venerdì 22 agosto 2008

sui muri di san frediano

scavando ...



Joseph Déjacque nasce in Francia nel 1821, partecipa materialmente alla rivoluzione e all’insurrezione operaia del 1848, e a quella del 1849 contro la nomina di Luigi Napoleone a presidente.
Marinaio, operaio decoratore e poeta, viene ripetutamente arrestato. Il 22 ottobre 1851 è condannato a due anni di galera per l’insieme delle sue poesie: “Les Lazaréennes” e “Fables et poésies socialistes”, appena pubblicate a Parigi.
Fugge a Londra, poi a New York, dove pubblica nel 1854 un opuscolo su “La Question Révolutionnaire”, di intonazione anarchica. A New Orleans scrive “L’Humanisphère” (1856-58).
Nel 1858 si stabilisce a New York e pubblica la sua Utopia in un giornale quasi interamente redatto da lui: “Le Libertaire. Journal du mouvement social”, che esce dal 9 giugno 1858 al 4 febbraio 1861. Cura lui stesso la piccola, ma non infima diffusione del giornale, lavora per campare, è poverissimo e malato.
Dappertutto, anche nel socialismo, vede autoritarismo.
Torna sfinito a Parigi, forse in preda a un crollo psichico.
Muore in circostanze misteriose (forse suicida) nel giugno 1867.
Fautore della “legislazione diretta” con una maggioranza variabile a seconda dei diversi argomenti, anarcosindacalista ante litteram, paladino di una liberissima “communauté anarchiste”, influenzerà dopo un secolo di silenzio l’immaginazione dell’Internazionale Situazionista.

Avanti tutti! E con le braccia e con il cuore, la parola e la penna, il pugnale e il fucile, l’ironia e la bestemmia, il furto, l’avvelenamento e l’incendio, facciamo la guerra alla società!”. (Joseph Déjacque)

giovedì 21 agosto 2008

Questa Terra è di Ciascuno



Il nostro paese
di John Mellencamp

Posso stare fianco a fianco
Di chi lotta per ideali che ritengo giusti
E posso stare fianco a fianco
Di chi ritiene dover stare in piedi e lottare
Credo
Ci sia un sogno per ciascuno
Questo è il nostro paese

C'è abbastanza spazio qui
Per la scienza della vita
E c'è abbastanza spazio qui
Per la religione del perdono
E per provare a capire
Tutta la gente di questa terra
Questo è il nostro paese

Dalla costa orientale
Fino alla costa occidentale
Giù per la Dixie Highway
e indietro fino a casa
Questo è il nostro paese

La povertà potrebbe essere
Solo un altra brutta cosa
E il bigottismo potrebbe essere
Visto solo come un'oscenità
E quelli che governano questa terra
Potrebbero aiutare il povero e l'uomo comune
Questo è il nostro paese

Dalla costa orientale
Fino alla costa occidentale
Giù per la Dixie Highway
e indietro fino a casa
Questo è il nostro paese

Il sogno è ancora vivo
E un giorno si avvererà
E questo paese appartiene
A gente come me e voi
Quindi lasciate che la voce di libertà
Canti sgorgando da questa terra
Questo è il nostro paese

Dalla costa orientale
Fino alla costa occidentale
Giù per la Dixie Highway
e indietro fino a casa
Questo è il nostro paese

Dalla costa orientale
Fino alla costa occidentale
Giù per la Dixie Highway
e indietro fino a casa
Questo è il nostro paese

mercoledì 20 agosto 2008

lucidità



"Il socialismo, mantenendo le forme, il nome, gli schemi delle argomentazioni, - tutto il frasario di Marx - ha ridotto la sua negazione della società borghese a un elemento di riforma nella società borghese, volto a scopi più o meno particolari e materiali: più o meno mite, a seconda che più o meno i capi del partito avevano bisogno della società borghese e, approfittando della forza che loro concedeva il partito, ambivano a un posto in quella. Così che in Francia il socialismo è giunto al governo, in Germania ha creato una classe benestante più borghese dei borghesi, in Italia... dell'Italia è pietoso tacere".

(Carlo Michelstaedter, "La Persuasione e la Rettorica", 1910)

martedì 19 agosto 2008

lamento





Jerry Douglas, un chitarrista e suonatore di dobro, nato nell'Ohio ma cresciuto alla scuola musicale della regione dei Monti Appalachi, quell'Appalachia che Edgar Allan Poe avrebbe voluto sostituisse il brutto nome di Stati Uniti d'America.
Jerry Douglas ha scritto questo pezzo strumentale dal titolo per me curioso.
Senia's Lament!

lunedì 18 agosto 2008

il gioco della vita



Il mazziere distribuisce otto carte ai giocatori, iniziando, come al solito, dal giocatore alla sua destra e finendo con se stesso. Non c'è briscola a terra. Il primo giocatore ha due possibilità: passare o chiamare una carta. Si chiama una carta (solo il suo valore, senza specificare il seme) quando si ritiene che aggiungendo alle carte in nostro possesso quella chiamata, si possa controllare il gioco. Se, ad esempio, si possiede un Asso, un Tre e un Re di Coppe, c'è tutto l'interesse a chiamare un Cavallo, in quanto se il seme di Coppe fosse quello di briscola, si disporrebbe (col compagno) delle quattro carte di briscola più alte. Fatte identiche considerazioni gli altri giocatori chiameranno le loro carte. Alla fine del giro diventa "chiamante" chi ha chiamato la carta dal valore più basso e ottiene il diritto di scegliere il seme di briscola. Chi possiede la carta chiamata, diventa il compagno del chiamante e può scegliere se restare in incognito, o farsi riconoscere (giocando la carta chiamata o comportandosi in maniera inequivocabilmente favorevole al chiamante). Ma finché la carta chiamata non è giocata, non c'è mai la sicurezza sull'identità del compagno. Se nessuno si sente di chiamare, ovvero tutti passano, la mano è nulla e si ricomincia daccapo. Una volta stabilito chiamante e seme di briscola, si gioca con le regole consuete della briscola in due. Inizia il giocatore alla destra del mazziere, poi chi ha preso per ultimo. Vince la smazzata chi raggiunge i 61 punti (chiamante più compagno o i punti degli altri tre). Se il chiamante vince segna due punti a proprio vantaggio, uno a vantaggio del chiamato, -1 (o zero) contro gli avversari. Se vincono questi ultimi, segnano 2 punti a proprio vantaggio, -1 a svantaggio del compagno e -2 a svantaggio del chiamante. Vince l'intera partita il giocatore (singolo) che arriva per primo a 11 punti.
In un'altra variante, i giocatori, prima di chiamare la carta, dichiarano il punteggio minimo che intendono raggiungere. Chi dichiara il punteggio più alto diventa il chiamante, ma vincerà la mano solo se raggiungerà effettivamente quel punteggio.
Un giocatore può anche decidere di giocare da solo, chiamando una carta in suo possesso (senza necessariamente dichiararlo). In caso di vittoria, otterrà i due punti del chiamante, più quello del compagno.

Gioco ambiguo la briscola in cinque. Si gioca scommettendo su un numero di punti o su una carta, facendo una sorta di asta. Si vince grazie a un socio che resta nascosto fino a quasi tutta la partita o che, addirittura, non esiste. Si gioca, di norma, tre contro due, ma nessuno dei cinque sa di chi altri si deve fidare. Fino alla fine. Gioco da bar di provincia, probabilmente in via d'estinzione. Prova evidente che anche il popolo conosce l'arte sottile delle alleanze, della diplomazia nascosta, dell'inganno. Bisogna esserci nati in un piccolo paese per conoscere certe cose: il bar, i vecchi avventori che fanno parte dell'arredamento, i due sport nazionali: le carte e la chiacchiera, e la noia, e quello che si ordina da bere e che ha nomi diversi in ogni angolo d'Italia ma che serve sempre allo stesso scopo, quello di fermare il tempo che passa e che travolge tutto, e tutto stravolge. A volte, e sempre più spesso, anche il bar. Bisogna essere avvezzi a tutte le insidie, furbizie e sbruffonate che si usano per vincere una mano di briscola in cinque.

giovedì 14 agosto 2008

La rosa di Pollastro



Nel libro, alla fine, ci sono i ringraziamenti dell'autore, Marco Ventura, ed uno, speciale, è rivolto ad Adriano Sofri "che ha avuto la pazienza di seguire la prima stesura del libro con suggerimenti preziosi". Confesso di essermi chiesto quali siano stati questi suggerimenti, in un contesto come quello della storia di Sante Pollastro che si dipana dal primo dopoguerra fino alla liberazione ed oltre. Il moralismo, di cui l'ex-leader di Lotta Continua fa scialo, porterebbe ad attribuire ai suoi consigli il taglio che, come nella canzone di Luigi Grechi, porta a scambiare la legge con la giustizia. Del resto, era un esercizio che svolgeva anche Paul Newman, nei panni del giudice Roy Bean nel film "L'uomo dei sette capestri", quando affermava - con assai più brio - alternativamente che la legge era la serva della giustizia, e che la giustizia era la serva della legge. Premurandosi di precisare che la cosa funzionava nei due sensi! Ad ogni modo, tolti i non frequenti richiami alla presunta malvagità, e cinismo, del bandito Pollastro, il libro è pregevole e prezioso e ricostruisce con cura ed amore una delle tante storie dimenticate e pur vive che ci portiamo dentro, semplicemente. Più attento al Sante Pollastri sconfitto, quello graziato da Giovanni Gronchi nel 1959, riesce a restituire la statura di un uomo che non ha mai smesso, fino alla morte nel 1979, di essere il ragazzo che era. Continuando a pedalare, l'occhio lievemente strabico sempre pronto a "prendere la mira".
Peccato, non sono riuscito a trovare nessuna fotografia di Sante Pollastro!

"Dopo la grazia del 1959, Pollastro andò ad occupare l'ultimo piano al numero 53, un sottotetto. In seguito traslocò al pianterreno, più spazioso, dove poteva coltivare il giardino e accudire ad una torma di gatti.
Fu questa la dimora dei suoi ultimi anni. (...)
Tutti i locali danno sul verde. Il giardino corre lungo porte e finestre, libere un tempo da tende perché Pollastro voleva che la natura entrasse direttamente in casa. Il cuore dell'appartamento era questo terreno oggi abbandonato ma ancora verdissimo, provvisto di un gazebo cadente ma tuttora animato dal rigoglio di fiori selvatici che si ostinano a riprodursi senza che nessuno li annaffi più. Gli altri inquilini ricordano i campanelli pasquali, i mughetti e l'intera gamma di fiori coltivati da Sante, in particolare un ceppo di rose bianche che chissà per quale astrusa tecnica o filosofia di giardinaggio i proprietari cambiano di posto ogni mese.
E' tenace la rosa: non vuole o non riesce a morire. La sdradicano, le tolgono la terra intorno, la lasciano senz'acqua, la maneggiano, la stropicciano, la costringono a rifiorire altrove, ma lei non soccombe mai, e per questa caparbietà la chiamano "la rosa di Pollastro". (...)
Quando Sante morì, il 30 Aprile del 1979, preceduto dalla sua Tina portata via dalla cirrosi epatica, la bicicletta Bianchi rimase nel cortiletto, dimenticata per anni in un sottoscala. Nessuno osava toccarla: invecchiava con il palazzo, faceva parte dell'arredo, come la ringhiera arrugginita o le crepe nel muro. Una notte scomparve.
Girò voce che il fantasma di Pollastro fosse tornato a prenderla. Forse la rubò, o per dirla con gli anarchici la espropriò, un ragazzo di mano lesta, o un ammiratore che la tenne per reliquia.
Per qualche anno, la sorella, Carmelina insistette a visitare l'appartamento non più suo: entrava, se ne stava seduta a contemplare il soggiorno, si accostava alla finestra, guardava fuori, faceva due passi nel giardino per verificare che "la rosa di Pollastro" ci fosse ancora. In quel fiore così tenacemente abbarbicato alla vita le sembrava, diceva, di rivedere il fratello. Un giorno si spense anche lei, portando nella tomba il segreto del perché Santino avesse imboccato la via del crimine.

A un pubblico ministero che ad Alessandria gli domandò il motivo di tutte quelle uccisioni, Pollastro disse: "Dopo la prima, le altre vengono da sole". (...)
"Lei ha delle idee anarchiche?" insistette il magistrato. "Anzi, ha delle idee?".
"Io ho le mie idee" rispose Pollastro.
"

Marco Ventura - Il campione e il bandito - Il Saggiatore Tascabili - Euri 10

Ah, occhio, che qui, in libreria, l'avevano messo nella sezione sport, ciclismo!!!
Ma forse è giusto ...

mercoledì 13 agosto 2008

uomini diversi!




George Montague Nathan (1895-1937)

ebreo, sergente dell’esercito inglese durante la Prima Guerra Mondiale, affiliato all’IRA e membro della Dublin Castle Murder Gang, organizzazione responsabile di delitti eccellenti.
Volontario nelle Brigate Internazionali nella Guerra Civile Spagnola.
In Spagna vestiva in modo impeccabile e guidava all’attacco i suoi uomini al grido "Adelante señoras!", agitando un bastoncino secondo la tradizione degli ufficiali inglesi.
Comandò dapprima la 1ª compagnia del 12° battaglione "Marsellaise", per poi assumere il commando dell'intero battaglione.
Divenne Capo di Stato Maggiore della XV Brigata Internazionale, poi comandante dei battaglioni Lincoln, Washington e inglese.
Ferito gravemente durante la battaglia di Brunete, ordinò ai suoi di cantare finché non spirò.
Venne sepolto sotto gli ulivi non lontano dal fiume Guadarrama.

martedì 12 agosto 2008

Western




Rio Bravo (in italiano "Un dollaro d'onore"), Howard Hawks lo fece ben due volte. La prima nel 1959 e la seconda nel 1966, ribattezandolo "El Dorado". Al secondo film, con Robert Mitchum nel ruolo che era di Dean Martin, manca solo questa canzone, credo!

Il mio fucile, il mio pony ed io
di Dimitri Tiomkin e Paul Francis Webster

Il sole sta sprofondando ad ovest
Il bestiame va giù al ruscello
Il tordo si sistema nel nido
E per il cowboy è l'ora di sognare

Nel canyon la luce si fa purpurea
E lì è dove vorrei stare
Con i miei tre buoni compagni
Solo il mio fucile, il mio pony ed io

Appenderò il mio sombrero
Sul ramo di un albero
Tornando a casa mio dolce tesoro
Solo il mio fucile, il mio pony ed io

Un succiacapre sopra il salice
Canta una dolce melodia
Cavalcando verso Amarillo
Solo il mio fucile, il mio pony ed io

Niente più vacche da prendere al laccio
Non vedrò più vagabondi
Dietro la curva stanno aspettando
Il mio fucile, il mio pony ed io
Il mio fucile, il mio pony ed io

lunedì 11 agosto 2008

scendendo



" (...) Sisifo guarda, allora, la pietra precipitare, in alcuni istanti, in quel mondo inferiore, da cui bisognerà farla risalire verso la sommità. Egli ridiscende al piano.
É durante questo ritorno che Sisifo mi interessa. Un volto che patisce tanto vicino alla pietra, è già pietra esso stesso! Vedo quell'uomo ridiscendere con passo pesante, ma uguale, verso il tormento, del quale non conoscerà la fine. Quest'ora, che è come un respiro, e che ricorre con la stessa sicurezza della sua sciagura, quest'ora è quella della coscienza. In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino; è più forte del suo macigno.
Se questo mito è tragico, è perché il suo eroe è cosciente. In che consisterebbe, infatti, la pena, se, ad ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire? L'operaio d'oggi si affatica, ogni giorno della vita, dietro lo stesso lavoro, e il suo destino non è tragico che nei rari momenti in cui egli diviene cosciente. Sisifo, proletario degli dei, impotente e ribelle, conosce tutta l'estensione della sua miserevole condizione: è a questa che pensa durante la discesa. La perspicacia, che doveva costituire il suo tormento, consuma, nello stesso istante, la sua vittoria. Non esiste destino che non possa essere superato dall’uomo.
Se codesta discesa si fa, certi giorni, nel dolore, può farsi anche nella gioia. Questa parola non è esagerata. Immagino ancora Sisifo che ritorna verso il suo macigno e, all'inizio, il dolore è in lui. Quando le immagini della terra sono troppo attaccate al ricordo, quando il richiamo della felicità si fa troppo incalzante, capita che nasca nel cuore dell'uomo la tristezza: è la vittoria della pietra, è la pietra stessa. L'immenso cordoglio è troppo pesante da portare. Sono le nostre notti di Getsemani. Ma le verità schiaccianti soccombono per il fatto che vengono conosciute. Così Edipo obbedisce dapprima al destino, senza saperlo. Dal momento in cui lo sa, ha inizio la sua tragedia, ma, nello stesso istante, cieco e disperato, egli capisce che il solo legame che lo tiene avvinto al mondo è la fresca mano di una giovinetta. Una sentenza immane risuona allora: « Nonostante tutte le prove, la mia tarda età e la grandezza dall'anima mia mi fanno giudicare che tutto sia bene". L'Edipo di Sofocle, come Kirillov di Dostoevskij, esprime così la formula della vittoria assurda. La saggezza antica si ricollega all'eroismo moderno."

Albert Camus - Il mito di Sisifo

venerdì 8 agosto 2008

canto d'agosto





Sono arrivato al mio ultimo appuntamento con te, ed ero spettinato, come al solito.
Spettinato di una notte di treno in fretta e furia. E così, ancora una volta ti è toccato ...
Solo che non hai potuto né vedermi, né riavviarmi i capelli, com'era tuo solito.
E questo solo perché, semplicemente, non ci sei più.
Non ci sei più, ma io ci sono, per te.
Per il biglietto di sola andata in questi mille mondi, quelli con te e quelli senza di te.
Per la tua lingua, che non ho mai dimenticato, e per la possibilità di averne una mia, che non capivi.
Per la luce d'Agosto di questo tuo ultimo viaggio che non ti porta da nessuna parte.
Per le storie, di cui sono fatto anch'io, e per la tua storia che ancora mi racconto, e mi ripasso, mentre cammino la mia strada.
Per la generosità che hai sparso, senza chiedere mai niente in cambio, se non sorrisi e parole, colori e profumi.
Per il canto e il mare e la musica e gli scogli, di cui mi hai fatto.
Per la tua forza e il tuo amore, e perché vanno di pari passo.
Per tutto.
Per quello che sono.
Per quello che non c'è più.
Per quello che ci sarà. Sempre.

lunedì 4 agosto 2008

vita, morte, amore e libertà



"Life Death Love and Freedom", è il nuovo disco di John Mellencamp, scuro come la notte e semplice come un "eccomi", giocato tutto su un registro scarno e terribile di folk e di blues.
Cos'altro??

Terra Inquieta
di John Mellencamp

C'è dolore in me, ma continuo a muovermi
per portare pace a questa terra inquieta
Là fuori è scuro, non riesco a leggere i segnali
e portare pace a questa terra inquieta
Uragani all'orizzonte, il giorno del giudizio si avvicina
Non riesco a vedere un futuro
che porti pace a questa terra inquieta

Ci sono due uomini che camminano
Per la stessa strada polverosa
per portare pace a questa terra inquieta
Dritti, spalla contro spalla
Condividono lo stesso pesante fardello
portare pace a questa terra inquieta
Gli occhi di uno dei due traboccano tristezza
La pancia dell'altro è piena di un'insopportabile pena
Si avvicinano sempre più
portano pace a questa terra inquieta

Ho sentito il pianto dei bambini
Dieci milioni di solchi da zappare
portare pace a questa terra inquieta
Più morto di un cane, eppure non posso permettere
di portare pace a questa terra inquieta
Gli occhi di cielo sono su di te
Ma l'anima è d'inferno
Loro ti taglieranno via le dita
Per portare pace a questa terra inquieta

Allora tu puoi stare dritto in piedi ed urlare
Puoi sdraiarti e morire
per portare pace a questa terra inquieta
Possiamo sistemare i nostri collari
E non cercare nemmeno di provare
a portare pace a questa terra inquieta
Timoroso di chi vuol farti del male
e trascinarti su un terreno sempre più arretrato
Sappi solo che la verità sta per arrivare
a portare pace a questa terra inquieta

C'è dolore in me
ma continuo a muovermi

venerdì 1 agosto 2008

siciliani



Letture disordinate le mie, molti le chiamerebbero così! Letture a cui, a volte, torno. E c'è qualcosa di perverso, a mio avviso, nell'andare a ri/leggere. Uno scavare alla ricerca di qualcosa, fra il perduto ed il dimenticato. Qualcosa che magari non esiste, nel libro. Sfogliare le pagine, in un crescendo di frenesia quasi, alla ricerca del "periodo perduto"; quello che ti salverà la vita. A volte lo trovi, altre volte no. Oggi l'ho trovato. Era all'inizio, stava nello scritto di introduzione di Gesualdo Bufalino ad un'antologia sulle "cento sicilie". Uno sguardo impietoso e affascinato, una capacità di mettere a nudo e di ferire, un modo di ascoltare e di guardare. L'isola e sé stessi.
Isola? Ha ragione Tucidide quando scrive "è impedita dall'essere terraferma da un braccio di mare di circa venti stadi". Impedita! Ed è stata impedita da quei soli venti stadi, dall'essere isola, sembra concludere Bufalino. Oh, i siciliani sono convinti di essere isolani, i più isolani di tutti, anzi! Isolani per antonomasia. E l'hanno anche data a bere a tutti, questa storia! Ma, forse, l'insistere su questa presunta "isolitudine" è l'unico tratto accomunante. Poi, come dice Bufalino, sull'isola tutto è plurale, molteplice. I colori delle tante sicilie ... colorate. Il verde del carrubo, il giallo dello zolfo, il bianco del sale e il bianco della pomice, il rosso della lava e il nero dell'ossidiana, il biondo del miele e l'arancio degli agrumeti. E l'azzurro del mare. E l'abbaglìo del sole, che tutto copre e riveste. Che fa sembrare inaccettabile la morte. L'ho toccato con mano, al funerale di mio padre, nel sole accecante di un mattino di luglio. Non è, lì, la morte, l'esito naturale della vita: è l'invidia degli dei!
E tutto che è - come dire - diverso. Perché i siciliani sono diversi. Diversi dagli altri, e diversi fra loro. Diversi dall'invasore come diversi dall'amico. Diversi quelli che partono, per non ritornare, da quelli che restano. E gli uni e gli altri, diversi da sé stessi.
Diversi, quelli che si condannano per essere ... siciliani, diversi da quelli che se ne assolvono.
Claustrofobia e agorafobia. Agorafilia e claustrofilia. Dritti e rovesci.
Dura poco l'allegria di essere nati e di vivere nel centro del mondo! Come un eccesso di identità che diventa segregazione che si odia o si ama, e si lega da sé sola ad altre segregazioni che portano il nome di famiglia, casa, città, cuore. E che pesano, richiedono una scelta di districarsi fra i mille fili del sangue e del destino che si intrecciano. E orgoglio, diffidenza, pudore, sono le risposte che accompagnano la fuga come il nascondersi. L'odio e l'amor di clausura. Ma rimane una dimensione teatrale del vivere.
Teatro, del resto è nato da quelle parti, il teatro. Tragedia, farsa e melodramma, dovunque. Sempre in bilico fra mito e sofisma, ciascuno, dentro e fuori. Ogni occasione è buona. Ci sono maschere da indossare o da strapparsi dalla faccia, ma sempre nella liturgia scenica.
E si è suscettibili ai fischi come agli applausi. All'occhiu r'e ggenti.
Teatro perpetuo, come quello che sto tra/scrivendo, rubando, magari facendo finta e facendo credere che sia ... vero!