giovedì 21 dicembre 2006

le spine del deserto



La mente ha i suoi propri percorsi. E li segue, annodando e sciogliendo nodi. Così che, a volte, non rimane altro da fare che restare a guardare, mentre lo fa. Magari prendendo appunti, mentalmente. In attesa di poter stendere, su un foglio o su uno schermo, le parole che cercano e provano a ... raccontare.
Ho preso un libro che sto leggendo e ho visto un film. Anzi, nell'ordine, prima ho visto il film e poi, qualche settimana dopo, ho cominciato a leggere un libro. Del libro ne ho già parlato, ed è quello di Maurice Bignami. Del film non era mia intenzione parlarne. Non è un bel film, a mio avviso. Manca di una storia, di una sceneggiatura. E cade nel solito trito schema dei tedeschi cattivi e degli italiani buoni, anzi di più. Degli italiani buoni, nobili e generosi. Il film è "Le rose del deserto" di Monicelli, che ha qualche anno in meno di quanti ne avrebbe Torquato Bignami, se fosse vivo. E qualche anno in più di quanti ne avrebbe mio padre, se fosse vivo. Il film si svolge in Libia, durante l'ultima guerra. E mio padre, l'ultima guerra l'ha fatta in Libia. Il libro, Maurice Bignami, lo ha scritto perché ha letto la bozza di "memorie" che il padre aveva lasciato, morendo. E mio padre ha lasciato, morendo, fra le altre cose, anche un pacco di fogli scritti a mano che cercano di raccontare la "sua" guerra. Credo di essere l'unico ad aver letto quei fogli. Ed è stato giocoforza raffrontare il contenuto di quelle pagine, e le parole dei racconti orali, con il film. Sperando, in cuor mio, di ritrovarci qualcosa da poter riconoscere. Un po' di verità ... romanzesca. La odiava la guerra, mio padre. La odiava di quell'odio feroce che può provare solo chi la guerra l'ha fatta. Chi ne conosce la futilità e l'inutilità. Ma dentro la guerra c'era anche la sua giovinezza e la sua ... libertà. La sua incoscienza. I chilometri infiniti percorsi, in autocolonna, nel deserto della Sirte, di notte; ché di giorno fa troppo caldo. I bussolotti pieni di sigarette. Il fiammifero per accendere la prima, poi le altre a seguire, una via l'altra. Le bombe a piovere. Anche un parto, nel cassone del camion. Nascono facile i bambini, se ne infischiano loro. Un bersagliere, sopra una motocicletta, matto più di un cavallo. Uomo-gallina, lo chiamavano gli "alleati" tedeschi! Un pazzo scatenato che rapinava le scorte teutoniche. Da Tripoli a Bengasi, incrociando i tedeschi in fuga. A piedi. Vuoi un passaggio? Sì, ma dove vai? A Bengasi. Fossi matto! La fame. Un pacco di pasta, finalmente. Sì, ma dove cuocerlo? Dove far bollire l'acqua? Solo un vecchio fusto di nafta. Vuoto. Pasta condita con la nafta. Non è poi così male! E poi ancora le bombe dal cielo. E l'officina prende fuoco. Un operaio è un operaio, anche in guerra. E se muore, gli tocca di morire in officina. Ma no, solo l'80% di ustioni, sul corpo. Forse non si muore, poi. Si "limitano" a farti delle spennellature con la cera fusa. E niente cibo. Ché si rischia l'avvelenamento! Non erano né buoni, né nobili, né generosi, gli italiani. Non più di quanto lo fossero i tedeschi, o gli inglesi, o gli americani. Pazzi, stronzi, generosi, vigliacchi. Come tutti quelli che sono sopravvissuti a quella guerra. Non c'è altro, di lui. Solo quei fogli. Niente film.

1 commento:

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