giovedì 12 maggio 2011

Gracias a la Vida

baron

Era l'8 Luglio del 2008, quando Antonio Garcia Baron, l'ultimo sopravvissuto della Colonna Durruti, rilasciò questa intervista comparsa su http://news.bbc.co.uk/2/hi/americas/7420469.stm. Ignoro se sia ancora vivo, se sia ancora nel villaggio di San Buenaventura (curioso che sia finito proprio in un posto con quel nome), nel cuore dell'Amazzonia boliviana. Non sono passati nemmeno tre anni, da allora, e, tutto sommato, di anni, oggi ne avrebbe solo 90, ragion per cui potrebbe benissimo essere vivo, come spero. E invece - leggo ora, che ne ho facoltà - è morto, il 17 novembre del 2008, pochissimi mesi dopo l'intervista.

Antonio Garcia Baron - racconta l'intervistatore - indossa un cappello e porta occhiali da sole molto scuri. "Per proteggere gli occhi", spiega, aggiungendo che sono stati danneggiati, in qualche modo, da del veleno, in un caffè bevuto nove anni prima: l'ultimo di più di cento attentati alla sua vita, da quando si era trasferito a Parigi, nel 1945, dopo cinque anni nel campo di concentramento di Mathausen, e fino ad allora, in Bolivia.
 
"La stampa spagnola ha coperto il fatto che la Chiesa Cattolica ha causato la morte di due milioni di repubblicani, durante la guerra civile, e non di un milione, come essi sostengono" esordisce Baron, prima di lanciarsi in uno dei suoi aneddoti.
"L'ho detto personalmente a Himmler (il capo delle SS naziste), quando venne a visitare la cava di Mauthausen, il 27 aprile 1941, che (i nazisti) facevano una gran bella coppia insieme alla Chiesa.
"Mi ha risposto che era vero, ma che dopo la guerra avrebbe voluto vedere tutti i cardinali, con il Papa in testa, marciare a Mathausen, e mentre che lo diceva indicava il camino del forno crematorio".
Su muro della casa del signor Baron c'è una foto di lui scattata nel campo di concentramento. Accanto ad essa, un triangolo blu con il numero 3422, e la lettera "S" che contrassegnava i prigionieri considerati apolidi.
"La Spagna mi ha portato via la mia nazionalità quando sono entrato a Mauthausen, volevano che i nazisti ci sterminassero in silenzio. Il governo spagnolo attuale si è offerto di restituirmi la cittadinanza, ma perché dovrei mai chiedere indietro qualcosa che mi è stato rubato insieme ad altri 150mila?" aggiunge con rabbia.

Baron arriva in Bolivia, su consiglio del suo amico, lo scrittore anarchico francese Gaston Leval.
"Gli chiesi di indicarmi un luogo scarsamente popolato, senza servizi come acqua ed elettricità, dove la gente vivesse come 100 anni fa. Questo perché dove c'è civiltà ci  trovi dei preti."
Circa 400 persone, per lo più indiani Guarani, vivevano allora qui, ma in realtà anche un preto tedesco.
"Era un osso duro. Appena saputo del mio arrivo disse a tutti che ero un delinquente. Si facevano il segno della croce e scappavano ogni volta che mi vedevano, ma due mesi dopo cominciammo a parlare e si resero conto che ero un brava persona, così che la cosa gli si ritorse contro."
Convinto che il sacerdote lo spiasse, qualche anno dopo decise di andarsene e creare un mini-stato anarchico nel mezzo della giungla, a 60 km e tre ore di barca da San Buenaventura lungo il fiume Quiquibey.
Con lui, sua moglie boliviana, Irma, che ora ha 71 anni.
Allevavano polli, anatre e maiali e coltivavano riso e mais che poi portavano due volte l'anno al villaggio in cambio di altri prodotti, sempre rifiutando i soldi.
La vita era dura e pochi anni fa Baron ha perso la mano destra in uno scontro con un giaguaro.
Per i primi cinque anni, fino a quando non hanno iniziato ad avere figli, sono stati soli. Poi, più tardi, è arrivato un gruppo di circa 30 indiani nomadi, ed hanno deciso di fermarsi, cacciando e pescando per vivere.
"Abbiamo goduto della libertà in tutti i sensi, nessuno ci chiedeva niente, o ci diceva di non fare questo o di non fare quello", racconta, mentre sua moglie sorride, seduto su una sedia.
Recentemente, sono dovuti tornare al villaggio, per motivi di salute e per essere più vicini ai loro figli. Vivono con una figlia, di 47 anni, mentre gli altri loro tre figli, Violeta, di 52, Iris, di 31 e Marco Antonio, di 27, vivono e lavorano in Spagna.
Essi condividono le poche semplici camere, disposte intorno ad un patio interno, anche con tre medici cubani che fanno parte di un contingente inviato per aiutare a fornire cure mediche in Bolivia.
Le ore passavano ed era ora di riprendere il piccolo aereo per tornare a La Paz prima che la pioggia torrenziale isolasse di nuovo l'aeroporto.
Solo allora, quando il tempo stava per scadere, Baron ha cominciato a parlare in dettaglio di Mauthausen e della guerra - come se volesse mantenere una promessa fatta ai compagni caduti.
Di come i nazisti gettassero da una rupe i prigionieri, di come alcuni di loro si aggrappavano alla rete metallica per sfuggire alla morte inevitabile, di come gli ebrei siano stati i destinatari di un trattamento duro e di come non sopravvivessero a lungo.
La sua memoria lo riportò anche a Dunkerque, dove era arrivato nel 1940, prima che fosse catturato ed imprigionato a Mauthausen.
"Arrivai la mattina, ma la flotta britannica era a più di 6 chilometri dalla costa. Chiesi ad un giovane soldato inglese se sarebbero ritornati."
"Vidi che stava mangiando, un cucchiaio in una mano, mentre sparava con un cannone antiaereo con l'altra," ride.
"'Mangia tranquillamente', gli dissi. 'Sai come usarlo?' mi chiese, dal momento che non indossavo l'uniforme militare ed ero molto giovane.
"'Non ti preoccupare,' gli dissi. Mi posizionai al cannone e abbattei due aerei. Rimase esterrefatto.
"Non dimenticherò mai la determinazione dei combattenti inglesi su quella spiaggia."

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