giovedì 12 ottobre 2006

pescatori



Non riesco a scindere le cose, spesso. Nel senso che ascoltarmi nella testa (o sul giradischi, il ché è lo stesso) "Il pescatore" è un tutt'uno col riandare al primo ascolto: l'estate del 1970. La canzone ebbe un successo enorme, all'epoca. La sentivi dappertutto: alla radio (c'erano solo le tre reti della RAI), nei juke-boxes dei bar, in casa di persone "insospettabili". Avevo diciassette anni nel 1970, e proprio in quell'estate avevo appena finito il liceo. Possedevo già un "patrimonio" fatto dei dischi di Fabrizio De André (comprati a partire da una passa-parola per i banchi di scuola), tutti consumati su certi ignobili attrezzi che avevano il coraggio di chiamare "giradischi". Avevo già comprato, in quello stesso anno, "La buona novella" e ricordo, come fosse ora, che non vi avevo avvertito alcun empito religioso, almeno nell'accezione che rivestiva all'epoca il termine. Intendevo (e probabilmente intendo ancora) i dischi di De André come un unico grande concept-album il cui principale filo conduttore era la rabbia. Problema mio, d'accordo. Problema di una generazione nata arrabbiata. Ma non fui il solo, di quella generazione, ad eleggerlo "fratello maggiore"!
Una rabbia che si riversava, anche e soprattutto, contro tutte quelle promesse che si erano rivelate inconsistenti: la cosiddetta fede, in prima fila. Certo che c'era il discorso di dio. Ma era stato chiuso, a mio parere. Il cielo era vuoto!
"Spiritual" e "La morte" erano state le due facce della prima moneta scagliata sul tavolo della questione. Come se De André ci riproponesse, rivestito di ottima musica, un vecchio cruccio teo-filosofico, e lo risolvesse a modo suo: "Non può esistere un dio che sia, allo stesso tempo, "onnipotente" e "buono" "! "Spiritual" ce lo diceva "in allegria", quasi scherzando sul fatto che un dio che ci tiene ad essere tale, farebbe meglio a farsi vivo; ché noi di andarlo a cercare non ne abbiamo punta voglia, anche se forse di qualcosina dovrebbe renderci conto. "La morte" finiva di parlarci dell'assenza di dio, mettendo in scena quel duello fra l'uomo e quel sé stesso che è l'esistenza/la morte (un doveroso pensiero, nel dire questo, a Vittorio Gasmman che lo rappresentò mirabilmente, questo duello deandreiano, in "Brancaleone alle Crociate").
Il concept-album sulla rabbia continuava, con "Tutti morimmo a stento", dove, a mio avviso, raggiungeva le vette più alte, sia in "arte" che in "rabbia", proprio nella canzone che dava il titolo all'album. Nel volume III non era certo un caso il "S'i fossi foco" di Cecco Angiolieri, un arrabbiato ante-litteram, e la rabbia continuava a sgorgare dalle ferite aperte dalle morti "stronze" di Piero e di Miché. Ma era proprio ne "La Buona Novella" che si arrivava all'apice, della rabbia. "Via della Croce" trasuda della rabbia dei "padri di quei neonati", fino a far alzare il tono della voce. Nessun empito religioso, quindi, almeno per quanto mi riguardava. Solo rabbia.
Ed ecco che arriva l'ultimo (non certo il finale) capitolo: quello de "Il pescatore". E in quell'uomo con gli occhi socchiusi al sole riuscivo (e riesco ancora) a vederci solo un uomo. Un pescatore, per l'appunto. Un pescatore, l'unico proletario, l'unico lavoratore, che non possiede, e non possederà mai, la fonte della sua sussistenza: il mare. Niente da perdere. Visto che il mare non è suo. Lo sa bene chi è nato e cresciuto in una città di mare! E allora, mi dispiace, ma non mi riesce di vedere un "dio omertoso" in quel vecchio dal viso solcato dalle rughe, che sa riconoscere i propri nemici (come sa riconoscere il proprio simile), senza nemmeno aprire gli occhi. Un uomo che si nutre di pane, aiutato da un sorso di vino, perchè non possiede altro. Un uomo, che contro il potere non riesce ad opporre altro che il suo silenzio.
Tanto, il potere, la sua lingua non la comprende!

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