martedì 31 ottobre 2006

strade...



Strade. Strade cattive, strade meno cattive. Qualcuna buona, magari. Strade ovunque, strade che ci attraversano, strade da risalire o da discendere, a seconda della piega che ha preso la nostra vita quando ci volgiamo indietro per lanciare un'altra occhiata, a una di quelle strade.
Via della Maestranza, all'angolo con via Nizza da una parte, la Mastrarua dall'altra. Le strade dove sono nato, dove ho imparato a camminare, a cadere e a rialzarmi.
Via Genova, via Torino, via Milano, le strade(brutte, con brutti nomi) dove sono cresciuto, per quanto mi è stato possibile, e dove ho imparato a correre, circondato da improbabili campi di grano. senza accorgermi che stavo solo prendendo la rincorsa per spiccare il salto verso altre strade. Via del Leone e Via dell'Orto, Via del Ponte Rosso e Via Ghibellina. Quante strade a partire da quella "casa dello studente" in piazza Indipendenza. E anche altre strade, in altre città. Alcune anche dal nome esotico come Köpenicker Strasse.
Le strade. Le strade hanno una loro valenza che è diversa da quella, ad esempio, delle piazze. La piazza parla del collettivo, la strada dell'individuo. Scendere in piazza ha un significato ben diverso dallo scendere in strada. In piazza ci si scende in cento, in mille, in centomila, se occorre. In strada ciascuno ci scende per conto proprio. E certo che in piazza, per arrivarci, bisogna arrivarci dalle strade: ciascuno dalla propria! In strada, nel 1943, ci scendevano i gappisti, ciascuno da solo, nella notte, magari armati di un martello, di un cacciavite, per attaccare il nemico e impadronirsi di quelle armi che necessitavano loro. Le armi che servivano a percorrere la strada ed arrivare nelle piazze.
La strada è la "via del corno" di "cronache di poveri amanti" di Pratolini, tanto per restare a Firenze. Ma se dovessi parlare di una strada che, in qualche modo, le "sussume" (occazzo, ho scritto sussume!!!) tutte, allora parlerei di via de' Macci! Incastonata fra "Le Murate" e Piazza Santa Croce, a due passi da Borgo Allegri, reca in sé sempre più i connotati di un ricordo, perdendo sempre più quelli di strada. Ci dormivo in quella strada, fra pacchi di giornali e ciclostili, sempre sul punto di andare a dormire da qualche altra parte, ma sempre rimanendo lì, alla fine. Un posto così poco casa che ti spronava a vivere per strada! Un bar, di quelli che non esistono più, col bancone, e i tavoli cui sedersi, in marmo. Sgabelli a tre piedi, scomodi il giusto, per bersi un caffè e addentare un bombolone, strettamente necessari entrambi, alle prime luci dell'alba. Appollaiati a dare una scorsa alle "prime notizie" , con le mani ancora umide della colla per "attacchinare".
Non era difficile, a quei tempi, credere a questa canzone di Gaber:

"C'è solo la strada su cui puoi contare
La strada è l'unica salvezza
C'è solo la voglia, il coraggio di uscire
di esporsi per la strada, nella piazza.
Perchè il giudizio universale
Non passa per le case
In casa non si sentono le trombe
In casa ti allontani dalla vita
dalla lotta, dal dolore e dalle bombe"

lunedì 30 ottobre 2006

...cercando pace!



La vela

Una vela biancheggia, solitaria
nella nebbia azzurrina
Che cosa ha lasciato a casa?
Che cosa va cercando così lontano?

L'onda gioca con l'onda
il vento è impetuoso, e l’albero maestro scricchiola e geme
Non crede di andare verso la felicità,
e non è dalla felicità che proviene!

Sotto la chiglia, correnti più luminose del cielo
e da sopra i raggi del sole la scaldano e la confortano;
ma lei, ribelle, cerca la tempesta,
come se solo in essa ci fosse pace e quiete!


- Michail Jur’evic Lermontov -

quando solo il meglio sarà sufficiente...



Il cinema. Già. Che arma potente che hanno inventato, inventando il cinema! Tempo fa, da qualche parte ho letto una cosa che mi ha molto colpito. Riguarda Jean-Patrick Manchette, scrittore arrabbiato di noir. Francese, nato nel 1942 e morto nel 1995, applicava la regola di Deleuze, secondo cui "una società data si riflette nella propria polizia e nei propri crimini". Sovversivo, e non solo del testo letterario, autore di romanzi memorabili come "Nada", da cui venne tratto uno sfortunato film con Fabio Testi e Mariangela Melato. Manchette era anche un critico cinematografico. E nei suoi scritti dichiara di sognare "una rivoluzione che preveda la realizzazione terrestre del cinema americano", e il rifiuto di un cinema che non si ponga agli occhi dello spettatore come "macchina del desiderio".

venerdì 27 ottobre 2006

di pianoforti e di pianisti ...



dedicato a Federico

Durante le cariche della polizia nei giorni di marzo 1977, a Bologna, uno studente, Antonio Marino, suonava il pianoforte sulle barricate.

"Il cielo era nuvoloso a forma di fumo. Quella volta abbiamo fatto una barricata di strumenti musicali. Appartenevano ad un conservatorio. Trombe, clarini, contrabbassi, violini e tamburi, ma il più voluminoso era un meraviglioso pianoforte a coda. Imponente stava in mezzo alla barricata e sembrava, lui da solo il vero argine che avrebbe impedito che noi fossimo travolti dalla polizia che minacciosi se ne stavano dall'altra parte coi fucili puntati. Poi è partito un candelotto. Sassi. Fucilate. Pistole. Fucilate. I bossoli volavano sulle teste infuriate e allora mi è parso di sentire una musica. Da dove viene? Viene forse dai nostri gesti, dalla nostra rivolta. Si è vero. E' vicina questa musica. Questa musica è in noi. Più volavano i proiettili, più la musica cresceva, ritmica, imponente, meravigliosa. Era Antonio che suonava sul pianoforte a coda in mezzo alle barricate la musica che era in noi, e sulla schiena aveva un cartello con su scritto: NON SPARATE SUL PIANISTA".

[Mario Marino, Non sparate sul pianista, Pavia, Libro Libero, 1978, p. 26.]

Il pianoforte borghese.
trascinato sulla strada
fra due barricate
si trova stupito
a suonare note
più calde
più dolci.
Il mogano lucido
circondato dal fumo
sporco dei lacrimogeni.
Ed uno strano pianista
deposti i sampietrini
suona imprevedibile
la sua serenata.
Sul suo capo
sassi e cose passano.
E una voce allarmata
oltre la barricata
più in là 100 metri
" un pianoforte, attenti
può essere nocivo."
Sorridono i compagni e la tensione cala
l'aria si fa più dolce
sul segno lucente
si ammucchiano i pavè.
Il pianoforte borghese
accompagna gli scontri
e si sorprende
più giovane
in mezzo alla strada
guidato da un pianista
senza frac.

(poesia di un giovane del movimento, trasmessa anche su Radio Alice e inserita in: Bologna marzo 1977. . . fatti nostri)

giovedì 26 ottobre 2006

questioni fiscali



Conversazione con l'ispettore delle imposte intorno alla poesia
di VLADIMIR MAJAKOVSKIJ


Cittadino ispettore delle imposte! Scusate il disturbo
Grazie...non v'incomodate...starò in piedi
Ho per voi una questione di natura delicata:
sul posto del poeta nell'ordine operaio.
Fra quelli che posseggono botteghe e tenute
sono tassato anch'io e devo essere punito.
Esigete da me cinquecento al semestre
e venticinque per mancata dichiarazione.
Il mio lavoro è affine a qualunque lavoro.
Considerate quante perdite, che spese nella mia produzione
e quanto spreco di materiale.
V'è certamente noto il fatto della "rima".
Poniamo che un verso finisca con "papà".
Allora dopo un verso, ripetendo le sillabe,
metteremo un qualsiasi "trallaralla-là".
Parlando al modo vostro, la rima è una cambiale.
Da scontare dopo un verso! Ecco la regola.
E cerchi spiccioli di suffissi e flessioni
nella cassa che si vuota dei verbi e delle declinazioni.
Incominci a cacciare nel verso quella parola,
che non entra, e tu premi e spezzi.

Cittadino ispettore delle imposte, mi devi credere,
costano le parole al poeta.
Parlando al modo nostro, la rima è una botte.
Carica di dinamite. Il verso la miccia.
Bruciata tutta la riga, il verso esplode,
e una città salta in aria con la strofa.

Dove troverai, in quale tariffario,
le rime, che, puntate, accoppino d'un colpo?
Forse una cinquina di rime inconsuete
è rimasta soltanto nel Venezuela.
E ai freddi e alla calura mi trascinano.
Mi slancio, ingolfato in prestiti e anticipi.
Cittadino, nel conto aggiungete il biglietto!
La poesia - tutta! - è un viaggio nell'ignoto.

La poesia è l'estrazione del radio.
Per ogni grammo estratto, un anno di fatica.
Sprechi, per una sola parola,
migliaia di tonnellate di minerale verbale.
Ma com'è rovente il fuoco di queste parole
di fronte al tepore della parola grezza!
Queste parole mettono in movimento
migliaia d'anni, milioni di cuori.
S'intende che vi sono poeti di specie diverse.
Quanti di loro hanno la mano facile!
Estraggono un verso dalla bocca propria
e altrui, come giocolieri.
Che dire poi dei castrati lirici?!
Basta loro disporre un verso altrui.
Questo è comune furto e peculato,
fra i peculati di cui il paese è preda.
Queste poesie e queste odi che oggi
vengono singhiozzate tra gli applausi,
entreranno nella storia come spese accessorie
di ciò ch'è stato fatto da due o tre di noi.
Consumerai, come si dice, un quintale di sale
e fumo di cento e cento sigarette,
per estrarre una preziosa parola
dalle artesiane profondità dell'uomo.
E subito s'abbassa l'ammontare dell'imposta.

Togliete alla tassa la ruota d'uno zero!
Un rublo e novanta, cento sigarette,
un rublo e sessanta, il sale fino.
Nel vostro modulo c'è un mucchio di domande:
"Avete fatto viaggi? Oppure no?".
Ma come! Se io di Pegasi una decina
ne ho stracciati negli ultimi 15 anni?!
Mi chiedete - addentrandovi nella mia condizione -
se ho domestici e anche proprietà.
Ma come! Se io sono guida del popolo
e al tempo stesso suo servitore?
La classe parla con la nostra parola,
e noi, proletari, siamo i motori della penna.
La macchina dell'anima logori con gli anni.
Ti dicono: "In archivio, sei esaurito, ormai!".
Sempre meno si ama, sempre meno si ardisce,
e la mia fronte il tempo devasta di gran corsa.
Sopravviene il più tremendo degli ammortamenti,
l'ammortamento del cuore e dell'anima.
E quando questo sole, verro ingrassato,
si leverà su un futuro senza poveri né storpi,
io ormai marcirò dentro uno steccato,
accanto a una decina di miei colleghi.

Preparate il mio bilancio postumo!
Io affermo, e so di non mentire,
che sullo sfondo degli odierni affaristi e intriganti
io - solo! - avrò un debito insolvibile.
E' nostro debito ruggire come una sirena dalla gola di rame
nella nebbia dei filistei, nel ribollire delle bufere.
Il poeta è sempre un debitore dell'universo,
che paga sul dolore percentuali e ammende.

Io sono in debito coi lampioni di Broadway,
con voi, cieli di Bagdad,
con l'esercito rosso, coi ciliegi del Giappone,
con tutto ciò, su cui non ho avuto il tempo di scrivere.
Ma perchè, in genere, è questo il berretto che gli s'adatta?
Per prendere di mira con la rima e infuriare col ritmo?
La parola del poeta è la vostra resurrezione,
la vostra immortalità, cittadino contabile.
Dopo secoli in una cornice di carta
prendi il verso e volgi indietro il tempo!
E sorgerà questo giorno insieme agli ispettori delle imposte,
con lo splendore dei prodigi e il lezzo degli inchiostri.
Cittadino convinto dei giorni nostri,
procuratevi all'Enkapees un biglietto per l'immortalità
e, calcolata l'azione dei versi, ripartite
il mio guadagno per trecento anni.

Ma la forza del poeta non è solo nel fatto
che, ricordandolo, i posteri avranno il singhiozzo.
No! Anche oggi la rima del poeta
è carezza e parola d'ordine e baionetta e frusta.
Cittadino ispettore delle imposte, cinque pagherò,
raschiando tutti gli zeri dal totale!
A buon diritto esigo d'esser posto
fra le file dei più poveri contadini e operai.

Ma se a voi pare che tutto consista
nel servirsi di parole altrui,
eccovi allora, compagni, la mia stilografica,
ché scrivere potete voi stessi!


- VLADIMIR MAJAKOVSKIJ -

mercoledì 25 ottobre 2006

Kris



"Da solo sulle mie gambe per tutto il viaggio / chi può dire cosa hai gettato via in cambio di una canzone" - ha cantato una volta Kris Kristofferson.Ed è la storia della sua vita!
Nato in una solida, tradizionale ed agiata famiglia, educato a pensare in termi di onore, dovere, giustizia, merito ed altre cose del genere, la svolta personale di Krisofferson arrivò nel 1965, quandò rinunciò ad una nomina di istruttore a West Point, per andare a Nashville, bere, ridere, urlare, azzuffarsi e imparare a scrivere canzoni. Sua madre gli scrisse una lettera in cui lo informava che era stato ripudiato e diseredato a causa della spregevole decisione presa. Egli era già stato uno scolaro alla "Rodhes", un militare, uno scrittore pubblicato sull' "Atlantic Monthly", un marito. La prima cosa che fece quandò arrivò a Nashville fu comprarsi una moto. "Ero troppo pericoloso alla guida di un automobile" - spiegò quella domenica mattina - "Avevo bevuto troppo in quei giorni."
Poi si sa come finisce la storia: Kristofferson scriverà "me and Bobby McGee" e un pugno di altri capolavori, fino a cambiare il "cantautorato" di Nashville, diverrà una stella del cinema, assumerà posizioni politiche polemiche, si unirà ad Kank Williams e a Johnny Cash nella "Country Music Hall of Fame e dormirà in alberghi di lusso.
Ma avrebbe potuto andare diversamente.
"Erano amari quei tempi, con le nostre spalle appoggiate contro il muro?" - scrisse una volta, in una canzone che il suo vecchio amico Willie Nelson canterà per un tributo a Kristofferson. - "Eravamo uomini migliori di quanto eravamo stati prima?"
...
"Ero orgoglioso di essere il miglior lavoratore, quello che poteva scavare una buca più velocemente di qualsiasi altro." Disse una volta. "Penso che sia qualcosa, forse dei miei genitori o forse qualcosa dentro di me, che mi spinge verso le difficoltà, a combattere gli incendi in Alaska o a lavorare nelle ferrovie a stendere binari. E in California, a costruire strade. In parte perché volevo diventare uno scrittore, e mi immaginavo come un Jack London, o qualcosa del genere. Dovevo andare e vivere. So che è questo il motivo per il quale ho corso davanti ai tori a Pamplona. L'ho fatto tutti i giorni della settimana, per la festa di San Firmino, e loro erano sempre più vicini. Sempre più vicini, fin quando alla fine corsero intorno a me, l'ultimo giorno."
Una delle ironie della vita di Kristofferson è stata che l'accettazione degli insegnamenti dei suoi genitori lo ha condotto a deviare dalla strada che essi avevano tracciato per lui.
Il padre, Henry,era risoluto. Un generale di divisione che aveva combattuto nella seconda guerra mondiale e in Corea. Lavorava come dirigente di una compagnia aerea commerciale e come pilota dopo che si era congedato."Egli era il migliore in qualsiasi cosa facesse" - scriverà Kristofferson, a proposito di suo padre, nella canzone "The Heart", rammentandone i consigli, compreso "Ti sentirai meglio se ti comporti da uomo." E dalla madre, Mary Ann, aveva tratto quel senso di giustizia sociale che avrebbe pervaso la sua opera.
"Quando ero ragazzo a Brownsville, Texas, i problemi razziali non erano fra bianchi e neri. I pregiudizi erano contro i messicani, e mia madre si assicurava che noi sapessimo che ciò era sbagliato. Ricordo che una volta, quando un messicano
vinse la medaglia d'onore e ci fu una parata, noi eravamo gli unici bianchi presenti."
Kristofferson si sentirà sempre come "l'unico bianco alla parata": il pubblico veniva per sentirlo cantare "Help me make trough the night" e lui li colpiva con "Sandinista, possano sparire tutti gli eserciti".
Quando andò a Londra, Kristofferson era accreditato come uno scrittore, come un talento. Scriveva storie brevi che venivano pubblicate. Si dilettava di musica, scrivendo canzoni e registrò anche una sessione col nome di "Kris Carson".
Nel 1960 si guadagnò il dottorato a Oxford. Quindi torno a casa, in California, riallacciò i rapporti con la sua vecchia fiamma del liceo, si sposò, si arruolò nell'esercito e imparò a guidare gli elicotteri. Ogni tanto componeva qualche canzone per far divertire i soldati suoi amici, parodiando con parole sboccate delle canzoni famose. Aveva sempre amato Hank Williams, sebbene i suoi genitori non avesssero mai compreso questa passione. Ma non era certo che scrivere canzoni country valesse come impegno di vita.
"Ero più interessato ad essere un Faulkner, un Hemingway...Uno scrittore sul serio" - disse una volta.
Era il periodo in cui tentò senza successo di partire volontario per il Vietnam. Il colonnello che comandava il quartier generale in Germania, dove Kristofferson prestava servizio, spedì un telegramma al Pentagono per scoprire le ragioni del rifiuto. Gli risposero che giudicavano non appropriato per Kristofferson combattere in Vietnam, in quanto stava per essere assegnato ad una cattedra di letteratura presso l'Accademia di West Point.
"Arrivai a West Point e venni informato circa quello che si aspettavano da me, e la cosa sembrava abbastanza spaventosa." "Dissero che i cadetti avrebbero formato, in classe, un semi-rettangolo intorno a me. Io avrei detto "seduti" e loro si sarebbero seduti. Ed io avrei dovuto consegnare un piano di lezione, 24 ore prima, circa quello che avrei detto in classe. Mi sembrò di essere precipitato all'inferno."
In quel tempo, nel 1965, Kristofferson visitò Nashville. Se Kristofferson potesse viaggiare indietro nel tempo, sceglierebbe quelle due settimane a Nashville. Passò la prima notte in un bar, "The Professional Club", con Cowboy Jack Clement. Clement era un cantautore, un creativo, un sognatore e uno sconsiderato. La mattina successiva, il cowboy e il soldato-ancora-in-uniforme si trovavano nell'ufficio di Clement, quando Rusty Kershaw arrivò per provare a vendere i diritti per una canzone intitolata "Louisiana Man". Cowboy avrebbe dovuto comprarla, ma non lo fece. Poi la coppia occasionale si diresse al dirupo dietro l'undicesima Ave., dove i treni arrivavano e partivano dalla città della musica. "Egli disse qualcosa a proposito dei treni" - racconta Kristofferson - Parlò di come aveva preso un treno da Nashville a New Orleans, andata e ritorno. Proprio andato e tornato." Divenne chiaro come Nashville fosse una città senza "piani di lezione". La decisione radicale, di Kristofferson, di abbandonare la famiglia e la sicurezza venne rafforzata quando incontrò al "Grand Ole Opry", un tipo emaciato, dagli occhi di pantera, di nome Johnny Cash.
"Mi strinse la mano, e c'era elettricità" racconta Kristofferson. "Sentivo che quelle persone che avevo incontrato a Nashville erano così affascinanti che se anche non fossi diventato uno scrittore di canzoni, avrei potuto scrivere su di loro. Dietro le quinte dell' "Opry", respiravo la stessa aria che aveva respirato Hank Williams, era magica. Dissi a Marijohn Wilkin, quando mi riportò in albergo per l'ultima notte a Nashville, che sarei tornato e avrei scritto per lei."
Wilkin non si era offerta di dargli lavoro. Se lo avesse voluto glielo avrebbe detto. Lei aveva cercato di essere gentile passando due settimane con l'amico di suo cugino che era un militare, ed invece aveva assistito ad una scelta spaventosa.
"Quando glielo dissi, ricordo che poggiò la fronte sul volante e disse 'Oh, mio dio'. Questo fu esattamente ciò che disse ' Oh, mio dio.'"
Tutta la compagnia di Kristofferson andava in Vietnam. Egli si incontrò con loro nel '65, a Fort Campbell in Kentucky, prima che fossero imbarcati. Kristofferson provò a portare con sé Mel Tillis nel viaggio, ma la moglie di Tillis non volle lasciarlo andare. Qualcosa a proposito di una bottiglia di vodka. Così Kris viaggiò da solo, forò una gomma proprio fuori dalla base e cappottò la macchina per circa 300 yarde. Quando vennero a vedere l'incidente, trovarono la macchina rovesciata e immaginarono che il guidatore fosse morto. "Si spaventarono, quando li chiamai gridando" Ma rimisero la macchina sulle ruote, vennero poi alcuni della polizia militare e un Kristofferson ubriaco ma persuasivo disse che voleva vedere i ragazzi della sua unità che partivano per il Vietnam. Lo portarono direttamente sulla pista dove i suoi amici erano su un aereo pronto a decollare. "Avrei potuto benissimo andare con loro". La sua macchina era distrutta, sua moglie si sarebbe incazzata e il suo talento non aveva ancora sommerso la sua nuova città.
"Dio protegge i pazzi e i cantautori" ha detto. " Mi buttarono fuori dall'aereo e mi ritrovai sul pavimento del piccolo corpo di guardia. Telefonai al ristorante di Linebaugh a Nashville, dal momento che i cantautori gironzolavano da quelle parti e sapevo che uno di loro avrebbe potuto venuto a prendermi. E finalmente un amico venne a prendermi. Stavo per andare in Vietnam. Non ho dubbi che se non fossi morto laggiù avrei avuto qualcosa con cui sarebbe stato duro vivere insieme, più tardi. A quel tempo non lo sapevo ancora, ma lo so adesso."
La lettera da casa arrivò subito dopo che Kristofferson andò a Nashville. Veniva ripudiato, questa era la sostanza,. Sua madre non poteva accettare un susseguirsi di simili folli eventi, anche se la "Bighorn Pubblishing" di Marijohn Wilkins gli offriva un piccolo stipendio. Jack Clement raccontò a Johnny Cash della lettera, e Cash rimase impressionato.
Kristofferson viveva in Music Row, proprio lungo la strada dove si trovava la "Tally Ho Tavern", che avrebbe reso immortale in "The Silver Tongued Devil and I". AL Tally Ho, il proprietario era anche disposto a lasciarti ubriacare, ma non voleva che tu entrassi da quella strada. Il locale si trovava proprio sull'angolo, ed aveva dei tavolini sul retro ed un normale bar col bancone davanti. Una notte un ubriaco, che entrò completamente sbronzo,venne subito cacciato. Quello girò l'angolo incespicando, girò a destra, vide i tavolini sul retro e andò a sedersi.Il proprietario lo vide e urlò "Ti avevo detto di andare fuori di qui!" L'ubriaco rispose balbettando "Dannazione, ma tutti i bar del quartiere sono tuoi?"
Per molte notti, la vita di Kristofferson non fu troppo dissimile da quella dell'ubriaco. A trent'anni, era convinto che il solo modo per imparare a creare fosse quello di immergersi totalmente nella vita selvaggia e nebbiosa di Nashville. Lui e sua moglie litigavano continuamente, e alla fine ruppero. Lui non poteva provvedere ai figli, la salute di uno dei quali richiedeva continue cure mediche e denaro.
Lavorò come barista e poi come tecnico agli studios della Columbia, dove alcuni musicisti si lamentavano del fatto che arrivasse tardi la mattina. Sembrava che solo rare volte si recasse allo studio abbastanza presto per fare una tazza di caffé prima che cominciasse la sessione delle 10. Altri si lamentavano del suo chiedere agli artisti di incidere una delle sue canzoni. Ad un certo punto, la Columbia gli proibì di lavorare durante una session di Johnny Cash, ma Cash insistette perché il tecnico fosse presente. Cash provava simpatia per quel giovane, a causa di una certa lettera da casa.
Nel 1966, Dave Dudley incise "Viet Nam Blues", l'ultima canzone di protesta contro la guerra di Kristofferson, e la portò nei top 20 del country. Billy Sherrill produsse un singolo nel 1967, ma la promozione non riuscì. Per guadagnare un po' di soldi, Kristofferson trovò lavoro come pilota di elicotteri nel Golfo del Messico.
"Quando lavoravo nel Golfo, ho scritto canzoni per tutto il tempo. Volavo per ore senza altro da pensare che alle mie canzoni. Sono sopreso che non venissero fuori con la stessa velocità delle pale dell'elicottero."
Cominciò seriamente a pensare di tornare nell'esercito e partire per il Vietnam. Gli amici in servizio lo dissuasero.
Più o meno allora, qualcosa cambiò. Billy Walker incise "From the Bottle to the Bottom" e Tom T.Hall sentì la canzone al Jukebox e rimase talmente impressionato da parlarne bene. Così Fred Foster fece un contratto a Kristofferson sulla base di quattro canzoni: "Jody and the Kid", "To Beat the Devil", "Duvalier's Dream" e "Best of All Possible Worlds". Foster propose a Kristofferson di fare un album per la Monument Records. Kristofferson rifiutò, asserendo "Canto come una rana". Foster replicò "Sì, ma una rana che può comunicare".
Col senno di poi, tutti questi erano segni del successo a venire. Al tempo, erano nient'altro che deboli speranze. Kristofferson, la domenica mattina camminava in una Music Row vuota, aspettando impazienta l'apertura dei bar e pensando che le sue aspirazioni musicali avevano causato la dissoluzione del suo rapporto con la madre e con la moglie. In un appartamento da scapolo, scriveva versi che parlavano della sua condizione.

"On the Sunday morning sidewalk/ wishing, Lord, that I was stoned/ 'Cause there's something in a Sunday/ Makes a body feel alone."

In un'altra occasione, confessò a Fred Foster che pensava di non riuscire più a scrivere canzoni. Foster gli offrì degli altri soldi ed un'idea. Scrivere una canzone che si chiamasse "Me and Bobby McKee". McKee era la segretaria di Foster, e la "E" ripetuta gli sembrava fatta apposta per un buon titolo.
In moto, dalle parti di Baton Rouge, Krisofferson aveva in mente il ritmo di una canzone di Mickey Newbury, "Why You Been Gone so Long", quando cominciò a lavorare su "Me and Bobby McGee".

"With the windshield wipers slapping time/ And Bobby claps hands/ We finally sang up every song that driver knew."

Elicotteri e tempi duri cospirarono insieme ad un altro momento epico della storia di Kristofferson: egli aveva dato a Cash, per un paio di anni, nastri delle sue canzoni. E Cash li metteva in una pila insieme a tutti gli altri nastri di aspiranti compositori, e poi li buttava nel lago Old Hickory. Convinto che Cash avrebbe apprezzato il suo lavoro, se solo avesse trovato il tempo di ascoltarlo, Kristofferson prese con sé un nastro, salì su un elicottero della Guardia Nazionale e atterrò sul prato inglese di Cash.



"Avrei potuto danneggiare la casa o l'elicottero, avrei potuto mettermi nei guai con la Guardia Nazionale, oppure Johnny avrebbe potuto abbattermi a fucilate."
Non andò male. Cash incise una sorprendente versione di "Sunday Morning Coming Down" e i due diedero inizio ad un'amicizia, fatta di reciproco rispetto ed ammirazione, che sarebbe durata fino alla morte di Cash.
"Johnny ha sempre raccontato che io uscii dall'elicottero con una birra in una mano e il nastro nell'altra. Ma non avrei potuto volare con tutta quella roba nelle mani. Era dannatamente difficile far volare un elicottero a quell'epoca."

...

Adesso, a Nashville, c'è una targa che ricorda l'apporto rivoluzionario di Kristofferson, che ha trasformato la musica country.
"Ogni cosa vera che abbiamo scritto nel vento, sta ancora cantando".
Adesso, a settant'anni, ha scritto versi come quello che chiede
"Am I young enough to believe in revolution?". Krisofferson crede nella rivoluzione, nell'arte, nella giustizia, nelle parole, nell'azione, nell'amore, nella misericordia, nell'eccellenza, nel dispiacere, nella redenzione. Egli crede nel credere, per quanto ne dubiti sempre.

Kristofferson aveva già scritto il suo epitaffio in musica, nel 1971, sul retro della copertina del suo secondo album, The Silver Tongued Devil and I.

"Considera queste canzoni come se fossero un'eco degli alti e bassi, camminate malsane e corse rabbiose, colorate di senso di colpa, orgoglio, ed un vago senso di disperazione"

martedì 24 ottobre 2006

"mai tornare indietro, neanche per prendere la rincorsa"



Una scritta sul muro della bologna di Paz, che ogni tanto torna alla mente. Una delle tante scritte majakovskjiane dell'anno 1977. Tutte a base di rincorse da prendere per poter volare, e di barche dell'amore infrante.
Probabilmente hanno ragione "i gang", a cantare che ad andarserne, poco dopo quell'anno, è capitato di non perdersi niente. Solo questa lunga, infinita "vita quotidiana"!

L'ho scritta tempo fa, questa cosa, e oggi mi è capitata di rileggerla e di sentirla ancora mia. Così la sbatto quaggiù dentro, in questo contenitore. Mio, in qualche modo.
La sbatto qui dentro, e nel mentre me la rileggo. E rileggendola, la cambio.
Leggo che parlavo di lotte quotidiane con server "sco unix" e database oracle. Sono rimasti, solo che adesso si sono aggiunti altri server, windows 2003. Stavolta!
Almeno fossero mulini a vento!
Dalla mia stanza si vede la cupola di santa maria del fiore. E si vede anche, tutt'intera, via delle ruote. Che è una bella strada che finisce a "T" proprio su via santa caterina. Così mi guardo Firenze, e mi tranquillizzo. E pensare che c'è stato un periodo in cui l'ho odiata questa città. Di un odio nero, la odiavo! Non ricordo nemmeno bene di cosa la accusassi, ai tempi. So solo che volevo andarmene; e me ne andavo spesso. Ma poi ritornavo. E' continuato così fino al preciso momento in cui, per qualche strana ragione, ho smesso di considerare Siracusa come fosse la "mia città". Quando ha smesso di essere, nella mia mente, un rifugio cui tornare. Anche per leccarsi le ferite.
C'è gente che per emanciparsi ha dovuto uccidere, simbolicamente, il padre. A me è toccato dover ammazzare una città intera! Fino a trasformarla, a ricondurla ad essere una fiaba per bambini. Fantasmi e luoghi per accedere all'oltretomba! Vicoli, dove "bande" di cani randagi si aggirano nelle notti senza luna, incutendo paura agli sprovveduti che non sanno affatto quanto sia pericolosa Ortigia quando è scuro. L'ho fatta a pezzi, scientemente. Siracusa.
Brandello dopo brandello, pietra dopo pietra. Trasformandola in nient'altro che ricordo. Ricordo di quel che era lei, mischiato al ricordo di quel che ero io. Ora, invece, mi guardo Firenze e mi tranquillizzo. Mi calmo. Respiro piano e penso ai treni. Quelli senza fiori sui sedili! Ne ho preso qualcuno, di quei treni! E viaggiano tutti in una direzione sola. Indietro non si torna, Indietro non torni. E quando sei così caparbio da voler tornare comunque al posto da cui sei ripartito, ti accorgi che sei arrivato in un altro posto. Somiglia a quel romanzetto di Fredric Brown. Un romanzo di fantascienza "pulp"! Come si chiamava? Assurdo Universo. Rileggo quel che ho scritto, per l'ennesima volta, e mi rendo conto di averci già infilato, dentro a questa cosa, due canzoni e un libro. Come se la vita fosse davvero una fottuta canzone, o un libro; o, ancora, un film! O tutte queste cose insieme. Come se davvero bastasse canticchiare una strofa, citare un passo, riportare agli occhi una scena e far sì che, per incanto, passi la paura. Cessi il dolore, svanisca la sofferenza. La nostra e quella degli altri. Spalancare i cieli e vedere fioccare le stelle. No! Non succede niente di tutto questo. La paura continua ad imperversare, il dolore si propaga e la sofferenza non smette. E il tutto assomiglia, comicamente, ad un film di Max Ernst (era lui o qualche altro surrealista: meglio controllare su google!), con Buster keaton.Un film che si sviluppava lungo una sequenza infinita. Buster ed un cane, da mettere fuori dalla stanza. Solo che, appena aperta la porta e messo fuori il cane, entrava subito il gatto. La scena si ripeteva, con il gatto da mettere fuori e conseguente rientro del cane. E così via. All'infinito. Rompere la sequenza diventa l'imperativo! In ogni modo, Con uno sberleffo, una risata, un singhiozzo. Qualsiasi cosa che ci consenta di "dare un nome" ai cani e ai gatti. Alla paura, alla sofferenza e al dolore. E all'abitudine.

...a Durango, Billy the Kid, Rita & Alias

lunedì 23 ottobre 2006

...fra sorrisi, canzoni e lacrime



"La morte verrà all'improvviso...."
...E chi ci pensava alla morte, in quel 1967, dove tutto aveva ancora da succedere? Curiosamente, la ricordo ancora la Siracusa di quell'anno. Stranamente nebbiosa. Quasi a volerci far giocare un ruolo che non era propriamente nostro. Era cominciato bene, quell'inverno. Ci dispensava sogni da "rive gauche"; sogni che avevano ancora da essere sognati. Ci si preparava a "tempi interessanti"!
"Tutti morimmo a stento......."
...e invece, curiosamente, diversamente da quella canzone che faceva tremare le vene dei polsi, quell'anno cominciammo a vivere; sul serio. Prima lentamente, quasi con sussiego. Ci aggiravamo per la città vecchia con fare da cospiratori. La notte cominciammo a fare qualche scritta sui muri antichi di qualche edificio. Giravano libri, quasi di contrabbando; e dischi! Fra i dischi c'erano anche quelli (finora due vinili) con lo stesso cerchio, di colore diverso, da dentro il quale ci guardava quella faccia. Canzoni da cantare di notte, sulle scalinate di un tempio di Athena travestito da duomo, o sui moli di un porto. Fra basi americane, da buttare a mare, e vie dione e nizza che somigliavano pericolosamente a via del campo, fra vestiti di Rossini non ancora indossati e inverni, con campanili che non sembrano veri, non ancora visti. Timorosi, ancora, di giocarci il nostro destino, promuovevamo i primi scioperi per banalità "concrete", quali orari ed aule e banchi! Solo i picchetti erano abbastanza duri da far trasparire la rabbia. Ma ci volevano le lacrime, per ripulirci gli occhi e farci guardare con chiarezza a quel che eravamo! Arrivarono in un due di dicembre, dove il sole, stranamente caldo per quel mese, sembrava quasi un oltraggio. Arrivarono quando qualcuno cominciò a morire, sotto i nostri occhi. Una morte molto più vicina di quella avvenuta, appena un anno prima, e di cui non avevamo potuto, allora, valutarne la portata. Quello era un mito, e i miti non muoiono mai. Questi invece erano "sangue del nostro sangue, nervi dei nostri nervi". Ed erano morti, fucilati in una brutta piazza! Il vinile era arrivato, come uno sparo, quasi. Con quei morti impiccati, appesi ad un albero. Davano qualcosa in televisione, di quei tempi: storie dell'anno mille, con Bene e Parenti. Tratto da un romanzo di Malerba. Geniale! Cominciava con una battaglia e tre sopravvissuti che si mettevano in marcia, per sfuggire alla morte ed arrivavano, ad un certo punto ad un albero, da cui pendevano decine di impiccati. Un sugello visivo per una canzone che colpiva come una coltellata, fra costola e costola. Da allora in poi fu quello, almeno per me, la diapositiva che vedevo quando pensavo che stavamo per morire. Tutti, a stento! Ma non si viveva a stento, in quell'anno. Tutt'altro. "Giorno e notte convinti di far cose importanti", ci stavamo ritagliando e cucendo addosso quei vestiti che alcuni di noi avrebbero continuato a indossare, anche quando sarebbero finiti irrimediabilmente fuori moda.
"...sorella morte lasciami il tempo..."
Ne avevamo di tempo, a quei tempi! Ma non lo sapevamo. Qualcuno, di lì a tre anni, avrebbe parlato perfino di "tempo per la galera"! Ma il nostro tempo di allora ci serviva tutto; ne avevamo un disperato bisogno. Dovevamo parlare, agire, sognare, bere, fumare, camminare, correre, amare, sperare. Dovevamo vivere. Imparare a farlo. Fabbricare la nostra conoscenza di "quella semplicità che era difficile a farsi", misurarla su quelli che erano diversi da noi, per quanto fossero uguali a quello da cui molti di noi provenivano. Studenti.......e operai. Senza niente da mediare per potersi riconoscere. Parte del nostro liceo lo svolgemmo fra la montedison, di giorno, di mattina presto, e i bar di Neapolis, di notte, a consumare birra e conoscenza. Violenza, anche. Ricordo ancora, con estrema chiarezza, quelle facce da ultimi, mentre scendevano da un automobile, in piazza Archimede. Reclutati altrove, in qualche altro angiporto, di una qualche città non troppo distante, che venivano a "darci una lezione" (imparammo anche quella, come avremmo imparato tutte le lezioni successive; ma a modo nostro!). Li ricordo mentre tiravano fuori i loro arnesi, mentre non facevano a tempo, a tirarli fuori, subito affrontati e rimessi in macchina dai "nostri" ultimi. Angeli custodi (caduti) che ci guardavano con dolcezza. E qualcuno di loro, magari si sarà anche impiccato in cella, per la sua "Marì". Ma quella sera erano "con" noi. E Fabrizio De André cantava in sottofondo, ridendosela sotto i baffi!
"...ben più della morte che oggi ti vuole..."
........si pensava alla vita che ci aspettava altrove. Isolano di un'isola lontana, che aveva cominciato da tempo a starmi stretta; anche se amavo rimanere al di là del ponte che "separava" l'isola, in cui Archia aveva ravvisato il profilo di un'anatra, dal resto della Sicilia. Mi preparavo ad andar via, lontano. Preparativi lunghi un anno. Conclusisi anch'essi con la "mia" buona novella! Niente avviene per caso. Lasciavo il liceo, con un voto non troppo alto, ricevuto nonostante (o grazie ad un) cinque in condotta - dopo aver subito il mio primo processo - per aver diffuso, durante gli orari delle lezioni, un giornale contenente un volantino con la faccia di un Cristo, recante la scritta "wanted", contestualmente ad una serie di reati di cui il nazareno si sarebbe macchiato. Posso dire a mia "discolpa", come dichiarai al tempo, di essere stato assolutamente estraneo a qualsiasi forma di "cristianesimo", fermo restando tutto il mio rispetto per le posizioni espresse in quel volantino; e per quelle espresse ne "la buona novella"! Comunque ne ero fuori, e alla stazione mi aspettava quel famoso "treno arruginito" che non mi avrebbe più riportato indietro, con la "aggravante" di avere qualche "indirizzo in tasca". Ma erano indirizzi che portavano verso "cattive strade". Le migliori cattive strade!
"....mi cercarono l'anima a forza di botte...."
il primo disco "fiorentino" di fabrizio, in una firenze ancora a me quasi sconosciuta. Cominciai a conoscerla piano Firenze, protetto dalla mia diffidenza. Il colore dei miei occhi era sbagliato, ma le persone erano quelle giuste. Non misi molto tempo in mezzo, anzi punto (la rincorsa era stata presa), e mi trovai ben presto dove volevo essere. Fra piazza Indipendenza e l'assalto di un manipolo di fascisti alla casa dello studente, prospiciente la locale sede del "movimento sociale", forse stuzzicati da una selva di canzoni che li "salutava" dal nostro ultimo piano (dovevano essere canzoni non troppo a loro gradite, temo); e via Cavour e l'occupazione della banca dove evitavano accuratamente di pagarci i pre-salari. Banca da cui era venuto, in forza, a cacciarci via, nientedimeno che il servizio d'ordine della "Galileo" di Firenze, tanto per ricordarci chi comandava in quella città! No. Non erano venuti in pace! Ma eravamo giovani, e destinati a rimanerlo, e, quella volta, qualcosa imparammo. Avremmo avuto tempo di metterlo in atto, quel che imparammo!
"....proprio nel giorno in cui la decisione è mia sulla condanna a morte o l'amnistia."
mai l'avremmo sperato (non dico "aspettato") un disco come storia di un impiegato! Abituato com'ero a guardare a De André con quel rispetto misto ad ammirazione che fa sì che tu possa anche accettare il silenzio su certi argomenti; e goderne quasi. Abituati a non dover pretendere, quasi fosse un rapporto di amore, nessun riconoscimento o adesione, quel disco ci travolse come un grido, cui finalmente ci si poteva unire. Alzando i pugni contro il cielo! Non fu affatto un caso che, in quello stesso anno, qualcuno, stanco di respirare l'aria dei secondini, salisse sui tetti delle murate; riuscendo a far scendere in strada, i pugni stretti per la rabbia, un intero quartiere. Santa Croce brucia! E, come cantava il mio amico David insieme alla sorella Chiara (per le strade di Firenze, però, fra Borgo Allegri e via dell'Agnolo; e non da un palco), ....." e non si respira più....non si respira più....muore Giancarlo Del Padrone!". Fino a tal punto, non gli andava più di respirare la stessa aria di un secondino, a lui e molti altri. Compresi quelli rinchiusi fuori dal carcere. Ma, ancora una volta, era stata loro, la decisione sulla condanna a morte, o sull'amnistia!
"....la sua morte sarà molto romantica........."
forse qui sarebbe stata più adatta una canzone di Brassens, ma io non amo molto Brassens! Se devo scegliere un "francese", scelgo Brel, e il suo corpo che urlava. Lo scelgo col cuore. Se devo scegliere col cervello, allora scelgo Ferré, e la sua amarezza e l'odio e la rabbia. Ma se devo pensare al 1974, allora penso che nessuno muore per delle idee. Si può morire per delle persone, tutt'al più! Penso a Luca, in macchina, in piazza Alberti, che aspetta fuori della banca. Penso alla rapida marcia indietro, quando vede Sergio e Pasquale fatti segno ad una gragnuola di colpi, all'uscita da quella maledetta banca, coi pochi soldi dentro in un sacco della nettezza. Pochi soldi per un sogno! Un sogno finito, anche questo, in una brutta piazza di periferia, con una pallottola in testa. Un sogno finito per amore. Per amicizia. "Non ci torno in galera. Ci sono stato e non ci torno!", ripeteva spesso. Forse anche lui non voleva più respirare la stessa aria di un secondino! Adesso dorme su una collina, a Settignano. Dorme insieme ad Annamaria, sua sorella. Ogni tanto vado a trovarli.
"È colpa di chi muore comunque è meglio che io vada"
E sicuramente era stata "colpa" loro! Ci avevano lasciato, in mezzo alla strada cattiva, con un groppo in gola e con gli occhi velati. Veniva quasi voglia di chiuderli, quegli occhi. Per il poco che riuscivano a vedere, non valeva continuare a tenerli aperti! E invece, come avviene sempre in questi casi, ingoiammo le lacrime, oramai quasi asciutte, e ci rimboccammo le maniche. Persone amiche, dipendevano da noi. Rinchiusi dietro le sbarre, non bastavano loro le sole canzoni....per poter continuare a saper volare. Avevano bisogno di affetti e di avvocati, e di parole. Avevano bisogno di speranza, di sapere che la speranza non era morta fuori. Di modo che potesse continuare ad essere amorevolmente coltivata anche dentro! Rimpiangerò sempre di aver buttato via quelle lettere, un giorno, solo perchè sapevo che qualcuno sarebbe venuto a cercarle, una mattina, alle sei, nella mia, come in molte altre case. Ma non si buttano mai via, impunemente, le parti di te stesso. Poi finisce che ti ci svegli la notte!
"Mi svegliai sulla quercia l'assassino era fuggito "
Questa volta invece avrei dovuto aspettarmela, "coda di lupo" e il suo "generale capelli corti"! Avrei dovuto aspettarmela, nello stesso momento in cui mi resi conto che le canzoni, cantate di più (mentre si aspettava il nostro "little big horn"), erano proprio quelle di Fabrizio De André! Ci doveva pur essere una ragione, in questo. Rimini e le sue rivoluzioni perdute, era un altro regalo. Uno dei tanti. Solo che stavolta eravamo in molti a capirlo, ad amarlo, a tenerselo stretto quel regalo. Forse avrebbe dovuto farcelo prima, mentre eravamo nel chiuso e nel fumo del palazzetto dello sport, a Bologna! Ma i tempi interessanti erano finiti. Eravamo pronti per tuffarci nelle "perversioni private" della vita quotidiana, di cui sapevamo assai poco. Ci portavamo dietro solo qualche "bomba a mano" per pescare, e qualche sorriso da esibire nei "teatri di posa". E De André era l'unico "cucchiaio di legno" che ci era rimasto per poter continuare a scavare nella nostra storia. Prima di arrivare al punto in cui smetteva di essere la nostra storia, e diventava la storia di ciascuno di noi, dapprima. Per, infine, diventare "ciascuno la sua propria storia". E la "fortuna" che ci aveva permesso di arrivare, vivi, fino a lì, era adesso pronta ad innamorarsi della "malinconia"!
"...in vida e in sa morte....."
Niente treni arrugginiti! Credo di averlo già detto, ma ogni volta che mi scappa di pensare ad "un treno arruginito che possa riportarmi indietro da dove son partito", mi viene in mente "pane e cioccolata" di Franco Brusati, con un Nino Manfredi immigrato in Svizzera, quando apre lo sportello del treno che dovrebbe ripotarlo indietro da dove è partito, ma non regge alla vista di un tale che canta "odor di nebbia odor di lombardia"; e si costringe a chiudere in fretta il suddetto sportello per tornare a rifugiarsi, da clandestino stavolta, nella solita Svizzera. Cazzo se ci ho pensato in quell'anno, mentre tutto cadeva a pezzi, di azzerare l'orologio! Rimetterlo a prima degli eventi. Riportarlo indietro, al 1967. Impresa disperata. Inattuabile, come quella che ancora oggi, di tanto in tanto, mi torna in mente e che mi permetterebbe di ricominciare i giochi. Tornare indietro, solo prima del 1967. Avere un'altra chance! "Quando tutto era ancora intero". Prima di poterla sapere e prima di poterla tradire, quella cosa! Prima di dover leggere lettere "vere di notte e false di giorno". Prima! Prima di vedere la signorina anarchia che cammina fianco a fianco al suo assassino. Molto prima! Visto che non era possibile, allora, quell'anno me ne andai a Berlino!
"La domenica delle salme non si udirono fucilate "
Finisco qui, con un verso da questa canzone immobile. Probabilmente avrei dovuto smetterla prima, ma non ho mai imparato quando è il momento di smettere. Non ho mai imparato né questa, né molte altre cose. Credo che passerò il resto della mia vita, facendone tranquillamente a meno.

venerdì 20 ottobre 2006

Chi costruirà il vostro muro?



E' di ieri una notizia che dice che molti ispanici della California hanno ricevuto una lettera, pare proveniente dagli stati maggiori del partito repubblicano, in cui li si invita a non andare a votare "altrimenti sarete messi in prigione o espulsi dagli States". E', invece, di poche settimane questa canzone di Tom Russell. che da' il titolo al suo ultimo disco: "Who's Gonna Build Your Wall".

Chi costruirà il vostro muro?
di Tom Russell

Ci sono 800 miglia di confine
Proprio fuori da casa mia
Ci sono vigilantes sui loro pickup
che hanno dichiarato la loro guerra
Ora il governo vuole alzare una barriera
Come nella vecchia Berlino; otto piedi di altezza
Ma se zio Sam rimanda a casa i clandestini
chi costruirà il muro?

Chi costruirà il vostro muro, ragazzi?
Chi falcerà il vostro prato?
Chi cucinerà il vostro cibo messicano?
Quando la vostra domestica messicana se ne sarà andata?
Chi darà la cera al vostro pavimento, stanotte,
giù al centro commerciale?
Chi laverà il viso ai vostri bambini?
Chi costruirà il vostro muro?

Ora, io non sto facendo politica
Perciò non esagerare a criticarmi
Sinistra, destra, sopra, sotto
Io vedo centri commerciali da una costa all'altra
Ed è il bianco ricco progressista
che ha creato tutto questo squallore
E' un sistema di lavori sporchi a forma di piramide
e chi costruirà il vostro muro?

Chi costruirà il vostro muro, ragazzi?
Chi falcerà il vostro prato?
Chi cucinerà il vostro cibo messicano?
Quando la vostra domestica messicana se ne sarà andata?
Chi darà la cera al vostro pavimento, stanotte,
giù al centro commerciale?
Chi laverà il viso ai vostri bambini?
Chi costruirà il vostro muro?

Noi abbiamo fondamentalisti musulmani
Abbiamo fondamentalisti ebraici
Abbiamo fondamentalisti cristiani
Loro faranno esplodere tutto quanto
Ma quando viaggio per questo grande vecchio mondo
La cosa che più di tutto mi fa paura
E' un uomo bianco in camicia sportiva
Con un telefono cellulare al suo orecchio

Yeah
Chi costruirà il vostro muro, ragazzi?
Chi falcerà il vostro prato?
Chi cucinerà il vostro cibo messicano?
Quando la vostra domestica messicana se ne sarà andata?
Chi darà la cera al vostro pavimento, stanotte,
giù al centro commerciale?
Chi laverà il viso ai vostri bambini?
Chi costruirà il vostro muro?

Yeah
Chi laverà il viso ai vostri bambini?
Chi costruirà il vostro muro?

giovedì 19 ottobre 2006

preferisco di no


Nell’omonimo racconto di Melville, Bartleby, impiegato come copista presso un avvocato, improvvisamente cessa di scrivere e in seguito di svolgere qualsiasi altra mansione, opponendo alle richieste del suo principale una risposta tanto disarmante quanto enigmatica, "preferisco di no". Questa espressione, ossessivamente ripetuta, impedisce all’avvocato e ai suoi subalterni di prendere posizione di fronte al reticente neoassunto. Li rende disabili. Frase paralizzante perché impedisce la replica, nel bene o nel male.
Lo scrivano si pone letteralmente oltre il discorso, negando ogni obiezione, scardinando il codice comunicativo e infrangendo la presunta normalità di un paradigma linguistico condiviso. Scrive Deleuze: "La formula I PREFER NOT TO esclude ogni alternativa e inghiotte quel che pretende di conservare non meno di quanto non scarti ogni altra cosa; essa implica che Bartleby cessi di copiare, cioè di riprodurre parole; fa crescere una zona di indeterminazione tale che le parole non si distinguono più, crea il vuoto nel linguaggio. Ma disattiva anche gli atti linguistici con i quali un padrone può comandare, un amico benevolo porre delle domande, una persona fidata promettere."
Proprio in questa disattivazione degli atti linguistici sta la disarticolazione del rapporto di potere che lega l’avvocato, o chi detta, allo scrivano, o a chi copia: disarticolazione e non inversione, ossia non si crea nessuna struttura di potere inversa ma il vuoto del potere, l’annientamento del gioco delle forze: "Se Bartleby rifiutasse, potrebbe essere riconosciuto come ribelle o rivoltoso e avere ancora a questo titolo un ruolo sociale. Ma la formula disattiva ogni atto linguistico nello stesso tempo in cui fa di Bartleby un puro escluso al quale nessuna posizione sociale può più essere attribuita."

mercoledì 18 ottobre 2006

di me



Sono nato in Ortigia, l'isolotto a forma di anatra che costituisce il nucleo storico di Siracusa da oramai 2.740 anni.In fondo a Via della Maestranza, a pochi passi dal Belvedere san Giacomo. Una piazza alta sul mare aperto che nessuno chiamava in quel modo agiografico: per tutti i siracusani era "facci 'e rispirati", in omaggio a tutti quei poveracci che avevano scelto di porre fine alla propria miserabile vita schiantandosi sugli scogli sottostanti. E questo dovrebbe dirla lunga sul senso della morte proprio di quei 'due volte' isolani. Quel senso della morte che faceva sì che noi, bambini, ci si alzasse presto, la mattina del 2 novembre, per scoprire cosa ci avessero portato in dono i morti. Mai saputo niente di babbo natale, io! Erano i morti a portarci i regali, proprio perchè la commemorazione dei defunti non doveva riguardare i bambini. Per loro, i bambini, il 2 novembre doveva essere la "Festa" dei Morti.
Sono nato in una fredda mattina del 1953; l'anno in cui, in tutto il sud, l'emigrazione aveva toccato il suo record ineguagliabile. Ho visto la luce in una casa non proprio grande dove ad aspettarmi c'erano due genitori ed una sorella. Restammo in quella casa per ancora quattro anni, fin quando nel '57 ci assegnarono una casa popolare nell'immediata periferia. Lasciai Ortigia con pochi ma vividi ricordi di quegli anni. La gente seduta davanti alla porta, fino a tarda notte, nelle calde serate d'estate. Mio padre che pescava dalla balconata sul mare, quando tornava dal suo lavoro di operaio. E poco altro. Il nuovo quartiere mi accolse coi suoi campi di grano dietro casa. La città cambiava piano piano. Automobili e televisori cominciavano a diffondersi e l'insediamento del più grande polo chimico d'Europa vi appose sopra un bel timbro con su scritto MONTEDISON. Fu quel che fu. Lavoro e reddito per tanti che ne erano stati esclusi fino a quel momento (in modo continuativo, per lo meno). Distruzione sistematica dell'ambiente. Quella città così piena di luoghi magici, venne stuprata nella sua integrità ancora una volta. Dopo le tante invasioni, dai greci ai romani ai normanni agli arabi, allo sventramento fascista di Ortigia, arrivò la montedison coi suoi bei tuboni di 2 metri di diametro a prelevare l'acqua "incantata" della fonte Ciane. Incurante del fatto che in seguito a questo, Proserpina non avrebbe più potuto lasciare l'Ade per i suoi sei mesi da passare ogni anno con la madre Demetra. E, a parte gli antichi miti, Siracusa venne trasformata in una città operaia. Da artigiana in operaia. E noi crescevamo in quel clima e non potevamo non sentirne gli effetti. Il 2 dicembre 1968 ci lasciò attoniti, ma non ci colse di sorpresa.Eravamo pronti. La notizia arrivò da Avola, come un fulmine, davanti e fin dentro le scuole. "La polizia ha sparato sui braccianti disarmati, ne hanno fucilato due di loro". Niente più sarebbe stato lo stesso. Una fiumana di giovani cominciò a riversarsi per le strade, e per qualche tempo non avrebbe smesso. Quasi due anni dopo, nell'ottobre del 1970, ero alla stazione a prendere quel treno arruginito che mi avrebbe portato a Firenze. Ma questa è un'altra storia.

martedì 17 ottobre 2006

citazione sulle citazioni



"Le citazioni, nel mio lavoro, sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano l'assenso all'ozioso viandante."

-- Walter Benjamin --

Richard Dobson and me

chitarre & musei


"In Via del Campo si trova il negozio di dischi in cui è conservata ed esposta la chitarra Esteve appartenuta a De André; fu messa all'asta dalla famiglia poco tempo dopo la morte del poeta-cantante e il ricavato fu donato in beneficenza.
L'emporio costituisce una sorta di museo: i passanti possono ascoltare sommessamente le note delle canzoni di Faber mentre in vetrina sono esposte le copertine originali di tutti i dischi pubblicati dal cantautore.
Il proprietario/fondatore del negozio/museo Gianni Tassio, da sempre grande estimatore ed amico di Faber, è morto nel 2004, ma l'opera di rinnovare il ricordo di Fabrizio continua per mezzo della moglie."
(da http://it.wikipedia.org/wiki/Via_del_Campo_(Genova))



Buonasera,
scusatemi se mi rivolgo a voi, ma proprio non sapevo a chi altri avrei
potuto scrivere queste mie povere righe. Si dice in giro che da queste
parti ci abita gente che coltiva un grande amore per quella persona
speciale che di tanto in tanto mi prendeva fra le braccia e mi
lasciava parlare. Una volta ha scritto anche che gi piaceva pensare
che dove finivano le sue dita cominciassi io, oppure un'altra come me;
che è lo stesso!
Non sono brava a scrivere. Anzi, non è che poi sia brava in molte
cose. Diciamo che sono brava a "farmi suonare", ed anche quello, a ben
vedere, non è che sia proprio merito mio. Sì, qualcuno dice che ho un
bel suono; ma credo, onestamente, che se non fosse stato per quel
signore dalle lunghe dita delicate, di me non si sarebbe accorto
proprio nessuno! Né io sarei qui a cercare di comunicare con voi.
Bisogna che vi dica alcune cose: ce l'ho nelle corde!
Innanzitutto non sono affatto quella che credete, quella che si vuol
far credere che io sia. Fra quel signore e me non c'era affatto un
rapporto monogamico. "Mutatis mutandis", possiamo dire che ero la
preferita in un harem di concubine. Niente di più, niente di meno.
Certo l'amavo. Questo è sicuro. Ma, se devo essere sincera, devo dire
che amavo più la sua voce, che sapeva farmi vibrare all'unisono, di
quanto amassi le sue mani che pure sapevano muoversi con maestria sul
mio unico braccio. E la cosa va ad onore della voce, non certo a
disdoro delle mani!
Ora ho saputo che sono stata messa all'asta. Ho saputo che esiste
gente disposta a sborsare un cifra che s'aggira intorno ai quaranta
milioni! C'è chi mi vuole per appendermi come un trofeo - una testa di
cinghiale! - alla parete del salotto di casa sua. Altri mi vorrebbero
per chiudermi fra due pareti di vetro, in uno stretto fondo di via del
campo, ricolmo di effigi di quel signore cui è intitolato questo
spazio che mi sono permessa di invadere. A dirla tutta, non mi pare
che, comunque, mi aspetti un bel destino! Se posso dire la mia, da
strumento qual sono, non mi piace! Mi verrebbe voglia di strapparmi
tutte le corde, all'idea!
In fondo sono solo una chitarra, e sono nata per essere suonata. E non
ho avuto in sorte di essere la chitarra - chessoio - di Mauro Lusini
(quello che "non vivrei, senza questa mia chitarra non vivrei...."), e
il signore che mi suonava, di tanto in tanto, ha sempre ritenuto che
io fossi nata per essere suonata, per l'appunto. Finchè mi restavan corde!
Ora lui non mi può più suonare. E' un fatto! Ma credo, per quella
conoscenza che ho avuto di lui, attraverso le sue dita, che avrebbe
preferito che fossi data in regalo ad un ragazzino brufoloso che,
forse, avrebbe potuto imparare a muoversi sui mie tasti, piuttosto che
essere infilzata con uno spillone per farmi esporre, come simulacro,
in quella caricatura di museo, come un investimento per far entrare
soldi nelle tasche di quel simpatico maneggione che lo gestisce!
Ho poco altro da aggiungere. So già che il mio destino è segnato e,
difficilmente, verrò ancora suonata da qualcuno, con amore.
Solo una mesta riflessione, alla fine di questa mia unica "opera"
fatta solo di parole: Il cantore è morto! Ucciso (tutti moriamo
uccisi, in qualche modo!). La strada gliel'hanno intitolata! La "sua"
chitarra sta per essere messa in un "museo". Quando anche le sue
canzoni saranno prese e attaccate con un spillo al passato, voi tutti
sarete ancora più poveri e soli e derelitti!

con affetto
la chitarra di Fabrizio De André
Venerdì 29 Dicembre 2000

lunedì 16 ottobre 2006

L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica!



Tempo fa, ricordo, da qualche parte (newsgroup o mailing list) ci fu una piccola polemica a proposito di bollini siae, di mp3 scaricabili in rete, di riviste anarchiche e di azioni legali. Allora scrissi questa cosa in cui, in qualche modo, cerco di esprimere il mio punto di vista.


buona sera a tutti,
sono il cd di fabrizio de andré. Appena nato mi hanno chiamato "ed
avevamo gli occhi troppo belli". Ma poi, come tutti i cd, mi sono
trovato circondato da tanti altri cd, tutti uguali a me, e con lo
stesso nome. Da quel momento ho smesso di sentirmi solo, anche se
difficilmente mi ricapiterà di reincontrare da qualche parte uno dei
mie tanti fratelli. So, tuttavia, che saranno da qualche parte, come
me, a far felice qualcuno, con il loro suono. Solo questo spero. Mi
auguro che non rimangano in qualche magazzino a ricoprirsi di polvere
e ragnatele. Indesiderati.
Ora, da qualche parte ho sentito che ci sono degli altri cd che sono
in tutto e per tutto uguali a me. Hanno il mio stesso nome, e i miei
stessi occhi, e quando emettono un suono, emettono lo stesso identico
suono che emetto io. Del tutto indistinguibile da mio. E anche loro,
sono sicuro, finiscono da qualche parte a fare la gioia di chi è
disposto ad ascoltarli. No, non vengono venduti. Vengono regalati!
Qualcuno lo regala ad un amico, qualcuno ad una persona che magari gli
farebbe piacere diventasse amica sua, e ritiene che regalarmi possa
essere un buon modo per raggiungere lo scopo!
Addirittura ho sentito che qualcuno ha messo a disposizione una sorta
di kit "fatti-da-te-solo-il-tuo-e-avevamo-gli-occhi-troppo-belli": ha
messo su internet il mio dna, e ciascuno lo prende e realizza un altro
me stesso! Bello!
Io addirittura credo che loro, questi miei fratelli "selvaggi",
abbiano qualcosa in più rispetto a me. Qualcosa che mi manca. Io ho
solo quella voce stupenda che canta (poco) e parla (molto); ma loro,
loro hanno anche dentro il sovrappiù dell'amore di chi ha perso il suo
tempo a far nascere un altro me stesso.
O certo, manca loro il bollino della siae. Una sorta di anello al
naso, come quello che serve a distinguere gli elefanti addomesticati
da quelli ancora liberi.
Dicono che sono proprio gli elefanti addomesticati i peggiori nemici
degli elefanti liberi, e quando li vedono cercano di ammazzarli, a
testate. Tanti contro uno.
Probabilmente qualcuno vorrebbe che si facesse lo stesso con questi
miei fratelli selvaggi, e vorrebbe che anch'io assumessi tale
posizione. Magari sproloquiando a favore della libertà e dei diritti.
Ma io l'ho sentita quella voce che ho dentro di me. L'ho ascoltata
attentamente e ho capito che la libertà ci si prende. Se te la danno,
non è libertà. E' qualcosa altro.
Mi piace la libertà. Me la canto sempre quella canzone - per forza, ce
l'ho dentro! - quella che dice che "la bella che è prigionierà ha un
nome che fa paura: libertà libertà libertà".

firmato:
ED AVEVAMO GLI OCCHI TROPPO BELLI

venerdì 13 ottobre 2006

il tempo dell'eterno gioco della libertà



Noi siamo nuovi, ma siamo quelli di sempre.
Siamo antichi per il futuro, esercito di disobbedienza le cui storie sono armi, da secoli in marcia su questo continente. Nei nostri stendardi è scritto "dignità". In nome di essa combattiamo chi si vuole padrone di persone, campi, boschi e corsi d'acqua, governa con l'arbitrio, impone l'ordine dell'Impero, immiserisce le comunità.
Siamo i contadini della Jacquerie. I mercenari della Guerra dei Cent'anni razziavano i nostri villaggi, i nobili di Francia ci affamavano. Nell'anno del Signore 1358 ci sollevammo, demolimmo castelli, ci riprendemmo il nostro. Alcuni di noi furono catturati e decapitati. Sentimmo il sangue risalire le narici, ma eravamo in marcia ormai, e non ci siamo più fermati.
Siamo i ciompi di Firenze, popolo minuto di opifici e arti minori. Nell'anno del Signore 1378 un cardatore ci guidò alla rivolta. Prendemmo il Comune, riformammo arti e mestieri. I padroni fuggirono in campagna e di là ci affamarono cingendo d'assedio la città. Dopo due anni di stenti ci sconfissero, restaurarono l'oligarchia, ma il lento contagio dell'esempio non lo potevano fermare.
Siamo i contadini d'Inghilterra che presero le armi contro i nobili per porre fine a gabelle e imposizioni. Nell'anno del Signore 1381 ascoltammo la predicazione di John Ball: "Quando Adamo zappava ed Eva filava / chi era allora il padrone?". Con roncole e forconi muovemmo dall'Essex e dal Kent, occupammo Londra, appiccammo fuochi, saccheggiammo il palazzo dell'Arcivescovo, aprimmo le porte delle prigioni. Per ordine di re Riccardo II° molti di noi salirono al patibolo, ma nulla sarebbe più stato come prima.
Siamo gli hussiti. Siamo i taboriti. Siamo gli artigiani e operai boemi, ribelli al papa, al re e all'imperatore dopo che il rogo consumò Ian Hus. Nell'anno del signore 1419 assaltammo il municipio di Praga, defenestrammo il borgomastro e i consiglieri comunali. Re Venceslao morì di crepacuore. I potenti d'Europa ci mossero guerra, chiamammo alle armi il popolo ceco. Respingemmo ogni invasione, contrattaccando entrammo in Austria, Ungheria, Brandeburgo, Sassonia, Franconia, Palatinato... Il cuore di un continente nelle nostre mani. Abolimmo il servaggio e le decime. Ci sconfissero trent'anni di guerre e crociate.
Siamo i trentaquattromila che risposero all'appello di Hans il pifferaio. Nell'anno del Signore 1476, la Madonna di Niklashausen si rivelò ad Hans e disse:
"Niente più re né principi. Niente più papato né clero. Niente più tasse né decime. I campi, le foreste e i corsi d'acqua saranno di tutti. Tutti saranno fratelli e nessuno possederà più del suo vicino."
Arrivammo il giorno di S. Margherita, una candela in una mano e una picca nell'altra. La Santa Vergine ci avrebbe detto cosa fare. Ma i cavalieri del Vescovo catturarono Hans, poi ci attaccarono e sconfissero. Hans bruciò sul rogo. Non così le parole della Vergine.
Siamo quelli dello Scarpone, salariati e contadini d'Alsazia che, nell'anno del Signore 1493, cospirarono per giustiziare gli usurai e cancellare i debiti, espropriare le ricchezze dei monasteri, ridurre lo stipendio dei preti, abolire la confessione, sostituire al Tribunale Imperiale giudici di villaggio eletti dal popolo. Il giorno della Santa Pasqua attaccammo la fortezza di Schlettstadt, ma fummo sconfitti, e molti di noi impiccati o mutilati ed esposti al dileggio delle genti. Ma quanti di noi proseguirono la marcia portarono lo Scarpone in tutta la Germania. Dopo anni di repressione e riorganizzazione, nell'anno del Signore 1513 lo Scarpone insorse a Friburgo. La marcia non si fermava, né lo Scarpone ha più smesso di battere il suolo.
Siamo il Povero Konrad, contadini di Svevia che si ribellarono alle tasse su vino, carne e pane, nell'anno del Signore 1514. In cinquemila minacciammo di conquistare Schorndorf, nella valle di Rems. Il duca Ulderico promise di abolire le nuove tasse e ascoltare le lagnanze dei contadini, ma voleva solo prendere tempo. La rivolta si estese a tutta la Svevia. Mandammo delegati alla Dieta di Stoccarda, che accolse le nostre proposte, ordinando che Ulderico fosse affiancato da un consiglio di cavalieri, borghesi e contadini, e che i beni dei monasteri fossero espropriati e dati alla comunità. Ulderico convocò un'altra Dieta a Tubinga, si rivolse agli altri principi e radunò una grande armata. Gli ci volle del bello e del buono per espugnare la valle di Rems: assediò e affamò il Povero Konrad sul monte Koppel, depredò i villaggi, arrestò sedicimila contadini, sedici ebbero recisa la testa, gli altri li condannò a pagare forti ammende. Ma il Povero Konrad ancora si solleva.
Siamo i contadini d'Ungheria che, adunatisi per la crociata contro il Turco, decisero invece di muover guerra ai signori, nell'anno del Signore 1514. Sessantamila uomini in armi, guidati dal comandante Dozsa, portarono l'insurrezione in tutto il paese. L'esercito dei nobili ci accerchiò a Czanad, dov'era nata una repubblica di eguali. Ci presero dopo due mesi d'assedio. Dozsa fu arrostito su un trono rovente, i suoi luogotenenti costretti a mangiarne le carni per aver salva la vita. Migliaia di contadini furono impalati o impiccati. La strage e quell'empia eucarestia deviarono ma non fermarono la marcia.
Siamo l'esercito dei contadini e dei minatori di Thomas Muentzer. Nell'anno del Signore 1524, al grido di: "Tutte le cose sono comuni!" dichiarammo guerra all'ordine del mondo, i nostri Dodici Articoli fecero tremare i potenti d'Europa. Conquistammo le città, scaldammo i cuori delle genti. I lanzichenecchi ci sterminarono in Turingia, Muentzer fu straziato dal boia, ma chi poteva più negarlo? Ciò che apparteneva alla terra, alla terra sarebbe tornato.
Siamo i lavoranti e contadini senza podere che nell'anno del Signore 1649, a Walton-on-Thames, Surrey, occuparono la terra comune e presero a sarchiarla e seminarla. "Diggers", ci chiamarono. "Zappatori". Volevamo vivere insieme, mettere in comune i frutti della terra. Più volte i proprietari terrieri istigarono contro di noi folle inferocite. Villici e soldati ci assalirono e rovinarono il raccolto. Quando tagliammo la legna nel bosco del demanio, i signori ci denunciarono. Dicevano che avevamo violato le loro proprietà. Ci spostammo a Cobham Manor, costruimmo case e seminammo grano. La cavalleria ci aggredì, distrusse le case, calpestò il grano. Ricostruimmo, riseminammo. Altri come noi si erano riuniti in Kent e in Northamptonshire. Una folla in tumulto li allontanò. La legge ci scacciò, non esitammo a rimetterci in cammino.
Siamo i servi, i lavoranti, i minatori, gli evasi e i disertori che si unirono ai cosacchi di Pugaciov, per rovesciare gli autocrati di Russia e abolire il servaggio. Nell'anno del Signore 1774 ci impadronimmo di roccaforti, espropriammo ricchezze e dagli Urali ci dirigemmo verso Mosca. Pugaciov fu catturato, ma il seme avrebbe dato frutti.
Siamo l'esercito del generale Ludd. Scacciarono i nostri padri dalle terre su cui vivevano, noi fummo operai tessitori, poi arrivò l'arnese, il telaio meccanico... Nell'anno del Signore 1811, nelle campagne d'Inghilterra, per tre mesi colpimmo fabbriche, distruggemmo telai, ci prendemmo gioco di guardie e conestabili. Il governo ci mandò contro decine di migliaia di soldati e civili in armi. Una legge infame stabilì che le macchine contavano più delle persone, e chi le distruggeva andava impiccato. Lord Byron ammonì:
"Non c'è abbastanza sangue nel vostro codice penale, che se ne deve versare altro perché salga in cielo e testimoni contro di voi? Come applicherete questa legge? Chiuderete un intero paese nelle sue prigioni? Alzerete una forca in ogni campo e appenderete uomini come spaventacorvi? O semplicemente attuerete uno sterminio?... Sono questi i rimedi per una popolazione affamata e disperata?".
Scatenammo la rivolta generale, ma eravamo provati, denutriti. Chi non penzolò col cappio al collo fu portato in Australia. Ma il generale Ludd cavalca ancora di notte, al limitare dei campi, e ancora raduna le armate.
Siamo le moltitudini operaie del Cambridgeshire, agli ordini del Capitano Swing, nell'anno del Signore 1830. Contro leggi tiranniche ci ammutinammo, incendiammo fienili, sfasciammo macchinari, minacciammo i padroni, attaccammo i posti di polizia, giustiziammo i delatori. Fummo avviati al patibolo, ma la chiamata del Capitano Swing serrava le file di un esercito più grande. La polvere sollevata dal suo incedere si posava sulle giubbe degli sbirri e sulle toghe dei giudici. Ci attendevano centocinquant'anni di assalto al cielo.
Siamo i tessitori di Slesia che si ribellarono nell'anno 1844, gli stampatori di cotonate che quello stesso anno infiammarono la Boemia, gli insorti proletari dell'anno di grazia 1848, gli spettri che tormentarono le notti dei papi e degli zar, dei padroni e dei loro lacchè. Siamo quelli di Parigi, anno di grazia 1871.
Abbiamo attraversato il secolo della follia e delle vendette, e proseguiamo la marcia.

Loro si dicono nuovi, si battezzano con sigle esoteriche: G8, FMI, WB, WTO, NAFTA, FTAA... Ma non ci ingannano, sono quelli di sempre: gli écorcheurs che razziarono i nostri villaggi, gli oligarchi che si ripresero Firenze, la corte dell'imperatore Sigismondo che attirò Ian Hus con l'inganno, la Dieta di Tubinga che obbedì a Ulderico e annullò le conquiste del Povero Konrad, i principi che mandarono i lanzichenecchi a Frankenhausen, gli empii che arrostirono Dozsa, i proprietari terrieri che tormentarono gli Zappatori, gli autocrati che vinsero Pugaciov, il governo contro cui tuonò Byron, il vecchio mondo che vanificò i nostri assalti e sfasciò ogni scala per il cielo.
Oggi hanno un nuovo impero, su tutto l'orbe impongono nuove servitù della gleba, si pretendono padroni della Terra e del Mare.
Contro di loro, ancora una volta, noi moltitudini ci solleviamo.

Genova.
Penisola italica.
19, 20 e 21 luglio
di un anno che non è più di alcun Signore.

Gillo Pontecorvo



E' morto Gillo Pontecorvo, ieri sera, mentre un ufo solcava i cieli di Roma. Aveva fatto pochi film, tutti memorabili. Mi piace ricordarlo per "Queimada", film-manuale sulla rivoluzione e sul marxismo, e per la scena in cui Marlon Brando spiega ai proprietari terrieri quanto sia più conveniente un lavoratore salariato, rispetto ad uno schiavo, facendo una briosa analogia e chiedendo se convenga di più sposarsi o andare a puttane.

giovedì 12 ottobre 2006

pescatori



Non riesco a scindere le cose, spesso. Nel senso che ascoltarmi nella testa (o sul giradischi, il ché è lo stesso) "Il pescatore" è un tutt'uno col riandare al primo ascolto: l'estate del 1970. La canzone ebbe un successo enorme, all'epoca. La sentivi dappertutto: alla radio (c'erano solo le tre reti della RAI), nei juke-boxes dei bar, in casa di persone "insospettabili". Avevo diciassette anni nel 1970, e proprio in quell'estate avevo appena finito il liceo. Possedevo già un "patrimonio" fatto dei dischi di Fabrizio De André (comprati a partire da una passa-parola per i banchi di scuola), tutti consumati su certi ignobili attrezzi che avevano il coraggio di chiamare "giradischi". Avevo già comprato, in quello stesso anno, "La buona novella" e ricordo, come fosse ora, che non vi avevo avvertito alcun empito religioso, almeno nell'accezione che rivestiva all'epoca il termine. Intendevo (e probabilmente intendo ancora) i dischi di De André come un unico grande concept-album il cui principale filo conduttore era la rabbia. Problema mio, d'accordo. Problema di una generazione nata arrabbiata. Ma non fui il solo, di quella generazione, ad eleggerlo "fratello maggiore"!
Una rabbia che si riversava, anche e soprattutto, contro tutte quelle promesse che si erano rivelate inconsistenti: la cosiddetta fede, in prima fila. Certo che c'era il discorso di dio. Ma era stato chiuso, a mio parere. Il cielo era vuoto!
"Spiritual" e "La morte" erano state le due facce della prima moneta scagliata sul tavolo della questione. Come se De André ci riproponesse, rivestito di ottima musica, un vecchio cruccio teo-filosofico, e lo risolvesse a modo suo: "Non può esistere un dio che sia, allo stesso tempo, "onnipotente" e "buono" "! "Spiritual" ce lo diceva "in allegria", quasi scherzando sul fatto che un dio che ci tiene ad essere tale, farebbe meglio a farsi vivo; ché noi di andarlo a cercare non ne abbiamo punta voglia, anche se forse di qualcosina dovrebbe renderci conto. "La morte" finiva di parlarci dell'assenza di dio, mettendo in scena quel duello fra l'uomo e quel sé stesso che è l'esistenza/la morte (un doveroso pensiero, nel dire questo, a Vittorio Gasmman che lo rappresentò mirabilmente, questo duello deandreiano, in "Brancaleone alle Crociate").
Il concept-album sulla rabbia continuava, con "Tutti morimmo a stento", dove, a mio avviso, raggiungeva le vette più alte, sia in "arte" che in "rabbia", proprio nella canzone che dava il titolo all'album. Nel volume III non era certo un caso il "S'i fossi foco" di Cecco Angiolieri, un arrabbiato ante-litteram, e la rabbia continuava a sgorgare dalle ferite aperte dalle morti "stronze" di Piero e di Miché. Ma era proprio ne "La Buona Novella" che si arrivava all'apice, della rabbia. "Via della Croce" trasuda della rabbia dei "padri di quei neonati", fino a far alzare il tono della voce. Nessun empito religioso, quindi, almeno per quanto mi riguardava. Solo rabbia.
Ed ecco che arriva l'ultimo (non certo il finale) capitolo: quello de "Il pescatore". E in quell'uomo con gli occhi socchiusi al sole riuscivo (e riesco ancora) a vederci solo un uomo. Un pescatore, per l'appunto. Un pescatore, l'unico proletario, l'unico lavoratore, che non possiede, e non possederà mai, la fonte della sua sussistenza: il mare. Niente da perdere. Visto che il mare non è suo. Lo sa bene chi è nato e cresciuto in una città di mare! E allora, mi dispiace, ma non mi riesce di vedere un "dio omertoso" in quel vecchio dal viso solcato dalle rughe, che sa riconoscere i propri nemici (come sa riconoscere il proprio simile), senza nemmeno aprire gli occhi. Un uomo che si nutre di pane, aiutato da un sorso di vino, perchè non possiede altro. Un uomo, che contro il potere non riesce ad opporre altro che il suo silenzio.
Tanto, il potere, la sua lingua non la comprende!

marinai



Un marinaio è ancora un marinaio
anche senza una nave,
anche in mezzo a un campo
Anarchico, testardo, avventuriero
è un marinaio senza via di scampo.

Il rischio è rischio in terra come in mare.
La paura è una sfida. Sa di ferro e di sale,
di vento, urla, niente da afferrare,
di denti stretti e voglia di tornare.

E' la guerra, di corsa. E' la caccia, di frodo.
E' una donna che, alla fine, c'entra in qualche modo.

E un marinaio resta un marinaio,
malato di orizzonti, di occhi socchiusi al sole,
che sposa cause e rischia di persona,
svelto di mano e avaro di parole,
legato a un soprannome di paese
Corto Maltese
Corto Maltese.

mercoledì 11 ottobre 2006

Film di un impiegato



"Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra
persone, mediato da immagini".
Guy Debord - La società dello Spettacolo - Parigi 1967


Il cinema è quanto di più adatto ci sia, a mio avviso, per una storia di bombe...e di sogni! Il cinema, con i suoi venticinque fotogrammi al secondo, è in grado di far saltare per aria questo nostro vecchio mondo, con la forza devastante della dinamite, con l'enorme calore del plastico, come nel finale di "Zabriskie Point".
Le miccie corte di Sean Mallory e i camions carichi di nitroglicerina di "Vite Vendute"; quelle di Clouzot, e quelle di Friedkin! Negli occhi e nella mente "il Rivoluzionario" John Voight che va all'appuntamento con sé stesso, stringendo spasmodicamente nelle mani una bomba, magari datagli in consegna dal David Carradine di "America 1929, sterminateli senza pietà!", o, ancora più indietro, dallo Sean Connery "Cospiratore" dei Molly Maguires.
Quanta strada, e quante bombe, per arrivare al sogno. Il sogno di quei ragazzi chiusi in una palestra, a battere con le mani, ritmicamente, sull'impiantito, "give peace a chance"; mentre le fragole si colorano di sangue, e niente sarà più come prima!
L'impossibilità di essere normali!


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Cominciamo dalla fine. Cominciamo dal carcere e, per tornare indietro, sfruttiamo la tecnica del flashback. Per i sogni, eventuali, non c'è problema. I sogni sono il pane del cinema!
Un lungo piano sequenza all'interno di un carcere. Un carcere senza secondini. Ovunque tracce di una rivolta. Brande capovolte, materassi sventrati. Le porte delle celle sono tutte spalancate. Un uomo è seduto al tavolo nella sua cella. Sta scrivendo. E fuma. Il fumo della sigaretta si mischia al fumo degli incendi, che vanno via via spegnendosi. Lentamente. Dietro le sbarre della finestra, la luce del giorno è grigia.

"Cosa facciamo, ora?" - un ragazzo è entrato, precedendo di poco la domanda. L'uomo distoglie la sua attenzione, dal foglio di carta che gli sta davanti, per rivolgerla al giovane. Posa la penna, si toglie gli occhiali e, stropicciandosi la radice del naso fra il pollice e l'indice, conclude - "non lo so!" "Non l'ho saputo mai" - aggiunge. "Non guardarmi come se fossi un dio in terra. E' passato un bel po' di tempo da quando ho sentito, per la prima volta, quella canzone. Era una canzone che parlava di cuccioli, cuccioli come te e come quelli che erano con te in quella scuola a Genova! Ero già vecchio allora. Figuriamoci adesso! No. Non so cosa fare. Non lo sapevo prima e non lo so ora". "Ma come?" - obietta il ragazzo -"Me l'hanno raccontato quello che hai fatto!" "Ah sì?" - domanda l'uomo, con ironia.
Improvvisamente, si sentono delle esplosioni, in lontananza. Fuori dalla cella si sente gridare. Urla, imprecazioni. Ancora colpi. Si comincia a sentire un odore acre di fumo. Ma non si tratta di tabacco, e neppure del crine bruciato dei materassi. Lacrimogeni! Da dentro il carcere, una voce comincia a cantare. Poi un'altra, e un'altra ancora.

"Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio .............................................................."

Dissolvenza.

Il colore dell'interno della cella sfuma nel grigio del selciato di una strada. Una qualsiasi strada di una qualsiasi città. Le macchine parcheggiate si riconoscono chiaramente. Cinquecento, seicento, millecento. Qualche 850! Le targhe sono illeggibili a causa del fumo che impregna l'aria, impenetrabile anche alla luce dei lampioni. "La barricata chiude la strada ma apre la via", legifera una scritta su un muro! Un gruppo di ragazzi, metodicamente, comincia a prendere le automobili parcheggiate e a spostarle in modo da ostruire la strada. Un, due e tre. Afferrano tutti insieme i paraurti delle "fiat", le scuotono e, al "tre", le fanno ruotare. Via via che retrocedono, le automobili vengono date alle fiamme, per cercare di rallentare l'avanzata dello schieramento vestito in grigioverde. Un ragazzo armeggia, con un attrezzo, sul selciato. Sudato e ansimante, alla fine, si alza in piedi col suo trofeo: un sampietrino! Subito gli altri, sfruttando la chiave di volta, cominciano a divellere il fondo stradale. I sampietrini vengono ammucchiati agli angoli della strada.
Il ragazzo di prima, con pochi passi decisi, si stacca dal gruppo, verso lo schieramento in grigioverde che avanza, e scaglia il sampietrino. Nel farlo, gli scivola giù il fazzoletto che gli copriva la faccia: il viso è lo stesso del ragazzo che, in carcere, è entrato nella cella dell'uomo!
L'inquadratura fa una carrellata sulla strada. Si vede un poliziotto, col casco fracassato, per terra. Altri poliziotti lo soccorrono! Poi l'inquadratura torna sui dimostranti che esultano. Esultano e cantano!

"Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio
.............................................................."

L'inquadratura si sposta ancora, fino ad un portone. Sale, scorrendo, una ad una, tutte le finestre del palazzo. Le luci sono spente in tutti gli appartamenti. In tutti tranne uno! Nella stanza un uomo. Seduto al suo tavolo. Si alza. Va alla finestra. Torna a sedere. Si alza ancora. Torna a sedere. La luce della lampada gli illumina il viso: la faccia è la stessa dell'uomo in cella, solo più giovane!

(continua....oppure no)

La guerra di Max


Mi chiamo Max, Max Hölz. Per farla breve, sono quello che ha sparato in testa a Piero, mandandolo a dormire in un campo di grano, vegliato da mille papaveri rossi. Sono nato a Moritz, nella Sassonia tedesca, e avevo ventotto anni quando mi imbattei in Piero. Devo dire che l'incontro con Piero mi ha salvato la vita, ma solo perchè prima di cadere, in fondo a quella valle, Piero riuscì a premere il grilletto, lasciando partire un colpo provvidenziale che mi raggiunse ad un piede. Era appena cominciata l'offensiva dell'autunno del 1918 e, grazie a quella pallottola, venni dichiarato inabile al combattimento e rispedito a casa. Non avrei voluto ucciderlo, giuro. Fu solo un riflesso automatico. Se avessi avuto il tempo di riflettere non gli avrei sparato in mezzo agli occhi. Non cerco scuse. E' così. Non era un bel periodo per me, quello. Stavo cominciando a capire il mondo.E il mondo stava cambiando. Aveva cominciato un anno prima, a cambiare. Febbraio, ottobre, soviet, operai armati. Trotzkji ha la barba? Avranno capisquadra nelle fabbriche? Servono gli autisti nel socialismo? E le maschere dei cinema? Domande. Quante domande! E mentre me le ponevo ancora, mi dettero una pensione di quaranta marchi e mi rispedirono a casa, dalla mia Clara che, diversamente da Nina, avrebbe riabbracciato il suo uomo. Arrivai a Falkenstein zoppicante e febbricitante, dopo aver viaggiato su un treno occupato da migliaia di disertori. A Kiel era cominciata la rivolta dei marinai, il kaiser aveva abdicato. Prima di dirigermi a casa, chiesi se esisteva un consiglio di operai e soldati: nessuno ne sapeva niente. Scrissi a mano dei volantini di convocazione per una riunione allo scopo di costituire il consiglio. Li appiccicai alla stazione e nel municipio, poi andai da Clara. Cominciai a lavorare per una rivoluzione che aveva già quasi cessato di essere tale. L'SPD (socialisti maggioritari) la stavano togliendo di mezzo. Nel gennaio del 1919 si verificò il primo scontro: gli spartachisti dichiararono l'insurrezione a Berlino. Fallì. Rosa Lucemburg e Karl Liebknecht vennero assassinati. Ebert, un socialista maggioritario, venne eletto presidente del reich, l'11 febbraio. Cominciai a cercare, disperatamente, un punto d'appoggio. Fondai la sezione locale del KPD (partito comunista tedesco) a Falkenstein, e cominciai a guardarmi intorno.

Una zona industriale distrutta, migliai di disoccupati, almeno tre o quattromila. Un corteo. Marcia sul municipio e lo occupa.Si reclama carbone e cibo. Il sindaco chiede aiuto militare a Dresda. Arriva l'esercito e dichiara lo stato d'assedio, occupa la città, arresta diversi membri del consiglio dei disoccupati. Il sottoscritto se la svigna, ma senza allontanarsi troppo: "lo stile Hölz", bisogna sempre stare vicini al punto dove può risorgere l'azione, durante la fuga bisogna mantenere sempre la vista e la distanza corte, non bisogna allontanarsi dai compagni, anche se bisogna farlo dalla polizia; una vera teoria delle distanze!

Decisi di passare al contrattacco. Un corteo di disoccupati, riunito in fretta e furia. Marciammo, cantando, sul municipio difeso da soldati che avevano montato un paio di mitriagliatrici. Apostrofai l'ufficiale, chiedendo chiarimenti sullo stato d'assedio. Un bel bluff! E mentre quello, sconcertato, chiese due ore per consultare i suoi superiori, la folla, nel frattempo riunitasi, aveva circondato il municipio. Guidai un assalto che aveva della farsa: gli operai buttavano a terra le mitragliatrici, fraternizzavano coi soldati e toglievano loro i fucili (con le buone? con un sorriso? indicando il calcio della pistola alla cintola?). Seguirono diverse settimane di pace. Ma non amavo stare con le mani in mano. Andammo a confiscare il cibo nelle case dei padroni per distribuirlo nelle case dei miserabili. Non mi bastava. Cominciammo a portare l'organizzazione nei paesi vicini. Cominciammo a tassare i capitalisti. Col denaro ottenuto finanziammo il reparto mensa per i disoccupati. Il 3 luglio, la zona temporaneamente liberata arrivò alla fine.
Un reggimento invase Falkenstein. obbiettivo?: casa mia.

Cento soldati che lanciano bombe a mano nel giardino e mi mitragliano il camino, e io ad osservarli da una collinetta vicina.(...) Ne sono successe di cose, da allora. Ed è sempre Piero che mi tornava in mente, ogni volta che riuscivo a scamparla, a farla franca. Fino alla fine, quando sono stato ritrovato morto che galleggiavo sulle acque del fiume Oka, un piccolo affluente del Volga vicino a Gor'kij, in Unione Sovietica. Galleggiavo proprio come quei cadaveri che, nella canzone, avevano soppiantato i lucci argentati. Avevo delle ferite sul viso ed, in vita, ero un eccellente nuotatore. Credo proprio sia stata la GPU di stalin ad assassinarmi, e due sono i miei più grandi crucci: il fastoso funerale che ebbero la spudoratezza di celebrare, il 9 settembre 1933, per congedarsi dal "grande rivoluzionario tedesco" e il fatto che Fabrizio De André non abbia mai scritto una canzone sulla "Guerra di Max"!

Sono stato considerato, dai socialdemocratici, un pericoloso avventuriero, dai comunisti ufficiali un irresponsabile e un traditore, dalla sinistra comunista un anarchico e dagli anarchici un leninista Poi, con la morte di coloro che avevano combattuto al mio fianco (morti, massacrati dai nazisti e dai campi di concentramento staliniani) il mio nome e le mie vicende sono stati dimenticati da tutti. Poi, negli anni ottanta, una mia statua (tentativo di riabilitazione all'acqua di rose svolto dalla burocrazia poststalinista) venne posta in una piazza della città di Hettstedt (uno dei tanti teatri delle mie "scorribande"). Fino a quando, nel marzo 1990, con le prime elezioni dopo la caduta del muro, trionfarono i conservatori della CDU, e una delle loro prime azioni fu quella di togliere la statua per deporla nella cantina del museo. Allora, un gruppo rimasto anonimo raggiunse Hottstedt e, con un operazione lampo, "liberò" la statua. La leggenda vuole che più tardi questa statua sia stata ritrovata in una casa occupata di Halle, ma, di fatto, la statua fantasma è a tutt'oggi introvabile.

Max Hölz

martedì 10 ottobre 2006

speranza



Firenze, battistero.
Sopra il portale la "Spes" di Andrea Pisano.
Seduta, leva impotente le braccia verso un frutto che le rimane irraggiungibile.
E tuttavia è alata.
Niente di più vero.

-- Walter Benjamin --

il lungo assordante silenzio



E' morto Wilson Tucker. Era nato nel 1915 ed è morto il sei ottobre, quattro giorni fa. Era una strana figura di scrittore, più fan che autore. Un po' come un calciatore di serie A che raggiunge la fama, e rimane legato ai suoi trascorsi di "ultras". Continuando a sentirsi sempre più tifoso, che calciatore! La scrittura non è mai riuscita a "diventare" una professione per lui che ha continuato per tutta la vita a fare il proiezionista e l'elettricista del cinema. Ha lasciato qualche traccia nella fantascienza. A lui si deve l'invenzione del termine "space-opera", e la sua abitudine di usare nomi di amici per i personaggi dei suoi libri è diventata così nota da essere chiamata "tuckerizzazione".
Di lui voglio ricordare un romanzo scritto nel 1952 e rivisto nel 1970. "Il lungo silenzio" (The long loud silence"). Una storia sul dopo-catastrofe, amara e disperata. Con una narrazione per niente consolatoria, dipinge uno scenario degli Stati Uniti, distrutti da una guerra nucleare e batteriologica, che vira quasi all'horror. Niente eroi buoni, così cari alla fantascienza classica americana, ma un protagonista cinico, violento e privo di emozioni la cui brutalità fa il pari con la brutalità dell'ambiente che lo circonda. Un romanzo da leggere.

archivi 2



Anche questa è una storia che ho scritto tanto tempo fa. Il titolo, e il fatto che si vengano a creare due fazioni, è preso di peso da un fumetto (anche se si dovrebbe dire "graphic novel") che leggevo all'epoca ("Kingdom Come" di Alex Ross), ma, del resto, anche quell'opera, a sua volta, era "ispirata" dalla sceneggiatura di un fumetto di Alan Moore, peraltro mai pubblicato. Così va la vita. Comunque, tutto il resto è mio. Nel senso che l'ho saccheggiato da tutti i miei ricordi della fantascienza letta a partire dai miei undici anni di età. Anche qui, nomi e persone hanno seguito il loro corso. Tant'è!

VENGA IL TUO REGNO
12-12-2012

Franco schiacciò il mozzicone della gitane sotto la scarpa, tirò su il bavero del giaccone, a cercare di arginare il freddo montante della sera, e si concesse una breve nuotata nel fiume dei ricordi. Aveva ancora una manciata di minuti a disposizione, prima che arrivassero gli altri. A sessant'anni suonati, non era riuscito a perdere quella fottuta abitudine che lo portava ad arrivare sempre in anticipo, agli appuntamenti. Ripensò, con un sorriso, a quando, per ritrovarsi tutti insieme, bisognava sciropparsi ore ed ore di treno o di automobile, e poi c'era sempre qualcuno che, all'ultimo momento, non ce la faceva a venire. Senza contare quelli troppo lontani, anzi quelle. Curiosamente, erano tutte donne "le nostre agenti all'estero"! Ed era stata una donna a risolvere il problema. Lisa, a furia di smascherare "sOle", come le chiamava lei, si era imbattuta in qualcosa che "sOla" non era. Uno strano vecchietto, prima di morire, le aveva consegnato un cd-rom. Conteneva una mappa. Una mappa dettagliata e completa di tutte le locazioni in cui si poteva "transpassare". Era la fine della geografia! Bastava individuare il vicolo, la cabina telefonica, il retro di un bar o qualsiasi altro punto (ce n'erano a bizzeffe), pensare con la giusta intensità alla destinazione e....zzzaaappp! eri arrivato. Aveva sorriso, quel vecchietto, mentre porgeva il cd rom a Lisa. Un rumore di passi lo distrasse dal ricordare. Girò la testa, giusto in tempo per vedere Riccardo e Leon(Giorgio) che arrivavano a piedi, discutendo animatamente. Quei due erano proprio inseparabili! Si vociverafa che non perdessero occasione per "transpassare" insieme. Ebbe inizio al meeting antiliberista svoltosi a Città del Capo, nel 2005. Avevano cominciato da poco, ad usare i punti "zap" per transpassare. Quella fu la prima manifestazione che vide la partecipazione ufficiale di fabri...@onelist.com. Sara e Barbara avevano cucito lo striscione, sotto gli sguardi divertiti di Lucia ed Angela, che continuavano a fare degli "strani commenti femministi". Insomma, per farla breve, Riccardo aveva afferrato un poliziotto sudafricano per il collo, giusto un attimo prima che calasse il manganello sulla schiena di Leon(Giorgio) che stava discutendo, ignaro, con Mauro Perrotta. Da allora, i due scorrazzano per il mondo e, grazie alla conoscenza delle lingue di Riccardo, si bevono le cantine dei posti più strani di questo globo. Il rombo di un motore interruppe i saluti. Era Nico l'unico che continuava ad ostinarsi a viaggiare in automobile. -"I punti zap sono un gran cosa"- aveva detto - "ma io, alla mia nicomobile, non ci rinuncio!". "Allora, Nico, che novità ci sono?" - chiese Franco. "Di preciso non lo so. Sembra che Livia abbia rinvenuto una vecchia audiocassetta. E' Andrea che sa tutto. Ma eccolo che arriva, insieme a Red." Ci girammo tutti insieme a guardare: Red e Andrea, sbucarono dalla nebbia, che ormai era calata copiosa ed avvolgeva noi e tutte le cose. Accanto ad Andrea camminava il suo cane. "Cazzo" - pensò Franco - "quel cane è ancora vivo! Vuoi vedere che Andrea ha risolto quel suo problema dell'immortalità......sul cane! Sarebbe proprio da lui." "Andiamo in un bar" -disse Andrea- "Manca solo Marco, ma, come sapete, lui è "slow". Ci raggiungerà al bar. L'ho avvertito io." "E Livia?" - domandò Leon(Giorgio). "Non può venire." - tagliò corto Red. Poco dopo, seduti ad un tavolo del Bar "IRC e ICQ", tutti guardavano Andrea e aspettavano, sorseggiando una birra. "Ce l'abbiamo!" -esordì Andrea- "Livia è riuscita a trovarla. Si tratta della registrazione delle ultime canzoni di Fabrizio. Tutte inedite." "Ma non è solo questo. C'è dell'altro." - continuò - "Sembra che chiunque ascolti quel nastro, dico chiunque, si convinca. Si convince della giustezza dei concetti espressi. Non si capisce nè il come nè il perchè, ma è così. Abbiamo in mano un'arma incredibile. Che cosa ne facciamo?"

Lilia (nome in codice: Cleopatra) sentì squillare il telefono e interruppe il flusso dei pensieri. Rimise a posto, nell'archivio della sua mente, gli appunti su cui stava lavorando. "Maledetti quanti!" -imprecò ad alta voce. Difficilmente avrebbe risolto il problema dei punti zap. Il fatto era che quegli stronzi di fabri...@onelist.com avevano la mappa, e nessuna intenzione di condividerla. E lei non sarebbe mai riuscita a ricostruirla nella sua interezza. Era impossibile! La scissione del 2003, e la creazione di deandrè@onelist.com, purtroppo era avvenuta poco prima che Lisa entrasse in possesso di quel cd-rom! "Tutte le fortune a loro!" -ringhiò Lilia, mentre si apprestava a premere il pulsante per rispondere al telefono. "Lilia? Sono Corrado." la informò la voce, a qualche centinaio di chilometri di distanza. Corrado aveva sorpreso tutti, con la sua defezione. Aveva lasciato la mailing list, che aveva creato con tanto amore, nel 1988, e molti l'avevano seguito nella nuova avventura. Era tornato trasformato, dal servizio civile. E la "grande crisi dei nicknames" sulla lista, aveva dato il colpo di grazia. "Quello che non doveva accadere, è successo" -sibilò Corrado, nell'orecchio di Lilia. "Sono entrati in possesso del nastro perduto" -continuò, con un tono stanco che lasciava trasparire amarezza e contrarietà. "Noooo." - gemette Lilia- "e come hanno fatto? E tu come lo hai saputo?" "Pinz. E' stato lui ad informarmi. L'ha saputo da Slow-silvia." -rivelò Corrado. Pinz, o meglio "il dottor pinz", era riuscito ad ingannare tutti! Quando era avvenuta la scissione, aveva finto, disgustato, di non voler fare parte di nessuno dei due schieramenti. Aveva però mantenuto i contatti coi coniugi slow, carpendone la fiducia. Sapeva che prima o poi sarebbe tornato utile. "Strana figura quel pinz! " - commentò Lilia, ripensando a qualcosa che ricordava vagamente, circa una storia che il medico aveva avuto. Per un attimo, riaffiorò il ricordo di una chiaccherata in irc, di mille anni prima! Scrollò il capo, per scacciare la sensazione che rischiava di diventare piacevole. "E' stata Livia." -continuò Corrado - "E' andata a genova, accompagnata da Ernesto. Lì si sono incontrati con slowmarco. Pinz non ha capito bene, o forse è slowsilvia che non conosce tutti i particolari! Sembra che la chiave fosse nel testo di quella canzone in occitano, MISAMOUR" "Dobbiamo fermarli!" - fu la conclusione di Lilia - "prima che sia troppo tardi." - Già fermarli. E come? E soprattutto chi poteva essere in grado di fermare quella banda di matti? Tutti i tentativi fatti, in passato, per riuscire ad infiltrare qualcuno, in quella congrega di sovversivi, erano miseramente falliti. I candidati erano stati smascherati, subito oppure, peggio, erano passati armi e bagagli al "nemico". Affascinati da quello strano clima di complicità e di amicizia che abitava da quelle parti. Erano una tribù! E ci si vive bene in una tribù. Maledizione. Anche quel Gabriele Cantone e quell'altro, come si chiamava? quello della guerra per bande. Livio. Si erano lasciati ammaliare da quei "banditi". E, invece, quella Cindy (ma che cindy e cindy, mariarosa si chiamava) si era tradita subito, ancor prima di mettere le mani sul cd-rom. Bruciata. Era stata bruciata. Nonostante Franco avesse una simpatia per lei! Quel satanasso aveva sgamato subito le sue vere intenzioni. - Per un attimo Lilia ripensò agli inizi, ripensò a IRC. Un lampo! - Come si chiamava? Come si chiamava quello lì? "Silenzi"? No. Quello era solo il nick con cui aveva registrato il canale #deandre' (con l'accento) su irc.filmaker.it. No. Il suo nome vero. Aspetta. Alex....Alessandro Longo, ecco. Chissà che fine ha fatto? dopo tutti questi anni. Sparì subito prima della "grande crisi dei nicknames". Preso nelle spire di un qualche gioco di ruolo online. Un fottuto drogato. Chissà se.....................................

Franco emerse dal sogno, lentamente. Il suono che gli si era insinuato, in sordina, cresceva, cresceva...finchè alla fine assunse i connotati della realtà di uno stronzo telefono che squillava. Il tempo di buttare giù, col braccio, il portacenere e la lampada, e finalmente il telefono fu nella sua mano. "Franco" - chiamò la voce da qualche altra parte, in un mondo sempre più piccolo. "Andrea, cos'è successo?" - ascoltò la propria voce, che tradiva l'ansia, quasi come non fosse sua. "Hanno rapito Margherita!" - disse l'amico, e lo fece come se gli stesse comunicando che gli avevano portato via l'automobile, lasciata in sosta vietata. Almeno questa fu l'impressione che ne trasse Franco. Poi si ricordò, fugacemente, che le automobili non esistevano più. "Fra mezz'ora da Riccardo; l'avverto io." - decise Franco - " E tu avverti Marco, e porta Red." Riattaccò senza attendere conferma. Riccardo era l'unico che poteva essere in grado di avere i contatti giusti. Certo, malavita! Ma chi altri, se non la malavita, poteva aiutarli a rintracciare il posto dove tenevano Margherita. Emerse nel vicolo, giusto in tempo per vedere Marco che stava per entrare nel bar. "Lui e le sue maledette guinness" - ridacchiò Franco fra sé. "Ehi, aspettami" - gli urlò dietro. Marco si girò, mostrando la sua solita faccia, solo che ora era incorniciata da una chioma e da una barba non più nera. "Sembri un vecchio orso grigio" - buttò lì Franco. "Ha parlato il puer aeternus" - fu la risposta, non troppo "slow". Risero insieme e si abbracciarono. "Cheta la tua crisi d'astinenza da guinness" - lo invitò Franco - "Aspettiamo Andrea e Red. E poi vedrai che a casa di Riccardo, qualcosa da bere ci sarà pure." Marco fece uno sguardo di resa ed incrociò le braccia disponendosi ad attendere gli amici. L'attesa non fu affatto lunga. Il sorriso di Andrea era amareggiato. Ed anche Red non è che fosse proprio raggiante. Dopo essersi abbracciati, qualche istante in più del normale, nel vano tentativo di smorzare l'angoscia comune, Andrea parlò. "Ho ricevuto una strana telefonata, subito dopo averti chiamato" - esordì - "Era Paolo Micheli. Gli ho detto che andavamo da Riccardo." "Mi ha detto che stavamo sbagliando porto" - continuò Andrea, contrariato - "Sai, com'è fatto lui, con quell'atteggiamento sufi!" "Del cazzo!" - completò la frase, red. "Già!" - riprese Andrea - "Ha detto che il porto era sbagliato. Che non era ovest, ma est. Che eravamo a qualche migliaio di chilometri dalla pista giusta!" La faccia di Marco assunse un'espressione strana. I suoi due neuroni sopravvissuti (come ripeteva sempre, da tredici anni) avevano preso a girare vorticosamente. Gli occhi sembravano un tachimetro digitale. "Ma certo!" - esclamò, di botto - "Mille chilometri ad est di livorno. Chilometro più, chilometro meno. Magari scendendo un pò a sud." "Chissàperchè" - e qui sorrise con espressione sorniona - " mi viene a mente Francesco Guccini?" "Bologna?" - interloquì Franco - "No, no Bologna. Aspetta. Via Paolo Fabbri." "Sì. E cosa c'è vicino a Via Paolo Fabbri? Una Trattoria, vero?" - argomentò Marco. " E qualcuno, tanto tempo fa, portò in braccio il nostro Nicone da Via Paolo Fabbri fino alla trattoria "Da Vito" " - Pensò Franco ad alta voce. "Ma certo. Il posto è Taranto e il nostro uomo è Silenzi." - mormorò Andrea, incredulo - "Ma era amico nostro! Come ha potuto?" "Ed io che pensavo fosse morto per overdose di Ultima-on-line" - tentò di scherzare Red. In quel momento il cellulare di Andrea prese a squillare. Lo sguardo era di ghiaccio, mentre parlava al telefonino. "Pronto" .... "Sì, sì, va bene" ...... "E dove dovremmo portarglielo?" ....... Quando smise di parlare, aveva come un ghigno sul viso. "Andiamo da Riccardo, presto!" - le parole, pronunciate da Andrea, non ammettevano replica. "E' qui vicino." - disse Red. "Speriamo che abbia qualche birra!" - disse Marco, senza scherzare troppo. "Ce l'ha, ce l'ha" - lo rassicurò Franco

Lisa, Livia e Lucia. "Le tre ELLE". Così venivano chiamate scherzosamente, dal resto della tribù. Tre Elle come in "Lallans"! - le canzonava Riccardo. Dopo essersi quasi perse nel dedalo dei canali di Amsterdam, finalmente, Lisa e Livia trovarono la casa di Lucia. Si scambiarono il "triplo bacio", cui doveva adattarsi chiunque avesse la fortuna di entrare nelle grazie della padrona di casa. Ed ancora infagottate nei loro cappotti, si accomodarono sul divano, in salotto. Mentre il caldo dei caloriferi le pervadeva, invitandole a disfarsi di sciarpe, guanti e soprabiti, Livia tirò fuori dalla tasca il nastro e lo depose sul tavolino, con esagerata cautela, quasi si trattasse di nitroglicerina. "Sono solo canzonette" - scherzò Lucia, nel vedere l'amica deporre il nastro davanti a loro. "Si " - rispose Lisa - "Ma sono in grado di far saltare per aria questo vecchio mondo più e meglio di qualsiasi bomba termonucleare!" "Qualcuno di voi, ha ascoltato le canzoni che sono sul nastro?" - chiese Lucia. "Io sì." - sospirò Livia - "Avrei tanto voluto riuscire a fare la formichina, ma non ne sono stata capace." "Ho invitato anche Valeria, Silvano e Giampiero, per l'occasione" - continuò - "Anzi, siamo andati tutti a casa di Giampiero. Ci voleva l'impianto migliore, per un'occasione del genere." "E di cosa parlano, queste canzoni?" -domandò Lisa, sgranando gli occhi. "Ecco, questa è una bella domanda" - sottolineò Livia, sorridendo - "ma nessuno di noi è riuscito a capirlo. Ne abbiamo dato una copia a Walter Pi..., magari riesce a capirci qualcosa, facendolo girare al contrario. Un'altra copia ce l'ha Riccardo. Magari si tratta di qualche lingua strana. Del resto, mi ricordo, quella traduzione dall'occitano, anni fa, non è che l'abbia proprio sbarrocciata!" Lucia ripensò, mestamente, ai tempi in cui su fabrizio@onelist ci si scannava per un nonnulla. Frasi dette a metà, insinuazioni a mezza bocca, identità più o meno segrete. Tutto tornava utile per sfoggiare muscoli e far esplodere guerre e guerriglie che si propagavano di "mail in mail". Innescando nuove risse. Senza fine. Scacciò i pensieri, con un movimento della testa. "Allora" - ricapitolò Lucia - "l'operazione partirà il prima possibile. Andrea sta curando la parte, per così dire, informatica. Piazzerà le canzoni, digitalizzate, sui siti più frequentati. Di modo che chiunque si colleghi, ad esempio, ad altavista o a yahoo, ascolterà uno dei pezzi del nastro." "Per quanto riguarda la radio, siamo a posto." - continuò - "Ci penserà Angela, dalla Germania. Ha un amico in grado di fare un ponte radio. La trasmissione coinvolgerà le più grosse emittenti!" "Rimane fuori la televisione." - fece notare Lisa - "ci sta lavorando Walter. Ha accennato qualcosa riguardo un satellite. Non ha voluto aggiungere altro." "Bene" - disse Livia - "possiamo farcela. Mancano ancora quattro giorni a natale." "Qualcosa da bere?" - finì di chiedere Lucia, e il telefono squillò. Quando Lucia riattaccò, la sua faccia era terrea. Gli occhi, lucidi, cominciavano a riempirsi di lacrime. Cercò di parlare, prima che i singhiozzi le impedissero di farlo. Parlò, e disse quel che lei non avrebbe mai voluto dire, quello che le altre non avrebbero mai voluto sentire. "Red.......Red è...... Red.........l'hanno ucciso. Quei fottuti, maledetti stronzi l'hanno ammazzato!"
"Margherita è in salvo." - aggiunse, nel tentativo, inutile, di controbilanciare, in qualche modo, quella notizia enorme e terribile. Red. Red non c'era più. Era stato cancellato. Il cuore "scuro" della lista. Non esisteva più. Non avrebbero più sorriso, con affetto, a sentirsi rispondere "di merda", ogniqualvolta gli chiedevano "come stai?". Red, l'amico prezioso. Red, vegetariano e comunista. Red che faceva l'operaio (l'operaio??? nel 2012???) e che non parlava mai dei suoi amori. Red. L'avrebbero pagata questa! Cazzo se l'avrebbero pagata!

Sbucarono in un vicolo del porto di Taranto. Nico aveva in mano la pianta della città. Una "X" rossa identificava la zona interessata. Il nome della strada ed il numero civico era ben impresso nella mente di tutti loro. Nemmeno volendo, avrebbero potuto dimenticarlo. "Dev'essere qui vicino " - disse Nico. Non sarebbero arrivati a nulla, senza Nico. E non solo per il suo proverbiale senso dell'orientamento. Roberto Magalotti non ce l'aveva fatta. Quel rapimento gli era sembrata un'infamia. Certo anche lui desiderava entrare in possesso di una copia di quel dannato cd-rom. Ma non era una giustificazione sufficiente per il rapimento di Margherita. Il suo senso etico aveva avuto il sopravvento. Dopo aver passato una notte intera a macerarsi, alla fine aveva fatto quello che riteneva giusto: aveva preso il telefono e aveva chiamato Nico. Non avrebbe mai chiamato nessun altro che Nico. E gli aveva raccontato tutto. Quello che sapevano e quello che non sapevano. L'identità dell'architetto del piano e l'indirizzo dove Margherita era sequestrata. E anche l'ultima beffa: sul campanello, la targhetta del nome recitava "SILENZI"! Franco era rimasto leggermente staccato. Cazzo, a sessant'anni non si corre più come a cinquanta! Chiunque affermi il contrario mente, sapendo di mentire. Riccardo, qualche passo più avanti, teneva a bada gli anni con la statura. Però stava bestemmiando. In una di quelle strane lingue che conosceva solo lui. Bestemmiava e allungava il passo. Non si capiva una sega di quello che diceva. Non si capiva a quale dio insultasse, nè quali irriferibili attributi gli porgesse, a quel dio sconosciuto. Ma le parole avevano una loro affascinante musicalità. Doveva essere qualche idioma dell'est, ormai morto. E certo che era una lingua morta. Quel dio doveva essersi incazzato ed aveva, senza dubbio, fulminato tutti coloro che la parlavano. "Sic transit gloria mundi" mormorò Franco. E non perchè si fosse convertito, da vecchio, ma perchè aveva preso l'abitudine di commentare i propri pensieri a bassa voce. Andrea e Red, più avanti, avevano quasi raggiunto l'isolato in questione, Nico subito dietro a loro. Red, ormai avanti a tutti, arrivò alla porta, lesse il nome sul campanello e, con una smorfia dipinta sul viso, si apprestò a pigiare il pulsante. L'esplosione squassò il silenzio del vicolo. Luce e rumore. Dita invisibili afferrarono il corpo magro di Red e lo scagliarono lontano, quasi addosso a Nico. Andrea, le orecchie sanguinanti, si era accasciato sulle ginocchia. Nico si chinò su Red, con un'espressione muta. Gli accarezzò la fronte e lo sollevò, senza sforzo apparente. Con un'ombra negli occhi, il corpo inerte di Red fra le braccia, si girò verso Riccardo che sopraggiungeva urlando, in livornese stavolta. Riccardo prese in consegna quello che rimaneva dell'amico. E avanzò verso la porta, le guancie asciutte, per timore di non riuscire a piangere la perdita con la dovuta solennità. Con un sol passo, varcò l'uscio squarciato dall'esplosione e, mentre Franco e Andrea liberavano Margherita, si diresse verso Alessandro Longo che li osservava sgomento, incapace di muovere un solo dito. Con urlo terrificante, arrovesciò il muto fardello sulle braccia del nemico e, prima che gli altri, attoniti, potessero intervenire, in qualche modo, strinse le mani intorno al collo muscoloso di Alessandro. E strinse, strinse, e continuò a stringere, per un tempo interminabile, finchè non sentì la vita strisciare via, finchè non vide gli occhi sbarrarsi, finchè non sentì i vasi sanguigni smettere di pulsare. Solo allora sì lascio cadere a terra, e cominciò a piangere.

Giorgio riempì il bicchiere di Franco e, subito dopo, il proprio. Sul lettore di cd girava il disco de "La Rosa Tatuata". Niente male! considerato che aveva dodici anni. Anche il whisky di giorgio non era affatto male. Probabilmente aveva la stessa età del disco, forse anche più vecchio. Riempiva la bocca col suo sapore, e ti portava lontano. Lontano, dove i due vecchi amici, ora seduti a un tavolo, l'uno di fronte all'altro, avrebbero voluto andare. E non si poteva più! La mappa, quella che il vecchio aveva consegnato a Lisa, prima di avviarsi per la sua propria strada; la mappa era inservibile. I punti snap si erano spenti. Uno dopo l'altro. Aveva cominciato il primo, a spegnersi. Quello dislocato in Via de' Pepi, a Firenze, nel quartiere di Santa Croce. Sembrava che lo avesse usato Leonardo da Vinci in persona. Si era spento, puff, di botto. E poi a seguire, quasi tutti insieme, separati solo da una breve frazione di secondo, erano venuti meno gli altri punti snap: da Camberra a Lima, da Seattle a Port au Prince, tutti proprio tutti. Forse qualcuno era rimasto, chissà; ma, dovunque esso fosse, era oramai irraggiungibile. Erano andati via. Era stato come levare una lampadina a quelle vecchie decorazioni luminose di natale (tanto per restare in tema colla giornata). Tolta una lampadina, si spegnevano tutte quell'altre. E l'albero di natale tornava nell'oscurità da cui proveniva. Un ombra fra le ombre. Si guardarono in faccia, i due amici. E scappò loro da ridere. Ripensarono al nastro. Il nastro che doveva risolvere tutti i problemi. Un nastro come sostituto della rivoluzione!?! Non poteva essere possibile. E, infatti, non lo era stato. Solo una chimera. Un'illusione durata pochi giorni. Si era autocancellato quel nastro! Giusto ventiquattr'ore prima che dessero inizio all'operazione. "Sarà stato uno scherzo di Fabrizio" - disse Giorgio - "Chi l'ha conosciuto, asserisce che il senso dell'umorismo non gli facesse difetto". "Già, doveva proprio essere un gran figlio di buona donna" - rincarò la dose, Franco - "E noi che ci avevamo già fatto la bocca!" "Dovremo accettare i fatti" - aggiunse Giorgio - "In fondo, almeno io e te, siamo rimasti uomini del ventesimo secolo. Vedrai che faremo presto a riabituarci, anche a tornare a viaggiare coi vecchi mezzi." Alzarono i bicchieri e li fecero tintinnare uno contro l'altro. Quel "latte di misericordia" scese loro giù per la gola e fece il suo dovere. Rimetteva in pari, più o meno, lo squilibrio che i ricordi tristi avevano creato nella bilancia della memoria. Aiutava, per quanto possibile, ad accettare le perdite. "Insomma, per ricominciare a vedersi e a chiaccherare, ci toccherà rispolverare le "piole", chi l'avrebbe mai detto?" - scherzò Franco."E se non sbaglio, ce n'è una proprio fra poco." - precisò Giorgio. "Sarà bene avviarsi. Sarebbe un peccato farli aspettare. Vero?" - aggiunse. "D'accordo. Allora andiamo. Non mi sento per niente stanco." concluse Franco, vuotando il bicchiere.

--- FINE ---