giovedì 31 gennaio 2008

Canadesi



Viene dal Canada, anche se è nato in una grigia e piovosa cittadina del nordest industriale dell'Inghilterra, la cui unica fama proviene dal gigantesco inceneritore che ne ammorba l'aria, Merseyside. Viene dal Canada, Bowmanville Ontario, a est di Toronto, ed ha venticinque anni. Si chiama Lee Mellor, ed ha inciso un disco, "Ghost Town Heart", uscito nell'agosto del 2007, di cui la stampa specializzata comincia ad occuparsi solo adesso e che, per riassumerlo, sta scomodando i più paludati nomi di Bob Dylan, Steve Earle e Stan Rogers. Operazione già fatta troppe volte che non serve. Quello che serve e ascoltare le storie che Mellor ha messo in musica, dopo aver imparato la lezione, anche da quei nomi. Storie di ragazze perdute sulle autostrade e di assassini in piccole città, di dialoghi fatti con lo specchio in bar di provincia e di anime sbaragliate dentro a città fantasma. Non serve scomodare Dylan o Earle o Terry Allen, per gustare e godere di una canzone come "Blow My Heart Out of the Night", un'epica ballata senza tempo da ascoltare e da riascoltare...

Soffia via la notte dal mio cuore
di Lee Mellor

Ragazza vorrei accendere il tuo sguardo come se fossi uno di quei cavalieri da fiaba che arrivano cavalcando in tuo soccorso, ma proprio come succede ai poeti di perdere la loro arte, così quest'armatura di cartone sta cadendo in pezzi rivelando la realtà dell'uomo che la indossava.

Oooo i miei occhi vagabondi, ooo tu hai intrappolato il mio sguardo...

Vieni, soffia via la notte dal mio cuore,
Vorrei poter tornare in Georgia, ma la Georgia mi ha trattato male
Perciò soffia via la notte dal mio cuore
Vorrei tornare in Georgia, senza pensare a tutti i se e a tutti i ma

La gente non fa che parlare di sacrificio da Jan Huss a Gesù Cristo e tu lo sai che mi piacerebbe pensare di poter interpretare quel ruolo, sai che io vorrei morire per te, lo farei, ma vivere per te è di gran lunga troppo difficile

Oooo i miei occhi vagabondi, ooo tu hai intrappolato il mio sguardo...

Vieni, soffia via la notte dal mio cuore,
Vorrei poter tornare in Georgia, ma la Georgia mi ha trattato male
Perciò soffia via la notte dal mio cuore
Vorrei tornare in Georgia, senza pensare a tutti i se e a tutti i ma

Oh sento che il mio cuore sta scivolando via dai suoi ormeggi, e i venti del cambiamento cominciano a soffiare, perciò sbrigati bambina

E soffia via la notte dal mio cuore,
Vorrei poter tornare in Georgia, ma la Georgia mi ha trattato male
Perciò soffia via la notte dal mio cuore
Vorrei tornare in Georgia, senza pensare a tutti i se e a tutti i ma

mercoledì 30 gennaio 2008

Utopie



"Lontano, verso l'orlo della galassia, c'è l'Ammasso Alastor, una spirale di trentamila stelle vivissime, in un volume irregolare dal diametro di venti-trenta anni luce. La regione spaziale circostante è buisa, occupata soltanto da poche stelle eremite. Per chi lo guarda dall'esterno, Alastor è uno spettacolo sfolgorante di torrenti di stelle, di reticoli luminose, di noduli scintillanti. Nubi di polvere stanno in sospensione in quello splendore: le stelle che vi sono immerse brillano di una luce color ruggine, rosa, o ambra affumicata. Stelle buie vagano invisibili tra un milione di frammenti subplanetari di ferro, di scorie e di ghiaccio, i cosiddetti "starmenti". Nell'ammasso sono sparsi tremila pianeti abitati, con una popolazione umana che ammonta approssimativamente a cinque trilioni di persone. I mondi sono diversi, e lo sono anche le popolazioni: tuttavia, hanno in comune la lingua, e tutti si sottomettono all'autorità del Connatic, residente a Lusz, sul pianeta Numenes".

Si sa, ed è oramai uno dei più logori luoghi comuni, che le utopie - in quanto tali - coltivano nel loro estrinsecarsi uno stretto rapporto di parentela con tutte le attività marginali degli umani civilizzati, come il bricolage o gli hobbies del week-end. Si sa, certo, ma nessuno, prima che Jack Vance cominciasse a scrivere le sue storie, era riuscito davvero a dimostrarlo. Le utopie, non appena assumono una forma qualsiasi (non importa se letteraria o pratica) cominciano subito a contraddire il loro proprio spirito e a trasformarsi in bolge infernali impraticabili e ingiovevoli, in lavori forzati. In Vance, nelle sue opere, invece, esse affiorano quasi gentilmente, senza fatica, dai tic e dalle fissazioni di cui gli esseri umani sono ostaggio.
L'Ammasso Alastor - cui Vance ha dedicato più di un romanzo - è il luogo geometrico dello spirito dell'utopia. Qui l'utopia si realizza nella massima libertà di indulgere ad un terribile e paradossale "travestitismo sociale". Gli amanti del surf, per dirne una, possono trovare un pianeta dove tutto è imperniato e ruota attorno al surf. E così per tutti gli altri, dai pescatori di trote ai cercatori di funghi ai vari collezionisti di non importa cosa. Un pianeta perfino per quelli che rubano nei supermercati, è possibile!
Poi, al limite estremo, ci saranno i sadici che avranno a disposizione il pianeta dei masochisti; ma anche viceversa. Ingabbiati nella loro eccentricità, eppure gli abitanti dei pianeti dell'Ammasso Alastor conoscono il senso della libertà.
Presumibilmente reazionario, Vance procedeva dal modello, per lui negativo, della società americana degli anni sessanta e settanta, con un occhio all'espandersi delle ideologie dai campus universitari al palcosenico sociale. Buddisti zen, vegetariani, terroristi, vagabondi, hippies, ideologi della vita campestre e ideologi della condizione urbana, Vance vede nella diversità americana il complesso dei "tic" che formano il quadro clinico della nevrosi contemporanea.
L'Ammasso Alastor presagisce il mondo nuovo, dove anche quelli che non hanno nulla di eccentrico, alla fine, potrebbero mostrare come anche questa sia una sorta di eccentricità, di cui non vergognarsi.
Del resto, alla faccia del credersi reazionario da parte di Vance, lo stesso Marx, in una delle sue rare escursioni nella definizione in positivo del comunismo, aveva affermato che la società libera e senza classi sarebbe stata quella dove il rapporto fra lavoro e tempo libero viene rovesciato. Su Wyst (Alastor 933) si lavora due giorni la settimana e i rimanenti cinque si trascorrono nell'ozio, "ballando, cantando, spettegolando, amoreggiando, andando in barca sul fiume e consumando il tempo in quella che è la principale occupazione degli abitanti di Arrabus: guardare la gente che passa".
Sul pianeta Trullion (Alastor 2262), la vita consiste nell'andare in barca tutto il giorno e a giocare una sorta di football locale, l'hassade. Su Marune (Alastor 933) regna una sorta di feudalesimo bigotto e sessuofobo che, però, una volta l'anno si scatena in orgie (piuttosto banali, per la verità). Il dato inquietante è che, dietro tutti questi frammenti di vita quasi stupida e innocua, sembra che ci sia qualcosa di istintuale, di profondo e di insopprimibile, oltre la linea d'ombra dello sguardo. L'Ammasso Alastor, dipinto con colori sgargianti, cinesizzante, bizantino ed elaborato, non è un mondo tranquillo!
In questo sistema che può apparire, all'osservatore superficiale, pacifico e placido, si aggira in incognito il Connatic, cercamdo - senza trovarlo - un eccesso davvero deplorevole. Egli sa che dovunque gli esseri umani lottano per assicurarsi un vantaggio, là esiste lo squilibrio; il tessuto sociale si tende e tende a lacerarsi. La sua funzione è quella di alleviare le tensioni sociale, una volta riconosciutele. Talvolta apporta migliorie, talvolta adotta tecniche diversive, talvolta ricorre alla forza....
Che serie televesiva che ne verrebbe!

martedì 29 gennaio 2008

Le follie di P.K.D.



A leggere Dick, una cosa viene da chiedersi ed è la stessa che lui sembra continuare a chiedersi, e a chiederci, in tutta la sua opera:
Vero? O falso?
E, mica tanto curiosamente, è la stessa identica domanda che alla fine ci si comincia a porre anche rispetto alle sue dichiazioni cosiddette autobiografiche. Patrice Duvic (documentarista francese esperto in fantascienza e scomparso da poco), che ebbe l'onore di essere ospite di Dick per diversi mesi, dichiarò senza mezzi termini che era un bugiardo matricolato. Troppo semplice, a partire da questo, però, stabilire che "l'esibizionismo" dello scrittore fosse un aspetto della schizofrenia che gli sarebbe stata diagnosticata all'età di diciannove anni. A sentir lui, per l'appunto!
Troppo semplice, anche perché da tale presunta schizofrenia deriverebbe, poi, l'interesse di Dick per la psicosi in generale e per la schizofrenia in particolare, che viene vista da lui come la "più rappresentativa" delle psicosi. Nelle opere di Dick, sembra quasi, però, che proprio la psicosi, vista come pericolo, venga continuamente allontanata. Sviscerandola, analizzandola, descrivendola.
Già nel 1962, in "Noi marziani", si legge il termine "pazzia" che viene definito come il "dover riscostruire un'immagine della propria vita facendo domande agli altri". Una perdita di autocoscienza che trae origine dall'incapacità di ricordare. E ancora, sempre in "Noi marziani":
"Ora capisco cos'è la psicosi: l'estrema alienazione della percezione dagli oggetti del mondo esterno, specialmente gli oggetti che contano: la gente che ha calore umano. E cosa prende il loro posto? Una preoccupazione terribile per ... l'interminabile flusso e riflusso della propria personalità. I cambiamenti che nascono dall'interno e che riguardano solo il mondo interiore. E' una completa scissione dei due mondi, quello interiore e quello esterno: nessuno dei due lascia più tracce sull'altro. Entrambi continuano ad esistere, ma ciascuno va per la sua strada."
I concetti di mondo interiore ed esterno, Dick li elaborerà più tardi, nel 1965, nel testo "La schizofrenia e il Libro dei Mutamenti" pubblicato su una rivista. Per i due mondi (interiore ed esterno) ora usa due termini greci: "idios kosmos" e "koinos kosmos", dove il primo indica il mondo privato attinente all'infanzia che, a poco a poco con l'adolescenza, l'individuo impara a mediare con il secondo, il mondo condiviso. La schizofrenia consisterebbe nell'incapacità di armonizzare i due mondi. Dick nega che lo schizofrenico voglia evadere dal mondo reale per rifugiarsi in un mondo di fantasia. Parlando, forse, di sé stesso afferma che
"La fatale comparsa della schizofrenia, intorno ai diciannove anni, non è una fuga dalla realtà. Al contrario, è l'esplosione della realtà intorno a lui, la presenza, e non l'assenza, di una prossimità con essa".
Nello schizofrenico, secondo Dick, l'idios kosmos si dilata in maniera abnorme e assorbe il sistema di relazioni e significati del koinos kosmos, forzandoli e ricomponendoli senza alcun principio organizzativo.
Un altro elemento non va trascurato: il tempo.
"Ciò che distingue l'esistenza dello schizofrenico da quella che al resto di noi piace credere di condurre è l'elemento del tempo. Lo schizofrenico vive tutto subito e simultaneamente, che lo voglia o no l'intero film l'ha già travolto, mentre noi lo osserviamo scorrere un fotogramma alla volta. Dunque per lui la casualità non esiste, Per lui, in ogni situazione, domina , invece, il principio connettivo a-casuale che Wolfgang Pauli ha chiamato sincronismo."
Tuttavia, esiste un'altra faccia della medaglia, un'ambivalenza che in "La trasmigrazione di Timothy Archer" (1982) gli fa mettere in bocca ad un alieno chiamato Eliogabalo (ogni riferimento ad Artaud è voluto!)
"Lo scopo della vita è un mistero, dunque il modo di raggiungerlo è nascosto agli occhi delle creature viventi. Chi può dire se gli schizofrenici non sono nel giusto?"
Come se la schizofrenia avesse a che fare con il "significato", quello che, secondo l'alieno Eliogabalo, "giace in una notte scura senza fine, l'abisso". Ed il folle entra in contatto con qualcosa che non sa cosa sia e da dove venga. Un significante che non sa collegare ad un significato.
Ma anche la paranoia, secondo molti studiosi, è un aspetto della schizofrenia. E, in Dick, la paranoia arriva, e spariglia tutte le carte!
E così Dick è capace di arrivare fino a ...Bruno Bluthgeld, il fisico ungherese che in "Cronache del dopobomba" (1965) ha sperimentato una dilatazione dell'ego così estrema da credere di essere l'unico responsabile di tutto ciò che accade. Nel suo delirio, interpreta l'olocausto nucleare come una misura difensiva che è stato costretto a prendere per punire coloro che complottavano contro di lui.

Vero? O falso?

lunedì 28 gennaio 2008

2 modi di scrivere




"...Claire aveva letto il libro tre volte ed era convinta che anche lei, una volta a Parigi, avrebbe potuto scrivere un grande romanzo, Sembrava tutto così semplice, come aveva fatto Hemingway, trovare un Caffé ben illuminato, ben riscaldato, matite e tanta carta, bere dei caffé neri e lasciare che le idee nascessero. Chiunque poteva farlo ..."

da - Elliott Murphy - Note al Caffé -


La caduta di Saigon
di Elliott Murphy

Capitano ci stanno chiamando, non vogliono che restiamo tagliati fuori
Non c'è ragione per restare intrappolati qui, non c'è motivo di tenere la posizione
Tiriamoci fuori da questo pasticcio prima che mi ritrovi a pestare una fottuta mina
Noi prenderemo una jeep e andremo a guardarci la caduta di Saigon

Hey ragazza, è finita
Arrivederci bianche scogliere di Dover
Salpiamo verso terre libere
I ragazzi stanno per tornare a casa

Le ragazze facili stanno piangendo mentre gli elicotteri si alzano in volo con i loro amori
C'è panico all'ambasciata, sanno bene che ci sarà un bagno di sangue
E qualcosa si è messo in mezzo a noi, ci provo ma non riesco ad averne ragione
L'amore si è trasformato in politica - come la caduta di Saigon

Hey ragazza, è finita
Arrivederci bianche scogliere di Dover
Salpiamo verso terre libere
I ragazzi stanno per tornare a casa

E tesoro lo so che hai ragione ma sono stanco di provarci
Questa storia sta per finire
E non c'è più sentimento

Tieniti il tuo mistero ed io mi tengo quel che mi è rimasto di questa canzone
E come il sudest asiatico, non so se ho ragione o torto
Ci sono cose per cui val la pena di combattere e cose che non ci sono più
Ma ricordo la notte che siamo rimasti a guardare la caduta di Saigon

venerdì 25 gennaio 2008

Guccini di Carta



Ho provato più volte a dispormi a leggere Francesco Guccini sulla pagina scritta, senza però mai riuscire ad andare oltre la decima pagina! Che si trattasse di libri "antropologici" come "Cronache Epifaniche" o dei gialli scritti a quattro mani con Loriano Macchiavelli. Niente da fare, mi annoia e mi annoiano. Ma sarebbe falso, da parte mia, affermare che Guccini sia sempre illeggibile. Ci sono i fumetti. E nelle sue canzoni non mancano i riferimenti ad un'attività che, cronologicamente, precede quella cantautorale.
In "Quattro stracci" (1996) si definisce "un tipo perso dietro le nuvole e la poesia". Con ogni probabilità, la "colpa" è di Franco "Bonvi" Bonvicini, amico d'infanzia e compagno di "nefandezze" (forse più sognate che perpetrate). Il giovane Guccini passa i suoi lunghi pomeriggi a Modena "grande e grosso coi fumetti", come afferma in "Canzone delle situazioni differenti", nel 1974. E le amicizie, soprattutto quelle giovanili, nascono e si consolidano sul terreno delle comuni passioni. I film di guerra, il "rock e i fumetti" (come ci ricorda in "Cencio", nel 1990). In "Canzone delle ragazze che se ne vanno", del 1974, ci verrà a raccontare che "Già Superman non vola sui tuoi sogni della scuola. Mandrake e Wiz son solo falsi maghi". Anche se, a dirla tutta, è strano sentir chiamare Nembo Kid col nome di Superman...
Sarà durante le estati in città, dai nonni e lontano dalla deleteria Pavana, che comincerà a trovare e leggere quei fumetti che il padre gli ha proibito. Saranno dapprima "Terry e i pirati" di Milton Caniff e, soprattutto, lo zio Paperone di Carl Barks. "Un genio narrativo del nostro secolo, uno che è riuscito ad inventarsi una saga che non ha nulla di meno delle grandi saghe tipo, non so, un'Iliade o un'Odissea" - dichiarerà a MicroMega, nel 2001, a proposito del disegnatore della Walt Disney.
Ma non sarà sotto l'ala di Bonvi (con cui invece condividerà il debutto nei caroselli sceneggiandogli il "pirata pacioccone" nel 1965) ad esordire nel mondo dei fumetti, bensì con Roberto Raviola, in arte "Magnus", già autore di Kriminal e di Alan Ford, con cui collaborerà per definire il personaggio de "Lo Sconosciuto". Le ricerche storiche, volte a definire certi ambiti per il personaggio, faranno da materiale di base per il libro, realizzato nel 1980 con Francesco Rubino, sulla "Vita e morte del brigante Bobini detto Gnicche".
Poi sarà Bonvi, nell'estate del 1969, a proporgli di collaborare alla striscia di "Sturmtruppen". Guccini non si lascia pregare e comincia da subito a fornire battute, inventare gag e arricchire di spunti quello che diventerà la seconda striscia italiana, come successo. Ma Bonvi ha un'altra idea e propone all'amico di realizzare una striscia di fantascienza, "Storie dallo spazio profondo". Il fumetto prende l'avvio su una fugace rivista - Psyco - che non riesce nemmeno a pubblicare tutte le storie, che poi usciranno raccolte in volume. Le trame sono rubacchiate qua e là. Da Farmer, Williamson e, soprattutto, Sheckley, di cui saccheggiano l'antologia "AAA Asso". Ad ogni modo le storie vengono adattate splendidamente sull'impalcatura fatta dei due protagonisti - un uomo biondo e un robottino - che poi sono gli alter-ego dei due autori. Ricorda Guccini, scaricando poco cavallerescamente le responsabilità del plagio, che "Era sì fantascienza, ma piena di richiami alla Modena della nostra adolescenza, amici, nonni e tic gergali, e lo spazio profondo del titolo era forse solo il cielo su quella piccola città dei nostri diciott'anni. Anche se Bonvi, a proposito di una delle storie, si vantava di aver preceduto Star Wars di almeno quindici anni, figuratevi...Ci divertivamo, non litigavamo, io passavo sopra a quello che in sceneggiatura era un ufficiale zarista trasformato dalla sua matita in ufficiale tedesco (ma guarda!), lui mi perdonò per essere improvvisamente scomparso negli USA lasciandolo senza sceneggiature e fu costretto a copiare bassamente dai romanzi che, giovinetti, leggevamo".

giovedì 24 gennaio 2008

anagrammando



Non va più di moda, ed ha perso forse quasi tutto il suo fascino, il pugilato, nella nostra vita di tutti i giorni. Soppiantato in televisione dal wrestling, sport assai più adatto alla mancanza di tragicità che contraddistingue il nostro tempo, sopravvive qua e là, in qualche film, sempre meno nei libri, e in qualche canzone. Ce ne sono state di questi tempi, da Springsteen ad Aimes Mann. Pugili veri e pugili immaginari, pugili da strada, e poi i pugili del "nostro immaginario". Anche qui, pugili veri e non, a cominciare dal Jack LaMotta di "Toro Scatenato", fino al "pantera" de "I soliti ignoti". E così via.
Luca Mirti dei Del Sangre ne ha scritta una anche lui, di canzone su un pugile. La canzone, bella come può essere bello un incontro di pugilato, quando è giocato bene, parla di Tiberio Mitri, alla sua figura si ispira, alla sua vita e alla sua morte. Tutto nello spazio di una canzone. Una canzone a volte dura più di un incontro, a volte meno. A volte dura più di un round, a volte meno. Come la vita, dura lo spazio di una vita, la canzone dura lo spazio di una canzone. Ce ne puoi mettere di cose dentro!
Tiberio Mitri, nasce a Trieste nel 1926. Buffo a pensarci, a Trieste nascono anche Duilio Loi, altro grande pugile, morto proprio in questi giorni, e nasce anche Vittorio Gasman che pugile lo è stato almeno due volte - a quanto mi ricordo - ne "I soliti ignoti" e ne "I mostri". E ancora più buffo è il pensare che anche Tiberio Mitri ha avuto una piccola carriera cinematografica, e fra i film cui ha partecipato c'è "La Grande Guerra", con Gassman!
All'inizio, la sua carriera è fulminante, proprio come un diretto al mento. Come afferma ironicamente nella sua autobiografia, "La botta in testa", si fa strada nel mondo con i pugni. Nel 1948 campione italiano dei medi, nel 1949 campione europeo. Nel luglio del 1950, a ventiquattro anni, affronta Jake LaMotta, per il titolo mondiale, e perde dopo quindici riprese. Nel 1954 riconquista il titolo europeo, per poi riperderlo dopo cinque mesi. Nel 1957 si ritira.

"Si allontanava come quando si segue un oggetto al margine della ferrovia e in breve non si può più nemmeno immaginarlo, tanto breve è stata l'apparizione. Tutto era passato in un soffio. I combattimenti con Jack "il toro" e Humez il minatore. I miei liquidatori... Molti avevano trovato scuse per le mie sconfitte incolpando persone a me vicine, ma io no. Mai. Bisogna essere onesti con se stessi. Me stesso.
Non ce l'avevo fatta a superare ostacoli più grossi. Il mio record parlava chiaro."

Negli ultimi anni della sua vita, il cervello comincia a spappolarsi, e per i traumi subiti in combattimento e per l'uso della cocaina di cui si è reso dipendente.
Muore nel febbraio del 2001, travolto da un treno locale, a Roma, in circostanze mai del tutto chiarite.
In mezzo c'è tutta una vita, dall'infanzia a Trieste, al pugilato come fuga dalla miseria e come riscatto sociale, il matrimonio con Fulvia Franco, miss Italia dell'epoca, l'America e la mafia e gli allibratori.La vita di un uomo.

Un link per farvi ascoltare la stupenda canzone di Luca, non ce l'ho (ora si: più sotto). Non ancora. Dovrebbe comparire sul sito dei Del Sangre, in download, quanto prima. Dateci un'occhiata, di tanto!
E poi Mirti è l'anagramma di Mitri.

LA TIGRE
di Luca Mirti

A volte mi ricordo quella folla stretta tutta intorno al ring
L'odore dei guantoni che si mescola col sangue e con le lacrime
Non ero certo il diavolo però picchiavo duro ed ero un idolo
Ho riso in faccia a Jack La Motta e i miei sogni morirono in quell'angolo

E tutto ciò che un tempo era per me uno scherzo avere ora è lì fermo immobile
Le braccia troppo a pezzi per alzarsi ancora a dire sono io l'invincibile
Li vedo ancora chi mi soprannominò la Tigre di Trieste voltarsi e non
Chiamarti più una volta che le luci sono spente

E non è certo un pugno quanto un gong che lentamente inizia a ucciderti
Assieme a tutta quella gente che fa finta poi di non conoscerti
E non ti resta che campare di ricordi e anche quelli poi ti abbandonano
La Tigre adesso è senza artigli e senza denti e non sa più chi è, Dio perdonalo

Ho visto la mia foto sui giornali di stamani in prima pagina
Mi fa uno strano effetto rivedere quella faccia sulla cronaca
Ed hanno scritto che ero sui binari a fare cosa non si sa, ma che ne sanno mai
Cosa vuol dire scendere da un ring e i guanti non riuscire più a sfilarseli

mercoledì 23 gennaio 2008

Senzacasa




Loudon Wainwright III. E' da tempo - per me - come un amico con una chitarra ed una sensibilità quasi lirica. Ha attraversato la storia della musica folk-rock, con spirito tagliente e con canzoni con titoli come "Me and My Friend the Cat" e "Glad to See You've Got Religion". Fin dai suoi primi dischi che per titolo recavano un numero romano, in progresso, a parte il primo, del 1970, che si chiamava semplicemente "Loudon Wainwright III".
Ai tempi del suo secondo album, "II", si troverà a cantare "Motel Blues" durante un programma di "women's liberation" trasmesso da una radio di Chicago. Una canzone che parlava di un cantante che cerca una ragazza da portarsi in albergo. "Il moderatore era una donna molto arrabbiata - racconta Loudon - che suggerì che forse mi avrebbe fatto bene avere i miei genitali tagliati! ...Non so. Quando l'ho scritta, la canzone, non stavo pensando alla liberazione della donna. Stavo pensando ad un "motel blues". Continua Wainwright - "Non scrivo canzoni sul Vietnam o sullo "impeachment" del presidente o sulla liberazione della donna o sulla situazione dei neri, so che le mie non sono canzoni di protesta o social-politiche. Le canzoni che di solito finisco a scrivere parlano di quel genere di cui si discute mentre si mangia, al bar. La mia è la politica dell'esistenza, quasi ."

Questa canzone, invece, una delle più belle, delle più trusti che abbia mai scritto, è recente. E parla della madre, parla della morte.


Senza Casa
di Loudon Wainwright III

Quando tu eri viva
Non ero mai solo
Da qualche parte nel mondo
C'era qualcosa che poteva essere chiamata casa

E fino quando non sei morta
Potevo dire di star bene
C'erano ragioni per vincere
E incentivi per combattere

Ora ho ricominciato a fumare
E ho pensato che tutto era finito
E che non voglio continuare a vivere
Ma cos'altro posso fare?
E mi sento come se stessi fingendo
E come se avessi ormai fatto tutto
Ed ho lasciato crescere una barba grigia
Ma piango come un bambino

Avevo sette anni quando ti cantai
"Rosin the Bow"
Nella cucina di zia Mary
E non riesco a credere

Che ho continuato a fare questo
Per tutto questo tempo
Ma adesso suonare e cantare
Mi sembra un gioco e un delitto

C'è chi mi ha telefonato per sapere se sto bene
Li ho rassicurati
Ma non è così
C'è un limite

Mi dicono che alla fine
Sono i tuoi migliori amici ad aiutarti ad andare avanti
Ma lo sanno tutti
Che eri tu la mia migliore amica

Certo ho avuto un aiuto
Lo so, stavo male
Si suppone che succeda qualcosa
Quando qualcuno muore

Ma ancora una volta comincio a star meglio
Sarò forte
Dopo tutto, ascolta
Sto cantando questa canzone

Quando tu eri viva
Non ero mai solo
Da qualche parte nel mondo
C'era qualcosa che poteva essere chiamata casa

Ora mi sento come se fossi un barbone senza casa
Ma starò bene
Camminerò attraverso i giorni
Fino ad arrivare a guardare in faccia la notte.

martedì 22 gennaio 2008

Just a story ...



E' molto tempo che "frequento" Elliott Murphy, fin da quando alla fine degli anni settanta si vide assegnare, fra tanti altri, la maledizone di un'etichetta che ha portato sfortuna a quanti l'hanno avuta in dono. Quella di essere un erede. L'erede di Bob Dylan. Dai tempi di "Aquashow" e di "Just a story from America", ho continuato a seguirlo, musicalmente parlando, da New York a Pargi, dove adesso vive, suona, incide dischi (ne ha incisi ben ventinove, senza mai perdere lo smalto) e, ultimamente, scrive anche libri che viaggiano anch'essi fra New York e Parigi. Si trovano anche in edizione in lingua italiana. Uno è una sorta di diario, "Note al caffé". L'altro, "Il mio nome è John Little" (orig. "Poetic Justice") è un ... western immaginario.

Generazione Perduta
di Elliott Murphy

La madre del bandito sta pensando a quando lui aveva gli orecchioni
E lei era davvero preoccupata
E sperava che non ci fossero conseguenze
Nel modo in cui la cosa si sarebbe risolta
E il bandito giace ferito mentre il dottore
Sta facendo un cenno al sergente di polizia
E le ultime parole che stava dicendo
Avevano a fare con il credere in Dio

E chi divide gli oceani
Quando una generazione ha perduto il suo posto
E chi sta montando il film
Della razza umana

E la sorella della prostituta
Sta cercando il modo giusto di amare
Dal momento che quando prova a battere
In questi giorni è dannatamente difficile per una ragazza
E la storia d'amore sul suo angolo di strada
Guida una cadillac modello Eldorado
E ultimamente lei ha cominciato a pensare
Che la realtà non è quella che si vede nei film

E chi divide gli oceani
Quando una generazione ha perduto il suo posto
E chi sta montando il film
Della razza umana

E il reduce dal Vietnam, senza una gamba
Sta provando a trovare un lavoro o una moglie
Perché non riesce a darsi pace
Ed è condizionato dal vivere su una sedia a rotelle
E gli assassini viaggiano ancora liberi per il paese
E contano i loro soldi
Con le loro mani insanguinate
E ultimamente ho cominciato a pensare
Che forse è tempo di prendersi una pausa

E chi divide gli oceani
Quando una generazione ha perduto il suo posto
E chi sta montando il film
Della razza umana

lunedì 21 gennaio 2008

Democrazia è il fucile in spalla agli operai



Un corteo interno, di operai, a viso scoperto, che spazza via gli impiegati crumiri della Fiat asserragliati nei loro uffici. Su una parete, prima di andar via, viene apposto, fra le esili proteste dell'unico operaio-sindacalista di tutto il film, un drappo rosso con sopra scritto a grandi lettere maiuscole: "POTERE OPERAIO".
E' la mia sintesi, la scena sopra descritta, del bel film di Wilma Labate, "Signorinaeffe"!

Poi ci sarà tutto il resto, quello di cui non si parla nel film (la strage della stazione di Bologna) e quello di cui si parla (la marcia dei quarantamila quadri ed impiegati Fiat). E prima c'è stato quello di cui non si parla (il licenziamento dei sessantuno operai accusati di connivenza colla lotta armata) ma che si intravvede nelle parole dure di un oste già operaio Fiat, parole da cui il protagonista prende bruscamente la distanza, dicendo che a lui non piacciono i morti ammazzati.

Prima c'è stata, non vista, quella sconfitta che si è già consumata ed è oramai dipinta a tratti indelebili sul volto degli operai fin dall'inizio del film; molto prima che tale sconfitta venga sugellata, alla fine del film stesso, dalla votazione-farsa, sull'accordo, davanti ai cancelli. La svendita di un'intera classe operaia, viene sancita dalla voce del sindacalista (sarà stata la voce di quel Carniti, lo stesso cui il film sarebbe tanto piaciuto!?) che dichiara l'accordo approvato, nonostante il filmato d'epoca ci consegni l'immagine di una assemblea decisamente contraria all'accordo! Magie sindacali mai dismesse.

In mezzo c'è tutto il film, con il suo saper coniugare il "politico" con il "personale", attraverso una capacità quasi inedita e sconosciuta per il cinema italiano degli ultimi trent'anni, mettendolo in scena nelle tante piccole situazioni che rappresenta. I silenzi di Sergio, un Filippo Timi che ha l'unico torto di non essere Gian Maria Volonté, a cui continua a tentare di riferirsi, e di riportarci. La famiglia di Emma, nelle sue componenti (sublime, la nonna) e nei suoi riti a tavola (i due maschi che si consolano mangiando pasta e fagioli); il vecchio mondo che si credeva fosse stato in qualche modo spazzato via da dodici anni di lotte e di cultura operaia che torna ad intonare il suo peana al padrone, e a vendergli e sacrificargli i figli. Figli oramai - di nuovo - troppo pronti a sacrificarsi e a lasciarsi vendere.

La partita è persa. E' persa già in quella testata sul viso, data a Sergio dal dirigente Fiat. E' perduta nelle "pere" che si fa il giovane operaio amico di Sergio. E' perduta nella distanza che Sergio misura, rispetto ad Emma, fin dentro l'aula di matematica, all'università. Ed è irrimediabilmente perduta nell'incapacità imbelle di quel reparto operaio che cede senza quasi reagire alla violenza mercenaria, prezzolata dall'ingegnere Fiat rivale di Sergio.
Forse è proprio la "storia d'amore", l'anello debole del film! Oppure ne è proprio la cifra, e la metafora, riuscendo a raccontarci la sconfitta e la disfatta proprio attraverso la sconfitta e la disfatta dell'amore. L'amore viene sbaragliato né più né meno di quanto venga sbaragliata la classe operaia. Quasi, anzi senza quasi, di conseguenza.
E così, mentre viene siglato, proprio mentre sto scrivendo, l'ennesimo accordo bidone, concordato fra padroni e sindacati, c'è un film da andare a vedere.
Un film da guardare. A lacrime asciutte!

venerdì 18 gennaio 2008

verità



Doc Schneider
, come si definisce lui stesso, "un avvocato per lavoro e per amore e un cantautore, inoltre. Al sicuro qui ad Atlanta".
Doc Schneider, canzoni come acquarelli - a volte ce n'è un bisogno disperato! - come questa, scritta col cuore e con animo leggero per un'amica, una collega di lavoro. Parla di come le persone, a volte, siano sleali nei loro rapporti. Non dicono la verità per paura di ferire il prossimo. La canzone - racconta l'autore - è nata quando ha sentito un suo cliente raccontare di un "movimento per la sincerità radicale"!

La canzone di Jennifer (Mi piace quando menti)

Mi piace quando sospiri
mentre stai dormendo, i tuoi piedi nudi
Mi piace quando menti,
ogni occasione che dai ai nostri occhi di incontrarsi
e mi piaci nei tuoi jeans
e tutto quanto
come se io non avessi mai saputo
che per te è lo stesso, lo stesso

Ma tu non dici mai la verità
perché se lo facessi tutto andrebbe in pezzi, in pezzi
E non sto a chiederti prove
non importa cosa c'è nel tuo cuore
dal momento che non voglio la tua sincerità
Voglio solo te, accanto a me
Certo, posso leggerti dentro gli occhi
ma mi piace quando menti

Sono caduto dentro la tua vita
e adesso è semplice non volere più partire
Vivo dentro la tua luce
e spero che tu non lasci mai scendere le ombre
ed ogni notte sembra
qualcosa che rassomiglia ai miei sogni
ed ogni volta che mi chiami
cado giù ruzzolando

Ma tu non dici mai la verità
perché se lo facessi tutto andrebbe in pezzi, in pezzi
E non sto a chiederti prove
non importa cosa c'è nel tuo cuore
dal momento che non voglio la tua sincerità
Voglio solo te, accanto a me
Certo, posso leggerti dentro gli occhi
ma mi piace quando menti

Qualche volta mi ferisce
averti solo per poco
e poi sentire che ci sono cose che
non mi hai mai detto
le cose che io ho detto a te
e sapere che stanotte non vuoi
non vuoi

Ma tu non dici mai la verità
perché se lo facessi tutto andrebbe in pezzi, in pezzi
E non sto a chiederti prove
non importa cosa c'è nel tuo cuore
dal momento che non voglio la tua sincerità
Voglio solo te, accanto a me
Certo, posso leggerti dentro gli occhi
ma mi piace quando menti
e dici che è vero
Mi piace quando menti
Certo, posso leggerti dentro gli occhi
ma mi piace quando menti.

giovedì 17 gennaio 2008

Da Lama a Ratzinger



Alla fine ... è finita così. Al papa sarebbe stato "impedito" di parlare a "La Sapienza"!
E infatti, magari gli andava detto: "vieni, vieni!" E poi, chissà ...
Comunque, adesso stanno sbraitando un po' dappertutto. A colpi di cazzate, e di cifre.
Sono venuti a dirci che i cattolici nel mondo sarebbero un miliardo e mezzo (parola di Giuliano Ferrara!). Chissà come andrebbe - mi domando - se, come nel film di Lelouch, si chiedesse un euro (vabbé, lì era un dollaro) ad ogni cattolico nel mondo per la liberazione del papa preventivamente sequestrato? Si riuscirebbe a tirare su un miliardo e mezzo di euri?
Non credo proprio! Mi sa che ci hanno messo anche me, in quel miliardo e mezzo!

mercoledì 16 gennaio 2008

Pensando alla mia colite...



Al personaggio del Dr. House, e ai suoi telefilm, sono stato "iniziato" da mio figlio. Lui ha un debole per due generi di personaggi, entrambi "politicamente scorretti", i bastardi e i cazzoni. E il Dr. House non è un cazzone! Così mi sono interessato alla cosa e mi è capitato di seguirne con interesse qualche episodio. Episodi che, fra le altre cose, devo dire, recano sempre in sé delle splendide canzoni!


Dr. House: "le prescrivo io una cosa. Costa poco, il che non guasta, perche'
l'assicurazione non gliela passa"

- gli porge la ricetta -

Paziente : "Cogaritte!??"

Dr. House: "Sigarette. Una-due volte al giorno, ne' piu' ne' meno. Gli studi
hanno dimostrato che il fumo e' uno dei sistemi piu' efficaci per
controllare l'infiammazione intestinale. E poi e' risaputo che rende del
30% piu' fichi.

Paziente: "Cos'e'? Uno scherzo per caso?

Dr. House: "Il fatto che renda piu' fichi sì. Il resto e' vero"

Paziente: "Ma non da' un'assuefazione nociva?"

Dr. House: "Molte delle cose che prescrivo danno un'assuefazione nociva. La sola
differenza è che il fumo è legale."

martedì 15 gennaio 2008

Assassini e Codardi



Rimane quel senso di fastidio, e di stanchezza, dato dalla ripetizione infinita dell'espediente filmico che vuole farti vedere le immagini riflesse, deformate, da un qualche vetro. In uno sforzo immenso di farti capire la metafora ... del mito. Ma è solo un espediente, e nemmeno troppo alto! Non basta a fare cinema, e men che mai a raccontare.
"L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford" è un film lungo e noioso. Troppo lungo e troppo noioso, quasi quanto il suo titolo. Certo, non mancano dei "bei momenti", delle invenzioni che ti riportano al cinema, nel secondo film (mi dicono che il primo, "Chopper", sia uscito solo in dvd: dubito che mai lo cercherò!) di Andrew Dominik, regista neozelandese. Dicevo, non mancano i bei momenti come quando l'assassino Robert Ford spara per terra, vicino ai piedi di Nick Cave che sta cantando la ballata di Jesse James, attribuendo ben tre figli al bandito deceduto. "Erano solo due, i figli" - si limita a precisare il bravo Casey Affleck, prima di uscire dal saloon. Anche la rapina al treno potrebbe arrivare addirittura ad affascinare, con i suoi giochi di ombre e luci ed i vagoni affollati all'inverosimile. Potrebbe, se solo non fosse malamente ritagliata sulla rapina iniziale al treno di Butch Cassidy, trasformando il custode dei valori da simpatico quasi-complice in vittima designata, con un inutile gioco di violenza che farebbe sorridere Peckimpah; prima di farlo incazzare, rubandogli malamente la scena dei barattoli sugli scaffali di "Pat Garrett & Billy the Kid".
Troppe citazioni, troppe! E immerse, affogate, in centosessanta minuti di sequenze quasi sempre estenuanti. E Jesse James, a morire, ci mette più di due ore: un'agonia! E, quando finalmente si becca quella palla in testa, è stato oramai trasformato, improvvidamente, in una sorta di "rapinatore zen" che, prima di ammazzare uno dei suoi ex-complici, si mette a parlare di stelle, e di come ogni volta che le conti (vien da pensare che sia un'attività cui si dedichi spesso, la notte), il numero gli risulta essere sempre diverso.
"Non so nemmeno cosa siano propriamente, le stelle" - considera l'altro.
"Il tuo corpo lo sapeva, ma la tua mente l'ha dimenticato" - risponde il bandito iconografico.
E uno si chiede che cazzo gli spari a fare, dopo. Una battuta così avrebbe annientato chiunque, risparmiano il piombo!
Alla fine, in una ventina di minuti, la parte più interessante di cui dicevo prima, con l'assassino che "rappresenta" sé stesso nei teatri di tutta l'America. Fino alla nemesi. La morte per mano di un "vendicatore" in cerca della sua gloria, come Robert Ford prima.
Come uno specchio, appunto!
E per tutto il tempo, la voce fuori campo che non ti lascia mai in pace.
Aggiungendo fastidio al fastido.
Penso che andrò a riguardarmi "I Cavalieri dalle Lunghe Ombre"!

lunedì 14 gennaio 2008

Espressioni



"Ci vediamo ieri"

Curiosamente, è un'espressione araba che serve per troncare una conversazione, o una relazione, che ha fatto, alla lettera, il suo tempo. E' scaduta.
In originale è ancora più bella. Sembra quasi una formula magica, da pronunciare per far sparire l'indesiderato:

"Ashufakembereh!"

venerdì 11 gennaio 2008

A proposito di anni 70 e processi senza difesa ...



«Espulso a dodici anni da tutte le scuole: molestava una coetanea nel cortile di una scuola media del centro.»

La notizia è del 15 Maggio 1977, a Milano.
La decisione, che decreta la morte civile di un ragazzino, viene presa da un tribunalino d'inquisizione, composto da due insegnanti, due genitori e il preside!

mercoledì 9 gennaio 2008

fughe




Accade che non siano stati solo poliziotti, magistrati e padroni di varia fatta ad aver messo al mondo dei figli nei fatidici anni settanta. Così è successo allora a Piero Morlacchi e, per alcuni, la cosa peggiore è stata che il figlio, Manolo, abbia scritto un libro sul suo "essere figlio" che, per di più, è stato pubblicato. Il libro parte da assai lontano, dagli anni del fascismo, quasi volesse raccontare una sorta di saga familiare, un'epopea, quella della famiglia Morlacchi. Così nella prima parte si addensano testimonianze a cercare di tracciare un quadro delle epoche e dei tanti componenti la famiglia. Riesce spesso ad essere toccante, la vicenda, e le storie sono belle storie. Parlano di proletariato e di lotte, articoli che non è che abbiano poi oggi tutto questo mercato. Poi si arriva ad anni più recenti, gli anni cinquanta e la morte di Stalin e si racconta come lo "stalinismo" fosse di casa nel mondo operaio e proletario italiano in generale, e milanese nella fattispecie. E così, si viene anche a "scoprire" il dna stalinista del nucleo storico delle brigate rosse. Non ha problemi ad ammetterlo, Manolo, anche a colpi di "aneddoti", come quello del padre che per rincuorare un compagno di cella (Sirianni, di Lotta comunista), ferito da secondini mascherati, e in crollo di nervi, lo apostrofa definendolo "trotzkista di merda"!
Sorvolando sul fatto che "lotta comunista" era - ed è - organizzazione tutt'al più "bordighista", e mai trotzkista; la scoperta dello "stalinismo" delle brigate rosse è un po' la scoperta dell'acqua calda, rapportabile solo alla scoperta dello "stalinismo", appunto, di una quota di certo proletariato che, c'è da dire, però che lo viveva come l'affermazione di un'identità di classe, in contrapposizione a chi tale identità aveva svenduto. Il problema sarebbe stato, semmai, rendersi conto che la svendita era avvenuta molti anni prima, ed era stata orchestrata proprio dalla russia sovietica. Ma non voglio fare digressioni.
Fatto sta - ed è questo il senso del mio scrivere, oggi - che questo libro di Manolo Morlacchi ha dato fastidio. Ed ha dato fastidio - non agli eredi dei Calabresi e dei Moro - ma a Wu Ming 1 (uno dei componenti il celebre collettivo editoriale) che ha ravvisato nell'operazione un difetto, sotto forma di debito non assolto, nella sua recenzione su "Nandropausa". Ovvero ha lamentato, nella "ricostruzione" l'assenza totale di qualunque "pentimento" o "dissociazione". Ha ritenuto - come dire - eccessiva l'assunzione di eredità da parte del figlio! E, per farlo, ha denunciato come la deriva non è stata, appunto, una deriva ma era già insita nel culto dell'avanguardia. E, fin qui, se ne potrebbe anche discutere, della cosa. E su tale lettura, anche lo stesso Manolo Morlacchi ha avuto modo di ribattere dalle pagine del sito di Carmilla.
Ma quello che non mi ha convinto, nelle argomentazioni del Wu Ming, sono due cose. La prima è quasi banale ed è il suo avventarsi contro il titolo del libro ("la fuga in avanti"), coniugandolo artatamente con la frase virgolettata sul retro di copertina ("... e non ci vengano a parlare di fughe in avanti, gli specialisti delle fughe all'indietro", per poter affermare, a sua volta che "Riconoscere l'orrore anche dentro l'amore non è "fuga all'indietro", né significa abiurare il conflitto. Al contrario, è il solo modo per tornare a pensarlo fecondo." E questo, a mio avviso, il Wu Ming lo fa senza rendersi conto che la frase sul retro - nel libro - si trova dentro un documento citato risalente al febbraio 1965, stilato dai militanti del gruppo "Luglio 1960" di Milano, rivolta ai dirigenti del pci di allora, certo non meno stalinisti dei brigatisti a venire, e in cui il Wu Ming - per deduzione, se ha letto il libro - sembra riconoscersi!
La seconda cosa, a mio avviso, è assai peggiore ed ha a che fare con l'auto-convinzione che porta a cambiare la realtà passata, fino ad assumerla come verità assoluta. Così - nel caso - si usa il peggior stalinismo per combattere ...lo stalinismo. Arrivare a dire che " Roberto Peci venne dichiarato traditore su base biologica - per consanguineità con un pentito - dopo un "processo" senza difesa" è un falso assoluto, in quanto Roberto Peci non venne assassinato, dopo un processo - questo sì stalinista - volto ad ottenere che la vittima riconoscesse le ragioni degli assassini, per motivi "di sangue", solo in quanto fratello di Patrizio. Ma sembra che, addirittura, fosse passato al libro paga come confidente ben prima del fratello. Almeno così dicono le famose "inchieste giornalistiche", tipo quelle di Zavoli e Minoli, che tanta ammirazione suscitano nei sinceri democratici.
La lotta contro lo stalinismo, che è ancora ben vivo ed egemone, nella gestione della politica e, soprattutto, della memoria, non credo possa autorizzare nessuno a sparare cazzate come quelle sparate dal Wu Ming in questione. La verità va sempre onorata, per intelligenza!


Manolo Morlacchi, La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore, ed. Agenzia X, pp. 216, € 15,00.

martedì 8 gennaio 2008

Con una pallottola alla schiena



fonte: "il manifesto" del 5 gennaio 2008 Giancarlo Bocchi

Il 5 gennaio di settantuno anni fa, sulle alture spagnole de El Matoral, una pallottola vigliacca colpiva alle spalle e uccideva Guido Picelli, vicecomandante del Battaglione Garibaldi. Sulla vita di uno degli oppositori antifascisti più importanti e ingiustamente anche più misconosciuti della storia del nostro paese, da più di 10 mesi sto portando avanti una ricerca storica-documentaristica per la realizzazione di un film, che mi ha portato a viaggiare attraverso gli archivi riservati e segreti di Russia, Spagna, Francia e Italia. Qui a fianco ho voluto ricordare un episodio poco conosciuto della vita del rivoluzionario di Parma, ma importante per il suo significato storico-politico e simbolico: nel 1924 Picelli inalberò la bandiera rossa sul Parlamento italiano sfidando Mussolini che aveva abolito la Festa del Primo Maggio. Ma chi era quest'uomo coraggioso, altruista, nobile, libertario e beffardo? Negli anni '20 e '30 fu una vera leggenda per il proletariato internazionale. Il teorico della «guerriglia urbana» era in realtà un fervente anti-militarista che si serviva delle tecniche e strategie militari per difendere il proletariato. In questo senso sarà sempre ricordato per la «Battaglia di Parma» del 1922, quando sconfisse con 400 Arditi del popolo i 10 mila squadristi fascisti guidati da Italo Balbo. Fu una vittoria unica, un capolavoro tattico che le forze politiche democratiche nazionali non vollero trasformare in strategia. Così tra errori, settarismi e divisioni, misero il paese in mano ai fascisti. La strategia politica di Picelli era racchiusa in due parole: «unità e azione». Con il suo Fronte unico, composto da anarchici, comunisti, socialisti, cattolici, repubblicani, ecc. nel 1922 sbaragliò i fascisti. Per primo aveva indicato una via, che sarà poi percorsa molti anni dopo, con grave ritardo e a volte malamente, dalle forze democratiche. In questa occasione, grazie a un documento inedito trovato negli archivi russi, per la prima volta possiamo indicare Guido Picelli, non solo come il vice-comandante dei garibaldini di Spagna, ma anche come il comandante dell' 8° Battaglione delle Brigate Internazionali. Quello che i suoi volontari chiamavano affettuosamente «Il Battaglione Picelli».

Il primo maggio 1924 non è un giorno di festa. Mussolini, che ha preso il potere da quasi due anni, ha abolito la Festa internazionale dei lavoratori. Malgrado l'imposizione del regime fascista le astensioni dal lavoro sono comunque massicce. Pattuglioni di agenti di polizia e di carabinieri si aggirano per le vie arrestando gli operai che non possono giustificare l'astensione dal lavoro. Solo nella capitale i lavoratori arrestati sono più di mille.
È in questo contesto che Guido Picelli, deputato comunista, già comandante degli Arditi del popolo durante la vittoriosa Battaglia di Parma del '22 contro migliaia di squadristi di Italo Balbo, progetta e attua un'azione solitaria e clamorosa. Picelli vuole sfidare il regime fascista proprio nel palazzo del Parlamento ormai in mano ai fascisti, anche grazie ai brogli elettorali.
Nelle elezioni che si sono svolte da poco la lista nazionale del fascio littorio ha riportato, secondo i conteggi ufficiali, 4 milioni di voti e eletto 356 deputati. Più i 19 fascisti eletti in una lista civetta. La sinistra ha ottenuto al Nord più voti dei fascisti, ma il risultato elettorale complessivo è disastroso. I socialisti hanno perso i 3/5 dei voti, mentre il Pc ha ottenuto un piccolo successo, eleggendo 19 deputati. Tra questi l'«indipendente» e ex deputato socialista Guido Picelli.
Il sistema delle preferenze indicate dal Partito è rigido. Ma Picelli vince ugualmente. È l'unico a essere eletto al di fuori delle preferenze del Partito, grazie al largo seguito popolare che ha in Emilia.
Picelli è alto, ha gli occhi intensi, luminosi e magnetici. Ha un portamento elegante e fiero che incute rispetto. Quella mattina del primo maggio del 1924, all'ingresso della Camera dei deputati i commessi lo salutano con deferenza, rispetto e forse commentano tra di loro: «L' on. Picelli è veramente matto a venire qui proprio oggi». È un giorno di tensione. Decine di deputati fascisti bivaccano nell'edificio.
Ma Picelli è uno che non ha paura di niente e di nessuno. Sulla tempia ha una cicatrice. È il segno di un colpo di rivoltella ricevuto nel marzo 1923. Un fascista di Parma aveva mirato dritto alla sua fronte e gli aveva sparato a bruciapelo. Per fortuna o per caso, Picelli si era salvato con un movimento istintivo della testa.
Negli ultimi mesi è scampato a numerose aggressioni che potevano diventare mortali. Con l' aiuto dei popolani dei borghi dell'Oltretorrente ha organizzato una rete segreta di percorsi e vie d'uscita per fuggire con gli uomini della sua organizzazione clandestina dei «Soldati del popolo» agli agguati e agli attentati squadristi. Per organizzare la resistenza e partecipare alle riunioni politiche riesce ad attraversare gran parte della città di Parma passando per i tetti delle case. Frequentemente salta dalle finestre e passa per gli scantinati e i sotterranei seguendo percorsi sconosciuti a altri. Per i fascisti locali è diventato l'imprendibile. Picelli non è un politico di primo piano come Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti. Ma al contrario dei dirigenti può vantare di essere l'unico che ha sconfitto sul piano militare i fascisti durante la Battaglia di Parma, nelle 5 giornate dell'agosto 1922.
Per il proletariato italiano Picelli è una leggenda. Una leggenda che «ha un coraggio di ferro», come dicono i popolani della sua città. Anche per questo motivo è molto temuto dai fascisti, fuori e dentro il Parlamento.
Nell'ottobre 1923 venne organizzato un complotto (come poi avverrà mesi dopo per Matteotti) per farlo fuori. Vincenzo Tonti, infiltrato, strumento del regime, preso dal rimorso e affascinato dalla nobiltà d'animo di Picelli denuncia pubblicamente: «Gli orditori del complotto erano divisi da due opinioni: secondo alcuni l'on. Picelli doveva essere bastonato a sangue (...) secondo altri, egli doveva scomparire addirittura». Chi erano gli organizzatori del complotto? Tonti denuncia il generale Agostini, il generale Sacco, il vicequestore Angelucci e Italo Balbo. Il complotto doveva avere inizio proprio davanti alla Camera dei deputati. Un portiere infedele, vedendo uscire Picelli, doveva avvertire i sicari del regime.
Ma quel primo maggio del 1924 Picelli non si cura dei complotti e dei rischi che corre. Ha in testa l'azione che deve portare a termine. È deciso, determinato. Dopo essere riuscito a seminare i pedinatori, a far perdere le sue tracce agli sbirri che lo seguono giorno e notte, attraversa i corridoi di Montecitorio con l'aria decisa di chi ha un lavoro urgente da fare. In mano ha il solito bastone da passeggio, che a volte gli serve come arma di difesa, e tiene sottobraccio qualcosa di morbido avvolto in una carta. Sale lo scalone del palazzo e senza dare nell'occhio arriva al primo piano. Attraversa alcune sale, si dirige verso la grande finestra prospiciente il balcone sulla facciata principale sulla piazza di Montecitorio .
Picelli esce sul balcone, scarta il pacchetto che aveva sottobraccio e srotola un grande drappo rosso ornato di falce e martello. L'asta portabandiera che si protende sulla piazza è nuda. Il tricolore sabaudo viene inalberato solo durante le sedute del Parlamento. Ma in quel momento non c'è alcuna bandiera perché la nuova legislatura non è ancora iniziata. Picelli con l' aiuto di alcuni pezzi di spago fissa il vessillo rosso sull' asta .
Dalla piazza i passanti, le forze dell'ordine e i fascisti guardano allibiti il vessillo rosso dei lavoratori e del comunismo che sventola placidamente sul palazzo del parlamento del regno. Picelli, anche approfittando del trambusto e confusione, scende tranquillamente le scale ed esce dal palazzo. Nessuno lo ferma. Nessuno gli chiede niente.
Il suo non è un atto per riaffermare lo slogan bordighista «Rosso contro tricolore», ma piuttosto un gesto simbolico per affermare che la Festa dei lavoratori non si tocca.
La polizia, dopo aver rimosso il corpo del reato dall'asta del palazzo del Parlamento, svolge intense e urgenti indagini. Benito Mussolini, che non si è ancora trasferito a Palazzo Venezia e alberga da presidente del consiglio nel vicino palazzo Chigi è furioso: «Ancora quel Picelli!». Probabilmente in Mussolini quel giorno riaffiorano i timori espressi prima della marcia su Roma: «Non possiamo arrivare a Roma lasciandoci alle spalle una situazione scoperta e pericolosa come quella di Parma». I primi rapporti di polizia arrivano alle 16.30 dello stesso giorno nelle mani del capo della polizia: «Verso le ore 14, l' on. Dudan, entrato con l'ing. Foscolo del Comune di Roma, nel salone di lettura della Camera, si era accorto che era stato attaccato all'asta della bandiera, posta al balcone di centro del 1° piano del Palazzo di Montecitorio, un drappo rosso (...). Immediatamente l'on. Dudan si era affrettato a togliere quel drappo, informandone successivamente la Questura della camera. Questa avrebbe raccolto sufficienti elementi per ritenere autore del gesto inconsulto l' on. Picelli, deputato di Parma, che non è stato più rintracciato nel locali della Camera».
Il rapporto del questore, il giorno dopo si si arricchisce di particolari : «Alle ore 13.45 di ieri l' on. Dudan e l' architetto Fasolo (Foscolo nel secondo rapporto di polizia diventa Fasolo) del comune di Roma, saliti al salone dei giornali, alla Camera dei Deputati, notarono che un individuo vestito di nero, sbarbato, si ritirava dal balcone prospiciente su piazza Montecitorio, allontanandosi frettolosamente dal salone stesso. Insospettito, l' on. Dudan si avvicinò al balcone e si accorse che un drappo rosso era stato legato all' asta della bandiera». Quindi, secondo i documenti ufficiali , la bandiera rossa dei lavoratori e del comunismo sventolò per almeno 15 minuti sul palazzo del Parlamento italiano.
L'epilogo della clamorosa azione avviene alle 17.30 dello stesso giorno. Picelli viene rintracciato dalla polizia in via Uffici del Vicario e «tratto in arresto». Secondo il rapporto della Questura «L' on. Picelli confessò (sic) il fatto aggiungendo di aver voluto compiere una affermazione di carattere sentimentale e politico». Il questore inviperito per la beffa arresta Picelli «per delitto di offesa alla bandiera nazionale, ai sensi dell' articolo 115 Codice Penale».
Come ricordò Umberto Terracini anni dopo, Picelli compì l' azione «temerariamente e di sua iniziativa» aggiungendo poi che «dopo che essa fu compiuta certamente nessuno dei compagni di partito gliene fece rimprovero».
Dopo poche settimane, l'10 giugno 1924, viene rapito e assassinato a Roma da sicari fascisti il deputato socialista Giacomo Matteotti. Il 30 maggio 1924 Matteotti aveva preso la parola alla Camera elencando tutte le illegalità e gli abusi commessi dai fascisti per vincere le elezioni. Nel discorso venne pronunciata la profetica frase: «uccidete pure me, ma l'idea che è in me non l'ucciderete mai». Il corpo di Matteotti viene ritrovato il 16 agosto in un bosco nel comune di Riano a 25 km da Roma. L'intero paese è scosso da un'ondata di sdegno e d' indignazione. Il regime fascista vacilla.
Il 17 luglio al Comitato Centrale del Partito, Picelli propone la linea dell'azione: «L' organizzazione di carattere militare deve essere rafforzata. Da un momento all' altro noi possiamo essere trascinati sul terreno dell'azione e guai se il Partito non fosse in condizione di compiere interamente il suo dovere...». Come ai tempi della battaglia di Parma del 1922, il suo appello all'«unità e all' azione» non sarà ascoltato.

Giancarlo Bocchi (cineasta)

lunedì 7 gennaio 2008

una vita (anzi due) in tre minuti e mezzo!



Desperados che aspettano il treno giusto
di Guy Clark

Io stavo suonando Red River Valley e lui stava seduto in cucina e piangeva
E tamburellava con le dita ripassandosi i suoi settant'anni di vita
E mi chiedo, Signore,perché ogni pozzo scavato alla fine si secca
Eravamo amici, io e questo vecchio

Eravamo come desperados* che aspettano il treno giusto

Lui è uno sbandato e scava pozzi di petrolio ed era un vecchio allievo del mondo
Mi ha insegnato a guidare la sua macchina per quando lui era troppo ubriaco per farlo
E mi strizzava l'occhio quando mi dava dei soldi per portar fuori una ragazza
E le nostre vite assomigliavano ad un vecchio film western

Come desperados* che aspettano il treno giusto

Fin dal momento in cui cominciai a camminare, prese a portarmi con sé
In un bar che si chiamava "Rana Verde Café"
E lì c'erano dei vecchi con il ventre gonfio di birra ed il gioco del domino
Raccontavano balle sulle loro vite, intanto che giocavano
Ed io ero solo un bambino, ma si rivolgevano a me chiamandomi "il suo compare"

Come desperados* che aspettano il treno giusto

Poi, un giorno alzai gli occhi e mi accorsi che aveva già ottant'anni
Ed il suo mento era macchiato di tabacco da masticare, tutt'intorno
Per me lui continua ad essere uno degli eroi di questo paese
Ma perché - mi chiedo - è vestito come uno di quei vecchi
E sta lì a bere birra e a giocare a scala quaranta?

Come un desperado che aspetta il treno giusto

E il giorno prima che morisse, lo andai a trovare
Io ero cresciuto e lui era alla fine
Così ci limitammo a chiudere i nostri occhi e a sognare insieme, in cucina
E cantammo un altro verso di quella vecchia canzone
Andiamo Jack, sono sicuro che ora il tempo è venuto

E noi siamo come desperados* che aspettano il treno giusto


* Desperado (slang): chi scommette, giocando d'azzardo, al di sopra delle sue possibilità.

venerdì 4 gennaio 2008

Epitaffio


Un uccello su un filo
di Leonard Cohen

Come un uccello su un filo
Come un ubriaco che canta in coro a mezzanotte
A modo mio, ho provato ad essere libero.
Come un verme infilzato all'amo
Come un cavaliere preso da qualche antico libro
Ho conservato i miei nastri per te.

Se sono stato prepotente
Spero tu riesca a passarci sopra
Se sono stato falso
Spero tu sappia che non l'ho mai fatto con te.

Come un bambino nato morto
Come un animale feroce col suo corno
Ho fatto a pezzi chiunque cercasse di colpirmi.
Ma credo ciecamente in questa canzone
E in tutto quel che ho fatto di sbagliato
Ti ripagherò di tutto.

Ho visto un mendicante appoggiato alla sua gruccia
Mi ha detto: "Non dovresti chiedere così tanto."
E una graziosa donna sporgendosi dalla sua porta buia,
Mi ha urlato: "Hey, perché non chiedere di più?"

Come un uccello su un filo
Come un ubriaco che canta in coro a mezzanotte
A modo mio, ho provato ad essere libero.

giovedì 3 gennaio 2008

Marx a Detroit e ... Totò a Cleveland



Il remake, al cinema come in altri territori, di solito è sintomo di mancanza di idee. Oppure no. Oppure si potrebbe anche configurare come supremo gesto d'amore. Simile, nella sua dinamica, a quello che Héctor German Oesterheld fa dire ad Ezra Winston (uno dei personaggi del suo Mort Cinder, disegnato da Alberto Breccia), a proposito delle "copie" di un'opera d'arte, che sarebbero superiori all'originale, in quanto recherebbero in sé, oltre alla bellezza anche l'amore per l'originale!
E magari questo "Welcome to Collinwood" non sarà certo superiore a "I soliti ignoti", ma riesce a trasmettere come un senso di stranita ammirazione per un'operazione che traspone nell'odierna Cleveland la Roma del dopoguerra, con cinque squinternati (più un George Clooney su una sedia a rotelle che interpreta il ruolo che fu di Totò) che non avrebbero niente da invidiare agli originali, se non fosse per il continuo richiamo del cuore.
Non saprei davvero quale, delle due cinquine di ladri, definire più improbabili!
Poche e piccole variazioni nello script, giusto per evidenziare le poche e piccole differenze fra le due locazioni, fra cui il finale.
Ché non c'è pericolo, a Cleveland, che un sottoproletario possa cadere nella trappola del lavoro!
Insomma, un film da guardare. Con indulgenza e con l'attenzione dovuta alla somiglianza e alla differenza. Col cuore.

mercoledì 2 gennaio 2008

Redford per Sartori


Se non ricordo male, il cinema nel giorno di capodanno è sempre stato una sorta di rito. Ci andavo con mio padre, io e lui da soli, quand'ero bambino, a vedere un western o un horror, che allora non si chiamavano horror ed in famiglia piacevano solo a me e a lui, e riusciva a farmi entrare anche se era vietato, il film in questione.
A quanto pare, e a giudicare dalla quantità di persone, è ancora un rito! E ieri, a Roma dalle parti di piazza Barberini, c'era un mucchio di persone, a svolgerlo il rito. Addirittura in coda per fare il biglietto per accedere ad una delle tre sale, poi in piedi ad aspettare di entrare e ciucciarsi tre quarti d'ora di pubblicità varia, prima dell'inizio della pellicola. E va bene, l'ho fatto anch'io, senza risparmiare le mie solite lamentele ad alta voce. La fine del piacere e del godimento, laddove anche andare a vedere uno spettacolo diventa - è diventato - governato dalle regole di mercato. Tempo di lavoro, anche questo. Come tutto, oramai. Niente sfugge al tempo imposto. E anche il film, alla fine, si è rivelato esser parte del gioco. Un film inutile, non sto nemmeno a definirlo un brutto film. Ché forse non è nemmeno un film! Certo, c'è una regola, nella narrativa filmica e ci sarebbe da aggiungere che - diversamente dai libri - non dovrebbe essere dato ad un film di sfuggire dalla narrazione ed entrare nel saggio o, peggio, nel pamphlet. Se - come dice Sbancor - il romanzo (soprattutto noir) è rimasto l'unico modo di descrivere la realtà, dovrebbe essere così a maggior ragione per il film. Ma, purtroppo, abbiamo avuto Moore, nel cinema, negli ultimi tempi, e il "successo" tende ad ... arruolare. E così Redford ha voluto girare questo "Leone per Agnelli". E viene da chiedersi solo perché abbia voluto farlo. La storia si ripete - avrebbero potuto dire insieme Robert Redford e Meryl Streep - la prima volta in tragedia, la seconda in farsa, ripensando al Vietnam e pensando al presente. E Tom Cruise potrebbe anche rendere bene i termini della farsa. E, invece, tutto sembra risolversi in una sorta di chiamata alla realtà e ad un impegno che ha il suono fesso di una lezione di politologia dove - per più di un attimo - ho visto che le sembianze di Redford diventavano quelle di Sartori!