lunedì 11 febbraio 2008

vorrei che tu fossi qui



E' uno strano film, questo "Into the Wild" di Sean Penn!
Strano, perché sembra divertirsi a sparigliare continuamente le carte. Senza dire mai da che parte stare. Fino alla conclusione, dove la disperazione di tutti sembra finire per unirsi, coralmente, per un'unica prima ed ultima volta. Come in un sogno, forse irrealizzabile, di condivisione; quel bisogno di condivisione che rimane, a mio avviso, chiave di lettura per il film, come per la vita.
Non è un bel personaggio, il protagonista. Non riesce ad esserlo, nella sua saccenza e nella sua mancanza di "tragicità", come nelle sua castità obbligatoria. Non riesce ad essere simpatico, e nemmeno a stimolare compassione, neanche nella sua breve parentesi da "hobo", giocata con ironia sulla note di "King of the Road". Non riesce ad essere simpatico nella sua morte, idiota, che ti lascia lì a chiederti il motivo perchè non gli piaccia ....il pesce!!!
No, non è per niente tragico, il ragazzo. Il tragico sta altrove, nella fame di comunità delle persone che incontra, e che gli si donano quasi, sta nell'identica "fame" delle persone che si è lasciato alle spalle, e non sai quanto, e neppure se, a ragione o a torto.
Lui no, sembra immune alla "fame", e sembra essere cieco e sordo a ... tutti quelli che gli accadono intorno. Perfino alla musica e alle canzoni, comprese quelle della colonna sonora di Eddie Vedder che sono quasi un film nel film, ad accompagnare le parole vergate sulle cartoline, forse mai spedite, che sembrano continuare a dire ... "vorrei che voi foste qui"!
Il film, già il film. Credo che difficilmente sia un caso la copertina di "Delitto e Castigo" di Dostoevskji, la quale ruba più volte il primo piano da una bancarella. Così come il "Walden" di Thoreau che viene sepolto, senza una parola. E Jack London che, alla fine, cede il passo al Dottor Zivago, e presumibilmente proprio a quelle pagine di Pasternak in cui Zivago è costretto alla rivoluzione e alla guerra contro i bianchi. Da medico, socialmente. Quella stessa "socialità" - vien da pensare - che ha portato Sean Penn a New Orleans, fra i dannati di Katrina.

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