giovedì 27 agosto 2009

Isambard Kingdom Brunel




I. K. B. (1806-1859)

Ingresso: uno scellino. Nella tetra luce dei fanali a gas i turisti accalcati
fissavano gli operai: seminudi, animaleschi, a otto metri di profondità
nel Tamigi. Mille mattoni al giorno a testa, fino alle ginocchia immersi
in acqua fetida. In quel tunnel più d'uno rimase accecato.
Eppure, in testa al turno più lungo, il demiurgo in persona:
trentacinque ore e mezza.

Una patina nera sul palato, nei polmoni: vertigini, vomito, collasso cardiaco.
Infine il battesimo delle strutture: un banchetto in fondo al fiume,
cinquanta ospiti d'onore. Le volte drappeggiate di raso color scarlatto.
Le Coldstreams Guards suonavano in gran gala. Brindisi alla regina.
Un melodramma tecnologico. Poi l'irrompere dell'acqua: panico!

Un vortice tuonante ... L'effetto fu grandioso. I flutti s'innalzarono
fino al collo. Dopotutto fu un godimento! (Ci furono sei morti).
Crisi, sedute ministeriali, sbraiti in consiglio d'amministrazione.
Poi la fame lo sommerse. Ogni catastrofe una vittoria. Ogni
vittoria una catastrofe. Una tale forza di volontà ce l'ha solo chi annega.

Il grande ingegnere era piccolo di statura: un neurogigante.
Maniaco mattiniero. Cinquanta sigari al giorno. Da un progetto
all'altro sfrecciava nel suo calesse nero, poggiava piede in terra,
malinconico, un distruttore, patito delle Ecloghe virgiliane, e gridava:
Non mi serve gente che dica la sua. Mi servono strumenti!

Nella sua stanza da bambino carillons e automati, poi meccanismi
d'orologeria e piallatrici. I margini d'errore devono decrescere quotidianamente:
è il benedicite di suo padre. Macchinari tanto precisi che in essi
la riflessione ragionevole pare felicemente accoppiarsi
alla leggiadra certitudine dell'istinto.

All'età di sei anni lo colse la Sfortuna, mai dimenticata,
mai chiamata per nome: il vecchio, fallito, in prigione.
Da allora la sua ragione si lanciò allo sbaraglio. Il capitale delle mie imprese:
cinque milioni di sterline. Non male per un trentenne ...
A dir vero, oggi sono qualcuno. (Sempre questo logorante dubbio).

Bacini a secco, chiuse, colossali viadotti: prodigi assai maggiori
delle piramidi egizie, degli acquedotti romani, delle cattedrali gotiche.
Indubbiamente. Eppure i pilastri dei ponti erano adorni di rosoni
e, meditabonde sugli ancoraggi dei cavi portanti,
due sfingi si lanciavano sguardi di pietra da un lato all'altro dell'abisso.

Febbre ferroviaria. Roso da megalomania: nessuno scartamento
è abbastanza largo per lui. Dinosaurici locomotori. Una giungla
di commissioni e sottocommissioni. La sua stazione se la costruisce da sé:
Paddington, un palazzo di cristallo. Nelle navate laterali
ornamenti moreschi. Le consuete grida di giubilo. Infastidito

ora se ne torna a casa. Il calesse è tappezzato di seta nera.
Specchi veneziani, grandeur à la mode. Fredda e isterica
Mary Horsley. Un po' di Chopin. Balli e sciarade. Pelle d'oca:
La professione è l'unica moglie adatta per me. A volte
una visita di Mr. Babbage, ospite taciturno.

Oro: una notte ingoia una moneta. Prossimo all'asfissia
inventa un apparecchio e vi si fa connettere;
la forza centrifuga gli espelle la sovrana dalla gola.
Iperprogettistica: il motore ad acido carbonico, ferrovia atmosferica:
treni risucchiati in declivio su ventose di cuoio. Voli pindarici.

I cargo da tè sull'Avon hanno issato il gran pavese.
Fanfare e mortaretti. La riflessione ragionevole
si tappa le orecchie. Minuscolo punto nero in un cesto
egli saetta appeso alla fune sul baratro. SOlitario lemmo nello spazio!
(Leggiadra certitudine dell'istinto). Oh ebbrezza! Oh vertigine!

Metastasi dell'impero, sommosse indiane, guerre d'oppio e di Crimea:
ospedali militari volanti per Florence Nightingale, l'ingegnere
della carità. Ogni catastrofe una vittoria. Gli ammiragli sono incapaci;
se mi offrissero un contratto per conquistare Kronstadt,
fonderei una società per azioni e vincerei la battaglia.

L'ultima avventura furono le navi: ciascuna grande il doppio
della precedente. Ciò che non si era mai visto prima, diventa oggi norma.
Assemblaggio, propulsori a elica, ruote a pali cicloidali, albero a gomiti
forgiato in un unico pezzo, quaranta tonnellate. Sei volte più grande
di qualunque mezzo che avesse mai solcato i mari: il Great Eastern.

Mezzogiorno e mezzo. Lassù in alto, eccolo, in cima alla piattaforma.
Si annoia. Un segnale di bandiera e i martelli da fucina
tranciano i cuori dell'invasatura. Gli argani a vapore gemono,
le catene sferragliano, un sospiro, un rumore come un interminabile rullo di tamburi,
un rombo sordo nello scafo di ferro, un urlo, il pavimento trema,

la nave si mette in moto. Un bracciante irlandese addetto
alle ancore di nome O'Donovan, afferrato dalla manocella dell'argano,
squarciato, scagliato in cielo. Strano, con quanta lentezza il morto veleggia
sulle teste della folla! Sembra librato in volo. Tremila
curiosi, e nessuno lo nota. Poi si mette a piovere.

Leviathan doveva inizialmente chiamarsi, il Mostro. Hobbes,
o Giobbe? Dopo il varo vennero i falegnami, dopo i falegnami
sciami di tappezzieri sui ponti e di pittori paesaggisti.
Luxus necesse est: Tutti i geni della scienza sui pannelli!
E nel salone da ballo istallarono un pianoforte in bois de rose.

L'ultimo penny fu speso per la nave. La rovina, la rovina! Una liberazione!
Lo tirarono fuori da una botola della stiva, il giorno prima del viaggio inaugurale,
paralizzato a metà. L'ultima foto lo mostra davanti alla catena di un'ancora.
Sono enormi le maglie di ferro. Lui parrebbe in abito di lutto.
Un po' Chaplin e un po' forzato di galea: un pessimista in cilindro.

Molte vittorie e molte catastrofi dopo, nell'autunno dell'ottantotto,
quando l'avevano ormai quasi dimenticato e Nietschze stava avviandosi a Torino,
il suo ultimo viaggio, si sarebbero, pare, trovati tra i rottami del Great Eastern
due scheletri neri, quello di un inchiodatore e del suo apprendista.
Ma gli storici dicono, scrollando le spalle: sono tutte leggende.


H.M. Enzensberger - Mausoleum -

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