosa dichiarazione: "Finalmente il governo sovietico, con una scopa di ferro, ha ripulito la Russia dall'anarchismo ". 
Dopo la sconfitta della Guardia Nera a Mosca 500 anarchici verranno arrestati (alcuni verranno rilasciati poco dopo). Il distaccamento anarchico di Samara, che aveva assunto un ruolo attivo nella difesa dei raggruppamenti anarchici, è stato espulso dalla città.
Dzerzhinsky, capo della Ceka, commentando gli eventi, scrive sull'Izvestia del 15 aprile 1918:. "Noi, in nessun caso, avevamo in mente di combattere gli anarchici ideologici. E ora tutti gli anarchici ideologici, arrestati la notte del 12 aprile, vengono rilasciati, e se, forse, qualcuno di loro verrà assicurato alla giustizia, sarà solo per i crimini commessi da elementi criminali che si sono infiltrati nelle organizzazioni anarchiche. Ci sono assai pochi anarchici ideologici tra coloro che sono detenuti da noi .... ".
Gli eventi di Mosca segnarono l'inizio della repressione nelle province. Attacchi simili vennero effettuati a Pietrogrado, Vologda, Smolensk, Briansk e così via. La mattina presto del 12 aprile a Gorodets e a Nizhny Novgorod, province anarchiche guidate dal presidente del Soviet, Morev, si combatté contro gli attacchi dei bolscevichi. A Kursk, gli anarchici si ammutinarono e tennero la città dal 10 al 29 Aprile del 1918. Il 9 maggio, il Commissariato degli Affari Interni inviò una direttiva a tutti i Soviet delle Provincie: "L'esperienza di Mosca, di Pietroburgo e di altre città ha dimostrato che, sotto la bandiera degli anarchici si nascondono teppisti, ladri, rapinatori e contro-rivoluzionari, che si preparano segretamente a rovesciare il potere sovietico ... Tutte le guardie anarchiche e le organizzazioni di anarchici devono essere disarmate. Nessuno può avere un arma se non con il permesso dei soviet locali"(Izvestia 91, 10 Maggio 1918).
La Guardia Nera venne sconfitta  e, successivamente, dipinta come una banda di criminali. Venne fatta una distinzione, come abbiamo visto, tra "anarchici ideologici" e "anarco-banditi". Come Trotsky usava dire: "Erano solamente predoni e ladri che hanno compromesso l'anarchismo. L'anarchismo è un'idea, anche se un'idea falsa, ma il teppismo è teppismo e noi abbiamo detto agli anarchici: è necessario tracciare una linea netta tra voi e i ladri ... il regime sovietico ha preso il potere, non per saccheggiare come ladri e briganti di strada, ma per introdurre una disciplina di lavoro comune e una vita onesta di lavoro".
Trotsky ha continuato a mettere in guardia gli anarchici: "Se volete vivere con noi sulla base dei principi di una disciplina comune del lavoro, allora è necessario che vi sottomettiate a quella della classe operaia, ma se volete andare per la vostra strada, non date a noi la colpa se il governo del lavoro, il potere sovietico, si occupa di voi senza mettersi i guanti".
La rappresentazione di Trotsky dell'anarchismo criminale è un po' in contrasto con la realtà. I criteri di ammissione alla Guardia Nera erano molto rigorosi e l'arruolamento era mediato da vari organismi.
"L'accoglienza dei militanti nella Guardia Nera è fatto su indicazione di:
1) i gruppi locali, 2) Tre membri della Federazione, e 3) i comitati di fabbrica e laboratorio, 4) I distretti dei soviet.
E' stato chiarito che la Guardia Nera non può effettuare operazioni di polizia, come le Guardie Rosse (incursioni, arresti, ecc.) perché questo era prerogativa di quest'ultima. Per quanto riguarda la requisizione di case, queste requisizioni devono essere decise da una commissione speciale composta dai delegati dei gruppi locali."
D'altra parte la Ceka e l'Armata Rossa avevano la facoltà di arrestare senza essere controllati dai soviet, uccidendo arbitrariamente le persone riprese rinchiuse nelle loro celle, dopo che la pena di morte era stata abolita dal governo sovietico. L'azione contro gli anarchici non è stato effettuato da Guardie Rosse o da unità dell'Armata Rossa, che avrebbero rifiutato di partecipare a questi attacchi, ma da unità speciali controllate dai bolscevichi. Va inoltre notato che quando le unità della Guardia Rossa sono state formate in tutta fretta nel 1917, hanno incluso criminali e prigionieri di guerra tedeschi. Saccheggi, sono stata effettuati a Mosca nella primavera del 1918 da unità della Guardia Rossa e su mandato del cekisti, e se le unità della Guardia Nera non sono state irreprensibili, non erano sole in questo.

E' significativo che la sera dell'attacco agli anarchici di Mosca, Peters, il secondo in comando nella Ceka, mostrasse al diplomatico britannico Lockhart,  mentre giravano per le case anarchiche saccheggiate e distrutte, come i bolscevichi mandassero un messaggio alle potenze occidentali in cui dicevano di essere il partito dell'ordine, in grado di controllare e indirizzare la rivoluzione.
Notando una donna anarchica assassinata, distesa sul pavimento di uno dei palazzi, il collo trapassato dai proiettili della Ceka, si riferì a lei come ad una prostituta.

lunedì 10 ottobre 2011

anni ‘60

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Il Gruppo Primo Maggio (Movimento Internazionale Rivoluzionario di Solidarietà), un gruppo di azione costituito nel 1966 da ex membri del movimento anti-franchista 'Difesa Interna', consisteva principalmente di resistenti spagnoli, francesi, italiani e inglesi che si battevano contro i regimi di Franco e di Salazar.
La prima azione intrapresa dal gruppo fu il rapimento, portato a termine il 1° maggio del 1966, di monsignor Marcos Ussia, il consigliere ecclesiastico dell'ambasciata di Franco in Vaticano. Scopo del sequestro era quello di focalizzare l'attenzione dei media di tutto il mondo sulla situazione dei prigionieri politici di Franco.
Nel 2005, due dei membri principali del gruppo, Luis Andrés Edo e Octavio Alberola, vengono intervistati da Chloe Rosell sui loro ricordi riguardo quella particolare azione ...


venerdì 7 ottobre 2011

La lunga fuga

lungafuga

Nel marzo del 1942, un gruppo di soldati indiani di pattuglia sull'Himalaya rimasero sorpresi nel vedere quattro uomini vestiti di pelli di animali che camminavano in modo irregolare lungo un sentiero di montagna. I soldati si stupirono ancora di più quando i quattro sconosciuti che riuscivano a malapena a reggersi in piedi, stranamente incominciarono a ridere e a ballare, si abbracciavano e cantavano.
I quattro avevano un buon motivo per rallegrarsi: era arrivati alla fine di una "passeggiata" di oltre 7000 chilometri, da che erano partiti dopo essere scappati da un campo di concentramento sovietico in Siberia. L'odissea era durata ben 11 mesi.
Oggi, Witold Glinski è l'ultimo superstite di quell'odissea, che è considerata la più grande fuga di tutti i tempi..
Witold Glinski era un adolescente polacco che viveva nella città di confine di Glebokie, quando il suo paese venne invaso dall'Unione Sovietica, nel 1939. A quel tempo, i sovietici erano alleati con Hitler. Venne arrestato insieme con tutta la sua famiglia e poi separato dai genitori. Accusato di spionaggio per il nemico e portato in carcere alla Lubyanka, a Mosca. Aveva appena 17 anni quando venne condannato a 25 anni di lavori forzati in un gulag siberiano. Alla sua età, la sentenza era praticamente una condanna a morte. Witold cominciò a pianificare la sua fuga nel febbraio del 1941 quando fu trasferito al campo 303 di Irkutsk, che si trova 400 miglia a sud del Circolo Polare Artico.
Si offrì volontario per lavorare come boscaiolo, di modo da poter incidere dei sugli alberi, segni che indicassero la via a sud, verso la libertà. Nel frattempo, aveva fatto amicizia con la moglie del comandante del campo di prigionia, che gli chiese il favore di riparare la sua radio.
"Mi ricompensò con una tazza di tè ed una fetta di pane. Ma il regalo migliore fu che in cima ad una scrivania c'era una mappa dell'Asia".
Mentre beveva il tè, lentamente, Witold cercava disperatamente di memorizzare i dettagli della mappa. La moglie del comandante gli lesse in faccia quello che pensava, sapeva che i giovani cercano di fuggire.
"Poi disse: ti darò vestiti vestiti e scarpe comode.Mi regalò anche un pezzo di carne secca, calze pesanti e mutande lunghe."
Nella notte del 9 aprile 1941, nel bel mezzo di una tempesta di neve, prese il suo zaino che era solo una coperta legata agli angoli, e scavò un tunnel sotto la recinzione. Quando fu fuori dal campo, si rese conto che sei uomini lo avevano seguito, in complicità e silenzio.
"Dissi loro che dovevamo camminare almeno 20 ore al giorno, e se non gli garbava, avrebbero potuto sedersi e aspettare i russi.
Il clima era troppo ostile perché le pattuglie venissero a cercarci. L'obiettivo immediato era quello di lasciare la Russia. Il confine era a 1.600 km di distanza."
Per due notti di seguito corsero attraverso i campi, nascondendosi durante il giorno per mangiare e cercare di dormire un po'. Nessuno li inseguiva, la neve aveva coperto le loro tracce.
I sette fuggitivi stabilirono un sistema di marcia. Un uomo andava avanti, per aprire la strada attraverso il bosco, e due alla fine del gruppo cancellavano le tracce utilizzando dei rami di pino.
La prima volta che si sentirono in salvo. e riuscirono a riposare, fu dopo aver attraversato il fiume Lena, e quello fu anche il luogo dove mangiarono del cibo fresco, dopo nove giorni. Un pesce pescato dopo aver fatto un buco nel ghiaccio.
Non si conoscevano fra di loro. Non parlavano molto e avevano paura di fidarsi l'uno dell'altro.
Smith era un misterioso americano che aveva lavorato come ingegnere a Mosca. Batko era ucraino, ricercato per omicidio nel suo paese natale. Muscoloso e determinato. Zaro era il proprietario di una caffetteria in Jugoslavia e gli altri tre erano soldati polacchi.
Si resero conto che per sopravvivere dipendevano l'uno dall'altro, e Witold si fece carico gruppo. Cresciuto in una zona rurale del paese, aveva imparato quali piante e funghi erano commestibili, sapeva pescare e sapeva cacciare con le trappole.
Un giorno trovarono un cervo intrappolato in un burrone. Questo fornì loro cibo per diversi giorni e con la pelle dell'animale fabbricarono delle calzature rudimentali, dal momento che non potevano più sopportare il dolore causato dagli stivali che avevano dato loro in prigione.
Prima di raggiungere il confine con la Cina, si verificò un evento che rimane ancora vivo nella memoria di Witold. Lungo la strada incontrarono una giovane donna polacca di nome Kristina Polansk che era fuggito nei boschi a piedi nudi. Era terrorizzata, era in fuga dai russi che avevano ucciso la sua famiglia e avevano cercato di violentarla.
"Quando le ho controllato il piede sapevo che aveva la cancrena. Non volevo portarmi dietro una donna malata, ma cosa potevamo fare?"
Hanno fatto un paio di mocassini con la pelle di daino che avevano in abbondanza, e costruito una barella, con un paio di tronchi sottili e qualche erba secca, per il trasporto.
"Ma ogni giorno peggiorava. La sua gamba diventava nera e la sua pelle si spaccava a causa del gonfiore. Era una cosa terribile da vedere."
Attraversarono la linea ferroviaria Transiberiana vicino alla zona della Mongolia, dove Kristina purtroppo contrasse la peste. Si rifiutò di proseguire il viaggio, subito dopo chiuse gli occhi e morì.
Fu sepolta in una fossa poco profonda e il suo corpo coperto di pietre. Per la prima volta piansero tutti insieme, come compagni.
Gradualmente il paesaggio cambiava, i campi e le foreste cominciarono a cedere il passo alle dune di sabbia e alla nuda roccia, e temperature di 40 º C durante il giorno, ed il congelamento la notte. Devastato dalle tempeste di sabbia, era il deserto del Gobi che copre la parte meridionale della Mongolia e parte del nord della Cina.
"Camminavamo di notte, i vestiti a brandelli, sostenendoci con dei bastoni", dice Witold. "I lupi e gli sciacalli facevano cerchio intorno a noi."
"Per bere, succhiavamo la brina dalle pietre, al mattino. Eravamo così assetati che abbiamo anche bevuto il nostro sudore e la nostra urina".
Erano disperati, e la fame li tormentava, ma presto si resero conto che il deserto era pieno di serpenti e si mise a catturarli con i loro bastoni. Era un'attività intensa, perché si nascondevano nella sabbia e per seguirli, gli uomini si disidratavano. Quando arrivavano a prenderne uno, gli tagliavano la testa, poi gli toglievano la pelle ed il midollo spinale, per paura di veleno. Poi lo tagliavano e lo bollivano in pochissima acqua, perché non ne avevano. Quelli che all'inizio non volevano mangiare un serpente, con il passare dei giorni non ebbero scelta.
I due soldati polacchi cominciarono a sentirsi male e benpresto mostrarono sintomi di scorbuto. Morirono in poco tempo.
"Cercarono di tenere il nostro ritmo, ma camminavano sempre più lentamente, le gambe erano gonfie e potevano facilmente rimuovere i denti con le dita. Sono morti tutti e due lo stesso giorno. Quando abbiamo finito di seppellire il primo, il secondo era praticamente morto."
Nell'ottobre del 1941, sei mesi dopo l'inizio della fuga, attraversavano il Tibet, dove aiutarano gli agricoltori e i pastori, in cambio di cibo e di riparo. Il passo successivo fu quello di scalare l'Himalaya che reclamò la sua vittima. Un altro soldato polacco morì dopo essere caduto in un profondo crepaccio.
Nelle ultime due settimane di marcia, Witold era molto debole e malato e mantiene solo frammenti di ricordi vaghi, e delle immagini. Ricorda che i capelli erano cresciuti così tanto che li usava come una sciarpa durante la notte.
I rudimentali mocassini di pelle lo avevano protetto dalla neve e dalla sabbia del deserto, e anche se laceri, i pantaloni ricevuti in carcere avevano durato.
Uno sherpa locale si impietosì, vedendoli così malconci e malridotti, e li guidò attraverso le montagne, lungo sentieri così stretti che dovevano camminare di lato per evitare di cadere nei dirupi, fino ad una pista vicina a quello che oggi è il Bangladesh .
Witold ricorda ancora che era una strada ripida e polverosa, passarono diversi giorni senza mangiare e non riuscivano a stare in piedi. Videro un veicolo militare che si avvicinò e poterono distinguere degli uomini in divisa, armati di coltelli, dall'aspetto terribile.
"mi dissi che questa era la fine! Poi mi resi conto che queglii uomini erano ben vestiti, ben disciplinati, non erano certo russi."
In realtà erano Gurkhas, che diedero loro un'accoglienza molto "british", una caraffa di tè e un piatto di sandwich al cetriolo, e poi li trasferirono in un ospedale di Calcutta. Il lungo viaggio era finito.
La fuga più lunga nella storia era stata completata dopo undici mesi di cammino e aveva coperto una distanza di 4500 miglia, più di 7000 km.
Per Witold Glinski, però, questa non fu la fine della guerra, perché quando arrivò in Gran Bretagna si unì ai resti delle truppe polacche che parteciparono allo sbarco in Normandia, dove ricevette anche una pallottola in combattimento.
Nel 1956, a guerra finita, venne pubblicato in Gran Bretagna il libro "The Long Walk" scritto dal polacco Slawomir Rawicz, che in breve divenne un bestseller in tutto il mondo. In questo libro, Rawicz si fa passare per uno dei sopravvissuti, ma poi si scoprì che aveva avuto accesso a documenti ufficiali e agli interrogatori dei protagonisti, in modo da plagiare la storia.
Witold sapeva c he la sua storia era stata rubata, ma non si lamentò mai perché voleva dimenticare la guerra e concentrarsi sulla sua vita attuale. Si era sposato e lavorò alla costruzione di autostrade, prima di andare in pensione.

Camminarono per più di 7000 km, dal campo di lavoro di Irkutsk fino a dove ora è il Bangladesh. Attraversarono da nord a sud quasi tutta l'Asia. Per dare un'idea percorsero a piedi la stessa distanza che separa New York da Parigi, la stessa distanza che c'è da Madrid a L'Avana, a Cuba, o da Buenos Aires a Città del Messico.

fonte: http://www.sentadofrentealmundo.com/2010/06/el-escape-mas-largo-de-la-historia.html#ixzz1ZK8Uihmj

giovedì 6 ottobre 2011

Mezzanotte

ElUltimoMinuto

L'Ultimo Minuto. Un "corto", solo 6 minuti e 51 secondi. Documentario "agit-prop" fatto dal Sindacato dell'Industria dello Spettacolo (SIE) della CNT. Meno di 7 minuti per mettere sullo schermo la natura della guerra di classe che si combatteva in Spagna. Meno di 7 minuti per chiamare alla solidarietà rivoluzionaria e per chiedere supporto alle colonne di miliziani sul fronte aragonese.

 

mercoledì 5 ottobre 2011

I Selvaggi

holister2

Si era alla fine della seconda guerra mondiale, e la cittadina di Hollister, California, aveva una popolazione stimata di 4.500 abitanti. Era un insediamento prevalentemente agricolo, molto accessibile per via delle innumerevoli strade che vi conducevano, ampie possibilità di campeggio, sentieri escursionistici ed una pista sterrata, alla periferia della città. Fin dal 1930, era stato teatro di popolari gare motociclistiche popolari, promosse dalla American Motorcyclist Association (AMA). Questi eventi che vedevano la partecipazione di centinaia di spettatori in quanto si correvano ogni 4 luglio, divennero sempre più popolari tra i motociclisti. Col passare del tempo, le gare divennero così importanti per Hollister che in breve acquisirono più popolarità delle sue fiere del bestiame e del rodeo. Le gare furono sospese solamente per la durata della seconda guerra mondiale. Poi, nel 1947 vennero nuovamente organizzate, ed i commercianti locali ne furono felici dal momento che pensavano potesse essere una fonte importante di reddito in grado di rilanciare l'economia locale.
Finita la guerra, molti ex soldati, una volta tornati, decisero di stabilirsi in California. Godevano tutti di una buona pensione per aver prestato servizio nell'esercito, ma ben presto si resero conto che non avevano niente per cui spendere i loro soldi. Fu allora che ci fu un grande boom per l'acquisto di moto tipo "chopper". Un buon modo di passare il tempo sulle ampie assolate autostrade della California.
Questi veterani formarono piccoli club di motociclisti, dai nomi come "La lepre", "I 13 ribelli" o "I giubbotti gialli". Indossavano giacche di pelle, jeans, beveva, andavano alle feste tutti insieme e non c'erano problemi tra i vari gruppi. Non c'era nessun senso di territorialità o di rivalità tra di loro.
Ben presto i prezzi elevati del carburante costrinsero questi motociclisti a mettere in mostra le loro moto solo in città, evitando lunghi viaggi. Per questo motivo l'AMA si diede ad organizzare competizioni ufficiali e ad organizzare gite motorizzate, in carovana, per città e paesi.
Una mattina di luglio, era di Venerdì, e l'anno era il1947, migliaia di motociclisti arrivarono a Hollister. Avevano viaggiato da città come San Francisco, Los Angeles e San Diego, ma qualcuno era venuto da più lontano, da posti come la Florida e come il Connecticut. Già dalla notte, San Benito Street, la strada principale, era stata letteralmente invasa dalle motociclette.
Per evitare che gli abitanti del villaggio fossero sommersi dalla folla di estranei, i sette uomini del Dipartimento della Polizia di Hollister avevano bloccato la Main Street da entrambi i lati.
In un primo momento, i 21 fra bar e taverne di Hollister avevano accolto i bikers a braccia aperte. Era stato un bel gesto, ma quando si resero conto che era troppo tardi perché quelli avevano preso possesso dei locali, con marciapiede e tutto. I proprietari del bar si resero rapidamente conto che non avevano bisogno di invitarli a spendere, quindi, seguendo il consiglio della polizia, accettarono di chiudere i loro esercizi due ore prima rispetto al normale. Infatti, una delle misure doveva essere quella di smettere di vendere birra mezz'ora prima della chiusura perché pensavano che i motociclisti, fedeli al loro bevanda schiumosa, non si sarebbero messi a bere superalcolici. Si sbagliavano.
Dalla sera di Venerdì fino alla mattinata della Domenica , l'attonita polizia di Hollister (e gli sconcertati abitanti), furono testimoni di uno spettacolo mai visto prima da quelle parti.
In totale, tra i 50 e i 60 motociclisti vennero curati, per lesioni e ferite, nel piccolo ospedale locale, dove vennero anche arrestati. La maggior parte delle accuse riguardavano reati minori come l'ubriachezza pubblica, la condotta disordinata e la guida spericolata. L'arresto durò poche ore proprio perché erano violazioni minori, nessuno era morto e nessuna proprietà era stata distrutta, non c'era stato nessun incendio e nessun saccheggio, e i bar e le taverne non avevano subito alcun danno.
La domenica del 6 di luglio arrivarono 40 uomini della California Highway Patrol e cominciarono a disperdere i motociclisti con la minaccia di usare la forza ed i gas lacrimogeni. Andarono via tutti, tranquillamente, e la piccola cittadina torno alla normalità di sempre.
Fu il San Francisco Chronicle a prendersi cura di raccontare il weekend "selvaggio" di Hollister, anche se in realtà non c'era molto da raccontare. Le storie che pubblicò alzavano titoli sensazionalistici quali "Hollister devastato" e "disordini e caos", e ancora "I motociclisti si prendono la città ". La situazione peggiorò quando la rivista Life pubblicò una fotografia a tutta pagina di un corpulento, motociclista ubriaco che si dondolava su una Harley con una bottiglia di birra per mano.
A questo punto, l'Associazione dei Motociclisti si fece avanti e dichiarò che se c'era stata anarchia nel fine settimana, questa era stata causata da un piccolo gruppo di motociclisti indesiderabili che non superavano l'1% dei partecipanti. Dissero anche che erano state ingiustamente generalizzate le accuse, e l'Associazione si offrì di pubblicare i nomi dei rivoltosi. Ma era troppo tardi, il danno era stato fatto e grazie a questi comunicati stampa oramai i motociclisti erano stati marchiati a fuoco per tutte le generazioni future.
Beh, come sapete, con il passare del tempo rende sempre più difficile separare il mito e la realtà.
Per Hollister non doveva poi essere stato così grave, dal momento che la città continuò a permettere all'AMA di promuovere la corsa, e solo cinque mesi dopo i bar e le taverne ripresero felicemente a ricevere e a servire i bikers assetati.
Ma, naturalmente, Hollywood non poteva mancare l'occasione di drammatizzare gli eventi di quel fine settimana a Hollister. Il film fu The "Wild One" (Il Selvaggio), interpretato da Marlon Brando nel 1954, che mostrava "tutti i motociclisti" come un'orda di ubriachi disadattati e di sociopatici temuti in tutti i paesi e città degli Stati Uniti.
Ironia della sorte, dopo questo film, solo Hollister continuò ad accogliere i motociclisti e, di più, a promuovere gli eventi che li portassero in città.

holister

fonte: http://www.sentadofrentealmundo.com/search?updated-max=2010-07-21T13:50:00-07:00&max-results=2#ixzz1ZKXvsyuZ

martedì 4 ottobre 2011

i tempi sono cambiati!

dylanchina

Quando Bob Dylan dà il suo primo concerto nella Repubblica popolare cinese, il 5 aprile 2011, su richiesta del Ministero della Cultura, il pubblico che accorre al concerto va a vedere Bob Dylan, dal vivo, ma le parole che gli sente pronunciare non sono necessariamente sue.
In molte delle sue canzoni, è riuscito a mettere insieme le frasi di altri scrittori. Uno che ammira molto, e che spesso ha citato, è ben inscritto dentro "Tangled up in Blue". Già, fin dal giugno del 1945 le parole "…keep on keeping on…" George Orwell le aveva scritte in una lettera inviata al "Partizan Review" di Londra. Orwell era allora una sorta di cantautore, solo che non lo sapeva. Ci si potrebbe benissimo fare un'opera da "La Fattoria degli Animali"! Ed un gustoso musical, da "La Strada di Wigan Pier".
In altri campi di "produzione culturale", ci si aspetterebbe che le persone accreditino e ci informino circa le loro fonti. Invece, nel business della musica moderna, è incredibile quello che ottiene credito. E se qualcuno si è costruito una reputazione pubblica sostenendo i diritti umani non dovrebbe volerla macchiare accettando di esibirsi in concerto in un paese che ignora i diritti civili di tanti. Dovrebbe accettarlo ancora meno se il motivo ufficiale, dichiarato dai 'burocrati dalla testa di serpente', fosse quello di fornire un'immagine moderna attraverso il  recupero del nome di un cosiddetto cantante di protesta che una volta cantava "Desolation Row" e "Times they are changin", ma che le esclude dal concerto in questione.
Almeno, i commentatori di un paese vicino sono stati abbastanza sinceri da dire che Dylan è interessante ma non pertinente al moderno Viet Nam.

lunedì 3 ottobre 2011

Se non è vero, è ben trovato!

picasso

Pablo Picasso non stava certo passando uno dei migliori periodi della sua vita, quando, nel maggio 1937, si apprestava a dipingere "Guernica". La guerra civile stava distruggendo la Spagna e la seconda guerra mondiale era alle porte dell'Europa. L'insistenza del governo di Negrin lo spinse ad accettare la richiesta per il padiglione spagnolo all'Esposizione internazionale di Parigi.
"Se riusciamo ad ottenere un Picasso, col corpo e con l'anima, l'impatto sarà maggiore di una battaglia vinta contro i fascisti, al fronte", queste le parole attribuite all'ultimo presidente della repubblica spagnola. Non si sbagliò. L'impatto provocato dal murale, alto 3 metri e 49 centimetri e lungo 7 metri e 76, fu enorme. Ancora oggi, a più di trent'anni dal suo arrivo in Spagna, il 10 settembre 1981, continua a fissarsi nella retina dei nostri tempi.
Ma Guernica e il suo simbolismo, su cui mai Picasso volle pronunciarsi, continua a sollevare interrogativi, speculazioni e indagini. L'ultima, la propone lo spagnolo Jose Luis Alcaine, fotografo che ha lavorato in film come "La pelle in cui io vivo" di Pedro Almodovar, asserisce che la principale ispirazione per Picasso provenne proprio dal cinema. In particolare, da una sequenza, lunga poco più di cinque minuti, del film "Addio alle armi" di Frank Borzage, un dramma antibellico ispirato al romanzo di Ernest Hemingway, che venne proiettato a Parigi nel 1933 e che, fotogramma per fotogramma, suggerisce sorprendenti analogie con le figure principale del quadro.
Il film di Borzage, e non "La fucilazione del 3 maggio", di Goya, né "La strage dei santi innocenti" di Rubens!
In un lungo articolo pubblicato sulla rivista specializzata "Cameraman", Alcaine rivela i dettagli di uno studio cui ha lavorato per mesi. La sequenza in bianco e nero, racconta l'esodo notturno di militari e civili lungo una strada bombardata dall'aviazione.
"Avevo visto "Addio alle armi" alla fine degli anni sessanta. Ma fu anni dopo, quando l'ho rivisto in video a casa mia e saltai sulla poltrona  alla sequenza della strada: era Guernica!", spiega. A prima vista, ci sono tre immagini che ci portano al quadro: la mano bianca dalle grosse dita, nel fango , i cavalli slabbrati e la donna che grida al cielo.
"Cominciai allora ad arrovellarmi, era il 2006. Nel 2007 ho girato cinque film e ho parcheggiato l'idea. Non avevo tempo per niente. Ma da allora ho lavorato solo ne "La pelle in cui vivo". Così, ho trovato il tempo per ottenere la sequenza, fotogramma per fotogramma, e studiarmela." Alla mano bianca e alla donna che grida al cielo si aggiungeva la cornice vuota di una porta, un carretto pieno di oche bianche, le gambe dei cavalli, una madre che stringe il suo bambino come una "pietà", un uomo disteso nel fango con la braccio teso e le fiamme, incorniciate alla sinistra di un fotogramma infernale.
E 'stata già sottolineata l'influenza della "Corazzata Potemkin" (1925) nel cubismo di Picasso, ma non un film che venne accolto male in Europa, perché la sua stella, Gary Cooper, disertava per amore, e non per onore. Nel romanzo, Hemingway dedica 80 pagine alla fuga del personaggio, e alla fine la sua diserzione non avveniva per gettarsi fra le braccia di una donna, ma a causa degli orrori della guerra. Lo scrittore odiava il film. "La sequenza della strada è strana: c'è una grande influenza del cinema sovietico, con persone incatenate dappertutto. E 'un film di Hollywood con un momento espressionista che non ha nulla a che fare con il resto della pellicola.."
Una visione frammentata e violenta che avvolge una specie di collage di personaggi. "Un collage che ha molto del montaggio cinematografico, di piani e di primi piani", precisa Alcaine.
Nel 1937, quando Picasso dipinse il murale, "Addio alle armi" era ancora in cartellone. "Il sistema di distribuzione allora faceva sì che i film rimanessero fino a sei anni nelle sale. Evidentemente, Picasso lo aveva visto, non solo per la sua amicizia con Hemingway - li aveva presentati Gertrude Stein - ma perché allora si andava tanto al cinema, era "il grande Spettacolo", ed era anche un modo per documentarsi sulla realtà. Inoltre, ci fu allora una polemica per il lieto fine della pellicola. Insomma, non se lo poteva perdere."
Alcaine sottolinea che la sequenza avviene durante la notte, come nel quadro, mentre il bombardamento di Guernica era avvenuto in pieno giorno. "Ma anche nel quadro c'è un chiaro movimento da destra a sinistra, uguale a quella che compiono i personaggi nel film." Quella strada infernale riprodotta nella pellicola segue lo stesso inferno e lo stesso movimento. "Ma attenzione", puntualizza, "la coincidenza si vede a partire dai caretteri statici. È quando si ferma l'azione che riconosciamo il film come parte integrante del quadro."
Un altro dato sorprendente è che gli animali che compaiono nella sequenza della strada siano cavalli e oche. Entrambi sono presenti nel murale. Per il toro, il direttore della fotografia ha una sua interpretazione: "Questa figura, una notte mi ha fatto saltare dal letto e mi ha fatto correre al computer, era l'ultimo punto irrisolto della mia teoria. Verso chi guarda il toro? Non guarda noi. L'ispirazione. L'ho confrontato con "Las Meninas" e ho visto nel toro lo stesso sguardo di Velázquez. Il toro, come qualcuno ha suggerito, non potrebbe mai essere Franco. Il toro è un animale nobile e Picasso stesso aveva già rappresentato se stesso come animale. Egli sta sullo stesso piano, come Velázquez in "Las Meninas", un dipinto, che come accade a tutti coloro che sono ossessionati dalle immagini, lo ossessionava".
Alcaine poi ride e riassume la sua scoperta con un detto italiano:
"Se non e vero, è ben trovato".

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